la denuncia

La denuncia La denuncia: cos'è, la normativa di riferimento, differenze con la querela e l’esposto, e giurisprudenza di rilievo

Cos’è la denuncia?

La denuncia è un atto giuridico formale con il quale una persona (denunciante) porta all’attenzione delle autorità competenti un fatto che ritiene essere un reato, che può essere stato commesso o che sta per essere commesso. È un atto con il quale si porta conoscenza di un crimine alle forze di polizia, al pubblico ministero o, nei casi previsti, anche al giudice.

Essa si distingue dalla querela in quanto non è necessaria che la persona che la presenta sia la parte lesa. La querela infatti è un atto giuridico che viene presentato solo dalla persona danneggiata, la denuncia invece può essere fatta anche da chi ha assistito al reato o ne è venuto a conoscenza in altro modo.

Normativa di riferimento

Questo atto è regolamentato principalmente dal Codice di Procedura Penale e da alcune leggi speciali che riguardano specifici ambiti, come il reato di estorsione, furto, truffa e violenza domestica. Ecco alcuni articoli importanti relativi alla denuncia:

  • 333 codice di procedura penale: stabilisce che chiunque venga a conoscenza di un reato possa denunciarlo alle autorità competenti. La norma prevede inoltre l’obbligo di denuncia per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di un servizio pubblico, non per i soggetti privati, nei casi previsti dalla legge.
  • Art 334 bis del codice di procedura penale esonera dall’obbligo di denuncia gli avvocati e i soggetti indicati dall’articolo 391 bis c.p.p neppure per i reati di cui vengono a conoscenza nel corso delle attività di investigazione svolte.

Come si presenta una denuncia?

La denuncia può essere presentata oralmente o per iscritto. Se la denuncia avviene oralmente, verrà trascritta dalle forze dell’ordine o dall’autorità competente. La forma scritta è preferibile, poiché consente una maggiore chiarezza e consente al denunciante di esprimere dettagli in modo completo.

Le modalità di presentazione possono essere diverse:

  • Presso le forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza): le autorità di polizia sono sempre pronte ad accogliere una denuncia e avviare le indagini.
  • Direttamente al pubblico ministero: tramite la procura della Repubblica, se la denuncia riguarda reati particolarmente gravi o complessi.
  • In via telematica: alcuni reati possono essere denunciati online, tramite i portali dedicati, come quello della Polizia di Stato.

La denuncia deve contenere informazioni precise e dettagliate riguardo al reato e ai fatti che si intendono denunciare. Devono essere forniti tutti i dettagli rilevanti, inclusi i dati delle persone coinvolte, la descrizione dei fatti e, se disponibili, eventuali prove o documenti.

La denuncia anonima

Esiste anche la denuncia anonima, ovvero un atto in cui il denunciante non rivela la propria identità. Sebbene questa forma sia ammessa, ha delle limitazioni. Le autorità infatti, in base al quanto disposto dal comma 3 dell’art. 333 c.p.p non sono obbligate a prendere in considerazione una denuncia anonima, in quanto può risultare difficile da verificare o meno attendibile. Tuttavia, se il contenuto dell’atto porta a informazioni utili e concrete, le autorità possono comunque avviare un’indagine. Viceversa, nel caso in cui la denuncia anonima non fornisca elementi concreti, non obbliga le forze dell’ordine a intraprendere un’azione legale.

Differenza tra denuncia, querela ed esposto

La denuncia è spesso confusa con la querela e l’esposto, ma ci sono alcune differenze fondamentali tra questi atti.

  • Denuncia: è l’atto con cui si segnala alle autorità competenti un reato. Chiunque può denunciare un crimine, anche se non è direttamente coinvolto come parte lesa.
  • Querela: la querela invece è una denuncia fatta solo dalla parte lesa o da chi ha subito il danno direttamente dal reato. La querela è necessaria per procedere legalmente in casi come lesioni, diffamazione o stalking, in quanto sono reati che non sono perseguibili d’ufficio, ma su richiesta della persona danneggiata.
  • Esposto: un esposto, invece, è una segnalazione generica che non implica un atto accusatorio. Serve a far conoscere alle autorità competenti un fatto sospetto o illecito, ma non ha la finalità di avviare un procedimento penale o chiedere la punizione di un responsabile.

Differenze con querela ed esposto

Caratteristica Denuncia Querela Esposto
Scopo Segnalare un reato Iniziare un procedimento legale Segnalare un comportamento illecito, senza finalità accusatorie
Obbligo di presentazione Facoltativa  per i privati per reati perseguibili d’ufficio Necessaria per reati procedibili su querela Facoltativa, senza obbligo giuridico
Prosecuzione del reato Può avviare un’indagine d’ufficio Richiede il consenso della parte lesa Non avvia automaticamente un’indagine
Chi può presentarla Chiunque abbia conoscenza di un reato La persona danneggiata dal reato Chiunque, anche senza essere parte lesa

Giurisprudenza sulla denuncia

La giurisprudenza ha trattato vari aspetti di questo atto evidenziando come la stessa sia fondamentale per il buon funzionamento del sistema giuridico:

Cassazione n. 29319/2024: una denuncia anonima non può essere utilizzata come prova in un processo penale. Tuttavia, essa può innescare l’attività investigativa del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria, spingendoli a raccogliere informazioni utili per verificare se vi siano elementi sufficienti per avviare un’indagine formale. In altre parole, la denuncia anonima non ha valore probatorio, ma può servire come spunto per ulteriori accertamenti.

SU Cassazione n. 25932/2008:  una denuncia considerata irregolare e quindi equiparabile a una denuncia anonima, pur non potendo essere utilizzata come prova, può stimolare le indagini del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria. Questo avviene attraverso la raccolta di informazioni che potrebbero portare all’identificazione di un’ipotesi di reato, la quale verrebbe poi approfondita seguendo le procedure legali. In sostanza, anche se la denuncia in sé non ha valore probatorio, può comunque innescare un processo investigativo.

 

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notifica pec

Notifica pec fallita per causa ignota: va rinnovata La Cassazione ha chiarito che in caso di notifica pec fallita per causa ignota, la stessa va rinnovata dalla cancelleria

Notifica pec fallita

Notifica PEC non andata a buon fine per causa ignota. Va rinnovata dalla Cancelleria. Questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 8361/2025.

Il caso: notifica PEC non consegnata

La decisione è scaturita dal ricorso di un uomo condannato per stalking dalla Corte d’Appello di Brescia. Il ricorrente ha contestato la validità della notifica dell’avviso di udienza al difensore e quella effettuata presso il domicilio eletto. La causa del fallimento non era chiaramente individuabile. Dagli atti risultava, infatti, che l’avvocato di fiducia non aveva ricevuto nel domicilio elettronico indicato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, risultante – del resto – dal fascicolo d’ufficio come non consegnato al destinatario. Di qui, a suo dire, “poiché non è stata individuata la causa della mancata consegna del messaggio di posta elettronica, non è possibile attribuirgli, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione, alcuna responsabilità per l’omesso recapito del predetto messaggio”.

Per la Corte, le doglianze suscettibili di valutazione unitaria, sono fondate.

Obbligo di ripetizione della notifica

La questione che si pone all’attenzione della S.C. è “se la notifica possa ritenersi valida anche in un’ipotesi come quella considerata, ossia nella quale non sia possibile stabilire se l’omessa consegna sia dipesa dalla responsabilità del destinatario del messaggio (ad es., per problemi correlati alla ‘saturazione’ della relativa cartella) ovvero da quella della Cancelleria” ragiona la Corte. In definitiva, “si tratta di individuare le conseguenze, in punto di validità della notifica dell’atto processuale a mezzo pec, dell’omessa consegna del messaggio inviato dalla cancelleria per una causa rimasta ignota”.
Nella giurisprudenza di legittimità, “è stato sancito il dovere del difensore di controllare il corretto funzionamento della propria casella di posta elettronica, con la conseguenza che, ove la mancata consegna dipenda da un malfunzionamento del sistema, le conseguenze restano a carico del difensore, in virtù della prescrizione espressa dall’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012, che impone il deposito dell’atto in cancelleria (ex multis, Cass. n. 41697/2019)”.

