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Immissioni acustiche moleste La normativa in materia di immissioni acustiche nelle attività produttive definisce il carattere molesto delle immissioni anche nei rapporti tra privati?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

In materia di immissioni, il superamento dei limiti di rumore stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che disciplinano le attività produttive è, senz’altro, illecito, in quanto, se le immissioni acustiche superano la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela degli interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione esse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino – ancora più esposto degli altri, in ragione della contiguità dei fondi, ai loro effetti dannosi – devono, per ciò solo, considerarsi intollerabili, ex art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. – Cass., sez. II, 26 febbraio 2024, n. 5074.

La questione sottoposta alla Suprema Corte origina da una domanda risarcitoria formulata dai proprietari di un immobile, carente di idoneo isolamento acustico, nei confronti della ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione.

In particolare, gli istanti ritenevano che l’intollerabilità dei rumori nella propria abitazione fosse causata dai gravi vizi dell’immobile sotto il profilo dei requisiti tecnico-acustici.

Nel doppio grado di giudizio veniva accertata la violazione dei limiti soglia, di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 1997, in materia di requisiti acustici passivi degli edifici e veniva stabilito come tale violazione comportasse di per sé il superamento della normale tollerabilità delle immissioni acustiche ex art. 844 c.c. all’interno dell’abitazione.

Conseguentemente, tanto il Giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello aditi, sebbene in misura diversa sotto il profilo quantitativo, condannavano la parte inadempiente al risarcimento del danno, ritenendo sussistente il danno patrimoniale patito dai proprietari dell’abitazione, costretti alla locazione di altra unità immobiliare idonea all’uso abitativo a causa dei gravi vizi acustici del proprio immobile.

In sede di censura della pronuncia d’appello, la ditta soccombente ha denunciato la violazione e falsa applicazione normativa in ordine alla natura rigorosa dell’onere della prova, che dovrebbe dimostrare l’esistenza dei rumori intollerabili esclusivamente per il carente isolamento acustico dell’immobile. Ai fini del riconoscimento risarcitorio, la ricorrente ha lamentato il mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alla causazione dell’evento dannoso ed alla sussistenza del nesso causale con il danno ex adverso patito e consistente nella necessità di locare altra unità abitativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto ed ha introdotto un principio di presunzione assoluta circa la violazione delle condizioni di normale tollerabilità delle immissioni acustiche, avuto riguardo alla condizione dei luoghi ex art. 844 c.c., in ipotesi di superamento dei limiti soglia dei requisiti acustici passivi degli edifici.

Di contro, però, la Cassazione ha stabilito come l’osservanza di dette soglie non determini l’insita liceità delle immissioni, rimettendo al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione in ordine alla tollerabilità delle immissioni, alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c.

Sotto il profilo del riconoscimento del danno, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza d’appello anche nella parte in cui ha considerato l’inagibilità dell’appartamento nella sua unitarietà, non rilevando l’accertamento tecnico in ordine alla maggiore percezione delle immissioni sonore in alcuni vani dell’immobile, sì da escludere la necessità di locazione di altra unità abitabile.

Il complessivo accertamento del superamento dei limiti soglia integra un’ipotesi di responsabilità del danneggiante secondo un giudizio di merito, immune da vizi logico-giuridici, che rintraccia nei costi di locazione di altro appartamento agibile una conseguenza immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., del danno patito dai proprietari del bene gravato da vizi.

*Contributo in tema di “Immissioni acustiche moleste”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Legittimità costituzionale art. 167 c.p.m.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 167 c.p.m.p. nonostante non preveda attenuazioni della pena per i fatti di sabotaggio di lieve entità?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 167, comma 1, cod. pen. mil. pace deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità. – Corte cost. 2 dicembre 2022, n. 244

La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., q.l.c. dell’art. 167 c.p.m.p., censurandolo nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità, attenuazioni della pena per fatti di lieve entità. Si ritiene violato il principio di uguaglianza nella misura in cui il menzionato art. 167 punisce le medesime condotte previste dall’art. 253 c.p. con l’unica differenza relativa al soggetto attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque); tuttavia, al delitto previsto dall’art. 253 c.p. sarebbe applicabile l’attenuante di cui all’art. 311 c.p., mentre analoga circostanza non è contemplata dal codice penale militare di pace, lacuna non superabile in via interpretativa. In secondo luogo, si paventa la violazione del principio di proporzionalità in quanto il citato art. 167 prevede una sanzione fissa e inderogabile, improntata nel minimo edittale ad asprezza eccezionale, senza possibilità di mitigare, in funzione del concreto disvalore del fatto, il severo trattamento sanzionatorio contemplato. Di conseguenza, l’impossibilità di individualizzare quest’ultimo risulta in contrasto con l’art. 27, comma  3, Cost., secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 5 dicembre 2018, n. 222).

La Corte costituzionale muove dalla ricognizione delle numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., di previsioni dalle quali discendeva per il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello riservato al comune cittadino (es. la mancata previsione del rilievo scusante, anche nell’ordinamento militare, dell’ignoranza inevitabile della legge penale: Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 61).

Da tale giurisprudenza può evincersi che, in linea di principio, una differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni è irragionevole a fronte della sostanziale identità della condotta punita, dell’elemento soggettivo e del bene giuridico tutelato.

Differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e i corrispondenti reati militari non si pongono, invece, in contrasto con il principio di uguaglianza laddove siano giustificabili in ragione della oggettiva diversità degli interessi tutelati dalle disposizioni che vengono a raffronto, o del particolare rapporto che lega il soggetto agente al bene tutelato, come nell’ipotesi delle norme incriminatrici che puniscono fatti commessi da militari nei confronti di altri militari, allo scopo di salvaguardare la coesione interna alle Forze armate e le delicate funzioni attribuite.

La Corte costituzionale, dunque, disattende le osservazioni del giudice rimettente in merito alla pedissequa sovrapponibilità degli artt. 253 c.p. e 167 c.p.m.p., in quanto ogni appartenente alle Forze armate, a differenza del comune cittadino, è responsabile dell’installazione militare e della sua custodia ai sensi dell’art. 723, D.P.R. 90/2010 ed è, dunque, gravato da precisi doveri di diritto pubblico.

Tuttavia, la mancata previsione di una causa di attenuazione del trattamento sanzionatorio per i fatti di lieve entità ricompresi nel perimetro applicativo dell’art. 167 c.p.m.p. viola il principio di proporzionalità della pena. Sono ipotizzabili, infatti, sabotaggi di lieve entità consistenti, a titolo esemplificativo, nel rendere meramente inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, le cose elencate nell’art. 167 c.p.m.p., come nel caso del rifornimento con carburante non idoneo.

L’assenza, in tale ultimo codice, di una circostanza attenuante equiparabile all’art. 311 c.p. comporta che il tribunale militare sia vincolato ad applicare la pena della reclusione non inferiore a otto anni anche rispetto a condotte del militare che non provochino alcun disservizio significativo.

La soluzione non può consistere nell’estensione, al delitto di cui all’art. 167 c.p.m.p., della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 c.p., poiché quest’ultimo non costituisce idoneo tertium comparationis. Appare, invece, più corretto richiamare l’art. 171, n. 2), c.p.m.p. laddove prevede che la pena sia diminuita (nella misura sino a un terzo ex art. 51, n. 4, c.p.m.p.) “se, per la particolare tenuità del danno, il fatto risulta di lieve entità”; la disposizione dev’essere estesa al solo frammento dell’art. 167 c.p.m.p. concernente le condotte di sabotaggio temporaneo, consistenti nel rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, le cose elencate dallo stesso art. 167.

Ne discende la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 167 c.p.m.p. “nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 8 luglio 2021, n. 143; Corte cost. 17 luglio 2017, n. 205;
Corte cost. 18 aprile 2014, nn. 105 e 106; Corte cost. 15 novembre 2012, n. 251;
Corte cost. 23 marzo 2012, n. 68
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Legittimità costituzionale art. 649 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge. – Corte Cost. 16 giugno 2022, n. 149.

La L. 633/1941, in materia di diritto d’autore, disciplina un doppio binario sanzionatorio per le medesime condotte illecite: da un lato, l’art. 171ter contempla un illecito penale; dall’altro, l’art. 174bis prevede un illecito amministrativo. Questo duplice apparato sanzionatorio ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU. Il giudice remittente non pone in discussione la coesistenza delle due norme sanzionatorie, né la loro concreta applicabilità, ma si limita ad invocare un rimedio idoneo ad evitare lo svolgimento o la prosecuzione di un giudizio penale, allorché l’imputato sia già stato sanzionato in via definitiva per il medesimo fatto con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 174bis della L. 633/1941. Tale rimedio viene individuato dal giudice remittente nella pronuncia di proscioglimento o non luogo a procedere, già prevista in via generale dall’art. 649 c.p.p., per il caso in cui l’imputato sia già stato giudicato penalmente, in via definitiva, per il medesimo fatto.

La Corte ha ritenuto la questione fondata. Il diritto al ne bis in idem mira a tutelare l’imputato non solo contro la prospettiva dell’inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro l’eventualità di subire un secondo processo per il medesimo fatto, a prescindere dall’esito di quest’ultimo che potrebbe anche essersi concluso con un’assoluzione. I presupposti per l’operatività del ne bis in idem sono: la sussistenza di un idem factum, identificato nei medesimi fatti materiali sui quali si fondano le due accuse penali, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica; la sussistenza di una previa decisione che riguardi il merito della responsabilità penale dell’imputato e sia divenuta irrevocabile; la sussistenza di un bis, ossia di un secondo procedimento o processo di carattere penale per i medesimi fatti. Inoltre, la costante giurisprudenza europea (Corte EDU, Zolotoukhine c. Russia, 10 febbraio 2009; Corte EDU, A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016) afferma non sia decisiva la qualificazione della procedura e della sanzione come “penale” da parte dell’ordinamento nazionale, ma la sua natura sostanzialmente “punitiva” da apprezzarsi sulla base dei criteri Engel. La Corte EDU ha affermato, nella citata pronuncia A e B c. Norvegia, che non necessariamente dà luogo ad una violazione del ne bis in idem l’inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo, in relazione a un fatto per il quale una persona sia già stata giudicata, in via definitiva, nell’ambito di un diverso procedimento, anch’esso di carattere sostanzialmente punitivo. Una tale violazione è infatti esclusa qualora tra i due procedimenti vi sia una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. Al fine di ravvisare la suddetta connessione è necessario verificare: se i diversi procedimenti perseguano scopi complementari; se la duplicità dei procedimenti in conseguenza della stessa condotta sia prevedibile; se i due procedimenti siano condotti in modo tale da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove; se siano previsti dei meccanismi che consentano nel secondo procedimento di tenere in considerazione la sanzione inflitta nel primo.

Nel caso in esame è indubbia la natura punitiva delle sanzioni amministrative, previste dall’art. 174bis della L. 633/1941, alla luce dei criteri Engel e della stessa giurisprudenza costituzionale. La Corte sostiene che non vi sia alcun dubbio sul fatto che il sistema normativo, previsto dalla L. 633/1941, consenta al destinatario dei suoi precetti di prevedere la possibilità di essere assoggettato a due procedimenti distinti e a due conseguenti classi di sanzioni. Tuttavia, deve escludersi che i due procedimenti perseguano scopi complementari o riguardino diversi aspetti del comportamento illecito. La sanzione amministrativa persegue l’intenzione di potenziare l’efficacia general-preventiva dei divieti già contenuti nella legge. Quanto alle condotte sanzionate, gli artt. 171ter e 174bis della L. 633/1941 puniscono i medesimi fatti, con l’eccezione delle condotte colpose aventi rilevanza solo amministrativa. Il sistema normativo non prevede alcun meccanismo volto ad evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove e ad assicurare una coordinazione temporale fra i procedimenti. Non è previsto, inoltre, alcun meccanismo che consenta al giudice penale di tenere conto della sanzione amministrativa già irrogata per i medesimi fatti. Da tutto ciò discende che il sistema del doppio binario in esame non è congegnato in maniera tale da assicurare una risposta sanzionatoria unitaria agli illeciti in materia di violazioni del diritto d’autore. I due procedimenti seguono percorsi autonomi che non si intersecano né si coordinano, creando così le condizioni per il verificarsi di violazioni sistemiche del diritto al ne bis in idem.

Per questi motivi i giudici costituzionali – rilevata la violazione del ne bis in idem – hanno reputato di potervi porre parzialmente rimedio mediante la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p. Ciononostante, la Corte si è dichiarata consapevole della circostanza che il rimedio adottato non sia in grado di scongiurare le violazioni del ne bis in idem nell’ipotesi in cui sia dapprima divenuta definitiva la sanzione penale ed il cittadino venga sottoposto successivamente a procedimento amministrativo. Di conseguenza, la Consulta ha auspicato una rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio ad opera del legislatore, in modo tale da adeguarli ai principi enunciati dalla giurisprudenza sovranazionale e nazionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 43/2018; Corte cost. 222/2019; Corte cost. 145/2020
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Legittimità costituzionale art. 538 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 538 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice – quando pronuncia sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto – decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p.?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 538 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p., decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p. – Corte Cost. 12 luglio 2022, n. 173.

Il fatto di particolare tenuità ha ad oggetto una condotta offensiva costituente reato che il legislatore preferisce non punire a causa della lievità dell’offesa. La sentenza che esclude la punibilità per la particolare tenuità del fatto non è pertanto una pronuncia tipicamente assolutoria; al contrario, questa accerta in via definitiva che il reato è stato commesso dalla persona che viene dichiarata non punibile. Per questo motivo il giudicato di tale pronuncia, nel giudizio civile di danno, ex art. 651bis c.p.p., è modellato su quello tipico delle sentenze di condanna (art. 651 c.p.p.) e non su quello delle sentenze di assoluzione (art. 652 c.p.p.). Questo parallelismo con le sentenze di condanna disvela un deficit di tutela per la parte civile nel momento in cui si prevede all’art. 538 c.p.p. che il giudice decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo in presenza di una sentenza di condanna. Tale difetto di tutela giurisdizionale per la parte civile non è stato invece ravvisato dalla Consulta nell’ipotesi di assoluzione per vizio totale di mente, venendo in questo caso in rilievo un accertamento penale riconducibile a quello delle sentenze assolutorie di cui all’art. 652 c.p.p. (Corte Cost. 29 gennaio 2016, n. 12). Inoltre, il codice di procedura penale contempla delle ipotesi in cui vi può essere una statuizione sulle pretese civili risarcitorie o restitutorie (artt. 576, 578 e 622 c.p.p.), dando in questo modo una risposta di giustizia alla domanda della parte civile, nonostante il mancato accertamento, con effetto di giudicato, circa la sussistenza del fatto, la sua illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Al contrario, pur in presenza del suddetto accertamento, una risposta di giustizia manca nell’ipotesi di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p. Questa disparità di trattamento fra le ipotesi esaminate e la fattispecie di cui all’art. 538 c.p.p. comporta la violazione, da parte di quest’ultima, del principio di uguaglianza (art. 3, comma primo, Cost.). L’art. 538 c.p.p. è inoltre in contrasto con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 2, Cost.), in quanto la parte civile non ottiene una decisione in ordine alla sua pretesa risarcitoria o restitutoria, anche quando essa appare fondata e meritevole di accoglimento. Infine, la norma collide con il canone della ragionevole durata del processo (art. 111, comma secondo, Cost.), poiché nel caso in esame il giudizio penale subisce un arresto e la parte civile è tenuta a promuovere una nuova azione davanti al giudice civile, anche solo per recuperare le spese sostenute nel processo penale.

La riconduzione a legittimità della disposizione censurata richiede, dunque, di riconoscere al giudice penale la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno quando accerti la sussistenza dei presupposti per dichiarare la non punibilità dell’imputato per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Corte Cost. 12/2016
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Patteggiamento e “pena illegale” Configura “pena illegale”, ai fini del sindacato di legittimità sul patteggiamento, quella fissata sulla base di un’erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, in violazione del criterio unitario previsto dall’art. 69, comma 3, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e ss., 65 e 71 e ss., c.p., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge. – Cass. Sez. Un. 12 gennaio 2023, n. 877.

Nel caso di specie, veniva proposto ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, deducendo l’illegalità della pena applicata perché il giudice aveva errato nel calcolarla, avendo omesso di porre in bilanciamento le circostanze aggravanti del reato contestato con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, così violando il disposto di cui all’art. 69 c.p.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha rilevato l’esistenza di un contrasto interpretativo in ordine alla nozione di “pena illegale, rilevante ai fini della delimitazione dell’ambito del sindacato di legittimità sulle sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti, disponendone la rimessione alle Sezioni Unite.

Invero, secondo un primo indirizzo interpretativo, nel c.d. “patteggiamento”, la legalità della pena deve essere valutata considerando non soltanto la pena finale applicata, ma anche i passaggi intermedi che hanno portato alla sua determinazione.

In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha, in più occasioni, avuto modo di precisare che “deve ritenersi illegale la pena applicata dal giudice che operi il giudizio di bilanciamento tra le circostanze in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 69 c.p.” (Cass., sez. II, 8 febbraio 2021, n. 4798).

Altro orientamento sostiene che l’illegalità della pena va valutata avendo riguardo alla sola pena finale applicata e non anche ai passaggi intermedi che portano alla sua determinazione.

Le Sezioni Unite condividono tale ultima impostazione, partendo dal presupposto che, secondo un principio costantemente affermato dalle stesse Sezioni, la pena può definirsi illegale “quando non corrisponde, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale” (Cass. Sez. Un. 28 luglio 2015, n. 33040).

Le Sezioni Unite hanno inoltre ricordato come la giurisprudenza abbia, in plurime decisioni, chiarito che non configura un’ipotesi di illegalità della pena il trattamento sanzionatorio che risulti complessivamente legittimo, anche se frutto di un vizio nell’iter di determinazione della sua entità.

Ne consegue che la pena potrà dirsi illegale solo se non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata.

Alla luce delle esposte considerazioni, in linea con il principio di legalità della pena così come delineato dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali, le Sezioni Unite hanno conclusivamente affermato che, sebbene determinata attraverso un erroneo procedimento di bilanciamento tra circostanze, effettuato in violazione della disciplina stabilita dall’art. 69 c.p., “la pena deve considerarsi illegale soltanto nei casi in cui non rispetti i limiti edittali previsti per ciascun genere o specie di pena dagli artt. 23 e ss., 65 e ss., e 71 e ss. del c.p., oppure quelli previsti dalle singole norme incriminatrici per ciascuna fattispecie di reato”.

Ne consegue che non potrà considerarsi illegale la pena finale corrispondente per genere, specie e quantità a quella legale, anche se determinata attraverso un percorso argomentativo viziato, potendo considerare privi di rilievo eventuali errori relativi ai singoli passaggi interni.

Le Sezioni Unite hanno pertanto dichiarato inammissibile il ricorso, in quanto proposto per un motivo non consentito, ovvero fuori dai casi di cui all’art. 448, comma 2bis, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 20 luglio 2021, n. 28031; Cass., sez. V , 8 maggio 2019, n. 19757
Difformi:      Cass., sez. II, 8 febbraio 2021, n. 4798; Cass., sez. V, 9 giugno 2014, n. 24054
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Rilevanza penale omesso versamento ritenute sostituto d’imposta Può ritenersi costituzionalmente legittimo l’art. 7, comma 1, lett. b) del D.L. 158/2015 nella parte in cui, modificando l’art. 10bis del D.L. 74/2000, attribuisce rilevanza penale alla condotta del sostituto d’imposta che ometta di versare le ritenute dovute sulla base della propria dichiarazione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il legislatore delegato, introducendo nell’art. 10bis del D.L. 74/2000 una nuova fattispecie incriminatrice costituita dall’omesso versamento delle ritenute dovute sulla scorta della dichiarazione presentata e a prescindere dal rilascio delle certificazioni ai sostituiti, ha esorbitato dal perimetro indicato dalla legge delega in aperta violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost. ed ha creato ex novo una fattispecie incriminatrice, frustrando il principio di stretta legalità previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. – Corte Cost. 14 luglio 2022, n. 175.

La Corte Costituzionale è chiamata a scrutinare la legittimità dell’art. 10bis del D.L. 74/2000 limitatamente alle parole “dovute sulla base della dichiarazione o” ivi inserite dall’art. 7, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 158/2015 in riferimento agli artt. 25, comma 2, 76 e 77, comma 1 della Cost.

Detto altrimenti, il giudice rimettente lamenta che il Governo, nel dare attuazione alla delega parlamentare di razionalizzazione del sistema sanzionatorio previsto per i reati tributari, abbia ecceduto i limiti stabiliti nella legge e abbia ampliato la fattispecie incriminatrice di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, frustrando conseguentemente il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale.

La risoluzione della questione di costituzionalità prospettata dalla Consulta impone una necessaria premessa riguardante l’evoluzione normativa della fattispecie.

La prima disciplina organica del sistema sanzionatorio penale tributario è contenuta nel D.L. 429/1982, quale insieme di norme finalizzate alla repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. In particolare, con riguardo alle condotte illecite attribuibili al sostituto di imposta, l’art. 2 del decreto aveva previsto una disciplina sanzionatoria articolata in reati di natura sia contravvenzionale, quali l’omessa e infedele dichiarazione del sostituto di imposta, sia delittuosa, sanzionando con la reclusione da due mesi a tre anni e con la multa da un quarto alla metà della somma non versata, chiunque non pagava all’erario le ritenute effettivamente operate a titolo di acconto o di imposta sulle somme pagate.

La disciplina penale richiamata è stata, poi, oggetto di una serie di modifiche nel corso del tempo.

La più risalente è stata operata dal D.L. 83/1991 che, pur mantenendo ferma la previsione dell’omessa dichiarazione annuale del sostituto di imposta, quale illecito penale di natura contravvenzionale, ha disciplinato l’omesso versamento delle ritenute secondo due distinte fattispecie incriminatrici: la prima, di natura contravvenzionale, con cui si sanzionava, con la pena dell’arresto fino a tre anni o con l’ammenda fino a lire sei milioni, l’omesso versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di ritenute alle quali il sostituto di imposta era obbligato per legge relativamente a somme pagate per un ammontare complessivo per ciascun periodo di imposta superiore a cinquanta milioni di lire; la seconda, di natura delittuosa, che puniva con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire tre milioni a lire cinque milioni il mancato versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d’imposta.

Su tale assetto sanzionatorio è successivamente intervenuto il D.Lgs. 74/2000, con lo scopo di fornire una prima razionalizzazione del sistema sanzionatorio previsto per i reati tributari, depenalizzando le fattispecie di minore disvalore sociale. In buona sostanza, il legislatore del 2000 ha limitato la rilevanza penale delle fattispecie in materia tributaria alle sole condotte caratterizzate da un comportamento fraudolento, richiedendo un quid pluris rispetto al semplice sottrarsi all’obbligazione tributaria. In quest’ottica, pertanto, ha escluso la rilevanza penale di tutti i comportamenti del sostituto d’imposta, degradando quelle fattispecie incriminatrici, ivi incluso l’omesso versamento delle ritenute, a meri illeciti amministrativi.

Tale più mite disciplina, per gli illeciti commessi dal sostituto di imposta, è rimasta inalterata fino all’entrata in vigore della L. 311/2004 che, introducendo l’art. 10bis nel D.Lgs. 74/2000, ha reinserito nell’assetto penalistico il delitto di omesso versamento da parte del sostituto d’imposta delle ritenute certificate.

Detto altrimenti, la legge finanziaria del 2005 ha nuovamente introdotto, sia pure con alcune modifiche, il delitto di omesso versamento di ritenute certificate già disciplinato dal D.L. 429/1982, (come sostituito dalla novella di cui al D.L. 83/1991), lasciando però immuni da sanzione penale i casi di mancato versamento all’erario di ritenute che non fossero state certificate e, quindi, delle ritenute risultanti sulla base delle dichiarazioni fiscali presentate dal sostituto de quo.

Da ultimo, con la L. 23/2014, il Parlamento ha conferito un’ulteriore e ampia delega al Governo finalizzata a ridisegnare l’ordinamento tributario per la costruzione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, con specifico riferimento alla revisione del sistema sanzionatorio.

Infatti, l’art. 8 della legge-delega ha demandato al Governo di procedere alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, prevedendo, tra le altre, la punibilità con la pena detentiva dei comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa; l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie; la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità.

In attuazione di tale delega, l’art. 7, comma 1, lett. a) e b), del D.Lgs. 158/2015 ha modificato la previsione di cui all’art. 10bis del D.Lgs. 74/2000, rispettivamente nella rubrica e nella descrizione della fattispecie, prevedendo la sanzione penale per i comportamenti di omesso versamento delle ritenute “dovute sulla base della dichiarazione o” certificate commessi dal sostituto d’imposta per importi superiori alla soglia di punibilità, fissata in euro 150.000,00 per ciascun periodo di imposta.

In altri termini, il Governo, oltre ad innalzare la soglia di punibilità da euro 50.000 ad euro 150.000, ha previsto la possibilità di ricavare la prova dell’avvenuta consumazione del reato anche sulla base di quanto risultasse dalla mera dichiarazione del sostituto d’imposta (c.d. modello 770) e non, invece come era richiesto dalla previgente disciplina, unicamente sulla base delle risultanze delle certificazioni rilasciate ai sostituiti.

Delineata in questi termini l’evoluzione normativa della fattispecie di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, appare già evidente l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 158/2015.

Infatti, rileva la Corte Costituzionale che le linee direttive contenute nella delega al Governo erano chiare e ben delineate, prevedendo in modo perentorio che la revisione del sistema sanzionatorio avvenisse in due direzioni: da un lato, il legislatore delegato era facoltizzato a rivedere il trattamento sanzionatorio di tutte le fattispecie incriminatrici tributarie, tuttavia potendo intervenire con la modifica della pena esclusivamente tra il massimo e il minimo edittale previsto nella delega e rigorosamente in modo proporzionato all’effettiva gravità del comportamento; dall’altro lato, la possibilità di configurare nuove fattispecie penali era strettamente limitata alle gravi condotte insidiose per il fisco, poste in essere con frode o falsificazione di documenti.

Sulla scorta di queste indicazioni, è di solare evidenza che la condotta di chi non versa le ritenute indicate nella relativa dichiarazione come sostituto d’imposta non è certo ascrivibile a comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, né è riconducibile al regime della dichiarazione infedele, atteso che ciò che rileva è unicamente l’omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione, a prescindere dal fatto che essa sia fedele o infedele. Pertanto, secondo le previsioni della legge-delega, tale condotta – già annoverata tra le contravvenzioni anche quando considerata penalmente rilevante nella normativa precedente – avrebbe potuto riacquistare rango di reato, esclusivamente come fattispecie meno grave e, in quanto tale, la relativa pena avrebbe comunque dovuto subire una mitigazione o una degradazione a sanzione amministrativa.

Di contro, il legislatore delegato ha introdotto nell’art. 10bis del D.L. 74/2000 una vera e propria fattispecie incriminatrice nuova costituita dall’omesso versamento delle ritenute dovute sulla scorta della dichiarazione presentata e a prescindere dal rilascio delle certificazioni ai sostituiti, così esorbitando dal perimetro indicato dalla legge delega.

Va da sé che un tale modus operandi è apertamente in contrasto con gli artt. 76 e 77, comma 1 della Cost.: il Governo, nell’esercizio del potere legislativo ad esso delegato dal Parlamento, ha violato i principi e i criteri direttivi dettati dalle Camere, introducendo fattispecie di rilevanza penale non ricomprese in quest’ultima.

Non solo.

La scelta governativa operata nel d.lgs. 158/2015 si pone in contrasto anche con gli artt. 25, comma 2 e 3 della Costituzione, norme fondamentali del nostro ordinamento penalistico.

Segnatamente, per ciò che concerne la prima, occorre ricordare che il principio di stretta legalità sancisce il divieto categorico di punire un fatto se esso non è previsto espressamente da una legge penale, di fatto attribuendo esclusivamente al Parlamento la funzione legislativa in ambito penale. Nel caso di specie invece, come si è visto, il legislatore delegato si è arrogato scelte di politica criminale che non avrebbe potuto compiere, con la conseguenza che l’introduzione della nuova fattispecie penale nell’art. 10bis del D.L. 74/2000, prima non prevista e non oggetto di delega, viola l’art. 25, comma 2, Cost.

Analoghe considerazioni possono essere svolte anche in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost. Infatti, il legislatore delegato, pur avendo innalzato lo standard della tutela per il bene giuridico di categoria, prevedendo il presidio penale per una condotta di omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione del sostituto d’imposta, non ha tuttavia previsto tra i più gravi illeciti dichiarativi previsioni delittuose in materia di dichiarazioni fraudolente o infedeli del sostituto di imposta, così giungendo al paradosso che, in difetto del rilascio delle certificazioni, sarà punito il contribuente che presenti un modello 770 veritiero e ometta di versare le ritenute per un importo superiore a 150.000 euro, mentre andrà esente da pena il sostituto di imposta che, rendendosi ugualmente inadempiente a un debito tributario di pari entità, abbia presentato una dichiarazione falsa, indicando un debito inferiore alla soglia di punibilità.

Posto quanto precede, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lett. b) del D.L. 158/2015 (Revisione del sistema sanzionatorio in attuazione dell’art. 8, comma 1, della L. 23/2014), nella parte in cui ha inserito le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” nel testo dell’art. 10bis del D.Lgs. 74/2000, prevedendo l’esplicita abrogazione della novella legislativa (con conseguente reviviscenza della precedente disciplina).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 142/2020; Corte Cost. 96/2020; Corte Cost. 10/2018
giurista risponde

Legittimità art. 168bis comma 4 c.p. Può ritenersi costituzionalmente legittimo l’art. 168bis, comma 4, c.p. nella parte in cui, disponendo che la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non possa essere concessa più di una volta, non prevede che l’imputato ne possa usufruire per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. con altri reati per i quali tale beneficio è stato concesso?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 168bis, comma 4, c.p. è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nelle ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., con altri reati per i quali detto beneficio sia stati già concesso. – Corte Cost. 12 luglio 2022, n. 174.

La questione di costituzionalità rimessa al vaglio della Consulta trae origine dal procedimento penale avviato a carico di due soggetti, imputati ex art. 73, comma 5 del D.P.R. 309/1990 per aver effettuato una serie di cessioni di sostanza stupefacente. All’udienza preliminare, la difesa degli imputati ha chiesto la sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai sensi dell’art. 168bis c.p. Beneficio, questo, che non è stato accordato dal giudicante perché, secondo il tenore letterale del quarto comma della disposizione, “la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta: infatti, il Gup ha rilevato come gli imputati si erano già avvalsi del beneficio dell’art. 168bis c.p. in altro procedimento penale, relativo ad episodi di spaccio, commessi in epoca coeva a quelli contestati nel giudizio a quo e ad essi avvinti dal vincolo della continuazione, con conseguente impossibilità di nuova concessione della messa alla prova.

Sulla scorta di quanto precede, il Giudice rimettente ha riscontrato un’irragionevole disparità di trattamento sottesa alla norma in commento: sebbene l’art. 168bis citato ammetta pacificamente che, in caso di simultaneus processus avente ad oggetto più fatti di reato, il Giudice possa riconoscere il vincolo della continuazione e giungere all’estinzione di tutte le fattispecie penali commesse nell’ambito del medesimo disegno criminoso per esito positivo della messa alla prova, a soluzione opposta si giunge nei casi in cui, per scelta processuale del Pubblico Ministero o per tempistica processuale, i reati commessi in continuazione vengano contestati in procedimenti differenti e uno di essi si concluda con l’estinzione ex art. 168bis c.p.

Detto altrimenti, secondo l’applicazione letterale del quarto comma della norma, la sentenza che dichiara l’estinzione di un procedimento penale per esito positivo della messa alla prova consuma definitivamente ed irrimediabilmente l’unica possibilità di usufruire di detto benefico, con la conseguenza che, in caso di parcellizzazione dei procedimenti penali, eventuale nuova richiesta ai sensi dell’art. 168bis c.p. sarà destinata all’inevitabile declaratoria di inammissibilità, a nulla rilevando neppure la presenza di ipotesi di connessione ex art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. tra i due procedimenti.

Di qui la questione legittimità costituzionale dell’art. 168bis c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

La Consulta è, dunque, chiamata a verificare se l’attuale tenore letterale della norma richiamata contempli una disparità di trattamento tra l’imputato sottoposto a simultaneus processus in relazione a reati connessi ex art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. – il quale potrebbe usufruire della sospensione del procedimento con messa alla prova per tutti i reati contestatigli – e l’imputato che affronta giudizi distinti (ancorché connessi), che invece avrebbe diritto a richiedere il beneficio solo la prima (e unica) volta.

Esaminata la propria giurisprudenza, la Corte Costituzionale rileva come preclusioni analoghe a quella in esame sono state già dichiarate costituzionalmente illegittime da sentenze risalenti. Si pensi, fra tutte, all’ipotesi della sospensione condizionale della pena prevista dagli artt. 164, comma 2, n. 1) e 168 c.p. che, nella precedente formulazione, prevedevano che il giudice non potesse esercitare il potere di concedere o negare il beneficio in parola, ovvero dovesse revocarne il diritto di esercizio qualora fosse stato già concesso, quando il secondo reato fosse legato dal vincolo della continuazione a quello punito con pena sospesa.

La Consulta già allora aveva osservato la presenza di un’illegittima disparità di trattamento: la circostanza che il primo giudice non aveva notizia che l’imputato aveva, in continuazione, ancora violato la legge penale, non poteva impedire al secondo giudice di compiere gli apprezzamenti che avrebbe fatto il primo e imporgli di sostituire, al suo libero convincimento, una presunzione legale di inopportunità della sospensione (Corte Cost. 10 giugno 1970, n. 86).

Il principio richiamato produce significative conseguenze anche per la soluzione della questione in esame.

Infatti, la preclusione posta dall’art. 168bis, comma 4, c.p. non osta a che uno stesso imputato possa essere ammesso al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova qualora gli vengano contestati più reati nell’ambito del medesimo procedimento (sempre che i limiti edittali di ciascuno di essi siano compatibili con la concessione del beneficio).

Ciò vale anche nel caso specifico in cui tali reati siano avvinti dalla continuazione, essendo stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso: in una tale situazione, poiché l’ordinamento considera unitariamente i reati ai fini sanzionatori, prevedendo l’inflizione di una sola pena che tenga conto del loro complessivo disvalore, appare logico che, ove tutti i singoli reati siano compatibili con il beneficio della messa alla prova, l’imputato possa essere ammesso ad un percorso unitario di risocializzazione e riparazione, nel quale si sostanzia il beneficio medesimo e il cui esito positivo comporta l’estinzione dei reati contestati.

In buona sostanza, in ipotesi come quella verificatasi nel giudizio a quo, se tutti i reati commessi in continuazione fossero stati contestati nell’ambito di un unico procedimento, i relativi imputati ben avrebbero la possibilità di chiedere e – sussistendone tutti i presupposti – di ottenere il beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova in relazione a tutti i reati, il cui esito positivo avrebbe determinato l’estinzione dei reati medesimi; al contrario, ove per scelta del pubblico ministero o per altre evenienze processuali i reati avvinti dalla continuazione vengano contestati in distinti procedimenti, gli imputati non avrebbero più la possibilità, nel secondo procedimento, di chiedere ed ottenere la messa alla prova, allorché siano stati già ammessi al beneficio nel primo.

Ciò equivarrebbe a far dipendere la possibilità di accedere a uno dei riti alternativi previsti dal legislatore dalle scelte contingenti del pubblico ministero o da circostanze casuali, sulle quali l’imputato stesso non può in alcun modo influire, di fatto determinando un’irragionevole disparità di trattamento.

È evidente allora l’irragionevolezza del quarto comma dell’art. 168bis, comma 4, c.p.

Non solo.

L’irragionevolezza della disposizione in esame, secondo le rilevazioni della Corte Costituzionale, emergerebbe anche sotto un altro profilo. Infatti, la preclusione prevista dal quarto comma citato, applicata ad ipotesi di contestazione “asincrona” di reati avvinti dal vincolo della continuazione finirebbe per frustrare sia la ratio dell’istituto del reato continuato, sia la ratio del beneficio della messa alla prova.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, la Corte osserva che l’intento legislativo sotteso alla previsione dell’art. 81 cpv. c.p. è proprio quello di sanzionare in maniera unitaria il reato continuato con una mitigazione della risposta sanzionatoria giustificata dal minor disvalore sociale attribuito alla commissione di più fattispecie criminose in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Mitigazione, questa, che ai sensi dell’art. 671 c.p.p. può essere riconosciuta anche nelle ipotesi in cui i reati siano stati giudicati separatamente con sentenze o decreti penali irrevocabili.

Va da sé che la preclusione posta dall’art. 168bis, comma 4, c.p., impedendo di riconoscere il beneficio della sospensione del procedimento penale con messa alla prova nell’ambito del secondo giudizio pendente per fattispecie delittuose connesse ad altri reati dichiarati estinti per concessione ed esito positivo della messa alla prova, è in aperto contrasto con la funzione e lo scopo dell’intera disciplina del reato continuato.

Analoghe conclusioni devono trarsi anche in riferimento al secondo aspetto, concernente la contrarietà della preclusione alla funzione specialpreventiva della stessa messa alla prova: infatti, l’impossibilità di accedere due volte al beneficio, esclusivamente con riferimento alle ipotesi di continuazione o concorso formale di reati, cozza con lo scopo stesso dell’istituto, teso al bilanciamento tra l’esigenza di punire un soggetto che ha commesso un reato, con quella di risocializzare, rieducare e restituire al mondo una personalità non più deviata.

Il tutto senza considerare che il limite alla concedibilità una tantum del beneficio non era previsto nell’impianto normativo originario dell’art. 168bis e non è oggi previsto nella parallela disciplina della messa alla prova dell’imputato minorenne.

Sulla base delle considerazioni svolte, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 168bis, comma 4, c.p. per contrasto con il principio di eguaglianza perché, così formulato, importerebbe un’inaccettabile disparità di trattamento tra l’imputato a cui tutti i reati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso vengano contestati nell’ambito di un unico procedimento, nel quale egli ha la possibilità di accedere al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova, e l’imputato nei cui confronti l’azione pena venga inizialmente esercitata solo in relazione ad alcuni reati e che si veda contestare gli altri, per effetto di una scelta discrezionale del pubblico ministero o per altre evenienze processuali, nell’ambito di un diverso procedimento penale, dopo che egli abbia già avuto accesso alla messa alla prova, con conseguente impossibilità di ottenere una seconda volta il beneficio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 86/1970; Corte Cost. 108/1973; Corte Cost. 267/1987; Cass. 14112/2015
giurista risponde

Divieto di maternità surrogata e accertamento paternità Il divieto di maternità surrogata ostacola il riconoscimento del provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione del minore nato all’estero con il partner del padre biologico?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. 184/1983, art. 44, comma 1, lett. d). Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita. – Cass. Sez. Un. 30 dicembre 2022, n. 38162.  

La decisione della Corte d’appello impugnata aveva stabilito che «la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente a entrambi la responsabilità genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell’evidenza di una diversità di discipline sostanziali, ma non è di per sé indice dell’esistenza di un principio superiore, fondante e irrinunciabile, dell’assetto costituzionale italiano o dell’ordinamento dell’Unione europea». Quanto al divieto di ricorrere alla surrogazione di maternità (art. 12, comma 6, L. 40/2004), la Corte d’appello ha osservato che «le scelte del legislatore italiano sono frutto di discrezionalità e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l’ordine pubblico», tali da impedire la trascrizione del provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione del minore nato all’estero con il partner del padre biologico.

La questione è giunta all’attenzione della Suprema Corte di legittimità. La Prima Sezione civile ha preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore d’intenzione, ma ha dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali. Ha dunque sollevato incidente di costituzionalità, questione dichiarata però inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sent. 33/2021.

La questione è dunque stata rimessa alle Sezioni Unite. La Sezione rimettente ha sottolineato che «dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto di maternità surrogata». La questione riguarda in definitiva la possibilità di riconoscere o meno il provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che ha concorso nella scelta di ricorrere alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti, in un caso nel quale la gestante ha confermato, dopo il parto, la volontà di non voler divenire madre e di riconoscere altri come genitori del nato.

Nella sentenza in esame, in primis, le Sezioni Unite ritengono infatti che la sentenza della Corte costituzionale non abbia determinato alcun vuoto normativo. La Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme che non consentono, rispetto al genitore non biologico, la trascrizione dell’atto di nascita del bambino nato all’estero a seguito di un contratto di maternità surrogata, ha invitato il legislatore – per garantire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione con il bambino – a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare il superiore interesse del minore e a instaurare quel legame di filiazione anche con il genitore non biologico all’interno di una coppia omoaffettiva. Nello specifico, la sent. 33/2021 ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 della L. 184/1983, in quanto questa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell’adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia. La citata sent. 33/2021 è una decisione di inammissibilità-monito, non di illegittimità costituzionale.

Si tratta di materia di particolare rilevanza etico-sociale: è dunque il legislatore rappresentativo a doversi porre quale interprete della coscienza sociale, ad avere le antenne per intercettarla e tradurla in atti normativi. Il procedimento adottivo prefigurato dalla sent. 33/2021 deve essere caratterizzato da una maggiore speditezza, dalla parificazione degli effetti a quelli dell’adozione legittimante e dall’abbandono dell’assenso condizionante del genitore biologico dell’adottando.

Nell’attesa dell’intervento, sempre possibile e auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non può lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale.

Tuttavia, precisa la Corte, la valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore.

La Corte rileva che in materia di maternità surrogata, la sentenza della Corte costituzionale 33/2021, accertando le insufficienze dell’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983, non ha determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019.

La Corte costituzionale ha semplicemente affermato che gli orientamenti espressi dalla Corte EDU e i principi costituzionali non ostano alla soluzione della non trascrivibilità del provvedimento giurisdizionale straniero e ha ribadito che la maternità surrogata è lesiva della dignità della donna. La pronuncia del Giudice delle leggi ha perciò inciso nella parte relativa alla tutela dei diritti del minore, ritenendo l’adozione in casi particolari strumento non del tutto adeguato.

Si evidenzia inoltre la sopravvenienza di una pronuncia della Corte costituzionale che ha eliminato una delle criticità sottolineate dallo stesso Giudice delle leggi. Con la sent. 79/2022, depositata successivamente all’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte costituzionale ha rimosso l’impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell’adottante (art. 55 della L. 184/1983, in relazione all’art. 300, comma 2, cod. civ.), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari all’insegna della piena attuazione del principio di unità dello stato di figlio.

Con riguardo all’altro aspetto critico rilevato dalla Corte Cost., e cioè l’impossibilità di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell’assenso del genitore biologico, le Sezioni Unite rilevano che la giurisprudenza è in realtà già pervenuta a una lettura restrittiva della disposizione, ritenendo che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore. Seguendo quest’ordine di idee, si è considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore dell’adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sul figlio, con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo.

La soluzione dell’adozione da parte del genitore d’intenzione privo di legame biologico presenta tuttavia altri aspetti problematici. L’adozione è, ancora, non pienamente adeguata nella prospettiva di una tutela piena del generato nei confronti di chi, partecipando al progetto procreativo, ha assunto la responsabilità di farlo venire al mondo, perché l’istituto dell’adozione, in tutte le sue forme, presuppone che il genitore assuma l’iniziativa.

Il minore non può rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale per il tramite dell’adozione. Qualora il partecipante al progetto procreativo, che non abbia legami genetici con il minore, cambi idea e non voglia più instaurare alcun rapporto giuridico con il nato, il minore non ha alcun diritto alla costituzione, attraverso l’adozione, di un rapporto con il genitore d’intenzione privo di legame genetico.

Tuttavia, la Corte rileva che la constatazione di questa evenienza particolare non conduce, tuttavia, ad ammettere o a giustificare l’automatismo della trascrizione. L’automatico riconoscimento della genitorialità intenzionale già accertata all’estero non realizza la pienezza di tutela del minore, che richiede invece una particolare conformazione, con i caratteri della effettività e della stabilità, impressa dalla concomitante e acclarata situazione di fatto.

Quella constatazione impone, invece, ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinché siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente a una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”.

L’adeguatezza dell’istituto dell’adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerità del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo. Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al più tardi quando, secondo l’apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione si è concretizzato.

Pertanto, secondo le Sezioni Unite, per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale 79/2022 e prospettandosi la possibilità di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, l’adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilità per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora più aderente alle peculiarità della situazione.

In secondo luogo, le Sezioni Unite rispondono all’interrogativo sollevato dall’ordinanza di rimessione,, e cioè se, essendo nel caso di specie stato chiesto il riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale, il rifiuto sia giustificato dal contrasto con l’ordine pubblico internazionale, l’adozione rappresentando l’unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale.

La Corte ricorda che il riconoscimento della sentenza straniera è subordinato al fatto che le sue disposizioni non producano effetti contrari all’ordine pubblico. L’art. 64, comma 1, lett. g), della L. 218/1995 focalizza l’attenzione sugli effetti che la pronuncia straniera è destinata a produrre nel nostro ordinamento. A questo proposito, è pacifico che la mera diversità delle soluzioni legislative nazionali in merito a una determinata questione non può di per sé considerarsi dar luogo a un problema di compatibilità con l’ordine pubblico, giacché, ove si accogliesse una simile lettura estensiva del limite in questione, le regole di diritto internazionale privato verrebbero private della loro ragione d’essere, insita nella diversità degli ordinamenti giuridici nazionali e nell’opportunità di realizzare tra di loro un profilo di coordinamento, funzionale ad agevolare la vita internazionale delle persone.

Tuttavia, nemmeno può presumersi, all’inverso, una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l’attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando a un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico del foro.

Ciò premesso, nella nozione di ordine pubblico internazionale rientrano, quindi, anzitutto quei principi fondamentali, quei valori della nostra Costituzione che esprimono la fisionomia inconfondibile della comunità nazionale. L’ordine pubblico internazionale comprende anche quelle altre regole che, pur non collocate nella Costituzione, danno concreta attuazione ai principi costituzionali o esprimono un principio generale di sistema.

L’operazione che il giudice deve svolgere ha a oggetto, non la coerenza della normazione interna di uno o più istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilità degli effetti che l’atto produce con i limiti non oltrepassabili. Essi sono costituiti: dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori; dal principio del preminente interesse del minore, di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne e in particolare nella recente riforma della filiazione; dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità e al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale, sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che fonda la genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna e il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità adottiva, unificati dall’obiettivo di conservare la continuità affettiva e relazionale ove già stabilizzatasi nella comunità familiare (Cass. Sez. Un. 31 marzo 2021, n. 9006, cit.).

Ad avviso delle Sezioni Unite, l’art. 12, comma 6, della L. 40/2004, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternità surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali, è norma di ordine pubblico internazionale.

Costituisce indice univoco della rilevanza del divieto, quale limite di ordine pubblico, la natura penale della sanzione posta dalla disposizione di legge a presidio del valore fondamentale della dignità della persona umana.

L’operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignità della donna.

L’art. 12, comma 6, della L. 40/2004 esprime l’esigenza di porre un confine al desiderio di genitorialità a ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile.

Nell’ordinanza di rimessione si metteva in dubbio che sia lesiva della dignità della donna una pratica considerata lecita nell’ordinamento di origine quando sia frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile fino alla nascita del bambino e soprattutto indipendente da contropartite economiche. In questa prospettiva, la trascrizione di atti di nascita o la delibazione di sentenze provenienti da ordinamenti che consentono la surrogazione di maternità – si osserva nell’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione – sarebbe possibile, e non si porrebbe in contrasto con limiti di ordine pubblico, al ricorrere di talune circostanze, quali lo spirito di solidarietà per altri, la presenza del diritto della gestante al ripensamento e la sussistenza del legame genetico del nato con almeno uno dei partner della coppia committente.

Tuttavia, le Sezioni Unite non condividono tale ricostruzione e non ritengono di escludere il contrasto con l’ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, là dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell’ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche. Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito.

Tuttavia, le Sezioni Unite rilevanti che concorre a formare l’ordine pubblico internazionale anche il best interest of the child. È un principio, questo, riconducibile agli artt. 2, 30 e 31 Cost. e proclamato da molteplici fonti internazionali ed europee, a cominciare dall’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. 176/1991, nonché dall’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’interesse del minore non legittima comportamenti disapprovati dall’ordinamento, ma esige e impone che sia assicurata tutela all’interesse al riconoscimento giuridico del rapporto con il genitore d’intenzione.

È “imprescindibile” – afferma la Corte costituzionale – la necessità di assicurare tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con chi ne abbia voluto la nascita in un Paese estero in conformità della lex loci e lo abbia poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale (sent. 33/2021).

L’inserimento, nell’ordine pubblico internazionale, dell’interesse del minore apre uno scenario nuovo. L’ordine pubblico internazionale, tradizionalmente concepito con funzione meramente preclusiva od oppositiva, viene infatti ad assumere una funzione positiva, consistente nel favorire l’ingresso di nuove relazioni genitoriali. Ne deriva un temperamento, una mitigazione (non già, beninteso, un superamento) della aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino.

Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d’intenzione. L’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983, che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita.

Il provvedimento giudiziario starnerò non è trascrivibile per un triplice ordine di ragioni: per la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane; perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo; infine perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato a uno strumento di carattere automatico, dato che l’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza.

La Corte rileva che va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner. L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte cost. 230/2020). La stessa Cassazione lo ha ribadito ammettendo il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto (Cass., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599).

La Corte rileva quindi che l’interesse del minore deve essere soddisfatto attraverso ladozione in casi particolari, ammettendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitore/figlio con valutazione ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.

La stessa Corte EDU sottolinea come l’adozione possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato, e a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino.

In conclusione, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “Poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983. Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.

giurista risponde

Restituzione assegno di mantenimento Quando devono essere restituite le somme versate con l’assegno di mantenimento o divorzile?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere:

  1. a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;
  2. b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;
  3. c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Sez. Un. 8 novembre 2022, n. 32914.

 

La Cassazione del 2021 aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione se i crediti relativi agli assegni che derivano dalla crisi familiare abbiano tutti le caratteristiche della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità dei crediti alimentari; se tali caratteristiche, se presenti, dipendano o meno dalla entità della somma; se nel caso in cui sia in discussione la non debenza dell’assegno sia possibile scorporare la quota di esso avente finalità alimentare.

Il caso riguardava una vicenda relativa alla richiesta di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, avanzata dall’ex moglie.

La Cassazione, nella pronuncia in esame, ha dato risposta ai quesiti indicati seguendo un analitico schema argomentativo.

Le Sezioni Unite rilevano che la questione riguarda la condanna della ricorrente, disposta dalla Corte d’appello, alla restituzione delle somme percepite dal coniuge separato e poi divorziato, dall’ottobre 2009, a titolo di assegno di mantenimento, alla asserita irripetibilità, in tutto o in parte (nei limiti della modesta entità dell’importo del contributo), delle somme versate a titolo di mantenimento, stante la natura sostanzialmente alimentare dell’obbligazione.

La questione implica, a sua volta, la soluzione di alcuni fondamentali quesiti: a) quello circa la sussistenza o meno di un principio generale di irripetibilità delle statuizioni economiche in sede di giudizio di separazione e divorzio (in relazione ai coniugi e ai figli), ricavabile dalla disciplina processuale; b) quello relativo alla natura alimentare (in tutto o in parte) o para-alimentare o con finalità anche alimentare dell’assegno di mantenimento del coniuge separato o divorzile, ricavabile dal diritto sostanziale e circa l’effettivo carattere di irripetibilità della prestazione di alimenti, desumibile, in difetto di un’espressa disposizione normativa, dalla complessiva disciplina dettata in materia o da principi costituzionali.

La Corte premette che in generale, sul contributo al mantenimento del coniuge, vanno svolte alcune considerazioni generali in ordine agli effetti della separazione e del divorzio (e della crisi del rapporto di coppia, avuto riguardo alle unioni civili) sui rapporti patrimoniali fra i coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento del coniuge (e dei figli).

La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significati mutamenti: a) il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c.; b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde invece il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno.

Si afferma, con orientamento prevalente, che il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato sorge e decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio.

Invece, l’assegno divorzile, del tutto autonomo rispetto a quello di mantenimento concesso al coniuge separato, a seguito della riforma introdotta nel 1987, e dell’intervento chiarificatore da ultimo espresso da queste Sezioni Unite nella sent. 18287/2018, ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5 L.div. (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione sia al fine di determinare il quantum dell’assegno.

Si è quindi evidenziato (Cass. Sez. Un. 18287/2018) che “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile – al pari dell’assegno di mantenimento in sede di separazione -, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”. In sostanza, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia o meno il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.

Quanto alla decorrenza dell’assegno divorzile, se, vigente la disciplina dettata dal testo originario della L. 898/1970, si era individuato tale momento, in correlazione con la definitiva acquisizione da parte dei coniugi dello status di divorziati, con riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, che segna lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del vincolo coniugale e che rispetto allo status predetto ha efficacia costitutiva (Cass. 3038/1977; Cass. 6485/1986), la riforma del 1987 ha introdotto un temperamento, prevedendo che la sentenza di primo grado volta a determinare la misura dell’assegno sia provvisoriamente esecutiva, riguardo ai provvedimenti di natura economica, e che il tribunale, nell’emanare la sentenza non definitiva (e questa Corte ne ha esteso la portata anche all’ipotesi in cui sia stata emessa sentenza definitiva di divorzio, Cass. 5140/2011, o di contestuale pronuncia sul divorzio e sull’assegno, Cass. 7458/1990), possa stabilire, motivatamente, che l’assegno decorra, ancor prima, a partire dalla data della domanda giudiziale, ex art. 4, pur in mancanza di una specifica richiesta di parte (Cass. 3351/2003; Cass. 19330/2020). Per il periodo precedente, la situazione economica rimane disciplinata dalla normativa sulla separazione dei coniugi (ove il divorzio sia pronunciato per il protrarsi della stessa).

Sia l’assegno di mantenimento sia quello divorzile possono subire variazioni, in aumento o in diminuzione, per effetto del cambiamento della situazione patrimoniale relativa al debitore o al creditore considerata al momento della sentenza. Quanto all’assegno divorzile se la necessità di un assegno si manifesti dopo il passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, esso verrà liquidato in separato giudizio, restando ferma la possibilità di avanzare la domanda successivamente alla sentenza di divorzio, anche in difetto di pregressa domanda giudiziale (Cass. 2198/2003, ove si è chiarito che il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi, che consente il riconoscimento dell’assegno, può verificarsi anche dopo il divorzio, proprio perché trova fondamento nel dovere di assistenza, e non nel nesso di causalità o di concomitanza tra divorzio e deterioramento delle condizioni di vita). Ove si verifichino mutamenti di circostanza, così da richiedere una modifica dell’assegno, la pronuncia potrebbe far retroagire tale aumento dal momento (successivo alla domanda) del mutamento di circostanza o addirittura disporlo a far data dalla decisione (cfr., sul punto, Cass. 15 marzo 1986, n. 3202).

La Corte osserva, in generale, sul tema degli alimenti, che l’obbligazione legale di alimenti, vale a dire la corresponsione dei mezzi atti a soddisfare i bisogni essenziali necessari alla persona per condurre una vita dignitosa (a es. vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, trasporto), trova anch’essa fondamento, al pari del diritto al mantenimento del coniuge e dei figli, nella solidarietà familiare, peraltro in un’accezione, quanto all’individuazione dei soggetti obbligati ex lege, di famiglia più estesa di quella nucleare cui è dedicato il libro primo del codice (rilevando rapporti di parentela, affinità, coniugio, unione civile, convivenza di fatto), ma essa può sorgere anche tra estranei. Si deve quindi tener conto (ai sensi del 2 comma dell’art. 438 c.c.) dei bisogni specifici del richiedente e delle condizioni economiche dell’obbligato (prevedendosi, conseguentemente, che vi siano più soggetti tenuti all’adempimento del dovere). La misura degli alimenti che il creditore può pretendere, non fissata dal legislatore in modo fisso, non dovrebbe superare, in generale, quanto sia necessario per la vita dell’alimentando (tenuto conto dei bisogni non solo materiali ma anche civili), avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne. In ogni caso, la valutazione deve essere operata in concreto e personalizzata.

Si è osservato che l’obbligazione alimentare si differenzi dall’obbligazione tipica civile per alcuni caratteri peculiari della sua specifica regolamentazione, dettata dall’art. 433 c.c. e ss., che si spiegano in relazione alla sua funzione: un regolamento di interessi rivolto alla realizzazione dei bisogni esistenziali di un soggetto privo dei mezzi necessari per provvedervi.

Ancora, la prestazione alimentare prescinde dallo stato soggettivo del creditore, salva la possibilità (art. 440, comma 1, c.c.) di riduzione (non di esclusione) degli alimenti, in considerazione della condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato. L’art. 448 bis c.c. (introdotto dalla Riforma della filiazione con L. 219/2012) contempla invece la perdita del diritto agli alimenti, a favore dei figli (e i loro discendenti), che vengono quindi esonerati dall’obbligazione alimentare, in caso di pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c.

In ambito successorio, in sede di separazione personale, nasce poi, a favore del coniuge cui sia addebitabile la stessa e che versi in stato di bisogno, un’obbligazione di natura anche alimentare nelle forme di un assegno vitalizio (art. 548 c.c.). L’art. 9bis L. div. prevede poi, in presenza di determinati presupposti, quali la titolarità dell’assegno di divorzio e lo stato di bisogno, la possibilità di attribuire, dopo il decesso dell’obbligato, un assegno periodico a carico dell’eredità, tenuto conto dell’importo dell’assegno post-coniugale, dell’entità del bisogno, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ai sensi dell’art. 440 c.c., la sentenza è sempre subordinata alla clausola rebus sic stantibus e quindi, venendo meno uno dei presupposti del credito alimentare, se ne potrà chiedere la riduzione o la cessazione (ovvero l’aumento in caso di peggioramento delle condizioni economiche). Secondo Cass. 1231/1967, “La possibilità che, per una causa qualsiasi, lo stato di bisogno dell’alimentando si manifesti o si aggravi da un momento all’altro, modificandosi la precedente situazione di fatto, importa, da una parte, che nell’obbligazione alimentare deve ritenersi insito il carattere di prestazione rebus sic stantibus, suscettibile, come tale, di adeguamenti e modifiche, e, dall’altra, che, nello stabilire se il diritto a tale prestazione sussista o non e, nell’affermativa, in quale misura questa debba essere eseguita, il giudice ben può tener conto di tutti i mutamenti verificatisi rispetto alla situazione di fatto in precedenza considerata, non esclusi quelli eventualmente prodottisi nel corso del giudizio” (conf. Cass. 1577/2019, stante l’inequivoco tenore dell’art. 440 c.c.).

Quanto alla decorrenza, l’art. 445 c.c., prescrive, per le obbligazioni alimentari legali (non quelle da negozio giuridico, Cass. 3525/1968, la cui decorrenza è fissata in via pattizia) che gli alimenti siano dovuti dalla domanda ovvero dalla costituzione in mora del debitore, cui deve però seguire entro sei mesi la domanda giudiziale (Cass. 4011/1999: “Il principio secondo cui l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento decorre (in applicazione della regola fissata per gli alimenti dall’art. 445 c.c.) dalla data della presentazione della domanda da parte dell’avente diritto riguarda soltanto il profilo dell’an debeatur della domanda stessa, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il quantum tenendo conto dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità della fissazione di misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati”).

La Corte, previa analisi del quadro normativo e dei contrapposti orientamenti giurisprudenziali, indaga la natura o meno alimentare o “para-alimentare” o con finalità anche assistenziale della prestazione di mantenimento, nella separazione e divorzio.

Pur nella comune riconduzione al concetto di solidarietà familiare (a eccezione del rapporto donatatario/donante), sussistono indubbie differenze strutturali e funzionali tra gli alimenti, secondo la modalità di somministrazione periodica di somma di denaro, e l’assegno di mantenimento del coniuge separato e di divorzio (al di fuori dell’ipotesi di corresponsione in unica soluzione): a) il diritto al mantenimento del coniuge separato, cui non sia addebitabile la separazione, presuppone la mancanza di mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato; b) l’assegno divorzile ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico); c) presupposti del diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno del soggetto richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato, rilevando, come criterio per determinarne la misura concreta, anche la capacità economica dell’obbligato di provvedere alle necessità del bisognoso (riferita, quanto al donatario, anche al valore della donazione ricevuta).

Solo il diritto agli alimenti richiede tra i presupposti costitutivi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento e, di regola, tende ad appagare le più elementari e basilari esigenze di vita quali il vitto, l’alloggio, il trasporto e le cure mediche, ma anche bisogni “civili”, quali l’istruzione, avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne.

Tuttavia, costituisce acquisizione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui, nonostante la sostanziale diversità delle condizioni che legittimano le due domande, la richiesta di alimenti non costituisce una domanda nuova, ma un minus necessariamente ricompreso nella più ampia richiesta di mantenimento (Cass. 4702/1978; Cass. 51/1981, Cass. 5698/1988; Cass. 2128/1994; Cass. 5677/1996; Cass. 5381/1997; Cass. 4198/1998; Cass. 1761/2008; Cass. 10718/2013; Cass. 27695/2017).

La stessa Corte Costituzionale, con la sent. 17/2000, ha, di fatto, nel ritenere l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, ricompreso tra i crediti privilegiati di cui all’art. 2751, n. 4, c.c. e art. 2778, n. 17, c.c., i crediti di mantenimento in caso di separazione e i crediti da assegni divorzili, rispondendo entrambi i crediti alla medesima funzione, precisando che il credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato ha un contenuto più esteso di quello alimentare in senso stretto.

In sostanza, si è inteso dare rilievo al comune carattere (o meglio alla comune finalità) “assistenziale” delle diverse prestazioni e al fatto che anche l’assegno di mantenimento del coniuge separato e l’assegno divorzile, nella sua componente propriamente assistenziale, nonché l’assegno di mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente, rispondano, al pari degli alimenti, alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, sia pure in un’accezione più ampia e non essendo necessario uno stato di indigenza o bisogno, come negli alimenti.

Il richiamo, nelle situazioni di crisi della famiglia, ai principi costituzionali generali (artt. 2 e 29 Cost.), strumenti più duttili e quindi più efficienti, talvolta, della disciplina positiva, si realizza anche attraverso il riferimento al “principio di solidarietà sociale”, che nel settore della società familiare prende il nome di “solidarietà familiare” o “solidarietà post – familiare”, che deve ispirare i componenti della famiglia a comportamenti di correttezza e di buona fede, finalizzati, pur a fronte della rottura della famiglia, a un riequilibrio del rapporto di coppia e tra genitori e figli, al fine di evitare tendenzialmente, nei rapporti reciproci, conflittualità e abusi.

Infine, la Corte verifica la questione dell’effettiva irripetibilità delle prestazioni alimentari, e la possibile giustificazione di una parziale irripetibilità delle prestazioni di mantenimento nelle situazioni di crisi del rapporto di coppia, con i suoi imiti.

È stato affermato dalla Cassazione che la retroattività della sentenza, nel rapporto tra sentenza di primo grado e sentenza di appello, nel caso in cui escluda o riduca l’assegno stabilito nella sentenza impugnata, può operare solo a favore del beneficiario dell’assegno, considerato il carattere “latamente alimentare” o la funzione anche alimentare dell’assegno (nel senso della ricomprensione del minus alimentare nella più ampia obbligazione di mantenimento) e la conseguente applicabilità, per analogia, agli assegni separativi o divorzili del trattamento riservato agli alimenti, ragione questa per cui l’effetto retroattivo della sentenza debba in ogni caso conciliarsi con i caratteri della impignorabilità, della non compensabilità e “della irripetibilità” dell’assegno di mantenimento “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.”, propri della disciplina dell’assegno alimentare Ora, in effetti, non si rinviene nell’ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno propriamente alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando, atteso che l’art. 447 c.c., si occupa di disciplinare la cessione del credito alimentare e la sua compensazione con un controcredito dell’obbligato, ma non ne sancisce l’irripetibilità, mentre gli artt. 545 e 671 c.p.c., contemplano l’impignorabilità (non assoluta, essendo pignorabili i crediti a loro volta alimentari, a condizione dell’autorizzazione del giudice) e l’insequestrabilità dei crediti alimentari. Le stesse disposizioni specifiche degli artt. 440 e 446 c.c., non escludono la possibilità del ricorso al generale rimedio dell’azione di ripetizione di indebito, nelle ipotesi di riduzione dell’assegno alimentare fissato in via cautelare e provvisoria dal Presidente del Tribunale o di esclusione del diritto con il provvedimento definitivo.

Di conseguenza, non può negarsi l’efficacia caducatoria e ripristinatoria dello status quo ante e dunque sostitutiva della sentenza impugnata propria della sentenza emessa in esito al successivo grado di giudizio, sulla base del semplice riferimento alla disciplina dettata per gli alimenti in senso proprio.

Peraltro, riguardo alla questione che in questa sede interessa, non si tratterebbe di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme di denaro versate sulla base di un supposto e parzialmente inesistente diritto al mantenimento.

In realtà, un temperamento al principio di piena ripetibilità trova giustificazione solo per ragioni equitative, di stampo c.d. “pretorio”.

Invero, l’opinione, pacifica in giurisprudenza, secondo cui la sentenza che escluda o riduca l’assegno alimentare concesso con provvedimento provvisorio o con la sentenza definitiva del grado inferiore del processo non potrebbe, a determinate condizioni, comportare la ripetibilità delle maggiori somme già versate, si giustifica su di un piano “equitativo”, sulla base nei principi costituzionali di solidarietà umana (art. 2 Cost.) e familiare in senso ampio (art. 29 Cost.: la società “naturale” costituita dalla famiglia), e solo nella misura in cui si esoneri il soggetto beneficiario, dal restituire quanto percepito provvisoriamente anche “per finalità alimentare”, sul presupposto che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state verosimilmente consumate per far fronte proprio alle essenziali necessità della vita (argomento tratto da art. 438, comma 2, c.c.).

Occorre dunque dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, espressione di quella solidarietà che trova sede anche nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia e anche nelle situazioni di crisi della unione, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa.

Non si tratta di dettare una regola di “automatica irripetibilità” delle prestazioni rese in esecuzione di obblighi di mantenimento, quanto di operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – palesata nel presente giudizio dal controricorrente – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto.

Ora, ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati), ovvero si addebiti la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare, non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità).

Per converso, si deve affermare che, invece, non sorge, a favore del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, il diritto di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione) sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato “al ribasso”; il tutto sempre se l’assegno in questione non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressoché tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione.

Ciò si giustifica in considerazione della tutela di quella solidarietà post-familiare, sottesa in tutta la disciplina relativa alla crisi della famiglia, e del fatto che non è in discussione, in tali ipotesi, l’esistenza e la permanenza, in giudizio, di un soggetto in condizioni di debolezza economica. Si deve infatti ragionevolmente presumere, in rapporto all’entità della somma di denaro litigiosa, che le maggiori somme (attribuite in via provvisoria o in via definitiva con la sentenza di primo grado), versate medio tempore dal richiesto al richiedente, siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole.

Si tratta, oltretutto, di una regola anche di esperienza pratica, in quanto il denaro, nell’ambito di cifre di modesta entità, percepito in funzione del necessario sostentamento del coniuge, è da presumere che sia stato speso a quel fine, con conseguente esclusione di ogni, inutile, azione di ripetizione.

L’entità, necessariamente, modesta di tale somma di denaro non può essere determinata in maniera fissa e astratta, considerato che il legislatore non ha fissato in maniera rigida la misura e il contenuto neppure della prestazione alimentare in senso proprio, essendosi ritenuta necessaria una valutazione personalizzata e in concreto, la cui determinazione è riservata al giudice di merito, valutate tutte le variabili del caso concreto: la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica, nonché il contesto socio-economico e territoriale in cui i coniugi o gli ex coniugi sono inseriti.

giurista risponde

Articolo di stampa e diritto all’oblio È lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività a essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale. – Cass. I, ord. 31 gennaio 2023, n. 2893.

La Cassazione, con l’ordinanza in esame, è intervenuta in riferimento alla deindicizzazione degli articoli dai normali motori di ricerca, ove relativi a casi di cronaca giudiziaria.

In conformità al principio che richiede l’aggiornamento e la contestualizzazione dei dati personali riferibili all’interessato, la Corte ha ritenuto che al fine di un corretto bilanciamento degli interessi in conflitto non sia sufficiente la cancellazione dell’articolo dall’archivio on line del quotidiano, ma sia necessario procedere all’aggiornamento della notizia.

Difatti, il mero accoglimento della richiesta di cancellazione negherebbe senza mezzi termini il diritto dei consociati alla memoria storica e documentale, interesse di rilievo costituzionale ai sensi degli artt. 21 e 33 Cost, a esclusivo favore del diritto alla riservatezza e all’identità personale del soggetto coinvolto nella vicenda giudiziaria.

Diversamente, l’accoglimento della richiesta di aggiornamento mediante apposizione in calce all’articolo di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito del procedimento giudiziario con l’eventuale assoluzione dell’interessato, garantirebbe un equo bilanciamento tra il diritto all’identità personale e il diritto alla memoria storica e documentale, secondo il principio del minimo mezzo.

La Corte ha perciò considerata lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato. Ciò, tuttavia, ha specificato la Corte, a condizione che: a) a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché; b) a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato. La soddisfazione di tali requisiti, infatti, consente una contemperazione bilanciata del diritto, ex art. 21 Cost., della collettività a essere informata e a conservare memoria del fatto storico e del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale.