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Sproporzione tra retribuzione e previsioni del contratto collettivo Quando la sproporzione tra la retribuzione corrisposta e la diversa previsione del contratto collettivo determina sfruttamento del lavoro?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Per cogliere la sproporzione nel caso concreto il raffronto non va effettuato semplicemente tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e, quindi, tenendo conto dell’attività, delle complessive condizioni di lavoro e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. – Cass., sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 2573 (sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo).

 Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la logicità dell’interpretazione, fatta dai giudici di merito, dell’art. 603bis, comma 3, n. 1 c.p. In primo e in secondo grado gli imputati erano stati condannati per il reato di sfruttamento del lavoro, ai sensi del comma 1, n. 2 della citata disposizione, per avere reiteratamente conferito a quattro lavoratori extracomunitari una paga ritenuta sproporzionata per difetto rispetto alle previsioni del CCNL. Con il primo motivo i ricorrenti lamentavano, al contrario, l’insussistenza di suddetta caratteristica, con i conseguenti vizi di erronea applicazione della legge penale e di motivazione contraddittoria: le retribuzioni erogate non erano, infatti, di molto inferiori rispetto agli importi formalmente previsti dal contratto collettivo applicabile.

La Cassazione, dopo aver specificato che l’accertamento della palese difformità e della sproporzione della retribuzione è una valutazione riservata al giudice di merito, ha verificato l’assenza di contraddizioni nelle conclusioni tratte in primo e in secondo grado. In via preliminare la Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, alla luce della quale i vari indicatori delle condizioni di sfruttamento del lavoro, elencati nei n. 1)-4) della disposizione, disegnano insieme il perimetro del concetto stesso di sfruttamento. Ciascun indicatore è in sé sufficiente ma non necessario, essendo alternativo agli altri. Tali indici, inoltre, non sono tassativi: estranei al fatto tipico, valgono come linee guida per l’interprete nell’individuazione di condotte distorsive del mercato del lavoro anche a partire da circostanze di fatto diverse rispetto a quelle elencate (così anche Cass., sez. IV, 30 novembre 2022, n. 9473; Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Più nello specifico, la Corte ha poi chiarito, in linea con le proprie precedenti pronunce, che per retribuzione deve intendersi tutto ciò che è dovuto per la prestazione lavorativa, comprese le indennità da riconoscere a vario titolo. In passato è stato, infatti, stabilito che, ad esempio, costituiscono spie di un abuso anche le detrazioni operate in qualunque modo sulla retribuzione del lavoratore, tra le quali quelle per remunerare il locatore dell’alloggio o l’operatore del servizio di trasporto al luogo di lavoro (Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Per evitare disparità di trattamento, inoltre, il parametro in esame deve essere applicato non soltanto ai lavoratori subordinati ma a qualsiasi attività lavorativa accettata in uno stato di bisogno, quale che sia la formale qualificazione giuridica della stessa. Si deve, inoltre considerare che tale retribuzione, a decorrere dall’entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, deve essere reiterata e non necessariamente sistematica. Di conseguenza, sottolineano i Supremi Giudici, la paga sproporzionata può anche non essere costante, bastando una seconda retribuzione per superare la soglia della punibilità.

Per quanto concerne, più da vicino, il grado di discostamento dai contratti collettivi applicabili a ciascun settore, la disposizione statuisce che debba trattarsi di una palese difformità. Il datore di lavoro, avvantaggiandosi del bisogno altrui, impone una retribuzione al ribasso rispetto alle prescrizioni del CCNL. In merito, invece, alla seconda parte della disposizione in oggetto, essa prevede che il giudice debba, in ogni caso, verificare se la paga sia proporzionata rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. I Supremi Giudici hanno specificato, anzitutto, che si tratta di un corollario diretto dell’art. 36 Cost., stante l’obiettivo di garantire equità e dignità al lavoratore; in secondo luogo, hanno statuito che tale limite debba prevalere in ogni caso, cioè anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettato. In questa evenienza, si può considerare che una parte della dottrina ha, tuttavia, sollevato dubbi circa la possibilità di provare il dolo del datore di lavoro che abbia fatto affidamento su un contratto collettivo qualificato.

In forza di queste premesse, la Cassazione ha concluso che l’inadeguatezza della paga e la sua natura abusiva non possono essere accertate ponendo l’attenzione esclusivamente sulla differenza tra somme corrisposte al lavoratore e importo astrattamente previsto dal contratto collettivo di riferimento. Bisogna, infatti, sempre completare l’indagine attraverso il vaglio della quantità e della qualità del lavoro prestato alla luce dell’attività in concreto svolta, delle complessive condizioni di lavoro e del confronto tra le ore effettivamente prestate rispetto alle previsioni contrattuali.

Con il secondo e con il terzo motivo di ricorso, invece, i ricorrenti lamentavano l’incompletezza della motivazione della sentenza in relazione alla pertinenzialità, rispetto al reato commesso, dei beni confiscati ai sensi dell’art. 603bis.2 c.p. I lavoratori sfruttati erano stati impiegati su terreni di proprietà di terzi, mentre oggetto di confisca erano stati appezzamenti diversi dai primi e di proprietà degli imputati. Al riguardo la Cassazione ha concluso nel senso che, poiché la confisca diretta ha ad oggetto tutti i beni funzionali a commettere il reato o da cui ne deriva un’utilità, il nesso di pertinenzialità non viene interrotto se i terreni oggetto di sequestro e di confisca sono diversi da quelli indicati in imputazione. Si tratta, infatti, pur sempre di fondi agricoli del medesimo compendio aziendale, nel quale e per l’utilità del quale i quattro lavoratori africani erano sfruttati.

In base alle considerazioni esposte, la Cassazione ha rigettato i ricorsi degli imputati.

*Contributo in tema di “ Sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Clausole esonero spese condominiali Quando possono considerarsi vessatorie le clausole del costruttore di esonero dalle spese condominiali?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita dell’unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell’ art. 33, comma 1, D.Lgs. 206/2005, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente. Al contrario, resta di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano. – Cass. II, ord. 21 giugno 2022, n. 20007.

Il contratto che intercorre tra il professionista costruttore del fabbricato e il consumatore acquirente di una delle unità immobiliari in esso compreso è, di regola, una compravendita. Dal contratto di compravendita di una unità immobiliare compresa in un edificio condominiale non discende, quindi, all’evidenza, un obbligo per il venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano; tale obbligo discende, piuttosto, dagli artt. 1118 e 1123 c.c. e può essere oggetto, tuttavia, di “diversa convenzione” ai sensi del comma 1 dell’art. 1123 c.c. Infatti, in base agli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. posso essere derogati da una convenzione stipulata tra tutti i condomini, come anche da una deliberazione presa dagli stessi con l’unanimità dei consensi dei partecipanti. L’autonomia negoziale può anche prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese condominiali.

Secondo la decisione in esame, diversamente da quanto riferito nella pronuncia impugnata, l’esonero dei condòmini dagli obblighi collegati alla contitolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni, eventualmente inserita nel contenuto contrattuale del regolamento condominiale, costituisce vicenda negoziale autonoma e distinta rispetto al contratto di vendita dell’unità immobiliare intercorsa tra costruttore proprietario originario e singolo condomino acquirente, seppure tale “diversa convenzione” ex art. 1123 c.c. sia oggetto di espresso richiamo nei titoli di compravendita di ciascun appartamento dell’edificio comune. Quindi, affinché una clausola della convenzione sulle spese condominiali sia valutata ai fini dell’art. 33 del Codice del Consumo occorre, allora, che la stessa provochi un significativo squilibrio (non ex se negli obblighi di contribuzione derivanti dagli artt. 1118 e 1123 c.c., ma) dei diritti e degli obblighi derivanti, ai sensi degli artt. 1476 e 1498 c.c., dal contratto di compravendita concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente.

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, occorre procedere a un accertamento della vessatorietà della “clausola”, la quale esonera la costruttrice dal pagamento delle spese condominiali, valutando non lo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento di Condominio, il quale non è un contratto di consumo, quanto lo squilibrio dell’intero rapporto contrattuale sinallagmatico e dunque della complessiva operazione economica intercorsi tra il singolo acquirente consumatore e il professionista venditore. L’eventuale accertamento della vessatorietà della clausola nell’ambito del rapporto di consumo “a vantaggio del consumatore” ripercuoterà la sua incidenza sulla validità della adesione alla convenzione ex art. 1123, comma 1, c.c.

Alla luce di tali premesse, la pronuncia conclude affermando il principio di diritto anticipato supra nella risposta.

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Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

*Contributo in tema di “Applicazione automatica delle pene accessorie”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Prescrizione azione di ripetizione per somme illegittimamente addebitate In caso di somme illegittimamente addebitate al cliente dalla banca, da quando decorre il dies a quo del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

La ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Il dies a quo della prescrizione inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo. – Cass., sez. I, 26 febbraio 2024, n. 5064.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’iniziativa giudiziaria di una società nei confronti della banca presso la quale aveva acceso un rapporto di conto corrente fin dall’anno 1981. La correntista chiedeva la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dall’istituto di credito a titolo di interessi anatocistici. La banca eccepiva la prescrizione in relazione agli addebiti aventi natura di rimesse solutorie effettuati sul conto in data anteriore al decennio dalla notifica della citazione. Il Tribunale rigettava l’eccezione della banca ritenendo che la stessa non avesse indicato le rimesse solutorie e accoglieva la domanda dell’attrice provvedendo alla rideterminazione del saldo in seguito ad una c.t.u. contabile.

La decisione veniva riformata dal giudice del gravame sul presupposto che incombesse sulla correntista produrre in giudizio tutti gli estratti conto a partire dalla data di apertura del contratto.

Secondo la Corte di Appello solo attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti si sarebbe potuti pervenire alla determinazione dell’eventuale credito della correntista e alla quantificazione degli importi da espungere, non essendo sufficienti a tale fine gli estratti conto scalari in quanto rappresentativi dei soli conteggi degli interessi attivi e passivi, senza possibilità di individuare le operazioni alla base delle annotazioni degli interessi e dei movimenti effettuati nell’arco di tempo considerato.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione lamentando in prima battuta l’erronea statuizione riguardo la ripartizione degli oneri probatori con riferimento all’eccezione di prescrizione considerando che l’onere probatorio di un fatto estintivo incombe sul soggetto che lo eccepisce.

Secondariamente si è censurata l’erronea valutazione dei fatti costituivi posti a fondamento della domanda, posto che la ragione della produzione degli estratti conto scalari con riferimento ad un limitato periodo di tempo del conto corrente dipendeva dalla domanda, limitata a quell’intervallo temporale, con esplicita rinuncia a qualsiasi contestazione quanto ai periodi per i quali non vi era documentazione contabile. Si aggiungeva, altresì, l’assenza di una motivazione per il mancato accoglimento delle risultanze espresse nella consulenza tecnica.

In ultimo, veniva contestata la natura migliorativa della capitalizzazione degli interessi introdotta dalla delibera del Cicr del 9 febbraio del 2000 rispetto alla clausola anatocistica precedentemente applicata.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ricorda preliminarmente come in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte anteriore (così anche Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895 – termine di prescrizione estintiva).

Tuttavia, ricorda la Corte che il principio opera solo sul versante dell’onere di allegazione ammettendo una simmetria, in quanto così come il correntista può limitarsi a indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione previa verifica del saldo del conto, anche la banca può a sua volta limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore per il tempo necessario alla prescrizione.

Ciò posto, il problema delle rimesse solutorie si sposta sul piano dell’onere probatorio per cui all’allegazione consegue la prova della parte su cui, per legge, incombe il relativo onere, anche facendo luogo a una c.t.u., cosicché le relative risultanze probatorie vengano valutate dal giudice.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva disatteso le risultanze della consulenza tecnica sul presupposto di una non idonea documentazione in grado di evidenziare l’esistenza di rimesse con funzione solutoria, sostenendo come il conto corrente era contraddistinto dalla mancanza di affidamenti e ricavandone la funzione solutoria per tutte le rimesse, salvo prova contraria della correntista.

Tale motivazione viene ritenuta affetta da un’incongruenza logica in quanto, nel caso in cui un cliente citi in giudizio l’istituto di credito domandando la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi anatocistici, relativamente ad un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, “la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Questo si rende necessario ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, termine che inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo” (termine di prescrizione per l’azione di ripetizione).

Spostandosi sul versante dell’onere probatorio a carico della correntista censurato dalla Corte di Appello, la Cassazione afferma che una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi anatocistici a carico della stessa, occorre distinguere il caso in cui essa è convenuta da quella in cui sia attrice. In quest’ultimo caso, invero, l’accertamento del dare e dell’avere può aversi tramite l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete tese a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, in quanto l’estratto è un documento formato e proveniente dalla banca.

Da ciò deriva che è possibile ricostruire l’effettività del saldo finale partendo dai documenti esibiti dal correntista e provenienti dalla banca, anche tramite elaborazioni tecniche dei dati risultanti dai riassunti scalari così come anche statuito da Cass., sez. I, 18 aprile 2023, n. 10293.

Nel caso in esame, essendo il correntista ad agire in giudizio per la rideterminazione del saldo e la correlata ripetizione delle somme indebitamente considerate, ed avendo egli prodotto il primo degli estratti conto scalari con un saldo iniziale a suo debito, è legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni o diano giustificazione di un saldo diverso nel periodo di riferimento per effetto della eliminazione delle voci o delle competenze illegittimamente applicate fino a quel momento. In tal modo, la base di calcolo può essere determinata proprio sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, dato che questo costituisce un documento redatto dalla controparte in funzione riassuntiva delle movimentazioni del conto corrente, e rimane, nel quadro delle risultanze di causa, il dato più sfavorevole alla stessa parte attrice.

Su tali assunti, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà uniformarsi ai principi esposti.

*Contributo in tema di “ termine di prescrizione per l’azione di ripetizione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Estorsione e richiesta di rinunciare a parte della retribuzione La condotta del datore di lavoro che, al momento dell’assunzione, prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdita dell’opportunità di lavoro è estorsione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che al momento dell’assunzione prospetta agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione, oppure la perdita dell’opportunità di lavoro. In particolare, pur realizzandosi un ingiusto profitto per il datore di lavoro grazie alle prestazioni d’opera sottopagate, per il lavoratore rispetto ad una precedente situazione di disoccupazione non è possibile dimostrare che l’occupazione conseguita possa recare un danno. – Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 9823.

Il reato di estorsione infatti, come riconosce la Cassazione, può essere integrato solo nel contesto delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, e non nella fase genetica della sua creazione. Pertanto non grava sul datore di lavoro “alcun obbligo giuridico di assumere le persone offese che, infatti, risultano essersi spontaneamente rivolte alla medesima società chiedendo l’assunzione: se, pertanto, la pretesa della società di subordinare questa ad una rinuncia a parte dello stipendio comportava per la parte datoriale l’ingiusto profitto del conseguimento di prestazione d’opera sottopagata, non risulta la prova del danno ingiusto arrecato al lavoratore al momento dell’assunzione, giacché non vi è prova che il conseguimento di un lavoro, per quanto sottopagato, abbia arrecato […] un danno rispetto alla situazione preesistente di mancanza di lavoro”.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso la sentenza della Corte di Appello che confermando la sentenza del GIP presso il tribunale della stessa città, condannava il ricorrente alla pena di giustizia per il delitto di cui all’art. 629 c.p. In particolare il motivo di doglianza atteneva alla violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’erronea qualificazione della condotta ascritta in termini estorsivi. La difesa rilevava nello specifico come sul tema difettasse qualsiasi motivazione, tenuto conto delle modalità consensuali con le quali si addiveniva all’accordo tra imputato (datore di lavoro offerente la posizione lavorativa) e lavoratori, al momento genetico costitutivo il rapporto di lavoro. La Corte ha ritenuto fondato tale motivo, ritenendo assorbiti i successivi, attesa in primo luogo, una libera adesione ab origine dei lavoratori alla proposta lavorativa caratterizzata da retribuzione inferiore rispetto a quella prevista dalla contrattazione collettiva, non intaccando in alcun modo una pretesa giuridicamente tutelata. Infatti, come sottolinea la Suprema Corte, ai fini dell’integrazione della fattispecie estorsiva, deve apparire in primo luogo provato l’elemento centrale delle condotte, quale nel caso di specie la minaccia volta all’ottenimento dell’ingiusto profitto. Come già censurato con specifico motivo di appello, le condizioni di lavoro oggetto di accertamento non sono mai state imposte nel corso del rapporto di lavoro mediante minaccia, ma oggetto di specifico e previo accordo antecedente all’inizio effettivo del rapporto lavorativo, prima dunque dell’assunzione. Di conseguenza, non appare emergere alcuna minaccia in relazione alla determinazione della retribuzione, già oggetto di esplicito accordo tra le parti al momento della conclusione del contratto di assunzione. In secondo luogo i giudici di legittimità hanno riconosciuto la natura apparente e contraddittoria della motivazione della sentenza di appello, dove si afferma che l’imputato abbia approfittato della necessità di lavoro dei dipendenti per imporre condizioni retributive sfavorevoli ed inferiori alle previsioni della contrattazione collettiva, riferendosi però in questo modo alla fase iniziale e dunque genetica del rapporto di lavoro, senza specificare invece in che momento del rapporto lavorativo già in essere la minaccia anche implicita avesse avuto luogo. Pertanto la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello competente che dovrà verificare, colmando la carenza motivazionale evidenziata, se tra le parti sia intercorso un mero accordo antecedente alla concreta fase di espletamento dell’attività lavorativa in cui è stato determinato (ed accettato) il quantum della retribuzione, o se siano state poste in essere ulteriori condotte da provare puntualmente in sede di merito, attraverso cui si sia integrata la minaccia di licenziamento a carico dei lavoratori durante il corso delle attività lavorative nell’ambito dell’azienda del ricorrente, al fine di contrastare le loro legittime pretese contrattuali, eventualmente integrando la contestata estorsione.

*Contributo in tema di “ reato di estorsione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Favoreggiamento e associazione mafiosa È configurabile il delitto di favoreggiamento rispetto al delitto di associazione mafiosa o costituisce una forma di concorso esterno?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

È configurabile il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo di cui all’art. 416bis c.p. nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni dell’autorità e non dalla volontà di prendere parte, con “animus sodi”, all’azione criminosa. – Cass., sez. V, 29 febbraio 2024, n. 8928.

Con la sentenza in commento, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al rapporto tra il reato di favoreggiamento e il concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare la Corte, ha ribadito principi già espressi in materia ricordando quanto, in caso di concorso esterno in associazione mafiosa, sia fondamentale la sussistenza nel nesso eziologico che colleghi direttamente l’evento (integrato dalla conservazione, agevolazione o rafforzamento di un organismo criminoso già operante) con la condotta atipica del concorrente. L’accertamento postumo operato sulle condotte quindi, è diretto alla verifica dell’idoneità causale delle stesse che in virtù del mantenimento dell’operatività del sodalizio criminoso, devono tradursi in un contributo percepibile al mantenimento in vita dell’organismo stesso (ex mulitis, Cass., sez. I, 14 settembre 2023, n. 49790).

In termini di “misurazione” dell’apporto del soggetto agente ai fini dell’integrazione del concorso esterno, la Corte afferma che integra il reato in esame la condotta dell’imprenditore che pur non essendo inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e pur privo della “affectio societatis”, instauri con la cosca un rapporto che si nutre di reciproci vantaggi, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e per l’organizzazione mafiosa di ottenere risorse, servizi o utilità anche in forma di corresponsione di una percentuale sui profitti ottenuta dal concorrente esterno (Cass., sez. I, 16 novembre 2021, n. 47054).

In parallelo alla definizione delle condotte rilevanti in termini concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte si è poi occupata di evidenziare i criteri che distinguono la condotta di favoreggiamento da quella del partecipe e da quella del concorrente esterno rispetto all’associazione mafiosa. In linea con quanto prima detto, prima di tutto risponde di concorso esterno e non favoreggiamento, colui che, esterno al sodalizio agisce con l’intento non di fornire un singolo aiuto (ad esempio per eludere le indagini), ma un contributo alla capacità operativa del sodalizio stesso, alla sua conservazione e alla crescita dello stesso per la realizzazione di future imprese criminali. Diversamente, si configura il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo ex art. 416 bis c.p., nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni delle autorità e non dalla volontà di prendere parte con animus socii all’azione criminosa.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Palermo che confermava l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, applicando all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Avverso tale ordinanza dunque ha proposto ricorso l’indagato, adducendo tre motivi di doglianza: il primo riferito a violazione e vizio di motivazione quanto alla sussistenza della gravità indiziaria in relazione alla condotta contestata al ricorrente; il secondo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto; il terzo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione quanto alle esigenze cautelari e alla scelta della misura applicata. Il ricorso a giudizio della Corte è apparso infondato nel suo complesso. Il primo e secondo motivo sono stati dichiarati manifestamente infondati, non confrontandosi con le approfondite motivazioni contenute nell’ordinanza che ha operato a parere della corte “un buon governo e corretta applicazione dei principi di questa Corte”, qualificando correttamente la condotta dell’imputato in termini di concorrente esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110, 416bis c.p., considerate le condotte di stretta vicinanza, partecipazione ad operazioni immobiliari, messa a disposizione delle proprie attività commerciali ad esponenti del clan, nonché ripetuti e monitorati incontri dell’imputato. Il terzo motivo appare invece generico, rappresentando una doglianza aspecifica a fronte del contenuto dell’ordinanza impugnata, che al contrario ha fornito puntuale risposta alle censure relative all’adeguatezza della misura inframuraria. Per queste ragioni il ricorso è stato rigettato dalla Corte, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

*Contributo in tema di “Favoreggiamento e associazione mafiosa”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Oneri condominiali e vicende traslative di un immobile oggetto di locazione Qual è il soggetto obbligato al pagamento degli oneri condominiali in caso di vicende traslative di un immobile oggetto di locazione?

Quesito con risposta a cura di Carmela Quagliano e Daniele Venturi

 

Ai sensi degli artt. 1509 e 1602 c.c. la vendita, la cessione o la donazione di un immobile oggetto di locazione determina la surrogazione del terzo (acquirente, cessionario o donatario) nei diritti e nelle obbligazioni del dante causa-locatore. Ciò comporta anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali rispetto al condominio di cui tale immobile fa parte.

L’onere della prova relativo all’individuazione del soggetto obbligato al pagamento di dette quote spetta al condominio che avanza la pretesa, incombendo su colui che nega tale affermazione solo la prova di eventuali fatti modificativi o estintivi capaci di escluderne la responsabilità.

A questo si aggiunge la nuova formulazione dell’art. 63 disp. att. c.c. introdotta dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220 che attribuisce al soggetto che subentra nei diritti di un condomino la qualifica di obbligato solidale con quest’ultimo solo rispetto al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte accoglie la doglianza del ricorrente che si era visto rigettare, nei due precedenti gradi di giudizio, l’opposizione a un decreto ingiuntivo relativo al pagamento di contributi condominiali maturati durante il periodo in cui a godere delle unità immobiliari era un soggetto qualificato come cessionario della stessa società ricorrente.

Come provato nei gradi di merito, infatti, la ricorrente aveva comunicato al condominio l’avvenuta cessione degli immobili al soggetto in capo al quale sono poi maturati gli obblighi individuati nel decreto ingiuntivo. Tale atto avrebbe dovuto rivolgersi, di conseguenza, verso il cessionario e non verso la società cedente.

La sentenza in epigrafe stigmatizza, poi, l’avvenuta inversione dell’onere della prova rispetto alla qualità di condomino. Al fine dell’accertamento dell’obbligo di pagamento dei contributi condominiali negli anni controversi è stato infatti erroneamente imputato alla società ricorrente l’onere di provare la propria estraneità rispetto alla qualità di condomino. Contrariamente, sarebbe stato necessario addossare al condominio l’onere di provare la sussistenza di tale qualità tenuto conto delle varie vicende che hanno interessato le unità immobiliari in oggetto.

La vicenda fornisce alla Corte anche l’occasione per ribadire la portata dell’art. 63 disp. att. c.c. secondo la pacifica interpretazione del quale la società ricorrente avrebbe potuto essere ritenuta responsabile, tutt’al più, delle ultime due annualità, come ribadito da giurisprudenza consolidata.

*Contributo in tema di “Oneri condominiali e vicende traslative di un immobile oggetto di locazione”, a cura di Carmela Quagliano e Daniele Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Applicabilità art. 578bis c.p.p. La disposizione dell’art. 578bis c.p.p. è applicabile, in ipotesi di confisca per equivalente, ai reati ricompresi nell’originaria formulazione dell’art. 578bis c.p. e commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 21/2018, che ha introdotto nel codice di rito la suddetta disposizione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La disposizione dell’art. 578bis c.p.p. ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale ed è, pertanto, inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 21/2018, che ha introdotto la suddetta disposizione. – Cass Sez. Un. 31 gennaio 2023, n. 4145.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso con cui è stata eccepita la nullità delle disposizioni relative alla confisca per equivalente disposta ai sensi dell’art. 12bis, D.Lgs. 74/2000, sul presupposto che tale misura sarebbe illegittima per effetto della pronuncia della sentenza di estinzione dei reati per prescrizione.

Rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di applicabilità della disposizione di cui all’art. 578bis c.p.p. anche alle confische disposte per fatti consumati prima dell’entrata in vigore della stessa, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

Secondo un primo orientamento, l’art. 578bis c.p.p. consente la confisca per equivalente anche in caso di sentenza dichiarativa di prescrizione di un reato commesso anteriormente alla sua entrata in vigore. La disposizione in esame è infatti considerata norma di natura processuale, come tale soggetta al principio tempus regit actum.

In particolare, si ritiene che l’art. 578bis c.p.p. non introduca nuovi casi di confisca, ma si limiti a definire la cornice procedimentale entro cui la stessa può essere applicata, agendo su un profilo processuale e temporale e lasciando inalterati i presupposti sostanziali di applicazione del vincolo.

La norma si limita infatti a prevedere la possibilità per il giudice di appello o la corte di cassazione di applicare la confisca per equivalente anche in caso di estinzione del reato per prescrizione o amnistia, purché sia accertata la responsabilità dell’imputato.

Altro orientamento, valorizzando la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, nega l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 578bis c.p.p. per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della predetta disposizione. Si ritiene infatti che la stessa, producendo effetti sostanziali, non possa operare retroattivamente.

Si richiama in proposito l’insegnamento delle Sezioni Unite che, all’esito di un percorso giurisprudenziale, hanno affermato il principio di diritto – oggi superato, in ragione dell’introduzione dell’art. 578bis c.p.p. – secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Cass. Sez. Un. 21 luglio 2015, n. 31617).

Le Sezioni Unite condividono tale ultimo indirizzo interpretativo, riconoscendo alla confisca per equivalente una natura prevalentemente afflittiva e sanzionatoria, così come in più occasioni chiarito anche dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, le Sezioni Unite, ricordando che la confisca per equivalente costituisce “una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, potendo la stessa essere sempre disposta a prescindere dalla sussistenza di un nesso di pertinenzialità tra i beni aggredibili e il fatto criminoso- ne hanno riconosciuto la natura punitiva.

Alla luce delle esposte considerazioni, le Sezioni Unite hanno conclusivamente rilevato che, diversamente da quanto sostenuto dal primo degli orientamenti esaminati, l’art. 578bis c.p.p. non si presenta come una norma meramente ricognitiva di un principio esistente nell’ordinamento, in quanto la nuova disposizione attribuisce il potere, in precedenza precluso al giudice, di mantenere in vita una pena.

Pertanto, rilevata la natura anche di diritto sostanziale della disposizione in esame, si esclude che la confisca per equivalente possa essere retroattivamente applicata a fatti commessi anteriormente alla sua introduzione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15655; Cass., sez. III, 4 aprile 2022, n. 7882;
Cass., sez. III, 29 ottobre 2021, n. 39157; Cass., sez. III, 26 maggio 2021, n. 20793
Difformi:      Cass., sez. II, 10 maggio 2021, n. 19645; Cass., sez. VI, 7 maggio 2020, n. 14041; Cass., sez. III, 4 aprile 2020, n. 8785
giurista risponde

Danneggiamento e tentata rapina impropria Tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria è configurabile il concorso di reati o l’assorbimento ex art. 84 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Nell’ipotesi di alterazione, deterioramento o distruzione del luogo di custodia di un bene seguito da violenza alla persona vi è concorso e non assorbimento ex art. 84 c.p. tra il reato di danneggiamento e quello di tentata rapina impropria e ciò perché l’unica ipotesi di furto assorbita nella fattispecie di cui all’art. 628 cod. pen. è quella semplice e non anche quella aggravata ex art. 625, n. 2, c.p. – Cass., sez. II, 10 gennaio 2024, n. 5887.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare il rapporto giuridico tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria.

In primo e secondo grado era stata disposta condanna nei confronti dell’imputato per i delitti di tentata rapina impropria e danneggiamento per aver egli cercato di impossessarsi dei beni della persona offesa senza riuscirvi per fatti indipendenti dalla propria volontà, e per aver infranto il deflettore dell’autovettura rendendolo inservibile.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, sollevando, tra gli altri motivi, il mancato riconoscimento del concorso apparente di norme tra le ipotesi di rapina impropria e danneggiamento. In particolare, si eccepiva che l’ipotesi di cui all’art. 635 c.p. dovesse ritenersi assorbita ex art. 15 c.p. nella fattispecie di tentata rapina impropria e che fosse applicabile il principio del ne bis in idem sostanziale.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, secondo cui, con riferimento al concorso di norme penali che regolano la stessa materia, si definisce norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale presentando uno o più requisiti suoi propri, che hanno funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo di quella generale.

In tal modo le Sezioni Unite ritenevano di escludere criteri diversi da quello di specialità per la risoluzione di problematiche di questa tipologia (così anche Cass. pen., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664 e Cass. pen., Sez. Un., 15 luglio 2021, n. 38402).

Nel caso di specie, con riferimento al rapporto tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria, si è osservato come la fattispecie di «rapina, essendo costituita dalle condotte di impossessamento del bene altrui e dalla violenza in danno della vittima, non contiene tutti gli elementi costitutivi l’ipotesi del danneggiamento che attiene invece alla alterazione della natura funzionale del bene e alla distruzione dello stesso. L’elemento del danno alla cosa, peraltro nel caso in esame anche diversa da quella oggetto di apprensione, non è elemento costitutivo della rapina così che tra gli artt. 628 e 635 c.p. non sussiste rapporto di specialità».

La Corte costituzionale, inoltre, si era pronunciata in merito al rapporto tra concorso apparente di norme e concorso di reati, ritenendo che per poter applicare il criterio della specialità è necessario che tra le fattispecie in confronto vi siano elementi fondamentali comuni, ma che una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra (Corte cost. 31 maggio 2016, n. 200).

Tale Corte, inoltre, ha ritenuto non doversi applicare il divieto del bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione o omissione. Essa ha, pertanto, richiamato quanto stabilito da Cass. pen., Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655, secondo cui l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Tuttavia, in casi come quello in oggetto, è stato osservato che gli eventi appaiono diversi poiché uno consiste nell’alterazione definitiva di un bene e l’altro nell’apprensione di un oggetto di valore.

La Corte di Cassazione, infine, si è proposta di valutare se il reato di rapina impropria che costituisce un reato complesso, essendo integrato delle fattispecie di furto e percosse, possa assorbire il reato di danneggiamento.

Essa ha osservato, preliminarmente, che l’ipotesi di furto aggravato dalla violenza sulle cose costituisce un’ipotesi di reato complesso in quanto il danneggiamento è considerato circostanza aggravante del furto, nel quale delitto è assorbito. Il reato di rapina, invece, è integrato dalla consumazione del solo reato di furto semplice e della violenza alla persona ma non anche da quello di furto aggravato. Nell’ipotesi di danneggiamento seguito da rapina, la contestazione di cui all’art. 628 c.p. non assorbe quella di cui all’art. 635 c.p. e ciò in quanto l’ipotesi di furto assorbita ex art. 84 c.p. è solo quella semplice e non anche quella aggravata dalla violenza sulle cose ex art. 625, n. 2 c.p.

È stato chiarito, infatti, che per ammettere la configurabilità del reato complesso di cui all’art. 84 c.p. i fatti non devono avere solo qualche elemento in comune, bensì uno deve convergere nell’altro «tanto da perdere la sua autonomia e diventare elemento costitutivo o circostanza aggravante dell’altro».

Sia sul piano oggettivo, invece, che su quello soggettivo, i due reati in esame differiscono.

Sul piano oggettivo, infatti, il danneggiamento è caratterizzato dal deteriorare, distruggere o alterare il bene e la rapina, invece, dall’apprensione della cosa con violenza o minaccia.

Sul piano soggettivo, inoltre, il danneggiamento è caratterizzato dalla volontà di arrecare nocumento all’oggetto mentre la rapina dall’impossessamento del bene altrui con il fine di trarne profitto.

Per tali motivi, la Cassazione ha ritenuto escludere la sussistenza di un rapporto di assorbimento ex art. 84 c.p. tra i due reati suddetti, considerando sussistere, invero, un concorso tra gli stessi.

*Contributo in tema di “Danneggiamento e tentata rapina impropria”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia Allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione nel casellario informatico ANAC può trasferirsi in diversa sezione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, le iscrizioni pregiudizievoli possono avere una durata massima di un anno e, al termine dello stesso, sono intrasferibili in diversa sezione. – Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2024, n. 881.

Preliminarmente per casellario ANAC si intende il casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, attualmente disciplinato ai sensi dell’art. 222, comma 10, D.Lgs. 36/2023.

Nel casellario sono annotate le notizie, le informazioni e i dati relativi agli operatori economici con riferimento alle iscrizioni previste dall’art. 94, D.Lgs. 36/2023 relativamente alle false dichiarazioni o alla falsa documentazione presentata nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti ovvero ai fini del rilascio dell’attestazione di qualificazione.

La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato attiene alla durata delle iscrizioni pregiudizievoli nel casellario ANAC. La vicenda si è svolta nel contesto normativo previgente, l’originaria iscrizione nel casellario ANAC veniva disposta in forza del potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione e disciplinato dalle previsioni del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio. In tale regolamento si prevedeva che l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione delle procedure di gara e degli affidamenti in subappalto fosse disposta per la durata massima di un anno, decorso il quale l’iscrizione perde efficacia. Nel caso in esame, al termine dell’anno di durata massima, l’iscrizione veniva spostata in altra area del casellario per un periodo di tempo indefinito.

I giudici di Palazzo Spada enunciano che la decisione dell’ANAC di non cancellare ma di spostare l’impresa in una diversa sezione del casellario informatico allo scadere del termine annuale, dopo aver accertato la falsità di una dichiarazione, deve ritenersi illegittima perché non supportata da uno specifico riferimento di legge e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia ex art. 38, comma 1, lett. h), D.Lgs. 163/2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma ha natura speciale, poiché si riferisce “non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, peraltro ove rese con dolo o colpa grave”. In quanto norma speciale, è destinata a prevalere – circoscrivendone l’ambito di applicazione – su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto”.

*Contributo in tema di “Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica