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Messaggi via social e reato di molestie L’invio di messaggi tramite le piattaforme Instagram e Facebook integra gli estremi di cui all’art. 660 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

L’espressione “col mezzo del telefono” dell’art. 660 c.p. deve essere riferita all’uso delle linee telefoniche e non del telefono quale dispositivo elettronico in quanto tale. Nel rispetto del principio di legalità, dunque, l’equiparazione tra un sistema di messaggistica telematica disponibile tramite smartphone e il sistema di comunicazioni tradizionali effettuate col mezzo del telefono non si giustifica, anche in ragione del fatto che l’invasività della comunicazione improvvisa dipende da una scelta del soggetto che la riceve, il quale può disattivare le notifiche. – Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033.

Il reato di molestia integrato col mezzo del telefono è, di recente, stato esaminato dalla giurisprudenza, chiamata a verificare la compatibilità con la condotta descritta dalla fattispecie del comportamento dell’agente che, tramite Facebook, ha cercato di mettersi in contatto con i figli naturali, contattando persone a loro vicine, ivi compresi i genitori adottivi.

A seguito della condanna è stata contestata la qualificazione giuridica del fatto, che, pur concretizzatosi avvalendosi delle linee telefoniche, non si sostanzia nella condotta di molestia o di disturbo alle persone descritta dalla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Il predetto illecito punisce una condotta molesta dell’agente idonea a turbare la persona offesa, la cui sfera personale viene ad essere invasa e perturbata improvvisamente, senza alcuna possibilità di limitare o bloccare l’ingerenza altrui.

Per quanto concerne la molestia adoperata col mezzo del telefono, tale condotta è stata oggetto di continui mutamenti nel corso del tempo in ragione del progresso tecnologico, succedendosi una serie di orientamenti.

Sebbene in un primo momento con tale espressione si è inteso lo strumento di comunicazione tradizionale agganciato alla rete telefonica, si è poi passati a considerare tale anche il dispositivo mobile e lo smartphone. Ciò che connota la molestia telefonica è l’impossibilità della persona offesa di arginare la condotta lesiva dell’agente, giacché non era possibile limitare il traffico telefonico. Invero con l’avvento di apparecchiature telefoniche sempre più sofisticate e con la diffusione di strumenti alternativi, ma idonei alla comunicazione telefonica, come i tablet, si è rappresentata la possibilità di filtrare le telefonate e i messaggi ricevuti mediante sistemi di blocco de traffico in entrata.

Tale considerazione ha comportato una rilettura del mezzo telefonico da intendersi alla stregua di linea telefonica, di rete mobile di telecomunicazione, anche al fine di evitare che la fattispecie divenisse anacronistica. Da questo ultimo punto di vista si è assistito al graduale confronto della giurisprudenza con varie ipotesi di molestia telematica, che hanno contribuito a ridisegnare l’assetto della fattispecie.

Punto di partenza della speculazione della Cassazione sono state le comunicazioni di posta elettronica. Premesso che la comunicazione epistolare era già stata distinta da quella telefonica, sul punto si è precisato che il principio di stretta legalità e di tipizzazione impedisce che l’interpretazione dell’espressione “col mezzo del telefono” possa essere dilatata sino a comprendere anche le modalità di comunicazione asincrona, quale l’invio di messaggi di posta elettronica, poiché differiscono dagli sms che costringono il destinatario, sia de auditu che de visu, a percepirli con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, arrecandosi disturbo al destinatario (Cass. pen., sez. III, 28680/2004).

Un successivo orientamento ha sostenuto che anche l’invio di un messaggio di posta elettronica può realizzare in concreto una diretta e sgradita intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, allorquando il destinatario non possa impedirne la percezione e la comunicazione sia accompagnata da un avvertimento acustico, che ne indichi l’arrivo in forma petulante, con un’intensità tale da condizionare la tranquillità del ricevente (Cass. pen.,, sez. I, 36799/2011).

“Col mezzo del telefono” va, pertanto, inteso come rete telefonica e l’art. pe c.p. sanziona le condotte moleste perpetrate mediante una comunicazione di carattere invasivo cui il destinatario non può sottrarsi (Cass. pen., sez. I, 24510/2010).

Con specifico riguardo alla messaggistica istantanea, ossia di messaggi Whatsapp, si è affermato che l’interazione indesiderata si ha ogniqualvolta assieme al segnale acustico di notifica si accompagni l’anteprima del testo. Sarebbe irrilevante la circostanza che il destinatario di messaggi non desiderati possa evitarne la ricezione, senza compromettere la propria libertà di comunicazione, escludendo o bloccando il contatto indesiderato, poiché un simile comportamento preventivo si traduce comunque in una limitazione del destinatario.

