suicidio assistito consulta requisiti

Suicidio assistito: la Consulta torna sul fine vita La Corte Costituzionale ribadisce gli attuali requisiti per l'accesso al suicidio assistito e ne precisa il significato richiamando la sentenza del 2019

Suicidio assistito: la Consulta ribadisce i requisiti

Suicidio assistito. La Consulta torna ad esprimersi sul fine vita e ribadisce gli attuali requisiti, alla luce della propria storica sentenza del 2019, precisandone il significato. “Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza. Tutti questi requisiti – (a) irreversibilità della patologia, (b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, (d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli – devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza” afferma infatti il giudice delle leggi nella sentenza n. 135/2024, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze sull’art. 580 del codice penale.

La qlc

Questioni che miravano ad estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019 e che nascevano da un procedimento penale contro tre persone che hanno aiutato un paziente affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, ad accedere al suicidio assistito in una struttura privata svizzera.

Il GIP ha rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto, ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019.

Il GIP, a questo punto, ha chiesto alla Corte di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel giudizio di legittimità costituzionale è stato ammesso l’intervento di due donne affette da analoghe patologie, a sostegno delle questioni prospettate. Numerosi amici curiae, inoltre, hanno depositato opinioni favorevoli o contrarie all’accoglimento delle questioni.

Requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale

La Corte ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti.

La sentenza n. 242 del 2019 non aveva riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma aveva soltanto «ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti».

Autodeterminazione terapeutica

Quanto all’autodeterminazione terapeutica, la Corte ha ribadito che “ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza”.

Il diritto, nella sostanza invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili. Ciò al fine di evitare non soltanto ogni possibile abuso, ma anche la creazione di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi.

“Il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell’ambito della cornice precisata dalla Corte nella propria giurisprudenza” ha affermato ancora la Consulta rinnovando l’invito al legislatore a pronunciarsi.

Inalienabile dignità della vita umana

La Corte ha poi sottolineato che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge. La nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione e connessa alla concezione che il paziente ha della propria persona – nozione alla quale pure la Corte «non è affatto insensibile» – finisce poi per coincidere con quella di autodeterminazione. Anche rispetto ad essa resta quindi necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana.

La Corte ha negato inoltre la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza Karsai contro Ungheria del 13 giugno scorso, in effetti, la stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l’incriminazione dell’assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana.

Tuttavia, la Consulta ha precisato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019.

I principi del 2019

Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.

D’altra parte, la Corte ha riaffermato la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019. È dunque necessario, per tutti i fatti successivi al 2019, che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite. Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo.

Auspicio intervento legislativo

Infine, la Corte ha espresso il forte auspicio che “il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati”. La consulta ha, quindi, ribadito “lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010“.

Allegati

corruzione di minorenni reato

Corruzione di minorenni: il reato ex art. 609-quinquies c.p. Il reato di corruzione di minorenni (art. 609-quinquies c.p.) è punito con la reclusione da uno a cinque anni

Corruzione di minorenni: interesse tutelato e normativa

A seguito dei correttivi operati sulla previsione di cui all’art. 609-quinquies c.p. dalla L. 172/2012, successivamente dal D.Lgs. 39/2014, nonché, da ultimo, dalla L. 238/2021 (cd. Legge europea 2019-2020), la norma in esame consta di quattro commi, i primi due costituenti le figure-base della fattispecie, mentre il terzo e quarto configurazioni aggravate.

In particolare, ai sensi della disposizione in commento, risponde penalmente chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere (comma 1), nonché chiunque fa assistere una persona minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico, al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali (comma 2).

Il bene giuridico tutelato nel delitto di corruzione di minorenni consiste nella salvaguardia di un sereno sviluppo psichico della sfera sessuale di soggetti di età minore, che non deve essere turbato dal trauma che può derivare dall’assistere ad atti sessuali compiuti con ostentazione da altri.

Corruzione di minorenni: l’ipotesi di cui al comma 1

Come anticipato, il comma 1 della disposizione sanziona penalmente chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere.

L’elemento oggettivo di tale configurazione consiste nel compimento di atti sessuali in presenza del minore. Appare condivisibile quella dottrina che ritiene che la pura e semplice esibizione degli organi genitali al minore, qualunque sia la sua finalizzazione, non costituisca compimento di «atti sessuali» in senso stretto.

Per converso, in giurisprudenza si afferma che nella nozione di atto sessuale rilevante ai fini della configurabilità del reato in esame rientra qualsiasi comportamento, anche di mero intenzionale esibizionismo, collegabile alle manifestazioni della vita sessuale.

Basta la presenza del minore

Occorre, poi, sottolineare che il delitto in esame richiede la sola presenza del minore: infatti, se gli atti sessuali coinvolgono direttamente il minore infraquattordicenne, ovvero di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, se legato dai vincoli di parentela o di familiarietà all’agente previsti dall’art. 609quater, comma 1, n. 2), ricorrerà il reato di atti sessuali con minorenne.

È opportuno precisare che a differenza della fattispecie di cui all’art. 609bis, ai fini della sussistenza del reato di corruzione assumono rilievo anche gli atti di bestialità o necrofilia commessi alla presenza di un minore.

La rilevanza del consenso del minore

Si pone, infine, il problema della rilevanza o meno del consenso del minore. In particolare, se il minore volontariamente assiste al compimento di atti sessuali, non ricorrono i presupposti per l’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p. (atteso che il consenso proviene da persona incapace di prestarlo consapevolmente); se, invece, il minore infraquattordicenne viene costretto ad assistere agli atti sessuali ricorrerà tanto il reato di cui all’art. 609quinquies, tanto il reato mezzo commesso per coartare la volontà del minore (violenza privata, minaccia, sequestro di persona).

Esibizione di foto pedopornografiche

Ai fini della configurabilità del delitto, inoltre, è sufficiente l’esibizione, a persona minore degli anni 14, di foto pedopornografiche (ad esempio, minori con genitali in mostra), in modo tale da coinvolgere emotivamente la persona offesa e compromettere la sua libertà sessuale. Si afferma, altresì, che il delitto sia configurabile anche nel caso in cui tali atti, pur compiuti a distanza, siano condivisi con il minore mediante videochat, nel corso della loro commissione, posto che il mezzo di comunicazione telematica, volutamente utilizzato dall’agente, consente di ritenere gli atti commessi in presenza della persona offesa (Cass. 12-4-2023, n. 15261).

Corruzione di minorenni: l’ipotesi di cui al comma 2

Si è detto come, ai sensi del comma 2 della disposizione in commento, è sanzionato penalmente chiunque fa assistere una persona minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico, al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali.

Trattasi di figura inedita, introdotta dalla L. 172/2012, nota come legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ed avente carattere sussidiario, in quanto configurabile solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

In particolare, attraverso tale disposto si sono ampliati i margini di tutela del minore, inserendo nella norma condotte oggettivamente più gravi. Se, infatti, in entrambe le configurazioni-base, il disvalore del reato si sostanzia essenzialmente nel fatto che un minore assista al compimento di atti sessuali, privo del necessario «bagaglio» di maturità psico-fisica, nella prima figura tale situazione costituisce lo scopo perseguito dal reo, mentre nella seconda la medesima situazione, come anche il mostrare materiale pornografico, sono finalizzati ad indurre il minore a compiere o subire atti sessuali.

Si tratta di un autonomo delitto comune doloso, la cui configurazione sostanzialmente colma lacune di tutela, in più occasioni, segnalate, presenti nella previgente corruzione di minorenni, della quale peraltro ripropone il medesimo trattamento sanzionatorio per come rimodulato dalla novella del 2012. Si afferma in giurisprudenza che le condotte poste in essere mediante comunicazione telematica – pur svolgendosi in assenza di contatto fisico con la vittima – sono riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 609quinquies, comma 2, c.p., poiché il far assistere persona minore di anni 14 al compimento di atti sessuali o il mostrare alla medesima materiale pornografico al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali non richiede necessariamente la presenza fisica degli interlocutori (si pensi all’invio di materiale pornografico a mezzo di «whatsapp») (Cass. 11-5-2020, n. 14210).

Figure circostanziali aggravanti

La novità disciplinare dovuta, invece, al D.Lgs. 39/2014 si traduce nella previsione di talune figure circostanziali aggravanti. In particolare, per effetto del neointrodotto comma 3 della disposizione in esame, si prevede un incremento sanzionatorio, nel caso in cui il fatto sia commesso da più persone riunite, da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività, o con violenze gravi, ovvero ancora se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

Il novero di tali figure circostanziali è stato, da ultimo, integrato dalla cd. Legge europea 2019-2020, al caso in cui dal fatto deriva pericolo di vita per il minore. 

Come già per le fattispecie di cui agli artt. 602ter e 609ter, il legislatore opera analogo correttivo anche in relazione al delitto che si esamina. Ancora una volta, a trovare attuazione è il disposto dell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Sempre nel novero delle aggravanti rientra la norma (stavolta dovuta alla L. 172/2012) applicabile al caso in cui il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo una relazione di stabile convivenza.

Elemento soggettivo

Sul piano soggettivo, in entrambe le configurazioni (quella originaria e quella frutto dei correttivi del 2012) rileva il dolo specifico, dovendo la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte tipizzate essere finalizzata nei modi anzidetti. Si ritiene in giurisprudenza che tale dolo specifico sia incompatibile con la configurazione eventuale.

Si è precisato, altresì, che il delitto di corruzione di minorenne commesso mediante esibizione di materiale pornografico è caratterizzato, stante il fine di indurre il minore infraquattordicenne a compiere o subire atti sessuali, dal dolo specifico, la cui sussistenza può essere desunta anche dalle circostanze di tempo e luogo della condotta, laddove indicative delle specifiche finalità dell’atto (Cass. 2-8-2022, n. 30435).

Consumazione e tentativo

Il delitto si consuma col compimento degli atti sessuali alla presenza del minore. Il tentativo appare senz’altro configurabile. Si configura il reato anche nel caso di una presenza temporanea del minore in occasione dello svolgimento di un rapporto sessuale tra adulti.

Pena e procedibilità

La pena è la reclusione da 1 a 5 anni per le due configurazioni di base, aumentata fino ad un terzo, per l’ipotesi aggravante di cui al comma 3, e fino alla metà per quella di cui al comma 4.

L’arresto in flagranza è facoltativo mentre il fermo non è consentito.

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

Leggi anche Prostituzione minorile: art. 600-bis c.p.

deposito telematico sentenza cassazione

Primo deposito telematico sentenza penale Cassazione Il ministero annuncia che il 16 luglio è stato effettuato il primo "storico" deposito telematico di una sentenza penale di Cassazione

Cassazione, primo deposito telematico sentenza penale

Nella giornata del 16 luglio 2024, è stato effettuato il primo deposito telematico di una sentenza penale di Cassazione, grazie ad una applicazione tecnologica innovativa realizzata dalla direzione generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del ministero della Giustizia. Ne dà notizia la stessa via Arenula, tramite il proprio giornale Gnewsonline.it

“Il processo telematico compie oggi un ulteriore, significativo, passo in avanti, con il primo storico deposito di una sentenza penale in Corte di Cassazione, grazie all’applicazione tecnologica realizzata dalla Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia” afferma infatti il dicastero.

“La digitalizzazione della giustizia è uno degli obiettivi primari a cui sta lavorando il Ministero guidato da Carlo Nordio. Il traguardo raggiunto oggi rappresenta un concreto passo in avanti verso la realizzazione del programma di innovazione tecnologica, nel più ampio progetto di efficientamento della giustizia, che è fra gli obiettivi fissati dal Pnrr”. conclude il ministero.

costrizione o induzione al matrimonio

Matrimonio forzato: il reato ex art. 558-bis c.p. Il reato di costrizione o induzione al matrimonio di cui all'art. 558-bis c.p., introdotto dalla legge 69/2019 (Codice Rosso) è punito con la reclusione da uno a cinque anni, salvo aggravanti

Reato di costrizione o induzione al matrimonio

La figura di reato ex art. 558-bis c.p., introdotta dalla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso») ha natura di reato comune, potendo essere posto in essere da chiunque. Trattasi di norma che mira a tutelare le vittime dei cosiddetti «matrimoni forzati».

Soggetto attivo e interesse tutelato

Si tratta di una piaga che affligge in modo particolare alcune regioni del mondo «in via di sviluppo», specialmente Africa e Asia, ma è riscontrabile sempre più spesso anche nelle odierne società multiculturali e multietniche, sia in Europa, sia oltreoceano. Qui le vittime sono principalmente, anche se non esclusivamente, giovani donne provenienti da comunità e famiglie immigrate, spesso di seconda generazione, di varia origine. Con l’espressione «matrimonio forzato» (dall’inglese forced marriage) si definisce un matrimonio rispetto al quale il consenso manifestato da almeno una delle due parti non era in realtà libero e pieno ed è stato estorto tramite violenze, minacce o altre forme di coercizione.

Nella normativa sovranazionale, l’obbligo di sanzionare penalmente i matrimoni forzati è sancito dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne e della violenza domestica, il cui art. 37 impone agli Stati firmatari di assicurare la repressione penale delle condotte consistenti nel «costringere un adulto o un minore a contrarre un matrimonio» e nell’«attirare un adulto o un minore nel territorio di uno Stato estero, diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarre un matrimonio». In Italia, diversamente da molti altri Paesi europei, non era ancora stata introdotta alcuna disposizione ad hoc per queste condotte, la cui repressione penale poteva essere in qualche modo assicurata, de iure condito, attraverso il ricorso ad alcune fattispecie (in particolare quelle degli artt. 572, 605, 610, 609bis, 609quater c.p.), i cui estremi possono risultare integrati nell’ambito di una vicenda di matrimonio forzato.

Quanto all’interesse tutelato, nonostante la collocazione sistematica della fattispecie tra i delitti contro il matrimonio, esso non è identificabile con la sola tutela dell’istituzione matrimoniale, ma è costituito, soprattutto, dalla salvaguardia della libertà individuale in relazione alle scelte di vita che coinvolgono la sfera affettiva.

Le condotte rilevanti

La disposizione si articola in due figure criminose distinte (disciplinate nei primi due commi della norma) ed egualmente sanzionate.

Nello specifico, ai sensi del comma 1 è punito chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile.

La costrizione al matrimonio

Trattasi della cd. costrizione al matrimonio, figura criminosa che ricalca la struttura oggettiva del delitto di violenza privata, prevedendo unicamente la violenza e la minaccia come modalità di coercizione; la sola differenza è che il «fare», costituente l’evento del reato di cui all’art. 610 c.p., nel caso di tale disposizione (qualificabile come «speciale») è individuato nella contrazione di un matrimonio o di un’unione civile. Orbene, per alcuni, un limite della previsione andrebbe ravvisato proprio nel puntualizzare, quale evento lesivo, i soli «matrimonio o unione civile», senza che sia chiaro se la fattispecie abbracci soltanto vincoli con effetti civili, o anche riti considerati come matrimonio dagli agenti. L’espressa menzione di unione civile e matrimonio indurrebbero a ritenere, infatti, che vadano incluse nel novero delle ipotesi punibili unicamente le unioni dotate di effetti civili per l’ordinamento italiano. Una tale interpretazione, peraltro, rischierebbe di ridurre in modo considerevole la portata applicativo-precettiva della norma e la sua efficacia, posto che un gran numero di matrimoni contratti «forzatamente» – specialmente quelli celebrati all’estero – non ha effetti civili. Per evitare tale problema, parte della dottrina auspica una puntualizzazione normativa che conferisca un’accezione più ampia al termine «matrimonio», ricomprendendovi anche unioni valide ai sensi di ordinamenti stranieri, convivenze more uxorio e riti considerati come matrimonio nella comunità di riferimento, come del resto era previsto in uno dei disegni di legge, successivamente accantonati, in cui veniva impiegata la formula «vincolo di natura personale da cui derivano uno o più obblighi tipici del matrimonio o dell’unione civile» (soluzione, peraltro, già adottata nel 2014 in Inghilterra).

A norma del comma 2, viene, altresì, sanzionato penalmente chiunque, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile.

L’induzione

Nella nozione di induzione rientrano quella per persuasione e quella mediante frode: la prima configurabile quando l’agente, abusando della qualità o dei poteri, fa leva su di essi per suggestionare, persuadere, convincere la propria vittima, persuasa allo scopo di evitare un male peggiore: in tale ipotesi, la volontà del privato cede il passo a causa della preminenza di colui che induce il quale, sia pure senza avanzare aperte ed esplicite pretese, ingenera nel soggetto privato la fondata persuasione di dover sottostare alle sue decisioni per evitare il rischio di subire un pregiudizio maggiore; la seconda si configura quando, in conseguenza di un inganno, il privato aderisce al modus operandi proposto da colui che induce, temendo le conseguenze derivanti dall’assunzione di una condotta non conforme alle esigenze artificiosamente palesate dal reo.

Orbene, nella lettera della previsione, le modalità coercitive son state tipizzate in modo tale da poter abbracciare tutte quelle ipotesi in cui il consenso della persona venga ottenuto attraverso violenze psicologiche più sottili e, in generale, abusando dell’autorità genitoriale o familiare. Ipotesi molto frequenti, se non addirittura «tipiche» del fenomeno in esame, che rendono difficile l’applicazione del reato di violenza privata e dunque parziale la tutela che questa norma sarebbe in grado di fornire.

Inoltre, l’impiego del termine «induzione» per descrivere la condotta dell’agente richiama, sul piano definitorio, una coercizione «anomala» e più lata, perseguita con mezzi meno diretti rispetto alle classiche violenze fisiche e minacce, ma che comunque hanno lo scopo ed il risultato di condizionare e viziare il consenso di una persona a contrarre un’unione in realtà non voluta. Il legislatore dunque, anziché prevedere in un’unica fattispecie tutte le possibili modalità di condotta con le quali si può imporre il matrimonio, ha preferito distinguere due forme, in base all’entità e alla tipologia della coazione esercitata, attribuendo però ad entrambe il medesimo trattamento sanzionatorio, a conferma del fatto che si tratta pur sempre, in entrambi i casi, di un consenso estorto con violenza, intesa nel senso estensivo anzidetto.

Circostanze aggravanti

I commi 3 e 4 della previsione in esame riconoscono la sussistenza di un surplus di disvalore penale, prevedendo una circostanza aggravante per il caso in cui uno i fatti indicati nei precedenti commi siano commessi in danno di minori (con risposa sanzionatoria ancor più intensa, e natura dell’aggravante «ad effetto speciale» ove trattasi di infraquattordicenni).

Nei commenti alla riforma, si è osservato, peraltro, che, ferma restando l’ovvia opportunità di un incremento sanzionatorio, in presenza di minore età della vittima (tra l’altro, in linea con i principi del nostro ordinamento), probabilmente sarebbe stato opportuno che il legislatore configurasse un’ipotesi delittuosa autonoma in cui, al di sotto di determinate soglie d’età, il reato fosse integrato a prescindere da condotte coercitive, anche in considerazione del fatto che i matrimoni precoci, contratti con persona minorenne, sono sempre considerati come «forzati» in tutti i numerosi strumenti normativi delle organizzazioni internazionali, salvo naturalmente le specifiche eccezioni disciplinate dalle leggi statali (ad esempio, in Italia, nei casi di «emancipazione»). L’adozione di tale opzione normativa – sul modello di quella scelta con il delitto di atti sessuali con minorenne, ex art. 609quater c.p. – si ritiene, potrebbe fornire una tutela ancora più ampia a coloro che, a causa della loro minore età, non sono in grado di esprimere un consenso pieno e libero rispetto ad un fatto della vita importante come un’unione coniugale (per tal via evitando il rischio, altresì, di veder neutralizzata la risposta sanzionatoria inasprita attraverso il gioco «perdente» del bilanciamento circostanziale con eventuali, concorrenti, circostanze attenuanti).

Limiti di applicabilità

La fattispecie si chiude precisando che le relative disposizioni trovano applicazione anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. 

Trattasi di deroga al principio di territorialità, costruita sulla falsariga di quella, di analogo tenore, introdotta in occasione della creazione di un’altra fattispecie di reato dalle spiccate connotazioni internazionali: il delitto di «Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili», previsto e punito dall’art. 583bis c.p. Si è osservato come tale norma estensiva sia da ritenersi assolutamente condivisibile, allo scopo di reprimere efficacemente un fenomeno caratterizzato da una grande transnazionalità. L’evento tipizzato dalle figure criminose previste dalla norma, infatti, si realizza molto spesso all’estero, ai danni e ad opera di soggetti che risiedono stabilmente (e talvolta hanno avuto i loro natali) nel territorio dello Stato. Peraltro, la previsione di una deroga dal tenore anzidetto è espressamente richiesta anche dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne e della violenza domestica (in particolare all’art. 44, dedicato alla giurisdizione, paragrafo 2).

Elemento soggettivo e consumazione

Sotto il profilo soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, richiedendosi la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte costrittivo-induttive anzidette, a prescindere dalle finalità concretamente perseguite dal reo. Il reato si consuma con la contrazione del matrimonio o dell’unione civile.

Pena e procedibilità

La pena è la reclusione da uno a cinque anni, aumentata fino ad un terzo se i fatti sono commessi in danno di un minore di anni diciotto, mentre è la reclusione da due a sette anni se i fatti sono commessi in danno di un minore di anni quattordici.

L’arresto in flagranza è facoltativo ed il fermo consentito solo nella seconda ipotesi aggravata.

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

abrogazione abuso ufficio cnf

Abrogazione abuso d’ufficio: plauso del CNF Il Consiglio Nazionale Forense plaude all'abrogazione dell'abuso d'ufficio attuata dalla riforma penale Nordio. Greco: "Così maggiore certezza del diritto"

CNF: bene abrogazione abuso d’ufficio

“Bene l’abrogazione radicale dell’abuso d’ufficio, che risponde a una necessità di maggiore certezza del diritto, evitando che amministratori pubblici e funzionari operino sotto la costante minaccia di incriminazioni talvolta strumentali”. Così il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, in merito al ddl Nordio sulla giustizia approvato ieri in via definitiva dalla Camera dei deputati.

Leggi anche: Riforma penale Nordio è legge e Abuso d’ufficio addio

Intercettazioni

“La tutela dei terzi non indagati e intercettati – prosegue il presidente del Cnf soffermandosi sulla stretta sulle intercettazioni contenute nella riforma Nordio – è un passo avanti fondamentale per la salvaguardia dei diritti alla riservatezza dei cittadini e risponde ai dettami costituzionali. È essenziale che le intercettazioni siano utilizzate in modo equilibrato e con modalità tali da non ledere i diritti delle persone non direttamente coinvolte nelle indagini”.

Divieto pm

Riguardo al divieto per il pm di appellare le sentenze di proscioglimento, il presidente degli avvocati commenta: “Il principio, già noto all’ordinamento penale con la legge Pecorella del 2006, introduce un importante equilibrio tra accusa e difesa, rafforzando il principio del giusto processo, in linea con la necessità di riduzione dei tempi processuali”.

Interrogatorio dell’indagato

Quanto alla modifica normativa che prevede l’obbligo di procedere all’interrogatorio dell’indagato prima dell’applicazione di una misura cautelare, il presidente del Cnf esprime soddisfazione “a fronte di una norma di primaria garanzia laddove consente alla persona sottoposta alle indagini un contraddittorio anticipato che può in astratto prevenire la stessa applicazione della misura”.

Decisione organo collegiale

“La norma che prevede di affidare ogni decisione relativa all’applicazione di misure cautelari a un organo collegiale non può che trovare apprezzamento per la maggiore ponderazione che garantisce, rispetto a una decisione presa da un soggetto singolo – afferma ancora Greco, concludendo: “Ovviamente questa scelta politica dovrà essere accompagnata da un importante potenziamento delle risorse umane”.

giurista risponde

Il momento della consumazione nell’ipotesi della “truffa contrattuale” Quando si consuma il reato di truffa nell’ipotesi di c.d. truffa contrattale?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Poiché il reato di truffa è istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo, nell’ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l’obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato. – Cass., sez. I, 22 marzo 2024, n. 12142.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare il momento di consumazione del reato di truffa c.d. contrattuale, in cui gli artifici e i raggiri intervengono nella fase di formazione della volontà negoziale, inducendo la controparte alla prestazione del consenso.

Sul punto, infatti, sussistono due orientamenti.

Secondo una prima tesi, sposata dal giudice dell’esecuzione, il momento di consumazione della truffa contrattuale coinciderebbe con quello di realizzazione degli artifici e raggiri, consistiti, nel caso di specie, nella consegna dell’assegno postdatato.

Ai sensi di un secondo orientamento, invece, il perfezionamento del reato in esame si avrebbe nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato

La sentenza in commento ribadisce la validità di quest’ultima tesi, confermando l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.

In primo luogo viene rimarcata la necessità di procedere ad un approccio casistico essendo indispensabile muovere dalla peculiarità del singolo accordo, dalla valorizzazione della specifica volontà contrattuale e dalle peculiari modalità delle condotte e dei loro tempi, al fine di individuare quale sia stato, in concreto, l’effettivo pregiudizio correlato al vantaggio e quale il momento del loro prodursi.

Ne discende che, qualora l’oggetto materiale del reato sia costituito da titoli di credito, il momento della sua consumazione è quello dell’acquisizione, da parte dell’autore del reato, della relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, poiché solo per mezzo di queste si concreta il vantaggio patrimoniale dell’agente e nel contempo diviene definitiva la potenziale lesione del patrimonio della parte offesa.

Nel caso di specie, la corretta individuazione del momento di consumazione del reato di truffa si poneva come necessaria ai fini della verificazione dell’effetto estintivo, ai sensi della disciplina del rito speciale di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 445, comma 2, c.p.p., del reato di bancarotta fraudolenta, giudicato con sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari divenuta definitiva nell’aprile del 2011.

Qualora si fosse fatto riferimento al momento degli artifici e raggiri, infatti, il reato di truffa avrebbe potuto dirsi consumato prima del passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento, non integrando quindi la causa ostativo all’effetto estintivo di cui all’art. 445, comma 2, c.p.p., ossia la commissione di un nuovo delitto entro il termine di 5 anni dal giudicato.

Applicando i principi sopra esposti, invece, deve individuarsi il momento di perfezionamento della fattispecie, consistente nel definitivo depauperamento della persona offesa, in epoca di poco successiva al giudicato, nelle date in cui l’assegno bancario privo di copertura, consegnato al raggirato nel mese di aprile 2011 e postdatato a metà giugno 2011, è stato protestato, cioè a fine giugno 2011.

*Contributo in tema di “Reato di truffa”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

reato abuso ufficio

Abuso d’ufficio: addio definitivo Nel testo della riforma penale Nordio, approvata definitivamente dalla Camera il 10 luglio 2024, il reato di abuso d’ufficio scompare dal codice penale

Riforma penale Nordio: ok definitivo

Il disegno di legge Nordio sulla giustizia prevede, tra le varie novità, anche l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Il testo, approvato dal Senato, è stato sottoposto alla Commissione Giustizia della Camera, che ne ha concluso l’esame. Stante il rigetto di tutti gli emendamenti proposti il testo di legge è andato in Aula il 24 giugno 2024 nella stessa formulazione approvata dal Senato. Il 4 luglio, Montecitorio ha votato in via definitiva il primo articolo del ddl che abroga uno dei più classici reati contro la PA, l’abuso d’ufficio e il 10 luglio ha dato il via libera definitivo all’intero disegno di legge a firma del guardasigilli, che reca modifiche al codice penale, di procedura penale e all’ordinamento giudiziario, nonchè al codice dell’ordinamento militare.

Punto cardine del testo è senz’altro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio a cui si aggiungono le altre misure.

Leggi anche Riforma penale Nordio è legge

Abuso d’ufficio: com’era

L’attuale versione letterale dell’articolo 323 del codice penale, che punisce il reato di abuso d’ufficio, prevede che, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un servizio pubblico che nello svolgimento delle sue funzioni o del suo servizio, violando specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dai quali non  residuano margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti dalla legge, procuri intenzionalmente a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale ingiusto ovvero arrechi ad altri un danno ingiusto è soggetto alla pena della reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata qualora il vantaggio o il danno presentino il carattere di rilevante gravità.

Reato plurioffensivo

Il reato di abuso d’ufficio è un reato di tipo plurioffensivo perché il bene giuridico tutelato dalla norma è rappresentato sia dal buon andamento della pubblica amministrazione che dal patrimonio del terzo che viene danneggiato a causa del comportamento del funzionario pubblico. Trattasi di un reato proprio perché è previsto solo se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato al pubblico servizio nello svolgimento della sua attività. Oggetto del reato sono i provvedimenti amministrativi e qualunque specie di atto o di attività posti in essere dal funzionario. L’abuso d’ufficio è un reato di evento e il disvalore si configura nei momenti in cui si produce un ingiusto vantaggio patrimoniale a favore del soggetto agente o un danno ingiusto nei confronti di terzi. Il vantaggio ingiusto è di natura patrimoniale, il danno che viene commesso nei confronti del terzo non viene specificato, per cui può essere rappresentato da una ingiusta aggressione sia alla sfera personale che  patrimoniale della vittima.

Per quanto riguarda l’abusività della condotta il legislatore ha previsto che la stessa si configuri nei momenti in cui il soggetto agente violi norme di legge o di regolamento o l’obbligo di astenersi da situazioni caratterizzate da un conflitto di interessi. L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico.

Ragioni dell’abolizione dell’abuso d’ufficio

La riforma penale Nordio, nella versione definitiva (vedi fascicolo dell’iter del 16.06.2024) prevede l’abolizione del reato di abuso d’ufficio attraverso l’abrogazione dell’art. 323 c.p. che lo contiene.

Si ritiene che il reato di abuso d’ufficio abbia un’applicazione minimale. Il numero irrisorio delle condanne contrasta con il numero elevato di iscrizioni nel registro degli indagati. Si tratta di uno squilibrio costante nonostante le varie modifiche legislative, anche recenti, finalizzate a dare maggiore determinatezza alla disposizione. A questo deve aggiungersi l’elevato numero di interventi normativi finalizzati a prevenire comportamenti illeciti all’interno del settore pubblico.

Questo complesso sistema di rimedi preventivi e repressivi di natura penale, ma anche disciplinare, contabile, ed erariale, assicurano una protezione completa degli interessi pubblici. L’abolizione del reato consente il recupero di risorse, evitando che il sistema giudiziario si trovi impegnato inutilmente nel perseguire un reato con un numero di condanne irrisorie e che sia il soggetto coinvolto che la pubblica amministrazione subiscano inevitabili ripercussioni derivanti dalla persecuzione penale.

Abuso d’ufficio: pareri contrari all’abolizione

Non tutti ovviamente sono d’accordo nel procedere all’abolizione del reato di abuso d’ufficio per vari motivi. C’è chi ammette che il numero di condanne per il reato di abuso d’ufficio sia in effetti assai ridotto. Questo fenomeno si verifica anche per altri reati, questo però non comporta l’abolizione di tutte le fattispecie criminose che si concludono con un numero esiguo di condanne. Per altri invece, in relazione al reato di abuso d’ufficio, sarebbe stato più opportuno intervenire in modo più misurato, conservando il reato e apportando i correttivi necessari per conciliare la buona fede dei funzionari e dei pubblici ufficiali e il rigore in presenza di fenomeni di corruzione.

reato atti sessuali minorenne

Atti sessuali con minorenne L'art. 609quater c.p. punisce con la reclusione da sei a dodici anni chiunque compie atti sessuali con minori di anni 14 o di anni 16 quando il colpevole è un familiare o tutore

Nozione e scopo dell’art. 609quater c.p.

L’art. 609quater c.p. sanziona penalmente, con la pena prevista dall’art. 609bis, chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici (comma 1, n. 1) ovvero non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza (comma 1, n. 2).

In tale ultima ipotesi, rileva il titolo dell’affidamento del minore, che determina l’instaurazione di un rapporto fiduciario che pone l’agente in una condizione di preminenza e di autorevolezza idonea a indurre il minore a prestare un consenso agli atti sessuali, e non il luogo in cui vengono consumati gli atti sessuali, che può essere diverso da quello in cui sussistono le ragioni di vigilanza e custodia dell’affidamento.

Il comma 2

Il comma 2 di tale previsione sanziona penalmente, ma in misura attenuata (e sempre fuori dai casi in cui sia configurabile una violenza sessuale ex art. 609bis c.p.) i medesimi soggetti elencati nel comma  1, n. 2), i quali, con l’abuso dei poteri connessi alla loro posizione, compiano atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici.

Oggetto giuridico

Oggetto giuridico della tutela penale apprestata dalla norma è il corretto sviluppo della personalità sessuale del minore; in particolare, essa stabilisce l’assoluta intangibilità sessuale per il minore di quattordici anni, e quella relativa (in particolari situazioni) per il minore di anni sedici nei confronti del soggetto attivo in relazione di parentela, cura o vigilanza con il minore stesso.

Il legislatore muove, dunque, da una presunzione di incapacità di una consapevole prestazione del consenso al compimento di atti sessuali, delle persone che si trovano nelle condizioni indicate dalla norma in esame. Si parla, perciò, in tali casi di violenza sessuale presunta secondo una terminologia già in precedenza adoperata per le corrispondenti ipotesi previste e punite dall’art. 519 c.p. nn. 1) e 2).

Il delitto non è necessariamente caratterizzato dal contatto fisico fra l’agente e la vittima, risultando configurabile anche nel caso in cui l’uno trovi soddisfacimento sessuale dal fatto di assistere all’esecuzione di atti sessuali da parte dell’altra (Cass. 21-6-2023, n. 26809).

Atti sessuali con minorenne e legge n. 238/2021: l’inedito comma 3

Sulla portata precettiva della disposizione in esame ha inciso, da ultimo, la L. 23-12-2021, n. 238 (nota come Legge europea 2019-2020), correttivi tradottisi nell’introduzione di un inedito comma 3 e nella riscrittura (in senso estensivo) dell’originario comma 3, già introdotto dal cd. «Codice rosso» del 2019.

Partendo, dunque, dal primo dei segnalati correttivi, fuori dei casi di configurabilità delle ipotesi di reato appena descritte, viene sanzionato penalmente chiunque compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni quattordici, abusando della fiducia riscossa presso il minore o dell’autorità o dell’influenza esercitata sullo stesso in ragione della propria qualità o dell’ufficio ricoperto o delle relazioni familiari, domestiche, lavorative, di coabitazione o di ospitalità.

La modifica deve ritenersi volta ad attuare quanto previsto dall’art. 3 della Direttiva 2011/93/UE, che al par. 5, lett. i), prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché siano punite le condotte intenzionali di chi compie atti sessuali con un minore, e a tal fine abusa di una posizione riconosciuta di fiducia, autorità o influenza sul minore.

Il comma 4, dopo la legge europea

Come anticipato, il secondo dei correttivi dovuti alla cd. legge europea si è tradotto nella riscrittura dell’originario comma 3 della disposizione in commento, per effetto della quale si prevede un incremento sanzionatorio:

1) se il compimento degli atti sessuali con il minore che non ha compiuto gli anni quattordici avviene in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessi;

2) se il reato è commesso da più persone riunite;

3) se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività;

4) se dal fatto, a causa della reiterazione delle condotte, deriva al minore un pregiudizio grave;

5) se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

L’integrale sostituzione del comma 3 della previsione in commento si traduce, ad un tempo, nella conferma della preesistente aggravante ad efficacia comune, consistente nel mercimonio di atti sessuali con minori infraquattordicenni in cambio anche della mera promessa di denaro o utilità, già introdotta dalla L. 69/2019, cd. Codice rosso, cui si aggiunge una integrazione di figure aggravanti che rende, in tal parte, la norma sovrapponibile al comma 8 dell’art. 602ter, alla cui lettera si rinvia.

La causa di non punibilità di cui al comma 5

Il comma 5 prevede una causa di non punibilità a beneficio del minorenne che al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 609bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a quattro anni.

La scelta di dar rilievo al consenso del minore ultratredicenne, pur incapace di agire (cfr. art. 2 c.c.), si inserisce nella più ampia tendenza al riconoscimento, nel mondo giuridico, delle capacità di autodeterminazione (sia pure a precise condizioni) dei minori. Per la migliore dottrina si tratta di una causa di non punibilità di carattere soggettivo.

Figure circostanziali (commi 6 e 7)

I commi 6 e 7 dell’art. 609quater prevedono una circostanza attenuante ed una aggravante: la prima ricorre nei casi di minore gravità, consentendo la diminuzione della pena in misura non eccedente i due terzi; la seconda ricorre quando la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci.

Si afferma che, in tema di atti sessuali con minorenne, per l’applicazione dell’attenuante speciale prevista dall’art. 609quater, comma 6, c.p. il giudice deve valutare l’intensità dell’offesa all’integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della personalità sessuale, considerando tutte le caratteristiche oggettive e soggettive del fatto (Cass. 27-1-2021, n. 3241).

Più di recente, si è precisato che per il riconoscimento della suddetta attenuante è necessaria una valutazione globale del fatto in cui assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima e le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre, ai fini del suo diniego, è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Cass. 1-3-2023, n. 8735).

Elemento soggettivo

La fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, che presuppone la volontà dell’atto sessuale con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto.

Consumazione e tentativo

Il delitto si consuma con il compimento dell’atto sessuale. In particolare, il reato ha natura istantanea, e non già abituale o permanente, in quanto si perfeziona con la realizzazione del fatto tipico, ossia con il compimento dell’atto sessuale che ne esaurisce l’offesa (Cass. 5-7-2022, n. 25619). È configurabile il tentativo del reato di atti sessuali con minorenne quando, pur in mancanza di un contatto fisico tra i soggetti coinvolti, la condotta tenuta dall’imputato presenta i requisiti della idoneità e della univocità dell’invito a compiere atti sessuali, in quanto la stessa è specificamente diretta a raggiungere l’appagamento degli istinti sessuali dell’agente attraverso la violazione della libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale. Possono essere in astratto indici rivelatori dell’idoneità dell’azione la ripetitività degli episodi ed il modo pressante della richiesta. È, però, necessario, al fine di riscontrare anche l’estremo dell’univocità, inserire il comportamento nelle concrete modalità di spazio e di tempo, per verificarne la direzione all’effettiva perpetrazione dell’illecito e la coincidenza della fattispecie concreta con quella legale.

Pena ed istituti processuali

La pena prevista per il reato in esame è la stessa del reato di cui all’art. 609bis (da sei a dodici anni di reclusione) ma per il comma 2 è la reclusione da 3 a 6 anni (aumentata fino ad un terzo per la neointrodotta ipotesi aggravata).

Per il comma 3, la pena è la reclusione fino a 4 anni. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi. Si applica la pena di cui all’art. 609ter, comma 2, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci. L’arresto è obbligatorio (commi 1 e 2) ed il fermo consentito (commi 1 e 7).

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale collegiale.

benefici vittime terrorismo

Vittime criminalità: benefici anche per i parenti dei mafiosi Per la Consulta è incostituzionale negare i benefici per i superstiti delle vittime della criminalità ai parenti e affini dei mafiosi

Benefici vittime terrorismo o criminalità

E’ incostituzionale negare in ogni caso i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata ai parenti ed affini dei mafiosi. “I benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata non possono essere negati in ogni caso ai parenti e agli affini entro il quarto grado di persone sottoposte a misure di prevenzione o indagate per alcune tipologie di reato” ha deciso infatti la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 122-2024, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «parente o affine entro il quarto grado».

La disciplina

La disciplina richiamata nega in ogni caso i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata a chi sia «coniuge, convivente, parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale».

La questione di legittimità costituzionale

La Corte d’appello di Napoli aveva ritenuto irragionevole e lesiva del diritto di difesa la condizione ostativa assoluta, con esclusivo riguardo alla posizione dei parenti e degli affini fino al quarto grado.

Nell’accogliere la questione così sollevata, la Corte costituzionale ha osservato che la condizione ostativa riferita a parenti e affini, nella sua rigidità, travalica la finalità di procedere a una verifica rigorosa dell’estraneità dei beneficiari al contesto criminale. Verifica già imposta, in termini stringenti, dalla disciplina vigente, che richiede la radicale estraneità agli ambienti criminali.

No alla presunzione assoluta

Nell’introdurre una presunzione assoluta, la disposizione censurata non si fonda su una massima d’esperienza attendibile: proprio l’ampiezza del vincolo di parentela e di affinità considerato dalla legge consente di «ipotizzare in modo agevole che, al rapporto di parentela o di affinità fino al quarto grado, possa non corrispondere alcuna contiguità al circuito criminale». Il meccanismo presuntivo si rivela, inoltre, irragionevole, in quanto «pregiudica proprio coloro che si siano dissociati dal contesto familiare e, per tale scelta di vita, abbiano sperimentato l’isolamento e perdite dolorose», e si risolve in «uno stigma per l’appartenenza a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita». La disposizione si pone in contrasto anche con il diritto di azione e di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., in quanto impedisce «di dimostrare al soggetto interessato, con tutte le garanzie del giusto processo, di meritare appieno i benefici che lo Stato accorda», in un giudizio «che coinvolge le vite dei singoli e gli stessi valori fondamentali della convivenza civile».

La Corte ha ribadito che è imprescindibile un’attenta valutazione di meritevolezza dei beneficiari. In tale contesto, «i vincoli di parentela o di affinità richiedono un vaglio ancor più incisivo sull’assenza di ogni contatto con ambienti delinquenziali, sulla scelta di recidere i legami con la famiglia di appartenenza, su quell’estraneità che presuppone, in termini più netti e radicali, una condotta di vita incompatibile con le logiche e le gerarchie di valori invalse nel mondo criminale».

Allegati

guida senza patente reato

Guida senza patente: nessun reato se c’è misura di prevenzione La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73 del Codice Antimafia nella parte in cui prevede come reato la guida senza patente per soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale

Guida senza patente

“La persona sottoposta a misura di prevenzione personale, al pari di ogni altra, che guidi senza patente perchè revocata o sospesa per precedenti violazioni del codice della strada, ne risponde come illecito amministrativo e non già come reato”. Così la Corte costituzionale (con la sentenza n.116/2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73 cod. antimafia nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida, si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni di disposizioni del codice della strada.

La questione di legittimità costituzionale

Il Tribunale di Nuoro ha sollevato la questione nell’ambito di un giudizio instaurato nei confronti di una persona destinataria, in via definitiva, dalla misura di prevenzione dell’avviso orale semplice (art. 3, comma 4, cod. antimafia) imputata del reato di cui all’art. 73 cod. antimafia, per aver guidato una autovettura senza patente, in quanto in precedenza, sospesa con provvedimento prefettizio per guida in stato di ebbrezza.

Violato l’art. 25 Cost.

La Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 25 Cost., affermando che la disposizione censurata, “incriminando colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, guidi senza patente in quanto revocata o sospesa, anche nei casi in cui la revoca o la sospensione del titolo abilitativo alla guida conseguano non già all’applicazione della misura di prevenzione, ma alla precedente violazione di disposizioni del codice della strada ( nel caso di specie, di quella sui limiti di tasso alcolemico del conducente), non è compatibile con il principio di offensività dopo che, in generale, il reato di guida senza patente, o con patente sospesa o revocata, è stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo”.

La Corte ha sottolineato che la previsione di una fattispecie penale che abbia, come presupposto, una qualità della persona che non si riflette su una maggiore pericolosità o dannosità condotta, dà luogo ad una inammissibile responsabilità penale cosiddetta d’autore.

Nella sentenza si è altresì evidenziato che alcuna giustificazione, anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, “può ascriversi a un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito dal legislatore per tutti gli altri soggetti, per i quali la medesima condotta rileva non già come reato, ma quale illecito amministrativo (salvo il caso della recidiva nel biennio)”.

La decisione

In conclusione, per effetto della riduzione dell’ambito applicativo della fattispecie penale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità, si riespande quella prevista dal codice della strada (art. 116, comma 15) per la guida senza patente, o con patente sospesa o revocata con conseguente applicazione dell’ordinaria sanzione amministrativa.

Allegati