La decisione

Nel caso di specie, tuttavia, l’omessa consegna del messaggio trasmesso dalla cancelleria a mezzo posta elettronica certificata è rimasta ignota. E ciò in quanto la preminente importanza che, anche nella giurisprudenza costituzionale, è attribuita al diritto di difesa dell’imputato rispetto al principio della ragionevole durata del processo, comporta che, “nelle ipotesi di incertezza circa la responsabilità dell’omesso perfezionamento del procedimento notificatorio, questo non possa considerarsi validamente compiuto”.
“Il che impone alla cancelleria, in un caso siffatto, concludono dal Palazzaccio, “la rinnovazione della notifica, trattandosi, peraltro, di un adempimento semplificato proprio dalla possibilità di utilizzare l’agile strumento della posta elettronica certificata”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

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cane dall'indole diffidente

Cane dall’indole diffidente al guinzaglio anche nell’area dedicata La Cassazione chiarisce che a prescindere da taglia e razza, il cane dall'indole diffidente va tenuto al guinzaglio anche nell'apposita area sgambamento

Cane dall’indole diffidente: guinzaglio obbligatorio

La quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9620/2025, ha stabilito che anche nelle zone appositamente attrezzate per lo sgambamento, un cane dall’indole diffidente deve essere condotto con guinzaglio e museruola. Questo obbligo si applica indipendentemente dalla razza e/o dalla taglia. Si tratta, infatti, di una regola di prudenza che il proprietario deve rispettare per garantire la sicurezza di persone e animali.

Il caso: responsabilità del proprietario per lesioni colpose

Nel caso esaminato dalla S.C., il Tribunale aveva confermato la condanna della proprietaria di un pitbull per il reato ex art. 590 c.p. per aver cagionato alla vittima, entrata all’interno dell’area cani insieme al suo cucciolo di piccola taglia, lesioni personali colpose.

La condanna era stata motivata dalla mancata adozione di misure di sicurezza per imprudenza, imperizia e negligenza da parte della proprietaria, che, pur consapevole dell’indole diffidente dell’animale, non lo aveva assicurato al guinzaglio né dotato di museruola lasciandolo libero di circolare all’interno dell’area cani.

La donna ricorreva innanzi al Palazzaccio, lamentando che nelle aree appositamente attrezzate, i cani possono essere condotti senza guinzaglio e senza museruola, mentre tali accorgimenti vanno adottati per i cani di indole aggressiva. Da ciò deriva che nessun obbligo giuridico fosse configurabile a suo carico, non essendo certificato che il cane potesse essere definito ex ante come aggressivo, né potendo estendersi le limitazioni previste per gli animali aggressivi a quelli descritti come diffidenti.

La responsabilità del proprietario e le regole di condotta

Tuttavia, la Suprema Corte ha rigettato le argomentazioni della difesa, sottolineando che la natura colposa della condotta del ricorrente, “è da ricondurre all’inosservanza di norme cautelari afferenti al governo e alla conduzione dei cani”. Norme “volte a prevenire, neutralizzare o ridurre i rischi per la pubblica incolumità, specificamente declinate in relazione alle potenzialità lesive dell’animale, con richiamo alla norma di cui all’art. 672 c.p., che sanziona a livello amministrativo l’incauta custodia di animali e che positivizza il generale dovere di diligenza e prudenza che l’ordinamento pone in capo a chiunque abbia il dominio di un animale dotato di capacità lesiva”. Sancendo “l’assunzione di una posizione di garanzia rispetto alla possibilità del verificarsi di eventi dannosi, corredata da una serie di obblighi, divieti e modelli comportamentali la cui violazione determina responsabilità giuridica a vari livelli (amministrativo, civile e penale)”.

Nella sentenza di primo grado si è, con chiarezza, “affermata la violazione di regole di generica prudenza considerando che, in presenza di un altro animale nell’area di sgambamento nonché del relativo accompagnatore, la proprietaria del cane avrebbe dovuto fronteggiare la situazione con maggiore cura e cautela attuando una vigilanza stretta e una presenza dominante sul cane” aggiungono gli Ermellini.

“Il giudice di appello ha, per altro verso, addebitato all’imputata di aver lasciato il cane libero di circolare all’interno dell’area cani nonostante si trattasse di cane di indole da lei stessa definita ‘diffidente’ e nonostante un estraneo avesse manifestato l’intento di avvicinarsi e accarezzarlo”.

La “culpa in vigilando”

In definitiva, per la Cassazione, “la culpa in vigilando del proprietario del cane è stata correttamente identificata quale violazione di una regola cautelare non positivizzata desumibile da una massima di esperienza, legata non tanto alla razza del cane quanto piuttosto alla eventualità che un cane diffidente reagisca in maniera aggressiva all’avvicinamento di terzi estranei”. Si tratta di argomenti coerenti con il principio secondo il quale “in tema di colpa, allorquando risulti ex ante l’inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto a osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l’evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (cfr. Cass. n. 32899/2021)”.

Da qui il rigetto delle doglianze avanzate dall’imputata nel ricorso che, tuttavia, viene accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Roma in diversa persona fisica per nuovo giudizio sul punto.

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ore d'aria al 41-bis

Ore d’aria al 41-bis: limite di due ore illegittimo Ore d’aria nel regime 41-bis: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo il limite di due ore

Ore d’aria nel regime 41-bis

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 30/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), primo periodo, della legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui imponeva un limite massimo di due ore al giorno per la permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale.

Ore d’aria nel 41-bis: cosa cambia dopo la sentenza?

La decisione della Corte Costituzionale è nata da una questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale non ha messo in discussione l’intero regime differenziato 41-bis, ma ha esaminato un aspetto specifico della normativa: il diritto dei detenuti a trascorrere tempo all’aperto.

Con questa pronuncia, la permanenza all’aria aperta per i detenuti in regime speciale – non sottoposti a sorveglianza particolare – torna a essere regolata dall’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario, che prevede:
Un minimo di quattro ore al giorno all’aperto.
La possibilità di riduzione a due ore solo per giustificati motivi.

Un trattamento ingiustificato

La Corte ha sottolineato che nel regime 41-bis le ore d’aria vengono trascorse all’interno del gruppo di socialità, un piccolo gruppo di detenuti (massimo quattro persone), accuratamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria. Pertanto, la riduzione delle ore di permanenza all’aperto non offre alcun vantaggio in termini di sicurezza, che è già garantita dalla separazione dei gruppi e dalle misure di controllo adottate.

La restrizione, invece, risulta irragionevole e lesiva del principio di umanità della pena, poiché limita in misura sproporzionata la possibilità per i detenuti di beneficiare di aria e luce naturale, senza apportare benefici concreti alla collettività.

Verso un trattamento più conforme ai diritti umani

Secondo la Corte, l’estensione del tempo all’aperto per i detenuti del 41-bis rappresenta un passo avanti nel rispetto della dignità umana, contribuendo a migliorare le condizioni di detenzione non solo in termini oggettivi, ma anche nella percezione dei detenuti.

procura speciale

Procura speciale all’avvocato: deve emergere la volontà di patteggiare La Cassazione chiarisce che la procura speciale all'avvocato anche se ampia non prova automaticamente la volontà dell'imputato di patteggiare

Procura speciale avvocato e patteggiamento

La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 6214/2025, ha chiarito che la procura speciale conferita al difensore non prova automaticamente la volontà dell’imputato di patteggiare.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, il GIP applicava la pena concordata a un imputato, per come proposta dal suo difensore, nel corso delle indagini preliminari. L’imputato, in udienza rendeva dichiarazioni spontanee, sostenendo di non aver prestato il proprio consenso consapevole. Essendo agli arresti domiciliari e non avendo avuto colloqui diretti col difensore, l’uomo dichiarava di non aver mai condiviso l’intenzione di patteggiare.

Il giudice riteneva che la sua dichiarazione non fosse rilevante. L’imputato adiva il Palazzaccio, deducendo che la volontà di accedere al patteggiamento, formulata dal primo avvocato, il cui mandato era stato revocato, era viziata.

La natura personalissima dell’assenso al patteggiamento

Per Gli Ermellini, il ricorso è fondato.

La Corte ha ribadito che, pur essendo l’accordo non ritrattabile una volta concluso, la volontà di patteggiare è un “atto personalissimo”. Al punto che, “nel caso di contestuale presenza in udienza del difensore e dell’imputato che manifestino volontà
diverse circa l’accesso al rito, si è ritenuto che debba prevalere la volontà di quest’ultimo”.

La rilevanza della volontà dell’imputato risulta anche dalla scelta del legislatore di prevedere che, “nell’ipotesi in cui la richiesta di applicazione di pena sia stata avanzata esclusivamente dal procuratore speciale con atto scritto o all’udienza in assenza dell’imputato, il giudice, per accertare la volontarietà della richiesta o del consenso, può disporre la comparizione dell’imputato (art. 446, comma 5, c.p.p.)”.

La decisione

Nel caso in esame, la richiesta di patteggiamento risulta essere stata effettuata
nel corso delle indagini preliminari dal difensore munito di una procura speciale,
strutturata in modo “aspecifico”. La stessa, infatti, era riferita in generale «ad ogni stato e grado del procedimento, compreso quello davanti agli organi di sorveglianza».
Tali caratteristiche, scrivono i giudici, “rendono l’atto non sufficientemente chiaro in ordine al suo valore di ‘delega’ al difensore per definire il processo con il patteggiamento”. E, dunque “per consentire di ritenere che la volontà del ricorrente fosse proprio quella di volere accedere a tale rito alternativo”.
In conclusione, la S.C. ritiene che la struttura della procura, che non risulta specificamente ed esclusivamente diretta a consentire al difensore di concludere il procedimento con l’accesso al rito ex artt. 444 e ss. c.p.p., unitamente alle dichiarazioni rese dal ricorrente, indichino che lo stesso non sia stato posto nelle condizioni di scegliere consapevolmente il rito alternativo.
La sentenza impugnata, pertanto, è annullata senza rinvio.

 

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rapina a mano armata

Il reato di rapina a mano armata Il reato di rapina a mano armata nel diritto penale italiano: quando si configura, la pena prevista e la giurisprudenza

Rapina a mano armata: art. 628 codice penale

La rapina a mano armata rappresenta una forma aggravata del reato di rapina, disciplinato dall’articolo 628 del Codice Penale italiano. Questo delitto si configura quando un individuo, mediante l’uso di un’arma, sottrae con violenza o minaccia un bene mobile altrui, al fine di trarne profitto per sé o per altri.

Quando si configura la rapina a mano armata

La rapina a mano armata si concretizza quando l’autore del reato utilizza un’arma per intimidire la vittima e ottenere la consegna del bene desiderato. L’arma può essere di vario tipo, inclusi oggetti atti a offendere che, per le loro caratteristiche, possono incutere timore nella vittima.

Pene previste per la rapina a mano armata

La legge italiana prevede pene severe per chi commette una rapina a mano armata. In particolare, l’articolo 628, terzo comma, n. 1) del Codice Penale stabilisce una reclusione da sei a venti anni e una multa da 2.000 a 4.000 euro. Questa sanzione è più elevata rispetto a quella prevista per la rapina semplice, a causa dell’uso dell’arma che aumenta la pericolosità del reato e l’allarme sociale.

Il caso della pistola giocattolo

La giurisprudenza ha chiarito che l’aggravante dell’uso dell’arma si applica anche quando l’arma utilizzata è una pistola giocattolo, purché questa non sia immediatamente riconoscibile come tale. In altre parole, se la pistola giocattolo appare reale e incute timore nella vittima, l’aggravante è configurabile. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39253/2021, ha ribadito questo principio, affermando che l’aggravante sussiste quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso a uno strumento che appare come un’arma da sparo. La riconoscibilità dipende sia alle circostanze oggettive dell’ambiente che incidono sulla visibilità dei segni presenti sul giocattolo come il tipico tappo rosso e caratteristiche similari, sia dalla percezione che la vittima ha avuto di quei segni specifici.

Giurisprudenza rilevante

Oltre alla sentenza sopra citata, è importante menzionare altre pronunce che hanno affrontato il tema della rapina a mano armata:

  • Cassazione Penale n. 32473/2024: in relazione all’aggravante dell’arma nel reato di rapina a mano armata tutti i partecipanti, inclusi gli autori materiali e coloro che hanno fornito assistenza necessaria (i cosiddetti basisti), sono responsabili anche del reato di porto illegale di armi e della relativa circostanza aggravante. Questo perché l’ideazione del crimine include l’uso delle armi e il loro porto abusivo, necessari per realizzare la minaccia o la violenza tipiche di tale reato.
  • Cassazione Penale n. 35953/2022: per la configurabilità dell’aggravante dell’arma in un delitto circostanziato, è sufficiente che il reo sia visibilmente armato, senza necessità che l’arma venga effettivamente impugnata per minacciare. L’aggravante sussiste quando l’arma è portata in modo tale da incutere timore, lasciando presagire un suo possibile utilizzo come strumento di violenza o minaccia per costringere la vittima a sottostare alle intimazioni.

 

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arresti domiciliari

Arresti domiciliari Arresti domiciliari: definizione, normativa, applicazione, differenze con la custodia cautelare e sentenze della Cassazione

Cosa sono gli arresti domiciliari?

Gli arresti domiciliari sono una misura cautelare personale di tipo coercitivo prevista dal Codice di procedura penale. Consistono nell’obbligo per l’indagato o l’imputato di rimanere presso il proprio domicilio o da altro luogo di privata dimora stabilito dal giudice, in attesa del processo o di ulteriori sviluppi processuali. L’obiettivo della misura deve essere identificato con la volontà di limitare la libertà personale dell’imputato quando sussistono esigenze cautelari, evitando la detenzione in carcere.

Normativa di riferimento sui domiciliari

La disciplina si trova nel Libro IV, Titolo I, Capo II del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento sono:

  • 284 c.p.p.: disciplina generale degli arresti domiciliari.
  • 275 c.p.p.: principi di adeguatezza e proporzionalità delle misure cautelari.
  • 276 c.p.p.: sostituzione e cumulo con altre misure cautelari.
  • 303 c.p.p.: durata massima degli arresti domiciliari.

Quando si applicano gli arresti domiciliari

Gli arresti domiciliari possono essere disposti dal giudice per le indagini preliminari (GIP) o dal giudice procedente in presenza di tre condizioni fondamentali:

Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).

Esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.), tra cui:

  • Pericolo di fuga;
  • Rischio di reiterazione del reato;
  • Possibile inquinamento delle prove.

Adeguatezza della misura: gli arresti domiciliari devono risultare idonei rispetto alla custodia cautelare in carcere, in base al principio di extrema ratio.

Reati per cui si applicano

Gli arresti domiciliari possono essere concessi per una vasta gamma di reati, ma generalmente si applicano per reati di media gravità, o nei casi in cui l’imputato non abbia precedenti o non rappresenti un pericolo per la collettività. Alcuni esempi:

  • Furto e truffa aggravata (artt. 624 e 640 c.p.).
  • Stupefacenti (spaccio di lieve entità) (art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90).
  • Violenza privata (art. 610 c.p.).
  • Lesioni personali gravi (art. 582 c.p.).
  • Corruzione e concussione (artt. 318-319 c.p.).

Durata degli arresti domiciliari

La durata massima di questa misura è regolata dall’art. 303 c.p.p. e varia a seconda della pena detentiva massima. Questo articolo stabilisce che il termine massimo è:

  • di sei anni nei procedimenti per reati puniti con l’ergastolo o con una pena detentiva superiore a venti anni;
  • di quattro anni per i reati la cui pena detentiva massima non supera i venti anni;
  • di due anni per i reati con una pena detentiva massima fino a sei anni.

Differenze con la custodia cautelare in carcere

Entrambe le misure sono misure cautelari coercitive, ma con importanti differenze:

Caratteristica Arresti Domiciliari Custodia Cautelare
Luogo di esecuzione Domicilio o luogo indicato dal giudice Carcere
Grado di restrizione Limitato, con eventuale permesso di uscita per motivi lavorativi o sanitari Massimo, con privazione totale della libertà
Presupposti Necessaria una valutazione di idoneità rispetto alla custodia in carcere Disposta nei casi più gravi o quando gli arresti domiciliari sono insufficienti
Applicabilità Reati meno gravi o imputati senza precedenti Reati più gravi e pericolo concreto

 

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha chiarito in diverse pronunce i criteri di applicazione:

Cassazione n. 18035/2022: chi è agli arresti domiciliari commette reato se si allontana oltre un chilometro dal percorso autorizzato, eludendo così i controlli. Per configurare il dolo di evasione, è sufficiente essere consapevoli della misura restrittiva e agire volontariamente per violarla.

Cassazione n. 20026/2022: annullata l’ordinanza che imponeva gli arresti domiciliari a un medico per non aver somministrato il vaccino ai pazienti, sottolineando l’importanza del principio di proporzionalità nelle misure cautelari. Eccessiva la detenzione domiciliare, l’interdizione dalla professione è sufficiente a prevenire la reiterazione del reato.

Cassazione SU n. 7635/2022: la sottoposizione dell’imputato ai domiciliari per altra causa, debitamente documentata o comunicata al giudice procedente in qualsiasi momento, costituisce un impedimento legittimo a comparire. Di conseguenza, il giudice è tenuto a rinviare l’udienza e a disporre la traduzione dell’imputato.

 

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furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

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reato di percosse

Il reato di percosse Reato di percosse art. 581 c.p: elemento oggettivo e soggettivo, procedibilità, pene, giurisprudenza e differenze con il reato di lesioni

Reato di percosse: art. 581 c.p.

Il reato di percosse è previsto dall’art. 581 del Codice Penale e punisce chiunque percuota un’altra persona, ossia agisca con violenza, senza provocare tuttavia lesioni personali nel corpo o nella mente. Questo reato si configura quando un soggetto colpisce un’altra persona, generando dolore o fastidio, senza determinare un danno fisico permanente.

Come precisa il comma 2 dell’articolo 581 c.p il reato di percosse non si configura quando per legge, la violenza rappresenta un elemento costituivo della fattispecie di reato o una circostanza aggravante.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato di percosse

Analizziamo separatamente l’elemento oggettivo e soggettivo del reato.

Elemento oggettivo

L’elemento oggettivo consiste in una violenza fisica esercitata su un’altra persona senza provocarle malattie o ferite. Rientrano in questa categoria atti come:

  • schiaffi, pugni o calci senza conseguenze fisiche durature;
  • spinte o strattonamenti;
  • contatti fisici aggressivi incapaci di generare una lesione documentabile.

Se dall’azione deriva una lesione, anche lieve, il reato di percosse si trasforma in reato di lesioni personali (art. 582 c.p.).

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di tenere una condotta violenta capace di provocare una sensazione di dolore alla persona offesa. Non è necessario che l’agente abbia l’intenzione di causare dolore o fastidio, basta che compia l’atto consapevolmente.

Competenza e procedibilità del reato di percosse

  • Competenza: Il reato di percosse è di competenza del Giudice di Pace Penale.
  • Procedibilità: è un reato perseguibile a querela di parte, il che significa che la vittima deve presentare querela entro tre mesi dallevento per avviare il procedimento penale.

Pena prevista per il reato di percosse

L’art. 581 c.p. prevede per il reato di percosse le seguenti pene base:

  • pena della reclusione fino a sei mesi oppure multa fino a 309 euro.

Se le percosse vengono commesse in presenza di aggravanti (ad esempio, contro un minore o un pubblico ufficiale), la pena può essere aumentata.

Giurisprudenza in materia

Cassazione n. 27737/2019: il termine “percuotere” non si limita al significato letterale di colpire fisicamente, ma include qualsiasi forma di violenta manomissione dell’altrui persona. Gli schiaffi, quindi, rientrano nella nozione di percosse a causa della loro natura intrinsecamente violenta. Se gli schiaffi causano una malattia, si configura il reato di lesioni; se invece sono simbolici e mirano solo a offendere moralmente, si tratta di ingiuria reale. Per il reato di percosse, è sufficiente che la condotta sia idonea a produrre una sensazione dolorifica, senza che il dolore effettivo si verifichi. La differenza con le lesioni personali sta nel fatto che queste ultime causano una malattia fisica o mentale.

Cassazione n. 33492/2019: affinché si possa parlare di lesioni personali, non basta una semplice alterazione fisica, ma è necessario che questa comporti una limitazione funzionale, un processo patologico significativo, un peggioramento di una condizione preesistente o una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche temporanea, ma rilevante. Se la violenza altrui provoca solo dolore, senza limitazioni funzionali, si configura il reato di percosse. In sostanza, la differenza tra lesioni personali e percosse risiede nella gravità delle conseguenze fisiche sulla vittima.

Cassazione n. 13145/2022: l’aggressione fisica di un insegnante verso un alunno, anche se motivata da intenti correttivi, non rientra nella fattispecie specifica dell’articolo 571 del codice penale (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina). Piuttosto, tale condotta può configurare reati quali percosse (articolo 581 c.p.) o lesioni personali (articolo 582 c.p.), oppure altre fattispecie di reato rilevanti a seconda delle circostanze specifiche. La legge non giustifica la violenza fisica come mezzo di correzione, per cui l’insegnante che la utilizza è passibile di sanzioni penali.

Differenza tra percosse e lesioni personali

Il reato di percosse si distingue dal reato di lesioni personali (art. 582 c.p.) per l’assenza di conseguenze fisiche permanenti. Vediamo le principali differenze:

Caratteristica Percosse (art. 581 c.p.) Lesioni personali (art. 582 c.p.)
Conseguenze fisiche Nessuna lesione permanente Ferite, contusioni, malattie documentabili
Procedibilità Querela di parte D’ufficio per lesioni aggravate, quando la malattia superi i 20 giorni se la vittima è un incapace per età o per un’infermità. Si procede a querela in caso di lesioni lievi
Pena Reclusione fino a 6 mesi o multa fino a 309,00 euro Reclusione da 6 mesi a 3 anni. La pena aumenta in presenza di circostanza aggravanti di cui all’art. 583 c.p.

 

reato di concussione

Reato di concussione Reato di Concussione art. 317 codice penale: normativa, elementi, pena e procedibilità, differenza con peculato e corruzione, giurisprudenza

In cosa consiste il reato di concussione

Il reato di concussione, disciplinato dall’articolo 317 del Codice Penale, si configura quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, abusando della propria qualità o dei propri poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente, a sé o a un terzo, denaro o altra utilità.

Il reato di concussione è un reato proprio che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Il soggetto attivo abusa del proprio ruolo per costringere o indurre un soggetto privato a dare o promettere una somma di denaro o altra utilità.

Differenza tra costrizione e induzione

  • Costrizione: il pubblico ufficiale impone al privato un comportamento mediante minaccia o pressione diretta.
  • Induzione: il pubblico ufficiale convince il privato, sfruttando la propria posizione di autorità, a compiere un’azione che non avrebbe compiuto spontaneamente.

Un esempio classico di concussione è il caso di un funzionario pubblico che minaccia un imprenditore di ostacolare la sua attività se non riceve una somma di denaro.

Elemento oggettivo e soggettivo

L’elemento oggettivo della concussione è dato:

  • dalla qualità soggettiva dell’autore (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio);
  • dall’abuso di potere;
  • dal danno subito dal soggetto passivo, indotto a dare o promettere denaro o altra utilità.

Ai fini dell’elemento soggettivo, invece, il dolo richiesto è specifico, ossia la volontà del pubblico ufficiale di ottenere un vantaggio personale o per un terzo.

Pena e procedibilità reato di concussione

Secondo l’articolo 317 c.p., la concussione è punita con la reclusione da sei a dodici anni.

  • Il reato è procedibile dufficio, quindi non è necessaria una denuncia per avviare le indagini.
  • La competenza è del Tribunale collegiale.
  • Il tentativo di concussione è punibile (art. 56 c.p.).

Differenza con peculato e corruzione

Il reato di concussione si distingue da altri reati contro la pubblica amministrazione:

  • Peculato (art. 314 c.p.): consiste nell’appropriazione indebita di denaro o beni pubblici da parte del pubblico ufficiale.
  • Corruzione (art. 318 e 319 c.p.): implica un accordo tra pubblico ufficiale e privato per ottenere vantaggi reciproci (senza costrizione o induzione).

In sintesi, la concussione è caratterizzata dall’abuso di potere con costrizione o induzione, mentre la corruzione è basata su un accordo illecito e il peculato su un’appropriazione indebita.

Giurisprudenza sul reato di concussione

Ecco alcune sentenze fondamentali in materia di concussione.

Cassazione n. 17918/2023: Nel reato di concussione, anche un soggetto privo della qualifica di pubblico agente può concorrere nella condotta illecita, purché, in accordo con il pubblico ufficiale, agisca in modo da indurre nel soggetto passivo uno stato di costrizione o soggezione finalizzato a un atto di disposizione patrimoniale. È inoltre necessario che la vittima sia consapevole che l’utilità richiesta è destinata e voluta dal pubblico ufficiale.

Cassazione n. 10805/2021: il reato di concussione si configura quando un pubblico ufficiale, abusando della propria posizione, con violenza o minaccia induce un soggetto a compiere un’azione che altrimenti non avrebbe compiuto. Ciò avviene a causa dello stato di soggezione psicologica in cui la vittima si trova e dell’assenza di un’alternativa ragionevole, come prospettato dal pubblico agente.

Cassazione n. 21019/2021: nel reato di concussione, il concetto di “utilità” comprende qualsiasi vantaggio, anche non patrimoniale, purché sia oggettivamente apprezzabile. Questo include, ad esempio, l’aumento del prestigio professionale o della considerazione all’interno dell’ambiente lavorativo. Nel caso specifico, la Corte ha riconosciuto la concussione (e non la violenza privata) nella condotta di un carabiniere che, attraverso minacce, ha costretto un cittadino straniero ad acquistare eroina per effettuare un arresto in flagrante, con l’obiettivo di ottenere riconoscimenti utili per avanzamenti di carriera e incarichi di fiducia.

 

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