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Nesso di causalità e interruzione da concause successive Il nesso di causalità che collega le condotte omissive o commissive dell’imputato all’evento lesivo prodotto, può essere interrotto da concause successive idonee a determinare l’evento?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Con riferimento al nesso di causalità, fermo il principio della c.d. equivalenza delle cause o della conditio sine qua non, le cause sopravvenute intanto possono giudicarsi atte ad interrompere il nesso di causalità con la precedente azione o omissione dell’imputato, in quanto diano luogo ad una sequenza causale completamente autonoma da quella determinata dall’agente, ovvero ad una linea di sviluppo dell’azione precedente del tutto autonoma ed imprevedibile, ovvero ancora nel caso in cui si prospetti un processo causale non totalmente avulso da quello antecedente, ma caratterizzato da un percorso totalmente atipico, di carattere assolutamente autonomo ed eccezionale ovverosia integrato da un evento che non si verifica se non in fattispecie del tutto imprevedibili, tali non essendo ad esempio, l’eventuale errore medico. – Cass., sez. IV, 14 marzo 2024, n. 10656.

L’art. 41 c.p. afferma a tal proposito, il principio dell’equivalenza delle cause, stabilendo da un lato la responsabilità del soggetto agente seppure in presenza di cause indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, qualora sia provato che l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato a prescindere da esse. Dall’altro la non responsabilità del soggetto agente innanzi a cause sopravvenute del tutto eccezionali, atipiche ed anomale rispetto al decorso dei fatti, in base ad un giudizio prognostico e controfattuale.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte omissive dell’agente e l’evento morte del soggetto leso, tenuto conto delle cause determinanti la morte. In primo e secondo grado era stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato, in considerazione di una ricostruzione dei fatti che vedeva l’imputato aver posto in essere una condotta omissiva causativa dell’incidente mortale, senza la quale la preesistente condizione medica dell’infortunato non sarebbe degenerata a tal punto da causarne il decesso. Per tutto il giudizio di merito infatti, la dinamica dell’infortunio non è mai stata oggetto di contestazione, ad esserlo invece è stato il nesso di causalità che ricollega l’evento morte alle condotte dell’agente, non potendosi escludere – a dire del ricorrente – che il decesso fosse sopraggiunto per causa anomala ed indipendente rispetto alle lesioni di cui all’infortunio.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando violazione di legge penale e vizio di motivazione quanto al ritenuto nesso causale tra la condotta dell’imputato e il decesso della vittima. Il prevalente e consolidato orientamento interpretativo del disposto dell’art. 41, comma 2 c.p., più volte riaffermato dalla giurisprudenza di legittimità e sopra riportato è stato ripreso nella decisione de qua della Corte che, ritenendo il motivo infondato ha rigettato il ricorso.

Contributo in tema di “Nesso di causalità, condotte omissive e commissive e interruzzione da concause successive”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Scriminante legittima difesa per chi ha provocato la situazione di pericolo È possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, quando il soggetto che la invoca abbia lui stesso provocato la situazione di pericolo o si sia alla stessa volontariamente esposto pur avendo la possibilità di sottrarsi?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non è possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, nemmeno putativa, quando il soggetto che la invoca ha provocato lui stesso la situazione di pericolo, ovvero ha “accettato la sfida” innescando una sorta di duello con l’avversario, e nemmeno è invocabile quando il soggetto si è volontariamente esposto al pericolo, pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso in presenza di un commodus discessus. La legittima difesa è, infatti, configurabile, solo quando l’autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all’offesa mediante aggressione. – Cass., sez. I, 5 marzo 2024, n. 9435.

L’imputato propone ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari e confermata dal Tribunale del Riesame, lamentando l’errata applicazione delle norme sul riconoscimento della scriminante della legittima difesa, anche putativa.

Il fatto storico ha ad oggetto una lite condominiale tra due famiglie iniziata con ingiurie ed offese reciproche scambiate dai balconi delle rispettive abitazioni. A seguito delle aggressioni verbali, l’imputato era sceso nell’androne del palazzo armato di coltello e, una volta raggiunto dalla vittima, si scagliava contro la stessa colpendola più volte all’addome, provocandone la morte.

La difesa evidenzia il vizio di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale del Riesame che – erroneamente – non ha riconosciuto la scriminante della legittima difesa, almeno putativa, in considerazione del fatto che l’indagato aveva temuto che la vittima avesse con sé una pistola che già in precedenti occasioni aveva minacciato di voler usare. Non solo. Sostiene la difesa che i giudici non avrebbero considerato che, secondo la giurisprudenza costante, la scriminante può essere riconosciuta anche se il pericolo è stato volontariamente causato dall’aggressore che non poteva evitarlo con la fuga, circostanze, queste, ritenute sussistenti nella fattispecie de qua.

Il Tribunale del Riesame, invece, ha escluso l’applicazione della scriminante perché l’aggressione nell’androne era iniziata per volontà dell’imputato contro la vittima, perché non era stata provata la circostanza che quest’ultima potesse avere con sé una pistola, ma soprattutto perché l’imputato si era volontariamente esposto al pericolo e, quindi, ad una possibile reazione della vittima quando, invece, ben avrebbe potuto rifugiarsi nella propria abitazione o andare in strada dove c’erano molte persone.

La Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla difesa ritenendo che la decisione impugnata sia perfettamente conforme ai consolidati principi giurisprudenziali.

Smentendo, infatti, l’affermazione del difensore dell’imputato, la Corte evidenzia che è pacifico e consolidato in giurisprudenza che la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, non può essere riconosciuta quando il soggetto che la invoca abbia causato, o abbia concorso a causare, la situazione di pericolo; nemmeno può essere riconosciuta quando il soggetto si sia volontariamente esposto al pericolo pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso senza pregiudizio o quando il soggetto abbia “accettato la sfida” con il proprio avversario perché in tal caso manca la convinzione di dover agire per lo scopo difensivo.

Contributo in tema di “Scriminante della legittima difesa invocata da chi ha provocato la situazione di pericolo”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio Come occorre impostare il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio ai fini della distinzione tra i reati di incendio e di danneggiamento seguito da incendio?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio va formulato sulla base di una prognosi postuma, “ex ante”, rapportato al momento in cui l’autore ha posto in essere la propria azione, e non già tenendo conto di come il fatto si è concluso. Il giudizio prognostico, inoltre, deve essere a base parziale, ovvero fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (Cass., sez. I, 16 novembre 2023, n. 5527).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la qualifica giuridica del fatto in oggetto.

È stata applicata, a seguito di ordinanza, la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 423 c.p., per avere egli cagionato l’incendio di un’autovettura posteggiata in un’area di parcheggio, cospargendo il veicolo di liquido accelerante ed innescando il fuoco che, avvolgendo il mezzo, lo ha distrutto, con l’aggravante di aver commesso il fatto in orario notturno e in circostanze di tempo tali da ostacolare la pubblica e privata difesa.

L’indagato, a seguito di riesame, è stato rimesso in libertà, previa riqualificazione del fatto di reato ai sensi dell’art. 424, comma 1, c.p.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione dal Procuratore della Repubblica, contestando la qualificazione giuridica del fatto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato quanto stabilito da Cass. 17 maggio 2019, n. 29294, relativamente alla distinzione tra reato di incendio di cui all’art. 423 c.p. e reato di danneggiamento a seguito di incendio ex art. 424 c.p.

La differenza inerisce l’elemento soggettivo. Il primo, infatti, richiede la sussistenza del dolo generico e dunque «la volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, mentre il secondo è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, senza la previsione che ne deriverà un incendio».

La Cassazione ha, inoltre, richiamato la condivisa interpretazione dell’art. 423 c.p. fornita dalla Cass. 14 dicembre 2021, n. 46402, secondo cui ai fini dell’integrazione di tale delitto occorre distinguere il concetto di fuoco da quello di incendio, poiché si determina quest’ultimo solo quando il fuoco divampi irrefrenabilmente, «così da porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone».

È stato chiarito che il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio vada formulato sulla base di una prognosi postuma, ex ante, relativa al momento in cui è l’autore ha compiuto la propria azione. Tale giudizio deve essere a base parziale, cioè fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (così anche Cass. 22 aprile 2010, n. 35769)

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che in sede di riesame si era verificata una omissione della valutazione ex ante.

Alcune circostanze, invece, andavano valorizzate, quali l’utilizzo di liquido accelerante con conseguente flash fire generatosi dallo sversamento di liquido accelerante e la vicinanza dell’autovettura ad alberi ad alto fusto, alla pubblica via, al palo dell’illuminazione elettrica ed un tombino contente cavi elettrici di rame.

Nell’ordinanza impugnata, inoltre, non è stato tenuto conto che, all’arrivo dei Vigili del Fuoco, il fuoco era giunto ad intaccare un albero a grande fusto posto a distanza di 3 m e che , secondo il rapporto dei Carabinieri, qualora le fiamme avessero avvolto il fusto maggiormente, si sarebbe verificato un effetto domino tra gli alberi a causa del quale le fiamme si sarebbero propagate verso gli immobili adiacenti e i veicoli parcheggiati nelle vicinanze.

L’intervento che aveva impedito la diffusione delle fiamme – l’arrivo dei Vigili del Fuoco – costituisce, dunque, fattore esterno, indipendente dalla volontà dell’agente.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del riesame, affinché proceda a nuovo giudizio, attenendosi al principio evidenziato in massima.

 

Contributo in tema di “Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Accesso al fascicolo digitale e terzo non costituito È possibile l’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, l’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito è possibile e non si pone in contrasto con la disciplina primaria dell’istituto dell’intervento. – Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 12 aprile 2024, n. 5.

Preliminarmente è opportuno ricordare che, in materia di accesso al fascicolo digitale, l’art. 17, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 28 luglio 2021, consente l’accesso, previa autorizzazione del giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel processo. Tale previsione non si pone in contrasto con la disciplina primaria, non alterando i presupposti e le condizioni dell’istituto processuale dell’intervento, che restano disciplinati dagli artt. 28, 50, 51, 97, 102, comma 2, 109, comma 2, c.p.a. La facoltà di accesso al fascicolo è, infatti, funzionale al diritto di difesa, perché in caso contrario il terzo interverrebbe al buio e ciò comporterebbe ingiustificata ed eccessiva restrizione del diritto di difesa di chi aspira a conoscere gli atti di un processo in cui non è stato evocato.

Ad ogni modo, la norma non viola la disciplina in materia di protezione dei dati personali, atteso che, in base al diritto dell’Unione europea, il divieto di trattamento non opera se è necessario accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali.

Contributo in tema di “Accesso al fascicolo digitale e terzo non costituito”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Contratto preliminare e condizione potestativa mista Nel contratto preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione potestativa mista che il promissario acquirente ottenga, da un ente pubblico, la necessaria autorizzazione amministrativa, l’eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente può ritenersi contrario al principio di buona fede, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 1359 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Carmela Quagliano e Davide Venturi

 

Nel caso in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un ente pubblico la necessaria autorizzazione amministrativa, la relativa condizione è qualificabile come “mista”, dipendendo la concessione dei titoli abilitativi urbanistici non solo dalla volontà della P.A., ma anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. Ne deriva che la mancata concessione del titolo comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente. Ciò, in primo luogo, perché tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione. In secondo luogo, perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede, e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico. La sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista, con conseguente esclusione dell’obbligo di considerare avverata la condizione. – Cass., sez. II, 6 marzo 2024, n. 5976.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’applicazione dell’art. 1359 c.c. (ossia l’avveramento fittizio della condizione) e, quindi, in ordine alla violazione del principio di buona fede, per le ipotesi di omissione dell’elemento potestativo nell’ambito del contratto sottoposto a condizione potestativa mista.

In primo grado, era stata respinta la domanda, di una società promittente venditrice, di recesso da un contratto preliminare di compravendita immobiliare.

In secondo grado, la Corte di Appello dava atto, innanzitutto, della conclusione, tra le parti, di due distinti negozi: il primo, quale preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione sospensiva del mutamento di destinazione urbanistica dell’area; il secondo, teleologicamente connesso al primo, in quanto funzionale all’avveramento della condizione sospensiva in esso dedotta, quale contratto di mandato con cui era conferito mandato alla promissaria acquirente affinché portasse a termine l’attività necessaria per l’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa.

Premesso il mancato avveramento della condizione, cui era subordinato il contratto, e sull’assunto che controinteressata all’avveramento di detta condizione fosse da reputarsi la promissaria acquirente, sulla quale, perciò, incombeva la prova della incolpevolezza dell’inadempimento – dimostrazione che, in specie, non era avvenuta –, il giudice di appello, ritenuta la sussistenza della fictio iuris di cui all’art. 1359 c.c., sosteneva la legittimità del recesso della promittente acquirente dal contratto preliminare e il conseguente diritto della stessa di trattenere la caparra confirmatoria.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione contestando, tra l’altro, l’erroneità della statuizione circa l’avveramento della condizione conseguente all’inottemperanza dell’onere probatorio ex art. 1359 c.c. In particolare, si obietta che gravi su chi lamenti il mancato avveramento della condizione, dedotta in contratto, l’onere di provarne l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo alla controparte, indipendentemente dal fatto che tale comportamento sia consistito nel violare obblighi imposti dalla legge o dal contratto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il motivo di ricorso, ha innanzitutto evidenziato che l’applicazione dell’art. 1359 c.c. è strettamente legata, da un lato, all’accertamento di un vero controinteressato al verificarsi della condizione e, dall’altro, alla prova del dolo o della colpa. Inoltre, la Corte di Cassazione ha ricordato quanto stabilito dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui, l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione, è principio che riguarda anche il contratto sottoposto a condizione potestativa mista, qual è quello in esame e «in tale ipotesi, l’omissione di un’attività, intanto, può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, che, invece, deve escludersi per l’attività di attuazione dall’elemento potestativo in una condizione mista» (Cass. 22 giugno 2023, n. 17919; Cass. 22 agosto 2022, n. 25025; Cass. 11 settembre 2018, n. 22046).

In specie, la decisione della Corte di Appello, che aveva statuito in ordine all’avveramento della condizione, non era sorretta da adeguata motivazione laddove, per un verso, aveva dato per scontato che vi fosse una parte contraria al verificarsi della condizione (la promissaria acquirente) – mentre, in generale, entrambe le parti di un contratto bilaterale hanno interesse alla sua conclusione – e, per altro verso, aveva ritenuto l’inottemperanza al negozio di mandato, di per sé sola, indice di un comportamento doloso o colposo.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte di Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita e condizione potestativa mista”, a cura di Carmela Quagliano e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Ricorso avverso atti infra procedimentali È ammissibile il ricorso avverso atti infra procedimentali?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, è inammissibile il ricorso avverso atti infra procedimentali. – Cons. Stato, sez. I, 8 aprile 2024, n. 451.

Il Collegio ha evidenziato che: “Nel ricorso in esame la determinazione impugnata, avente ad oggetto la sospensione del procedimento disciplinare in virtù della pregiudiziale pendenza del procedimento penale nei confronti del ricorrente, costituisce atto endoprocedimentale, non solo adottato nell’interesse e a garanzia del ricorrente, ma soprattutto, privo di rilevanza lesiva nei suoi confronti”.

Si è inoltre evidenziato che anche secondo giurisprudenza civile: “In tema di procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non sussiste l’interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e diretti in quanto meramente endoprocedimentale”.

In conclusione, è inammissibile il ricorso proposto avverso la determinazione che sospende, ex art. 1393, comma 1, D.Lgs. 66/2010, il procedimento disciplinare di stato per acquisire gli esiti di quello penale presupposto venendo in rilievo un atto infra procedimentale privo di effetti lesivi.

 

Contributo in tema di “Ricorso avverso atti infra procedimentali”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

 

Contributo in tema di “Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Assicurazione responsabilità civile e clausola claims made In tema di assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario è valida la clausola claims made che preveda l’ultrattività della polizza per un periodo inferiore a dieci anni?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made che non preveda un periodo di ultrattività decennale della polizza conforme alla previsione di cui all’ art. 11 L. 24/2017 non può essere dichiarata per ciò solo nulla, dovendosi piuttosto procedere a verificare se nel caso concreto, anche alla luce del rapporto tra rischio e premio, risulti effettivamente svuotare di ogni ragion pratica il contratto. – Cass., sez. III, 12 marzo 2024, n. 6490.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della compagnia di assicurazioni avverso la sentenza della Corte d’Appello che, dichiarata la nullità della clausola che limitava la validità della polizza al caso di richieste formulate entro dodici mesi dalla scadenza della stessa, l’ aveva sostituita con la clausola di ultrattività decennale di cui all’art. 11 L. 24/2017 in tema di responsabilità sanitaria.

I Giudici di legittimità ricordano a proposito che il potere di sostituzione della clausola claims made tratteggiato con la sentenza Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437 presuppone anzitutto un corretto accertamento della nullità contrattuale e poi una corretta individuazione del sostrato sostitutivo che realizzi un equo contemperamento delle posizioni dei contraenti.

Nel caso di specie, invece, il giudice a quo era intervenuto ravvisando un “buco di copertura” dovuto alla mancata previsione di una clausola di ultrattività decennale, senza ulteriormente motivare se la specifica conformazione della clausola di ultrattività annuale, riguardata alla luce del rapporto tra rischio e premio, svuotasse effettivamente di ogni ragion pratica il contratto.

In altri termini la Corte d’Appello aveva considerato la previsione contenuta nel secondo periodo dell’art. 11, della legge Gelli Bianco quale regola generale in tema di copertura assicurativa in ambito sanitario, sanzionando con la nullità la convenzione non aderente a detto paradigma.

La Suprema Corte censura il difetto di motivazione e l’omessa indagine in concreto in ordine all’idoneità della clausola a realizzare gli interessi delle parti.

Si tratta di un’omissione ancor più significativa se si considera che in altre sedi la clausola claims made con previsione di ultrattività annuale è stata ritenuta valida dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine, rileva che l’ultrattività decennale è prevista per la sola ipotesi della cessazione definitiva dell’attività professionale e che pertanto non costituisce un modello inderogabile in materia di assicurazioni sulla responsabilità civile del medico.

Contributo in tema di “Assicurazione della responsabilità civile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Assegno divorzile e incentivo all’esodo L’assegno divorzile può essere riferito anche all’incentivo all’esodo, oltre che al trattamento di fine rapporto (ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970)?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1979, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. – Cass., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229.

La vicenda è quella di due ex coniugi, uno dei quali si è visto riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio ex art. 5, comma 6, L. 898/1970, mentre l’altro aveva conseguito somme a titolo di indennità di fine rapporto (a cui si riferisce l’art. 12bis della legge citata) e di incentivo all’esodo. Più nello specifico, il giudizio di primo grado fra le due parti si era concluso nel senso del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, il cui importo è stato però determinato tenendo conto del solo trattamento di fine rapporto. La pronuncia veniva confermata in appello, con un discostamento da un precedente di legittimità favorevole a riferire il menzionato art. 12bis anche all’incentivo all’esodo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). Si è quindi ricorso in Cassazione, con successiva rimessione alle Sezioni Unite.

È opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dall’analisi del dato normativo. L’art. 12bis, L. 898/1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della medesima, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se maturata dopo la sentenza. Tale indennità è pari al 40% dell’indennità riferibile agli anni di coincidenza fra rapporto di lavoro e matrimonio.

L’incentivo all’esodo, invece, è la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità del lavoratore ad addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera, oggetto di accordo negoziale.

Si evidenzia l’esistenza di un contrasto, relativo alla natura dell’incentivo all’esodo e, in conseguenza, della riferibilità ad esso dell’art. 12bis (testualmente riferito solo all’indennità di fine rapporto).

Per un primo orientamento, infatti, la menzionata norma sarebbe riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. Le somme erogate a tale titolo costituirebbero reddito da lavoro dipendente, in quanto finalizzate a sollecitare e remunerare una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata. A sostegno di tale soluzione si evidenzia altresì la parificazione, da parte del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 17 e 19, D.P.R. 917/1986), delle discipline del trattamento di fine rapporto e dell’incentivo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171).

Per un secondo orientamento, invece, l’art. 12bis farebbe riferimento all’indennità menzionata ed unicamente ad essa. Sarebbe riferito, più nello specifico, all’indennità – comunque denominata – che maturi alla cessazione del rapporto di lavoro e che sia determinata in proporzione alla durata dello stesso e all’entità della retribuzione corrisposta (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

L’indennità di fine rapporto non è più determinata in base all’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi tempo per tempo erogatigli e periodicamente rivalutati: in sintesi, si tratta di un compenso ancorato allo sviluppo economico della carriera, e gli è comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 e Cass. 14 maggio 2013, n. 11479). Tenendo presente ciò, si rende ben evidente la ratio dell’art. 12bis, L. 898/1970, che ha le stesse finalità – assistenziale e perequativo-compensativa – dell’assegno divorzile: in base al principio di solidarietà, si riconosce un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, deve tener conto non solo del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Si deve, cioè, far sì di appianare la condizione di squilibrio riconducibile al sacrificio di aspettative professionali e reddituali, conseguente all’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia. La ratio solidaristica e assistenziale dell’art. 12bis viene evidenziata, peraltro, anche nei relativi lavori parlamentari, ed altresì dalla Consulta (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24). Si attua una partecipazione, posticipata, che realizza non solo una funzione assistenziale, ma anche una compensativa, ovvero è rapportata al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28278).

L’automatismo percentuale di cui all’art. 12bis, rilevano le Sezioni Unite in commento, si giustifica solo in base alla condivisione della medesima ratio dell’assegno divorzile. D’altronde, ciò a cui si partecipa in base all’art. 12bis è una porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente, che diviene esigibile al momento della cessazione del rapporto: si tratta, quindi, di un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che si è sacrificato. È quindi assai significativo, in tal senso, il riferimento agli anni in cui il rapporto è coinciso con il matrimonio (art. 12bis, comma 2).

Tale digressione è necessaria giacché, evidenziata la ratio dell’art. 12bis, si pone il problema del se esso si riferisca unicamente all’indennità di fine rapporto, o abbia oggetto più ampio. Invero, non si ha perfetta coincidenza con l’art. 2120 c.c. (che riguarda il trattamento di fine rapporto), e da ciò viene evinto un campo di applicazione dell’art. 12bis che è più ampio. La parziale coincidenza lessicale, osserva però la Suprema Corte, deve far propendere per l’interpretazione per cui l’art. 12bis non si riferisce a tutte le prestazioni a cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che condividono la logica del trattamento di fine rapporto. L’art. 12bis, cioè, si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e sono determinate proporzionalmente alla sua durata e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). È, questo, il criterio discretivo fra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile può e non può esigere ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970.

Ciò posto, è evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Tale indennità, infatti, non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sottoforma di assegno divorzile (Cass.17 aprile 1997, n. 3294). Tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, e quindi non ricorre l’esigenza di assicurare (in chiave assistenziale e perequativo-compensativa) una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio: si è, piuttosto, innanzi a un’attribuzione patrimoniale che discende da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

Non vengono ritenuti dirimenti, inoltre, gli argomenti basati sul Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cui si è accennato (Cass. 12 luglio 2067, n. 14171): la Suprema Corte, infatti, ritiene che il regime fiscale dell’indennità non interferisca con la qualificazione civilistica della stessa.

Le Sezioni Unite, per ciò, concludono nel senso della non spettanza al coniuge divorziato della quota del 40% dell’indennità in questione, nei termini riportati in massima.

*Contributo in tema di “Assegno divorzile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Crisi rapporto coniugale e caratteri dei crediti I crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto coniugale possiedono tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Cass. S.U. 8 novembre 2022, n. 32914.

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si pronuncia sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, nel caso in cui una successiva decisione giudiziale modifichi le condizioni economiche già stabilite da una pregressa pronuncia.

Il ricorso è stato promosso avverso la decisione con cui la Corte d’Appello di Roma, nell’accogliere il ricorso incidentale promosso dall’ex marito, aveva condannato la moglie alla restituzione delle somme ricevute a titolo di assegno di mantenimento in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.

In particolare, con il quinto motivo di ricorso viene evidenziata la natura alimentare dell’assegno in questione, da cui deriverebbe l’irripetibilità delle somme previamente versate.

La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ricostruito il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento, hanno respinto il suddetto motivo di ricorso, confermando la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di mantenimento in virtù di provvedimenti provvisori del presidente del tribunale.

Dopo aver ricostruito i caratteri e le diverse funzioni dell’assegno di mantenimento in sede di separazione e di quello divorzile, i giudici di legittimità si soffermano sulla disciplina degli alimenti, chiarendo che tale obbligazione serve a soddisfare i bisogni essenziali alla persona per condurre una vita dignitosa.

In particolare, ne sono presupposti lo stato di bisogno del richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato.

La Suprema Corte rileva poi come si registri un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o divorziato o in favore dei figli, per effetto di provvedimenti provvisori poi modificati o per effetto di una sentenza di primo grado poi riformata.

Un primo orientamento, infatti, sostiene che la pronuncia, che riveda in diminuzione o escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello del giudice istruttore, non possa disporre per il passato, ma solo per il futuro.

Corollario di tale interpretazione è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace “ratione temporis”.

Nell’ambito di tale tesi, vi sono state alcune pronunce che hanno specificato che la retroattività della decisione relativa all’assegno di mantenimento può operare solo a favore del beneficiario.

Uno degli argomenti principali a sostegno di tale tesi è il riconoscimento del carattere alimentare delle somme corrisposte dall’ex coniuge a titolo di mantenimento.

Altra parte della giurisprudenza ammette invece la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, ma la esclude nel caso in cui l’ammontare dell’assegno, successivamente ridotto, sia tale da evidenziarne una funzione sostanzialmente alimentare.

Infine, vi è un’ultima impostazione che, sottolineando le differenze sul piano ontologico tra l’assegno di mantenimento e quello alimentare, esclude che il primo abbia gli stessi caratteri dell’obbligazione alimentare.

Nel comporre il suddetto contrasto interpretativo, le Sezioni Unite svolgono alcune preliminari considerazioni sula supposta natura “para-alimentare” dell’assegno divorzile e di quello stabilito in sede di separazione e, dopo aver evidenziato le differenze strutturali e funzionali sussistenti tra i suddetti assegni e l’obbligazione alimentare, evidenziano che tali assegni hanno in comune con l’obbligo di alimenti la finalità “assistenziale”.

Premesse tali considerazioni, i giudici di legittimità affrontano la questione della ripetibilità delle prestazioni alimentari, rilevando a tal proposito come non vi sia nel nostro ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno alimentare.

Pertanto, non vi sarebbero ostacoli nel ritenere sussistente l’obbligo di restituzione di somme versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme versate in base a un supposto e parzialmente esistente diritto al mantenimento.

Tuttavia, secondo i giudici della Suprema Corte, ragioni equitative e il principio di solidarietà umana e familiare giustificano l’apposizione di un temperamento alla regola della piena ripetibilità.

Si suppone, infatti, che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state utilizzate per far fronte alle essenziali esigenze di vita.

La soluzione interpretativa, affermata con la sentenza in commento, è volta a operare un bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza solidaristica di tutela del soggetto debole.

Ne deriva che, ove la sentenza di merito escluda in radice e “ab origine” il diritto al mantenimento, ovvero si addebiti la separazione al coniuge, che nelle more abbia ricevuto l’assegno, opererà l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Non sussiste invece il diritto alla ripetizione delle maggiori somme versate, laddove si proceda alla rivalutazione ex tunc delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto ovvero nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale venga ridotto. Tali considerazioni valgono purché l’assegno corrisposto non superi la misura necessaria a una persona media per far fronte alle normali esigenze di vita. Solo in tali casi si può infatti ritenere che la somma ricevuta sia stata consumata dal coniuge più debole nel periodo in cui è stata corrisposta per fini di sostentamento.

La soluzione adottata viene giustificata dalla Corte di Cassazione richiamando la tutela della solidarietà post-familiare sottesa a tutta la disciplina sulla crisi della famiglia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 maggio 2004, n. 10291; Cass. I, 20 marzo 2009, n. 6864
Difformi:      Cass. I, 25 giugno 2004, n. 11863; Cass. I, 12 giugno 2006, n. 13593;
Cass. I, 10 dicembre 2008, n. 28987