Decreto coesione: i bonus under 35 e donne Decreto coesione: pubblicati dal Ministero del lavoro e dal MEF i decreti attuativi sugli sgravi contributivi per under 35 e donne

I decreti attuativi per giovani e donne

Pubblicati il 9 maggio 2025 sul sito del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali i due decreti attuativi, firmati in data 11 aprile 2025, relativi ai bonus per le assunzioni di giovani e donne, come previsti dalla legge di conversione del Decreto coesione agli articoli 22 e 23.

I decreti definiscono i criteri per l’esonero contributivo. L’esonero è per le assunzioni a tempo indeterminato di under 35 mai occupati stabilmente e la trasformazione di contratti a termine in contratti stabili. L’altro bonus riguarda invece l’assunzione di donne disoccupate da tempo e senza retribuzione regolare. L’obiettivo è incentivare il lavoro di qualità e a tempo indeterminato, con una particolare attenzione al Mezzogiorno.

Decreto coesione: under 35

Ai datori di lavoro privati che assumono personale non dirigenziale con contratto subordinato e indeterminato o convertono in indeterminato un contratto determinato spetta per 24 mesi un esonero contributivo.

Per le assunzioni dal 1° settembre 2024 al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 100% (esclusi premi e contributi INAIL) nel limite di 500 euro.

Per i datori che assumono in determinate regioni del Sud Italia l’esonero, dalla data di autorizzazione della della Commissione UE e fino al 31 dicembre 2025, spetta un esonero nel limite di 650 euro. L’esonero non può superare in ogni caso il 50% dei costi salariali di cui al punto 31, articolo 2 del Regolamento UE n. 651/2014.

L’agevolazione spetta ai datori che assumono giovani che non hanno ancora compiuto 35 anni, non sono mai stati occupati a tempo indeterminato o che hanno compiuto l’apprendistato, senza però essere assunti stabilmente. Sono esclusi i rapporti di lavoro domestico e di apprendistato.

DL coesione: bonus donne

I datori che dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 assumono con contratto a tempo indeterminato donne senza impiego da almeno 24 mesi, hanno diritto a un esonero contributivo per un periodo massimo di 24 mesi.

L’esonero spetta anche ai datori che, dalla data di autorizzazione della Commissione UE e fino al 31 dicembre 2025, assumono donne  di specifiche regioni del Sud Italia (Zona Economica Speciale unica per il Mezzogiorno).

I datori che assumono donne dal 1 settembre 2024 al 31 dicembre 2025, in settori specifici, individuati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro, hanno diritto a un esonero contributivo per un periodo massimo di 12 mesi. 

Sono invece esclusi dal beneficio il lavoro domestico e di apprendistato.

 

 Leggi anche l’articolo dedicato al Decreto coesione: cosa prevede la legge

Allegati

demansionamento

Demansionamento: cos’è e cosa comporta Demansionamento: significato, normativa, conseguenze e tutela del lavoratore

Cosa si intende per demansionamento

Il demansionamento rappresenta una delle problematiche più delicate nel rapporto di lavoro subordinato, poiché incide direttamente sulla posizione professionale, sulla dignità e sulla crescita del lavoratore. Esso si verifica quando un dipendente viene assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto o che ha successivamente acquisito. In taluni casi, può costituire un comportamento illegittimo del datore di lavoro e dar luogo a responsabilità risarcitoria.

In ambito giuslavoristico, il demansionamento è definito, nello specifico, come il mutamento unilaterale in pejus delle mansioni affidate al lavoratore, ovvero l’assegnazione a compiti di contenuto professionale inferiore, che comportano una regressione nella carriera, nella professionalità o nel prestigio acquisito.

Il concetto si differenzia dal legittimo esercizio dello jus variandi, ovvero il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del dipendente nell’ambito della categoria o dell’inquadramento previsto dal contratto collettivo o individuale.

L’art. 2103 del codice civile

La disciplina del demansionamento trova la sua fonte principale nell’articolo 2103 del codice civile, così come riformulato dal decreto legislativo n. 81/2015, attuativo del Jobs Act.

Il testo dell’art. 2103 c.c. prevede:

  • Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle corrispondenti alla categoria legale o al livello di inquadramento.
  • È possibile il cambio di mansioni, anche inferiori, solo nei seguenti casi:
    • In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore;
    • In caso di accordo individuale stipulato in sede protetta (sindacato, DTL, commissioni di certificazione);
    • In caso di inidoneità fisica o psichica, accertata dal medico competente, che impedisca lo svolgimento delle mansioni originarie.

Quando il demansionamento è illegittimo

Il demansionamento è illecito quando:

  • non è giustificato da alcuna delle ipotesi previste dalla legge;
  • viene attuato in modo arbitrario o punitivo;
  • determina un svuotamento delle mansioni o una loro sostanziale dequalificazione;
  • avviene senza alcun confronto o accordo con il lavoratore nelle sedi protette previste dalla normativa.

La giurisprudenza ha chiarito che non basta un mero cambiamento di attività: è necessario valutare il contenuto qualitativo e quantitativo delle mansioni, l’autonomia decisionale, il livello di responsabilità e l’impatto sulla professionalità acquisita. È ritenuto illegittimo anche il cosiddetto demansionamento per inerzia, che si verifica quando al dipendente non vengono più affidate mansioni significative o viene lasciato inattivo per periodi prolungati.

Risarcimento danno da demansionamento

L’illegittimo demansionamento può comportare un danno risarcibile, che può assumere diverse forme:

1. Danno patrimoniale, riconducibile alla perdita di:

  • opportunità professionali o economiche;
  • premi, indennità o benefit legati alle mansioni precedenti.

2. Danno non patrimoniale

  • per il danno alla dignità, all’immagine professionale e alla salute psicofisica del lavoratore;
  • per la lesione della personalità giuridica e della vita relazionale.

Il lavoratore ha diritto a chiedere:

  • Il risarcimento del danno subito;
  • Il ripristino delle mansioni originarie;
  • In alcuni casi, la risoluzione del rapporto con indennità sostitutiva (art. 2119 c.c. per giusta causa).

Per ottenere il risarcimento, il lavoratore deve fornire prova del danno subito, anche mediante presunzioni o prove documentali, come perizie mediche, relazioni psicologiche o testimonianze.

Come tutelarsi in caso di demansionamento

Chi ritiene di essere stato demansionato può:

  • rivolgersi a un legale esperto in diritto del lavoro;
  • Inviare una diffida al datore di lavoro per contestare formalmente l’assegnazione a mansioni inferiori;
  • promuovere un tentativo di conciliazione in sede sindacale o presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro;
  • come ultima ratio agire in giudizio per ottenere la tutela dei propri diritti.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 27867/2024: il diritto al risarcimento per danno professionale, biologico o esistenziale non sorge automaticamente con l’inadempimento del datore di lavoro. È indispensabile che il lavoratore, fin dall’inizio della causa, specifichi e dimostri l’esistenza di un danno concreto e oggettivamente verificabile al proprio modo di lavorare, che abbia modificato le sue abitudini e relazioni, portandolo a scelte di vita diverse per la sua realizzazione personale. Non basta quindi provare la sola possibilità che la condotta del datore di lavoro abbia causato un danno; il lavoratore ha l’onere di provare sia il demansionamento subito sia il danno non patrimoniale e il legame di causa tra questo e l’inadempimento del datore di lavoro, come stabilito dall’articolo 2697 del Codice Civile.

Cassazione n. 6257/2024: il danno da demansionamento non richiede una prova specifica predeterminata, potendo essere accertato attraverso ogni mezzo probatorio ammesso dalla legge. In particolare, elementi come il livello e il volume dell’attività lavorativa svolta, la natura delle competenze professionali coinvolte, la durata dell’assegnazione a compiti di produzione rispetto alle precedenti mansioni impiegatizie, il nuovo ruolo lavorativo conseguito dopo eventuali corsi di formazione, e le richieste avanzate ai superiori per un incarico più adeguato, possono costituire indizi significativi per presumere l’esistenza e l’entità del danno subito dal lavoratore a causa della dequalificazione professionale.

 

Leggi anche: Danno da demansionamento: l’aggiornamento tecnologico incide

dimissioni di fatto

Dimissioni di fatto: il nuovo modello di comunicazione L'Ispettorato Nazionale del Lavoro aggiorna il modello di comunicazione per le dimissioni di fatto alla luce delle recenti novità normative

Modello dimissioni di fatto

Dimissioni di fatto: l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha pubblicato un aggiornamento del modello di comunicazione previsto dall’art. 26, comma 7-bis, del d.lgs. n. 151/2015, così come modificato dalla legge n. 203/2024, introdotta all’art. 19. Il nuovo schema di comunicazione, redatto in forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, consente al datore di lavoro di avviare la procedura per le dimissioni di fatto (o per fatti concludenti) del lavoratore in caso di assenza ingiustificata protratta.

L’aggiornamento è stato comunicato con la nota INL n. 3984/2025, che recepisce le indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, e fa seguito alle precedenti note INL prot. n. 9740 del 30 dicembre 2024 e n. 579 del 22 gennaio 2025.

Le principali novità del modello 2025

Il nuovo modello, che i datori di lavoro devono trasmettere all’Ispettorato territoriale competente, introduce le seguenti modifiche operative:

  • Obbligo di notifica al lavoratore anche mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, al fine di garantire la conoscenza dell’avvio della procedura;

  • Ampliamento dei dati richiesti relativi sia al datore di lavoro che al lavoratore, incluso l’eventuale indirizzo PEC del dipendente;

  • Specificazione della tipologia contrattuale, distinguendo tra rapporto a tempo determinato o indeterminato;

  • Dichiarazione dei giorni di assenza ingiustificata, con riferimento all’art. 47 del d.P.R. n. 445/2000;

  • Aggiornamento dell’informativa privacy, con indicazione del trattamento dei dati personali da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Finalità del nuovo modello

L’obiettivo della nuova modulistica è quello di formalizzare, con maggiore certezza giuridica, i casi in cui il lavoratore abbandona il posto di lavoro senza fornire giustificazione, agevolando così la cessazione del rapporto lavorativo nei casi in cui non siano presenti dimissioni esplicite ma si configuri un comportamento concludente.

Straining

Straining: la guida Straining: cos’è, differenze con il mobbing, tutele legali e risarcimento del danno

Cos’è lo straining

Lo straining è una forma di disagio lavorativo che si verifica quando il dipendente è esposto a condotte ostili isolate, ma permanenti nei loro effetti, in grado di compromettere la sua serenità psicofisica e professionale. Pur non essendo regolato da una norma specifica, lo straining è riconosciuto e tutelato dalla giurisprudenza italiana, che lo assimila, sotto alcuni profili, al mobbing.

Il termine “straining” deriva dall’inglese to strain (tendere, mettere sotto pressione) e si riferisce a una situazione di stress occupazionale forzato determinata da un singolo evento ostile o da pochi episodi non reiterati, ma capaci di produrre conseguenze durature nel tempo.

Caratteristiche principali:

  • azioni unilaterali del datore di lavoro o dei colleghi;
  • assenza della reiterazione tipica del mobbing;
  • esposizione del lavoratore a una condizione lavorativa deteriorata in modo continuativo;
  • impotenza relazionale e isolamento.

Esempi comuni di straining:

  • trasferimento immotivato o punitivo;
  • esclusione da riunioni o comunicazioni aziendali;
  • dequalificazione improvvisa e ingiustificata;
  • modifica unilaterale delle mansioni in senso peggiorativo.

Differenze tra straining e mobbing

Caratteristica Mobbing Straining
Frequenza delle condotte Reiterate e sistematiche Isolate ma con effetti duraturi
Durata Prolungata nel tempo Può essere anche un singolo episodio
Obiettivo persecutorio Esplicito e intenzionale Anche non intenzionale
Gravità delle conseguenze Spesso maggiore Reale ma meno intensa

Cosa dice la Cassazione  

Cassazione n. 123/2025: Anche in assenza di “mobbing” vero e proprio (cioè senza un intento persecutorio unitario), il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile per danni alla salute del dipendente ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile. Questa responsabilità scatta quando il datore di lavoro, anche per negligenza, permette il persistere di un ambiente di lavoro stressante che danneggia la salute dei lavoratori. Inoltre, il datore è responsabile se adotta comportamenti che, pur non essendo di per sé illegittimi, possono causare disagio o stress e che, isolatamente o insieme ad altre inadempienze, peggiorano gli effetti dannosi per la salute e la personalità del lavoratore. La Cassazione (sentenze citate) sottolinea che un ambiente di lavoro stressogeno è considerato un fatto ingiusto che può portare a riesaminare anche condotte datoriali apparentemente lecite o isolate, poiché la tutela della salute del lavoratore è un diritto fondamentale garantito da una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2087 c.c.

Cassazione n. 15957/2024: Il mobbing lavorativo si configura quando si verificano ripetuti comportamenti dannosi all’interno del contesto lavorativo, accompagnati dall’intenzione di perseguitare la vittima, indipendentemente dalla legalità dei singoli atti. Lo straining, invece, si verifica quando un singolo comportamento stressogeno viene attuato consapevolmente nei confronti del dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie continuative, mirando a indurre una condizione di stress forzato e prolungato nell’ambiente di lavoro. In sostanza, il mobbing si basa sulla ripetizione di atti persecutori, mentre lo straining si concentra sull’impatto stressante di un singolo atto consapevole.

Cassazione 29101/2023: o “straining” è considerato una forma di mobbing “attenuata” perché non presenta la ripetitività tipica delle azioni vessatorie. Tuttavia, costituisce comunque un’imposizione di stress da parte del superiore attraverso atti ostili mirati a discriminare il lavoratore. L’aspetto fondamentale è che, indipendentemente dall’etichetta (“mobbing” o “straining”), ciò che rileva è che il singolo atto ostile sia di per sé illecito e causi una lesione all’integrità psicofisica e personale del lavoratore.

Cosa dice la legge  

Non esiste una disciplina legislativa specifica sullo straining. Tuttavia, il fenomeno trova tutela nei seguenti strumenti normativi:

  • Art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di garantire l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore;
  • Art. 2043 c.c.: risarcimento del danno ingiusto;
  • Art. 32 Cost.: tutela della salute come diritto fondamentale;
  • Testo Unico Sicurezza (d.lgs. 81/2008): obbligo di valutazione e prevenzione dei rischi psicosociali;
  • Codice Civile e normativa antidiscriminatoria, se lo straining è legato a genere, età, orientamento sessuale, disabilità o appartenenza sindacale.

La giurisprudenza considera quindi il comportamento illecito e lesivo, anche se isolato, rilevante per fondare una richiesta di tutela e risarcimento.

Quando lo straining può costituire reato

Sebbene lo straining, come il mobbing, non configuri un reato autonomo, alcune condotte possono assumere rilevanza penale:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se ne deriva un danno psico-fisico accertato;
  • atti persecutori (art. 612-bis c.p.), se si riscontra una condotta molesta o intimidatoria;
  • abuso d’ufficio, nei confronti di lavoratori della pubblica amministrazione.

Risarcimento del danno da straining

Il lavoratore vittima di straining ha diritto a un risarcimento integrale del danno subito, purché provi:

  • la condotta illecita posta in essere (anche isolata);
  • il nesso causale con il danno psicofisico o professionale;
  • l’entità del danno, anche tramite certificazione medica o relazioni psicologiche.

La giurisprudenza riconosce il danno da straining come:

  • danno biologico (patologie psichiche o fisiche);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (limitazione della sfera personale e sociale);
  • danno patrimoniale (perdita economica o dequalificazione).

Cassazione n. 33428/2022: l’ambiente di lavoro stressogeno costituisce un fatto ingiunto e illecito e come tale deve essere sempre preso in considerazione ai fini del risarcimento del danno del lavoratore, anche manca la reiterazione.

Tutele del lavoratore vittima di straining

Le azioni da intraprendere in caso di straining includono:

  1. raccolta accurata di documenti in grado di provare le condotte (email, provvedimenti, testimonianze);
  2. visita presso il medico competente aziendale o il medico di base;
  3. segnalazione all’Ispettorato del lavoro o al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS);
  4. assistenza legale da parte di un avvocato giuslavorista per agire in sede civile o penale;
  5. supporto da parte del sindacato o di associazioni specializzate nella tutela del benessere lavorativo.
infortunio inail

Comunicazione infortunio Inail: cosa cambia L'Inail rende noti gli aggiornamenti operativi dal 16 maggio 2025 relativi alle comunicazioni e denunce di infortunio

Comunicazione e denuncia di infortunio INAIL

Infortunio Inail: dal 16 maggio 2025 in vigore importanti aggiornamenti relativi agli applicativi “Comunicazione di infortunio” e “Denuncia/Comunicazione di infortunio”. Le modifiche, rende noto l’istituto con avviso sul proprio sito, coinvolgono in particolare le modalità di invio offline e tramite cooperazione applicativa.

Nuovo campo obbligatorio per attività in cantiere

La principale novità introdotta con l’aggiornamento consiste nell’aggiunta di un nuovo campo obbligatorio destinato a raccogliere l’informazione relativa allo svolgimento dell’attività lavorativa in cantiere. Il campo, denominato “Attività svolta in cantiere”, è stato previsto anche ai fini della corretta gestione della patente a crediti per i lavori eseguiti in cantieri temporanei o mobili, come previsto dal sistema normativo vigente in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Adeguamento dei sistemi: scadenza 15 maggio 2025

I soggetti che trasmettono le comunicazioni tramite modalità offline o in cooperazione applicativa sono tenuti ad aggiornare i propri sistemi informativi entro il 15 maggio 2025, al fine di garantire la corretta acquisizione del nuovo dato richiesto dagli applicativi aggiornati.

Infortunio Inail: documenti e percorsi

Le versioni aggiornate delle specifiche tecniche, complete di cronologia delle modifiche, sono accessibili ai seguenti percorsi del portale INAIL:

  • Home > Atti e documenti > Assicurazione > Prestazioni > Denuncia infortunio

  • Home > Atti e documenti > Prevenzione > Comunicazione di infortunio

Inoltre, le documentazioni tecniche relative ai servizi in cooperazione applicativa sono state trasmesse direttamente alle aziende che utilizzano tale modalità di comunicazione.

mobbing

Il mobbing Mobbing: cos’è, quando è reato, differenze con bossing e straining, tutele e risarcimento del danno

Cos’è il mobbing

Il mobbing è un fenomeno sempre più riconosciuto nei contesti giuridici e organizzativi, caratterizzato da comportamenti sistematicamente ostili nei confronti di un lavoratore. Nonostante l’assenza di una normativa specifica, la giurisprudenza italiana ha tracciato criteri ben precisi per la sua individuazione e per il riconoscimento delle tutele risarcitorie.

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese to mob, che significa assalire in gruppo. In ambito lavorativo, il mobbing consiste in una serie di azioni persecutorie, protratte nel tempo, finalizzate a emarginare o espellere un lavoratore dall’ambiente professionale.

Le condotte tipiche includono:

  • esclusione sistematica dalle attività lavorative;
  • critiche continue e immotivate;
  • offese personali o professionali;
  • dequalificazione mansionale;
  • isolamento fisico o relazionale;
  • assegnazione di compiti umilianti o inadeguati.

Il mobbizzato, ossia la vittima di mobbing, sviluppa spesso danni psicofisici che impattano sulla salute e sull’equilibrio familiare e sociale.

Requisiti mobbing secondo la giurisprudenza

La Cassazione ha identificato precisi elementi che devono coesistere per qualificare il mobbing:

  1. una pluralità di atti ostili;
  2. durata prolungata nel tempo;
  3. intento persecutorio;
  4. danno alla salute o alla dignità del lavoratore;
  5. nesso causale tra condotta e danno;
  6. prevaricazione sistematica da parte di colleghi, superiori o anche subordinati.

Di recente la Cassazione con la sentenza n. 3791/2024 ha chiarito che grava sul datore di lavoro l’obbligo di garantire al lavoratore un ambiente lavorativo sano e privo di stress.

Differenze tra mobbing, bossing e straining

  • Mobbing: insieme coordinato e ripetuto di comportamenti ostili.
  • Bossing: forma specifica di mobbing verticale, in cui il persecutore è un superiore gerarchico (es. dirigente, capo reparto).
  • Straining: singola condotta ostile di forte impatto, non necessariamente ripetuta, ma tale da alterare l’equilibrio psicologico del lavoratore (Cassazione n. 123/2025: Il datore di lavoro è ritenuto responsabile se permette che si sviluppi un ambiente di lavoro stressante e non interviene per prevenire o risolvere i conflitti tra i dipendenti.)

Il mobbing implica reiterazione; lo straining si fonda su un solo episodio stressogeno ma persistente nei suoi effetti.

Cosa dice la legge sul mobbing

Nel diritto italiano non esiste una normativa ad hoc sul mobbing, ma la tutela del lavoratore deriva da diverse disposizioni:

  • art. 2087 c.c.: obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore;
  • art. 2043 c.c.: responsabilità extracontrattuale per fatto illecito;
  • Costituzione italiana: artt. 2, 3, 32 e 41 (diritti inviolabili, uguaglianza, salute e dignità).

Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche per culpa in vigilando o culpa in eligendo se non ha impedito condotte vessatorie tra colleghi.

Quando il mobbing è reato

Le condotte persecutorie possono integrare uno o più reati del codice penale, tra cui:

  • lesioni personali (art. 582 c.p.), se provocano danni alla salute;
  • atti persecutori o stalking (art. 612-bis c.p.), se i comportamenti producono ansia o alterazioni della vita quotidiana;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.), in caso di reiterazione sistematica in un contesto di subordinazione;
  • abuso d’ufficio, se il mobbing è esercitato da pubblici ufficiali.

Risarcimento del danno

Il lavoratore vittima di mobbing può chiedere in sede civile il risarcimento del danno, dimostrando:

  • la condotta illecita del datore o colleghi;
  • il danno subito (biologico, morale, esistenziale);
  • il nesso causale tra i comportamenti e il danno.

Le voci risarcibili includono:

  • danno biologico (patologie certificate);
  • danno morale (sofferenza soggettiva);
  • danno esistenziale (alterazione del progetto di vita).

In alcuni casi, si può anche ottenere la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, per perdita di opportunità professionali o stipendi non percepiti.

Tutele e strumenti di difesa

Il lavoratore che ritiene di subire mobbing può:

  1. raccogliere prove documentali (email, ordini, testimoni);
  2. rivolgersi al medico del lavoro o al medico competente;
  3. denunciare i fatti all’Ispettorato del lavoro;
  4. farsi assistere da un sindacato o un avvocato giuslavorista;
  5. promuovere un’azione giudiziaria in sede civile e, se del caso, penale.

In ambito aziendale è consigliato attivare i canali interni (es. organismi di vigilanza, comitato etico, RLS), ove presenti.

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counseling

Il counseling Counseling: cos’è, la normativa di riferimento, gli obiettivi del percorso, il ruolo del counselor e le differenze con lo psicologo

Cos’è il counseling

Il counseling è un’attività professionale di relazione d’aiuto che si rivolge a persone in cerca di supporto per affrontare momenti di difficoltà, transizione o cambiamento. Pur non configurandosi come una prestazione sanitaria, è riconosciuto in ambito sociale, educativo e professionale, e si afferma sempre più come strumento di empowerment e crescita personale.

Esso si fonda sulla relazione empatica e sulla valorizzazione delle risorse personali. Grazie alla sua versatilità, trova applicazione in numerosi contesti – educativo, aziendale, sociale – offrendo un supporto efficace e non invasivo.

Counseling: definizione

Il termine counseling (o counselling, nella grafia anglosassone) deriva dal verbo inglese to counsel, ovvero consigliare, orientare, accompagnare. In ambito professionale, si tratta di un processo comunicativo strutturato, volto a promuovere consapevolezza, autonomia e sviluppo delle risorse personali, mediante l’ascolto attivo e la relazione empatica tra counselor e cliente.

Non si tratta di  una terapia psicologica né di una diagnosi clinica: il counseling si concentra sul “qui e ora” e sulle risorse della persona, con un orientamento pragmatico e non patologizzante.

La normativa di riferimento

Il counseling in Italia non è ancora regolamentato da una legge specifica di Stato. Tuttavia, la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi, tra cui rientra anche quella del counselor. Secondo tale normativa, i professionisti possono associarsi in associazioni di categoria, che garantiscono il rispetto di standard formativi, deontologici e di aggiornamento.

Le principali associazioni professionali italiane sono:

  • CNCP (Coordinamento Nazionale Counselor Professionisti);
  • AssoCounseling;
  • ANCoRe: Associazione Nazionale Counselor relazionali;
  • Federazione italiana Counseling;
  • FAIP Counseling;
  • SICo (Società Italiana di Counseling);
  • ASNOR per il counseling orientativo e scolastico.

Counseling orientativo: un focus specifico

Una declinazione molto diffusa del counseling è quella orientativa, utilizzata in contesti scolastici, accademici o lavorativi. In questo ambito il counselor:

  • supporta la persona nella scelta del percorso formativo o professionale;
  • aiuta a individuare competenze, attitudini e obiettivi realistici;
  • svolge attività di bilancio di competenze e progettazione del futuro professionale.

Questo tipo di counseling è particolarmente utile in caso di transizioni scolastiche, ricollocazione lavorativa o reinserimento sociale.

Obiettivi del counseling

Il counseling mira a:

  • migliorare il benessere personale e relazionale;
  • favorire l’autonomia decisionale del cliente;
  • sostenere la persona nella definizione e nel raggiungimento di obiettivi concreti;
  • rafforzare le capacità di gestione delle difficoltà quotidiane;
  • fornire strategie di coping per affrontare eventi stressanti o transitori.

Cosa fa il counselor

Il counselor è un professionista della relazione, formato per:

  • offrire supporto in situazioni di disagio non clinico (es. stress, difficoltà relazionali, lutti, separazioni);
  • facilitare la comunicazione interpersonale;
  • promuovere la consapevolezza di sé e l’autodeterminazione;
  • supportare la gestione delle emozioni e dei conflitti;
  • accompagnare i soggetti nei percorsi di orientamento scolastico, universitario o professionale (counseling orientativo).

Il counselor non svolge attività terapeutica, ma interviene su tematiche circoscritte e con un numero definito di incontri. Per scegliere un counselor qualificato è importante verificarne la formazione, l’iscrizione a un’associazione professionale e l’adozione di un codice etico.

Differenza tra counselor e psicologo

È fondamentale distinguere tra la figura del counselor e quella dello psicologo, per evitare sovrapposizioni o fraintendimenti:

Aspetto

Counselor

Psicologo

Titolo accademico richiesto

Nessuno specifico, ma percorso formativo triennale

Laurea magistrale in Psicologia + Esame di Stato

Iscrizione ad Albo

Non prevista (ma è richiesto il rispetto della legge 4/2013)

Obbligatoria presso l’Ordine degli Psicologi

Attività consentite

Relazione di aiuto non clinica, supporto personale

Diagnosi, cura, abilitazione e riabilitazione psicologica

Ambito di intervento

Disagio esistenziale, decisioni, relazioni, orientamento

Disturbi mentali, terapia individuale o di gruppo

Lo psicologo può svolgere attività di counseling, ma non è vero il contrario: il counselor non può esercitare attività psicoterapeutica né intervenire in ambito clinico.

 

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tredicesima

Tredicesima: cos’è e a chi spetta Tredicesima: cos'è, a chi spetta, come si calcola e come viene tassata, quando viene pagate e differenze con la quattordicesima

Cos’è la tredicesima

La tredicesima mensilità, detta anche “gratifica natalizia”, è una retribuzione aggiuntiva riconosciuta ai lavoratori dipendenti pubblici e privati, nonché ad alcuni pensionati, generalmente corrisposta nel mese di dicembre. La sua funzione è di supportare le spese legate al periodo natalizio, ma costituisce a tutti gli effetti un compenso spettante in base alla prestazione lavorativa svolta durante lanno.

A chi spetta la tredicesima

La tredicesima spetta:

  • ai lavoratori subordinati con contratto a tempo determinato o indeterminato, sia a tempo pieno che part-time;
  • ai dipendenti pubblici;
  • ai lavoratori domestici (colf, badanti, baby sitter);
  • ai pensionati hai titolari dell’assegno sociale per i quali è corrisposta direttamente dallINPS o da altri enti previdenziali;
  • ai lavoratori stagionali e agli apprendisti;
  • in generale, è riconosciuta a tutti i titolari di un rapporto di lavoro dipendente, fatta eccezione per i collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co) e i lavoratori autonomi, che non ne hanno diritto.

Come si calcola  

La tredicesima si calcola in base alle mensilità effettivamente lavorate durante lanno solare. La formula standard di calcolo prevede:

Retribuzione lorda mensile x numero di mesi lavorati/12

Ogni mese lavorato dà diritto a 1/12 della tredicesima. In presenza di mesi parziali, possono applicarsi criteri di proporzionalità. Nella retribuzione utile al calcolo rientrano in genere:

  • la paga base
  • le indennità contingenza,
  • eventuali scatti di anzianità;
  • elementi fissi e continuativi della retribuzione nazionali o provinciali.

Nel calcolo possono essere inclusi anche altri elementi che compongono la tredicesima, se erogati con continuità.

Quando viene pagata

Per i lavoratori del settore privato, il pagamento della tredicesima avviene entro il 24 dicembre, ma può essere anticipato a discrezione del datore di lavoro. Per i dipendenti pubblici e i pensionati, è lamministrazione o lente previdenziale a stabilire la data esatta, generalmente nei primi 20 giorni di dicembre.

Come viene tassata la tredicesima

La tredicesima è soggetta a contribuzione INPS e IRPEF, ma non beneficia di detrazioni. Questo comporta che, in molti casi, la somma netta erogata risulti inferiore rispetto alla normale retribuzione mensile. È quindi soggetta a tassazione ordinaria e non separata.

Differenze tra tredicesima e quattordicesima

La tredicesima è prevista per tutti i lavoratori dipendenti e pensionati, ed è obbligatoria per legge o per contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL).

Al contrario, la quattordicesima:

  • non è sempre prevista;
  • è riconosciuta solo in presenza di specifiche clausole contrattuali (es. CCNL commercio o turismo);
  • viene generalmente erogata nel mese di giugno o luglio;
  • ha lo scopo di sostenere le spese legate al periodo estivo o alle vacanze;
  • viene calcolata in base alla retribuzione media annuale.

In ambito pensionistico, la quattordicesima è riconosciuta solo ad alcune categorie di pensionati con redditi bassi, secondo criteri stabiliti annualmente dallINPS.

 

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banca ore

Banca Ore Banca ore: cos'è, come è regolata, come funziona, vantaggi per lavoratore e datore di lavoro, come viene pagata

Cos’è la banca ore

La banca ore è uno strumento di gestione flessibile dell’orario di lavoro, pensato per agevolare l’equilibrio tra vita privata e attività professionale e per ottimizzare l’organizzazione aziendale. Permette al lavoratore di accumulare ore di lavoro in eccedenza rispetto al normale orario settimanale, da utilizzare successivamente.

Nel contesto delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro, la banca ore è diventata una risorsa centrale e apprezzata in molte realtà aziendali, sia pubbliche che private.

La banca ore è un conto virtuale individuale in cui vengono registrate le ore lavorate in eccesso rispetto all’orario contrattuale. Tali ore possono essere accumulate e poi “spese” dal lavoratore sotto forma di:

  • permessi od ore di riposo compensativo;
  • monetizzazione (in casi previsti dai contratti collettivi);
  • ore disponibili per esigenze personali o familiari.

Normativa di riferimento

L’istituto della banca ore non è disciplinato direttamente dal Codice del lavoro (D.Lgs. n. 66/2003), ma trova fondamento nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e negli accordi aziendali o territoriali.

La “banca ore” si inserisce nel quadro normativo italiano sull’orario di lavoro, influenzato dalle direttive europee. In particolare:

  • Legge 24/6/1997, n. 196: definisce il contesto in cui si inserisce la gestione dell’orario di lavoro, aprendo la strada a forme di flessibilità come la banca ore;
  • Direttiva CEE n. 93/104: stabilisce i criteri generali sull’orario di lavoro, consentendo agli Stati membri e alla contrattazione collettiva di introdurre deroghe e adattamenti.

Le circolari dell’INPS hanno fornito indicazioni operative per l’implementazione della banca ore:

  • Circ. INPS n. 40 del 20/02/1996
  • Circ. INPS n. 39 del 17/2/2000
  • Circ. INPS n. 95 del 16/5/2000

Come funziona la banca ore

Le modalità di funzionamento della banca ore sono stabilite dal contratto collettivo applicato o da un regolamento aziendale, e possono variare da un’azienda all’altra. In generale:

  1. Accumulo delle ore: ogni volta che il dipendente presta attività oltre l’orario ordinario (es. 40 ore settimanali), queste vengono conteggiate e archiviate nella banca ore.
  2. Utilizzo delle ore: le ore accumulate possono essere utilizzate per:
  • recuperare tempo (es. uscita anticipata, giornata libera);
  • far fronte a esigenze personali o familiari;
  • in alternativa al pagamento degli straordinari, in base all’accordo vigente.
  1. Limiti temporali: molti contratti prevedono un periodo massimo entro cui le ore devono essere utilizzate, oltre il quale si perdono o vengono monetizzate.

Il ricorso alla banca ore è volontario e deve essere regolato da un accordo tra le parti.

Come viene pagata  

Le ore accantonate nella banca ore pertanto possono essere “retribuite” in due modalità:

  1. con riposo compensativo: il dipendente utilizza le ore come se fossero ferie o permessi, senza trattenuta in busta paga;
  2. con pagamento in busta paga: quando previsto dal contratto collettivo o dall’accordo aziendale, il dipendente può richiedere la monetizzazione, spesso con la stessa maggiorazione prevista per il lavoro straordinario (es. +25%, +50% a seconda del giorno e dell’orario).

In fase di cessazione del rapporto di lavoro, tutte le ore residue non godute vengono generalmente liquidate insieme al TFR e agli altri istituti contrattuali.

Vantaggi della banca ore

Per il lavoratore:

  • maggiore equilibrio tra vita e lavoro;
  • possibilità di gestire con autonomia il proprio tempo;
  • recupero di ore extra senza dover ricorrere necessariamente alle ferie.

Per il datore di lavoro:

  • maggiore flessibilità nell’organizzazione delle attività;
  • riduzione del costo degli straordinari;
  • incentivo al benessere organizzativo e alla produttività.

Banca ore e straordinari: le differenze

La principale differenza tra la banca ore e il lavoro straordinario sta nella gestione del tempo e della retribuzione:

Aspetto

Banca ore

Lavoro straordinario

Finalità

Flessibilità e recupero tempo

Incremento salariale

Compensazione

Riposo compensativo (in genere)

Maggiorazione retributiva

Volontarietà

Deve essere concordata

Può essere ordinato dal datore di lavoro

Normativa

Regolata da CCNL e accordi

Regolato per legge (D.Lgs. 66/2003)

Alcuni contratti collettivi consentono anche la monetizzazione delle ore in banca ore in particolari condizioni, ad esempio alla cessazione del rapporto di lavoro o al superamento di una soglia predefinita.

 

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molestie alla collega

Molestie alla collega: legittimo il licenziamento Molestie alla collega: legittimo il licenziamento, è sufficiente la prova testimoniale della persona offesa

Molestie alla collega: licenziamento legittimo  

Licenziamento per giusta causa legittimo per il lavoratore che, anche in presenza di un solo testimone oculare, rivolge molestie alla collega sul posto di lavoro baciandola sulla bocca, senza il suo consenso. Il tutto accompagnato da frasi a sfondo sessuale. Lo ha stabilito la Corte di Appello di Torino nella sentenza n. 150/2025.

Licenziamento per giusta causa illegittimo

Un addetto alla reception di una università viene licenziato. Il Tribunale però non ritiene provata la giusta causa disciplinare del licenziamento, ritenendo inattendibile la testimonianza del capo squadra del servizio di pulizie. L’uomo è stato accusato nello specifico di avere molestato fisicamente una collega e di aver abbandonato il posto di lavoro. I fatti sarebbero avvenuti in occasione di una festa di pensionamento di un collega. Alla festa il lavoratore avrebbe alzato il gomito e “in grave e visibile stato di ebbrezza” avrebbe rivolto alla collega attenzioni non gradite. La versione dei fatti però non viene condivisa dal Tribunale, tanto che la domanda di accertamento del licenziamento viene respinta. Il Tribunale accoglie invece la domanda riconvenzionale con il quale è stato chiesto l’annullamento del recesso del datore di lavoro, stante la natura ritorsiva della condotta. La decisione però viene impugnata. Per l’appellante infatti il giudice di primo grado ha errato nella valutare le testimonianze e non considerare rilevante dal punto di vista disciplinare l’abbandono della postazione di lavoro.

Testimonianza della collega attendibile

La Corte però ritiene meritevole di accoglimento la doglianza esposta nel primo motivo di appello tanto che accoglie l’impugnazione, dichiarando legittimo il licenziamento. Queste le ragioni della decisione.

Il Collegio concentra la sua attenzione sulle molestie alla collega del dipendente. L’uomo infatti ha abbracciato e baciato sulla bocca la donna contro la sua volontà. Ha anche fatto apprezzamenti sul suo aspetto e ha dichiarato di essere innamorato. La collega ha testimoniato l’accaduto. Ha raccontato che l’uomo l’ha presa per il viso e l’ha baciata, senza giustificare il gesto. Subito dopo, le ha fatto complimenti e le ha detto di essere innamorato di lei. La donna però ha precisato che non c’era mai stato un rapporto confidenziale tra loro. La testimonianza della donna per la Corte è credibile.

Lei ha notato che il collega parlava in modo strano e barcollava. Sentiva odore di alcol. L’uomo stesso ha ammesso di aver bevuto due bicchieri di vino poco prima. Anche se non era ubriaco, l’alcol poteva averlo alterato leggermente. La donna non poteva sapere del brindisi, quindi la sua affermazione sull’alito vinoso è veritiera. La sua deposizione inoltre è in linea con la mail che ha inviato pochi giorni dopo l’episodio. Il fatto che non ricordasse se l’uomo l’avesse anche abbracciata rafforza la sua attendibilità.

La testimonianza della collega insomma è sufficiente come prova. Non serve quella di un’altra persona. Le incongruenze minori evidenziate nella prima sentenza non sminuiscono la sua credibilità sul bacio e sugli apprezzamenti. Anzi, queste piccole differenze rendono la sua testimonianza più genuina. Se avesse voluto mentire, si sarebbe accordata con un’altra collega per una versione perfetta.

Errato colpevolizzare la vittima

Il primo giudice non ha ritenuto credibile la donna perché non ha subito chiesto aiuto. Ha anche criticato il suo comportamento dopo la molestia. Queste argomentazioni però non convincono il Collegio. Il comportamento di una vittima dopo una molestia non toglie veridicità all’evento. Non esiste un modo “giusto” di reagire. Colpevolizzare la vittima è sbagliato. La donna potrebbe non aver voluto denunciare subito per diverse ragioni. La molestia subita non era di estrema violenza. Inoltre, lei stessa non voleva che l’episodio avesse conseguenze.

La Corte si chiede inoltre perché la donna avrebbe dovuto calunniare il collega. Non c’era un motivo plausibile. Non avevano particolari rapporti o ragioni di risentimento. L’unica circostanza menzionata dall’uomo è che la sorella della donna ha preso il suo posto di lavoro dopo il licenziamento. Questa cosa è stata detta però solo in appello e non c’è prova che sia emersa dopo il primo giudizio. Inoltre, il mezzo (calunnia) è sproporzionato rispetto al fine (un posto di lavoro non particolarmente allettante).

La donna stessa ha detto di non voler portare avanti la cosa subito dopo l’accaduto. Questo dimostra che non voleva che la direzione aziendale sapesse della molestia. Se avesse voluto incastrare l’uomo, non avrebbe agito da sola. Avrebbe avuto bisogno della complicità dei vertici aziendali, cosa non plausibile. L’uomo non ha fornito un motivo convincente per cui la donna avrebbe dovuto calunniarlo.

Illecito disciplinare le molestie alla collega

La testimonianza della donna è quindi attendibile riguardo alla molestia sessuale. Questa rientra nella definizione di comportamenti indesiderati a sfondo sessuale che violano la dignità di una lavoratrice. Costituisce anche un illecito disciplinare punibile con il licenziamento senza preavviso. La condotta dell’uomo è oggettivamente offensiva e mina il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. La giusta causa disciplinare accertata giustifica il licenziamento, a prescindere da eventuali ragioni di ritorsione dell’azienda. Il Collegio non esamina l’abbandono del posto di lavoro.

 

 

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