La diffusività della messaggistica istantanea e la sua invasività costituiscono il fulcro delle riflessioni da ultimo maturate dalla giurisprudenza, che ha superato il precedente orientamento con cui si estendeva l’applicazione della fattispecie fino a ricomprendervi anche i casi in cui il destinatario potesse essere avvertito con sistemi di alert e preview e potesse procedere al blocco dell’utenza molesta.

Si è osservato che tanto l’attivazione di sistemi di blocco della ricezione di messaggi quanto della installazione di meccanismi di notifica ed anteprima del messaggio non dipendono, invero, dalla volontà dell’agente, bensì da quella del destinatario dei messaggi. La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all’interazione immediata con il mittente e di porre un filtro alla comunicazione rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva e più vicina a quella epistolare.

Ne consegue che i comportamenti molesti perpetrati tramite messaggi inviati con Instagram e Facebook, le cui notifiche possono essere attivate per scelta libera dal soggetto che li riceve non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 cod. pen., in quanto non commesso “col mezzo del telefono”, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680
Difformi:      Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021, n. 37974; Cass pen., sez. I, 23 luglio 2021, n. 28959

Avvocati assolti per le offese alla controparte Le offese contenute negli scritti difensivi non sono punibili se riguardano l’oggetto della causa, non occorre che siano vere o necessarie

Offese negli scritti difensivi

Le offese non necessarie e non vere, anche se non giustificabili in ambito processuale-civilistico, rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 598 cod. pen., purché relative all’oggetto della controversia. L’art. 598 cod. pen. consente la massima libertà nel diritto di difesa e per l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 cod. pen. sono necessarie due condizioni: le offese devono riguardare l’oggetto della causa o del ricorso pendente dinanzi all’autorità giudiziaria o amministrativa e devono avere una rilevanza funzionale per le argomentazioni a sostegno della tesi o per l’accoglimento della domanda. Non è necessario che le offese contengano un minimo di verità o che la verità sia deducibile dal contesto. L’interesse tutelato è la libertà di difesa in relazione logica con la causa, indipendentemente dalla fondatezza dell’argomentazione. La causa di non punibilità è applicabile anche quando le espressioni ingiuriose non sono né necessarie né decisive per l’argomentazione, l’importante è che siano inserite nel contesto difensivo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20520-2024.

Diffamazione aggravata: avvocati assolti

La Corte d’Appello di Venezia conferma l’assoluzione di due avvocati dall’accusa di diffamazione aggravata (art. 595, secondo comma, cod. pen.).

Gli imputati erano stati accusati di aver offeso la reputazione di un notaio per mezzo di un atto di citazione in revocatoria in cui gli stessi avevano sostenuto che le azioni giudiziali del pubblico ufficiale avevano provocato ai genitori sofferenze tali da cagionare la morte della madre del notaio stesso, deceduta invece a causa di una caduta accidentale.

Nel presentare ricorso per Cassazione il notaio ritiene erronea l’applicazione dell’art. 598 cod. pen., perché l’offesa non era pertinente all’oggetto dell’azione giudiziaria, ma mirava solo a ledere la sua reputazione. Lo stesso rileva inoltre la presenza di vizi di motivazione sulla esimente dell’art. 598 cod. pen., evidenziando la mancanza di nesso funzionale tra l’offesa e l’azione giudiziale.

Libertà di difesa: offese negli scritti difensivi non sono punibili

La Corte di Cassazione però respinge il ricorso perché infondato. Le censure si concentrano sull’errata applicazione dell’esimente prevista dall’art. 598 cod. pen. e vengono esaminate congiuntamente.

L’articolo 598 c.p, che si occupa delle offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati davanti  alle autorità amministrative e giudiziarie, per finalità di rilievo nella presente causa, dispone che “1. Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.”

L’art. 598 c.p.

Dalla lettera della norma emerge che l’art. 598 cod. pen. protegge la libertà di difesa, coprendo gli atti funzionali a questo diritto anche se offensivi, purché inseriti nel contesto difensivo.

Lo stesso ricorrente ha ricordato che la non punibilità prevista dall’articolo 598 cod. pen. richiede la sussistenza di due soli requisiti, ossia che le offese riguardino l’oggetto della causa o del ricorso presentato davanti all’autorità giudiziarie o amministrativa e che le stesse siano funzionali alla tesi difensiva prospettata.

Non è necessario neppure che le offese siano veritiere o strettamente necessarie, le stesse devono essere correlate alla causa e questo principio è stato applicato dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto le frasi degli imputati funzionali alla difesa dei loro clienti.

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Condotte vessatorie poste in essere dopo la cessazione della convivenza Le condotte vessatorie poste in essere al termine di un rapporto in quali casi configurano il reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

La configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento. Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. – Cass., sez. VI, 13 marzo 2024, n. 10636.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte si è occupata del rapporto tra il reato di atti persecutori (ex art. 612bis c.p.) e quello di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.).

In particolare, nel caso in esame, in seguito a ricorso ex art. 309 c.p.p., il Tribunale annullava l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato all’indagato la misura cautelare personale del divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282ter c.p.p., ritenendo per un verso sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine alla provvisoria contestazione di maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli minori, cessata con lo spontaneo allontanamento dell’indagato dal nucleo familiare, per altro verso insussistenti i gravi indizi in ordine al contestato reato di cui all’art. 612bis c.p. che si sarebbe integrato dalla data di cessazione della convivenza in poi.

Avverso tale ordinanza il Procuratore della Repubblica presentava ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione.

In particolare, il ricorrente censurava la decisione nella misura in cui riteneva che le condotte dell’indagato fossero cessate al momento dell’allontanamento dall’abitazione con la separazione di fatto tra i coniugi, senza invece apprezzare le dichiarazioni sul punto rese dalla persona offesa, la quale aveva affermato come l’indagato, da quando aveva abbandonato l’abitazione coniugale, avesse continuato ad esercitare violenza psicologica ed economica, continuando a porre in essere comportamenti aggressivi anche nei confronti e alla presenza dei figli minori.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato e ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, c.p.p.

Secondo la Suprema Corte, infatti, la configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento (Cass., sez. VI, 5 settembre 2021, n. 39532).

Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza (Cass., sez. VI, 30 settembre 2022, n. 45400). La separazione, si è infatti precisato, è condizione che non elide lo “status” acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, c.c. Detto principio deve essere tenuto fermo anche quando le condotte in esame siano rivolte nei confronti dei figli (ma il discorso vale anche allorché la condotta sia realizzata dai figli nei confronti dei genitori o altre persone di famiglia), essendo comunque configurabile il delitto di maltrattamenti nelle relazioni tra consanguinei, in quanto “persone della famiglia”, reputandosi irrilevante la cessazione o la mancanza di convivenza (tra le tante, cfr. Cass., sez. VI, 7 aprile 2022, n. 19839).

Tanto premesso, nel caso di specie, osserva la Suprema Corte, la condotta posta in essere dall’imputato, a seguito all’allontanamento dall’abitazione coniugale, è stata erroneamente qualificata nella contestazione provvisoria, ex art. 612bis c.p. a fronte di consolidata giurisprudenza che, in ipotesi come quella presa in esame in cui si contesta la protrazione della condotta ritenuta a vario titolo vessatoria, minacciosa ed intimidatrice, reputa sussistente, in caso di rapporto di coniugio e di presenza dei figli parte offesa dell’illecita condotta, il delitto di maltrattamenti in famiglia.

*Contributo in tema di “Condotte vessatorie e reato di atti persecutori”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

parcheggio vicino auto

È reato parcheggiare troppo vicino a un’altra auto Parcheggiare troppo vicino a un’altra auto comporta il rischio di essere multati fino a 173 euro e di andare in carcere fino a 4 anni

Parcheggio troppo vicino a un’altra auto: quali regole?

Capita a tutti di parcheggiare la propria auto e di fare la brutta esperienza di trovare un altro veicolo parcheggiato così attaccato al proprio da impedire addirittura l’apertura della portiera e risalire sul proprio mezzo. In questi casi come ci si deve comportare? La legge prevede delle tutele per questi comportamenti incivili? Per rispondere al quesito occorre analizzare prima di tutto l’articolo 157 del Codice della Strada.

Distanze per sosta e fermata: art. 157 Codice della Strada

Dall’analisi letterale della norma, in materia di distanze da rispettare da parte del veicolo parcheggiato, emerge che lo stesso, in presenza di un marciapiede, deve essere collocato il più possibile vicino al margine destro della carreggiata e, in assenza di marciapiede rialzato, rispettare la distanza di un metro. Fuori dai centri abitati, se non è possibile parcheggiare fuori dalla carreggiata, il parcheggio deve avvenire il più vicino possibile al margine destro della carreggiata. Nelle strade urbane a senso unico è possibile parcheggiare lungo il margine sinistro della carreggiata, ma è necessario lasciar uno spazio sufficiente a consentire il passaggio di una fila di veicoli e comunque lo spazio non può essere inferiore a tre metri.

Il comma 7 infine vieta a chiunque di aprire le porte di un veicolo, di discendere dallo stesso, nonché di lasciare aperte le porte, senza essersi assicurato che ciò non costituisca pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada.”

La norma nulla dice di specifico sulla distanza minima che deve essere rispettata tra due veicoli parcheggiati. Vero però che sempre l’articolo 157 impone di parcheggiare nel rispetto della segnaletica presente, questo significa che se lo spazio di parcheggio è delimitato dalle strisce bianche, azzurre o gialle il veicolo non può invadere lo spazio di un altro parcheggio. Inoltre, come abbiamo visto, non si possono lasciare le portiere aperte o aprirle se la condotta rappresenta un intralcio o un pericolo per gli altri utenti della strada.

Per chi viola le regole dettate dall’articolo 157 CdS la multa varia da 42 euro a  173 euro.

Reato di violenza privata

La sanzione amministrativa non è però l’unica conseguenza per un comportamento incivile come quello di parcheggiare appiccicati a un’altra auto.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 53878/2017 ha chiarito che questa condotta integra il reato di violenza privata, previsto e disciplinato dall’articolo 610 del Codice penale, che punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri affari, tollerare o omettere qualcosa”.

Condizionata la libertà di autodeterminazione

Nel caso di cui si sono occupati gli Ermellini, l’imputato aveva posizionato la propria vettura a pochi centimetri dallo sportello, lato autista, del veicolo della persona offesa la quale, considerata anche la presenza di autovetture parcheggiate davanti e dietro al suo mezzo, non poteva spostarsi in nessun modo. L’imputato ha pertanto costretto la parte offesa a scendere dalla propria auto per affrontarlo in una discussione al fine di ottenere lo spostamento del mezzo. L’imputato ha cioè condizionato severamente sia la libertà di autodeterminazione, che la libertà di movimento della persona offesa.

Da qui la condanna per il reato di violenza privata, per il quale l’articolo 610 del codice penale contempla la pena della reclusione fino a quattro anni.

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Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere Che rilevanza hanno i «disturbi della personalità» ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Nel percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto, hanno rilievo precisi indici rivelatori non di un qualsiasi disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità, idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma. – Cass., sez. I, 19 marzo 2024, n. 11539.

 La Corte di legittimità è chiamata a pronunciarsi sul riconoscimento del vizio di mente in caso di disturbo della personalità con discontrollo degli impulsi.

Con la sentenza impugnata, infatti, la Corte di Assise di Appello confermava la condanna emessa dal Giudice per le indagini preliminari relativamente al reato di omicidio pluriaggravato consumato all’interno di una drammatica situazione familiare, segnata dalla malattia mentale dell’imputato, affetto da anni da disturbi psichiatrici che lo rendevano violento nei confronti dei familiari.

Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione dal difensore dell’imputato con il quale si denunciava, tra gli altri motivi, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere in capo all’imputato.

Secondo il ricorrente, il mancato riconoscimento dell’infermità mentale si poneva in contraddizione anche con quanto evidenziato dallo stesso perito nominato dal primo Giudice, il quale aveva ravvisato in capo al medesimo disturbi della personalità ed, in particolare, un disturbo psichico che comporta discontrollo degli impulsi e improvvise e transeunti perdite della capacità di comprendere il significato e il valore o disvalore delle proprie condotte, emergente soprattutto in fase di forte stress.

Il ricorrente osservava come, secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite della Cassazione con sent. 230317/2005, il termine infermità non allude solo ad una condizione patologica, ma a qualunque disturbo che, incidendo sulla psiche, comprometta irrimediabilmente la capacità di intendere di volere, con la conseguenza che anche il disturbo della personalità può escludere l’imputabilità del soggetto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha evidenziato che il concetto di “infermità” di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è stato al centro di evoluzione giurisprudenziale estensiva: se, infatti, giurisprudenza piuttosto risalente tendeva a considerare rilevanti, ai fini del concetto, le sole patologie aventi substrato organico, da quasi due decenni la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto come, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità” – che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali – possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163).

La decisione delle Sezioni Unite pone alla base del percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto la avvenuta emersione di precisi indici rivelatori non di un «qualsiasi» disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità: deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma.

Ebbene, ciò premesso, la Corte ha osservato che l’analisi svolta in sede di merito ha rettamente escluso la ricorrenza di reali indicatori di perdita del senso di realtà nel caso in esame, specie nella condotta posteriore alla consumazione del fatto, atteso che la prospettata incapacità di intendere e di volere del imputato si pone apertamente in contrasto con l’atteggiamento da costui tenuto nell’immediatezza del fatto, avendo da subito egli con cinismo fornito una versione dei fatti finalizzata a crearsi immediatamente una strategia difensiva.

Infine, occorre osservare come l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisca questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Cass., sez. I, 17 gennaio 2014, n. 32373), salvi casi di cd. travisamento della prova.

*Contributo in tema di “Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

alcoltest guida stato ebbrezza

Valido l’alcoltest anche con l’esofagite La Cassazione ha ritenuto che l’acalasia esofagea, patologia che determina il ristagno di liquidi nell’esofago, non ha alterato il risultato dell’alcoltest

Guida in stato di ebrezza

Nel caso di specie, la Corte di appello di Firenze aveva condannato l’imputato poiché ritenuto responsabile del reato di cui all’art.186, comma 2, del Dlgs 285/1992, per aver condotto l’auto in stato di ebbrezza a seguito dell’assunzione di bevande alcoliche.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, tra i vari motivi d’impugnazione che, il Giudice di merito lo aveva ritenuto responsabile per la suddetta fattispecie delittuosa, pur essendo egli affetto da “acalasia esofagea”, e cioè una patologia che, determinando il ristagno di liquidi, tra cui le sostanze alcoliche, nell’esofago, avrebbe alterato il risultato dell’alcoltest.

Irrilevanza della patologia

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24096-2024, ha, per quanto specificamente attiene al suddetto motivo d’impugnazione, rigettato il ricorso proposto dall’imputato.

In particolare, la Corte ha condiviso gli esiti argomentativi cui era giunto il Giudice di merito nel ritenere irrilevante la patologia sofferta dall’imputato rispetto al risultato dell’alcoltest, il quale, a tal proposito, aveva fornito una motivazione congrua e lineare, nonché priva di contraddizioni palesi.

Stato di ebbrezza alcolica

Inoltre, ha proseguito la Corte lo stato di ebbrezza alcolica era stato comprovato anche da altri elementi, quali, ad esempio l’equilibrio precario, il linguaggio sconnesso, le pupille dilatate, gli occhi lucidi e un comportamento di sfida nei confronti degli operatori. Tali ultimi aspetti, ha spiegato la Corte, sono del tutto indipendenti dalla acalasia esofagea.

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luogo aperto al pubblico

Luogo aperto al pubblico: cosa si intende La Cassazione spiega quando un luogo è da ritenersi "aperto al pubblico" e quando invece di "privata dimora"

Luogo aperto al pubblico

Per luogo aperto al pubblico deve intendersi quello frequentabile da un’intera categoria di persone o da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità di accedervi. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 24119-2024.

La vicenda

Nella vicenda, un imputato veniva assolto dal Gip di Pesaro per la contravvenzione di cui all’art. 4 legge n. 10/1975 per aver portato fuori dalla stanza dell’albergo una forchetta da cucina occultandola nella tasca dei propri pantaloni. Il fatto veniva ritenuto insussistente, non essendo l’imputato mai uscito dalla hall dell’hotel, ma il procuratore adiva la Cassazione eccependo violazione di legge.

Luogo di privata dimora

Deduceva in particolare che il giudice di merito avesse errato nel qualificare la sala di ricevimento dell’albergo come “luogo di privata dimora”, trattandosi, invece, di un luogo aperto al pubblico nel quale non si svolgono atti della vita privata. A supporto del motivo, richiamava la distinzione tra «privata dimora» e «luogo aperto al pubblico» operata dalla giurisprudenza di legittimità in punto di delitto di cui all’art. 624bis cod. pen. Per cui, a suo dire, l’imputato era nella disponibilità dell’oggetto mentre si trovava all’interno della hall, ossia locale adibito a ricevimento del pubblico nella struttura ricettiva e, dunque, luogo aperto al pubblico.

Luogo privata dimora e luogo aperto al pubblico

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale e conformemente a quanto ritenuto dal procuratore, la hall dell’albergo non è luogo di privata dimora ma luogo aperto al pubblico.
In tal senso, la Corte richiama l’orientamento secondo cui «ai fini della configurabilità del delitto di porto illegale di arma da fuoco, per “luogo aperto al pubblico” deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, oppure quello frequentabile da un’intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto» (cfr. Cass. n. 22890/2013).

Con riguardo specifico alla nozione più generale di «luogo di privata dimora», ricorda inoltre la Corte, l’insegnamento del massimo organo nomofilattico afferma che «ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (cfr. SS.UU. n. 31345/2017).

Sono stati qualificati, ricorda ancora la S.C., come luoghi di privata dimora il locale adibito a spogliatoio di uno ‘stand’ fieristico, lo studio legale, il motopeschereccio dotato di cabine e bagni, mentre sono stati qualificati come luoghi aperti al pubblico: il circolo sportivo, la sala d’attesa di uno studio medico e proprio la hall di un albergo (cfr. Cass. n. 34454/2018), “luogo per definizione aperto al pubblico”.

Sentenza annullata con rinvio

Per cui dando continuità alla giurisprudenza consolidato, i giudici hanno ritenuto che il taglierino fosse stato portato dall’imputato in luogo aperto al pubblico e, dunque, il ricorso del procuratore va accolto e la sentenza di assoluzione annullata.

La parola passa al giudice del rinvio.

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Continuazione tra reati e non punibilità La continuazione tra i reati è di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo è solo in presenza di determinate condizioni?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea in concreto ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale. – Cass. Sez. Un. 12 maggio 2022, n. 18891.

Nel caso di specie, la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare se ad escludere l’operatività della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., sia sufficiente il solo riconoscimento del vincolo di continuazione tra i reati, ovvero sia a tal proposito altresì necessaria la sussistenza di ulteriori condizioni previste dalla predetta disposizione normativa.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte ha evidenziato che l’utilizzo del termine “abituale” e non “occasionale” da parte del legislatore, nel disposto di cui all’art. 131bis c.p., ha sollevato un contrasto tra due opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità circa l’applicabilità in concreto della causa di esclusione della punibilità al reato continuato.

Secondo il primo indirizzo interpretativo, inizialmente prevalente, la causa di non punibilità non troverebbe applicazione nel caso di più reati esecutivi del medesimo disegno criminoso, in quanto tale vincolo, rispondendo alla medesima ratio del comportamento abituale, non supererebbe lo sbarramento posto dalla predetta disposizione normativa. Pur comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo, invero, il vincolo della continuazione consisterebbe in un’oggettiva reiterazione di condotte rilevanti, sintomatiche di una devianza non occasionale, pertanto espressive di un comportamento abituale che giustificherebbe l’esclusione dal suddetto beneficio (Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897).

Il secondo indirizzo interpretativo, attualmente prevalente, ritiene configurabile la particolare tenuità del fatto nell’ipotesi di reato continuato, purché lo stesso non sia espressivo di una tendenza o inclinazione al crimine (Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358).

L’esclusione dell’abitualità anche rispetto ad un reato continuato, invero, dovrebbe avvenire valorizzando elementi ulteriori desumibili dall’art. 131bis c.p., in presenza dei quali, pertanto, il vincolo di continuazione non sarebbe indicativo del carattere seriale dell’attività criminosa o dell’abitudine del soggetto a violare la legge, ostativi all’operatività della predetta disposizione normativa.

Tuttavia, tale indirizzo distinguerebbe tra continuazione diacronica, sussistente in caso di una pluralità di reati avvinti dal vincolo della continuazione, ma commessi in contesti spaziali e temporali diversi, e continuazione sincronica, sussistente in caso di una pluralità di condotte espressive di un medesimo disegno criminoso, ma commesse in un unico contesto spaziale e temporale.

La violazione criminosa in caso di continuazione sincronica sarebbe invero unica, stante la contemporanea esecuzione temporale e spaziale delle distinte azioni delittuose e sarebbe pertanto compatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla personalità positiva del reo, da cui si desumerebbero i presupposti finalizzati alla valutazione dell’operatività dell’art. 131bis c.p. (Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434).

Sul punto, gli Ermellini hanno richiamato quanto stabilito dalle Sezioni Unite in una precedente pronuncia, che ha analizzato le tre ipotesi tassative di comportamento abituale di cui all’art. 131bis, comma 3, c.p.

Il primo di tale triplice criterio risulta non suscitare problemi di interpretazione, essendo già definita dal legislatore la qualificazione di delinquente abituale, professionale o per tendenza attraverso gli artt. 105 e ss. c.p.

In relazione al secondo criterio, vale a dire più reati della stessa indole, il dato normativo parla di “reati” e non di “condanne”; pertanto, la pluralità di reati, da intendere partendo da almeno due rispetto a quello in sede di accertamento, è configurata non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche a fronte di accertamenti di reato non ancora definitivi o di reati da giudicare nel medesimo procedimento.

In relazione al terzo criterio, vale a dire condotte abituali e reiterate, la sentenza richiamata chiarisce che il legislatore richiami fattispecie che prevedono l’elemento tipico della condotta abituale, come nel caso del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., nonché delle condotte reiterate, come nel caso del reato di atti persecutori di cui all’art. 612bis c.p.

Le condotte plurime, lungi dall’essere una ripetizione delle condotte abituali e reiterate, si riferiscono a fattispecie concrete connotate da distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Non è desumibile, pertanto, alcun riferimento preclusivo al reato continuato (Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681).

Le Sezioni Unite aderiscono alle conclusioni della predetta pronuncia e condividono l’impostazione del secondo orientamento giurisprudenziale.

Il Supremo Collegio muove, in prim’ordine, dalla premessa che il concorso formale di reati è caratterizzato dall’unicità dell’azione o dell’omissione, escludendone pertanto sia la collocazione tra i reati della stessa indole o tra le condotte plurime, abituali e reiterate, sia la natura di condotta abituale.

Il reato continuato, parimenti, consiste in una particolare ipotesi di concorso di reati, essendo tuttavia considerato unitario ai soli fini della determinazione della pena o della garanzia di un eventuale risultato favorevole al reo (Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775; Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286).

Di conseguenza, annoverare il concorso formale di reati tra i presupposti per la particolare tenuità del fatto a discapito del reato continuato, comporterebbe un trattamento discriminatorio e una violazione del canone di ragionevolezza.

Chiarito che i reati avvinti dal vincolo della continuazione possono essere suscettibili di applicazione dell’art. 131bis c.p., le Sezioni Unite hanno altresì stabilito che gli stessi devono essere oggetto di un complessivo apprezzamento discrezionale del giudice, che deve soppesarli con la sussistenza di ulteriori criteri al fine di valutare l’operatività dell’art. 131bis c.p., tra cui la natura e la gravità dei reati unificati, dei beni giuridici lesi o posti in pericolo, l’entità delle disposizioni di legge violate, le finalità e le modalità esecutive della condotta, le motivazioni e le conseguenze derivatene, l’arco temporale e il contesto in cui le violazioni medesime si collocano, l’intensità del dolo e la rilevanza dei comportamenti successivi ai fatti.

La natura dei reati in continuazione e il bene giuridico dagli stessi leso, tuttavia, sollevano la possibilità di integrare più reati della stessa indole, che definiscono un comportamento abituale tale, dunque, da escludere il reato continuato dall’operatività dell’art. 131bis c.p.

La soluzione cui perviene il Supremo Collegio consiste invero nella valutazione del dato numerico dei reati della stessa indole, posto che l’art. 131bis c.p. parla di più reati, che pertanto devono essere almeno due e a cui deve aggiungersi il reato oggetto di accertamento giudiziario. Ne consegue che, solo se inferiori a tre, i reati della stessa indole uniti dal vincolo della continuazione non incorrono nel comportamento abituale preclusivo dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità.

Tuttavia, nella nozione di “stessa indole” vi rientra la sola continuazione omogenea, caratterizzata dalla plurima violazione della medesima disposizione di legge.

Le Sezioni Unite infine escludono dall’ambito dell’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis c.p., la sola continuazione diacronica, dal momento che comporta la reiterazione di condotte delittuose in contesti spaziali e temporali distanti, sintomatiche di una pervicacia criminale che non consente di qualificare il fatto come occasionale.

Pertanto, le Sezioni Unite hanno stabilito che la pluralità di reati uniti dal vincolo della continuazione non è ostativa all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., salvo che il giudice la ritenga idonea ad integrare una o più delle condizioni previste dalla medesima disposizione normativa per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358; Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434;
Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681;  Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775;
Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286
Difformi:      Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897
deposito telematico querela

Quando si ha deposito telematico della querela La Cassazione chiarisce che la presentazione con modalità telematica della querela è esclusivamente riferita alle ipotesi in cui essa debba essere presentata dalla Procura della Repubblica

Inosservanza della norma processuale

Nel caso che ci occupa, il ricorrente ha presentato ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione rilevando che la querela nei suoi confronti non era stata presentata dalla parte personalmente, bensì dal difensore.

Rispetto a tale circostanza, il ricorrente ha rilevato che, nel caso di specie, la querela non era stata presentata tramite il Portale del Processo, ma mediante formato cartaceo presso la questura, mentre, l’unica modalità consentita per il deposito della querela, qualora a tale incombenza non provveda la parte personalmente, ma il suo difensore, è tramite il suddetto portale.

Deposito telematico della querela

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20754-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In particolare, la Corte, dopo aver esposto i fatti di causa ed il quadro normativo di riferimento, ha affermato che l’art 87, comma 6-bis del d.lgs n. 150/2022 è chiaro nel prevedere che “la presentazione con modalità telematica della querela è esplicitamente ed esclusivamente riferita alle ipotesi in cui essa debba essere presentata nella Procura della repubblica (quando non presentata direttamente dal querelante personalmente, ma dal suo difensore), così che non vi è alcun appiglio normativo utile a supportare l’assunto difensivo secondo il quale il deposito attraverso il processo portale telematico abbia una portata generalizzata e debba avvenire anche quando la querela sia depositata presso uffici diversi dalla Procura della Repubblica”.

Portale processo telematico

Invero, ha proseguito la Corte a sostegno delle proprie argomentazioni, il portale del processo penale telematico rappresenta uno strumento posto a sussidio della ricezione degli atti processuali presso gli uffici giudiziari “mentre non è adibito per la ricezione degli atti da parte delle Forze dell’Ordine, così con la contraria interpretazione proposta dalla difesa si mostra incoerente con i fini per cui esso è stato espressamente istituito”.

Allegati

antiriciclaggio ue

Antiriciclaggio: al via il “grande fratello” europeo In Gazzetta Ufficiale il pacchetto UE approvato a maggio 2024 per la lotta al riciclaggio del denaro sporco (Anti Money Laundering) e al finanziamento del terrorismo

In GU il pacchetto UE sull’antiriciclaggio

Il 30 maggio 2024 il Consiglio UE ha approvato il pacchetto antiriciclaggio AML (Anti Money Laundering), con il quale viene riscritta e ampliata la disciplina sulla lotta al riciclaggio del denaro sporco e al finanziamento del terrorismo. I testi del nuovo pacchetto di norme antiriciclaggio sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 19 giugno 2024.

Questo pacchetto rappresenta un significativo passo avanti nella protezione del sistema finanziario europeo dalle attività illecite. Le nuove norme mirano a colmare le lacune esistenti e a garantire una maggiore trasparenza e cooperazione tra gli Stati membri.

Vediamo i punti salienti del pacchetto AML e le sue implicazioni per le istituzioni finanziarie e le imprese.

Punti centrali della riforma

Il regolamento, applicabile direttamente all’interno degli Stati membri dopo tre anni dall’entrata in vigore, contiene le norme dedicate al settore privato e armonizza tutte le regole antiriciclaggio nell’unione europea.

La normativa viene estesa al settore delle criptovalute, a chi commercia beni di lusso e agli agenti di calcio.

La direttiva definisce la collaborazione tra le varie autorità di informazione finanziaria nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Il provvedimento armonizza inoltre i formati degli estratti conto bancari, per individuare e confiscare più agevolmente i proventi degli illeciti penali.

Autorità antiriciclaggio

Nasce l’Autorità Antiriciclaggio, con funzione di vigilanza e supporto al settore finanziario e alle unità di informazione finanziaria. L’Autorità migliorerà anche l’efficienza della lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, grazie alla collaborazione con le Autorità nazionali di vigilanza, per fare in modo che i soggetti obbligati rispettino le regole. All’Autorità, che sarà operativa a partire dalla metà del 2025, spetterà inoltre il compito di sanzionare i soggetti obbligati in caso di trasgressione.

Registro titolari effettivi

Prevista la creazione di un registro dei titolari effettivi di beni immobiliari e di un database sulle cassette di sicurezza, le criptovalute e i conti correnti.

Tetto contanti 10mila euro

Il pacchetto prevede anche un tetto ai contanti di 10.000 euro, lasciando liberi però gli Stati membri di imporre tetti di importo inferiore. Prevista in ogni caso l’adeguata verifica dell’identità di quei soggetti che compiono operazioni in contanti per importi compresi tra i 3000 e i 10.000 euro,

Se le operazioni vengono compiute invece in criptovaluta, i soggetti obbligati dovranno procedere alla due diligence sui clienti che compiono transazioni di importo superiore ai 1000 euro.

Obiettivi del pacchetto AML

Il pacchetto AML si concentra su alcuni obiettivi chiave:

  • rafforzamento della cooperazione internazionale: la nuova normativa prevede una maggiore cooperazione e scambio di informazioni tra le autorità nazionali e internazionali. Questo include la creazione di una banca dati centralizzata per facilitare il monitoraggio delle transazioni sospette;
  • aumento della trasparenza: il pacchetto introduce requisiti più stringenti per la trasparenza delle operazioni finanziarie e la tracciabilità dei fondi. Le imprese saranno obbligate a fornire informazioni dettagliate sui beneficiari effettivi e sulle transazioni internazionali;
  • miglioramento della vigilanza: viene rafforzato il ruolo delle autorità di vigilanza con l’introduzione di nuovi strumenti e poteri per monitorare e sanzionare le attività illecite. Questo include la creazione di una nuova agenzia europea dedicata al contrasto del riciclaggio di denaro.

Impatto su istituzioni finanziarie e imprese

Le nuove normative AML avranno un impatto significativo sulle istituzioni finanziarie e sulle imprese in tutta l’UE. Le aziende dovranno adattare i loro processi e sistemi per conformarsi ai nuovi requisiti di segnalazione e trasparenza. Questo potrebbe comportare investimenti significativi in tecnologia e formazione del personale.

Le istituzioni finanziarie, in particolare, dovranno rafforzare i loro programmi di conformità e migliorare la loro capacità di rilevare e segnalare transazioni sospette.