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Proroga unilaterale dell’affidamento di servizio pubblico e corrispettivo dovuto È legittima la proroga unilaterale dell’affidamento di un servizio pubblico e sul corrispettivo dovuto all’affidatario?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, è illegittima la proroga unilaterale dell’affidamento di un servizio pubblico (CGARS 9 luglio 2024, n. 527).

Con riguardo alla vicenda in esame, la società appellante evidenzia come l’originario contratto del 15 marzo 2016 di affidamento del servizio aveva una durata di sessanta mesi, fino al 31 dicembre 2020. Tale contratto veniva dapprima prorogato retroattivamente con D.D.G. 29 dicembre 2021, n. 4536, facendo espresso riferimento all’art. 92, comma 4ter D.L. 18/2020, convertito, con modificazioni, con L. 27/2020. La suddetta proroga è stata poi ulteriormente estesa fino al 30 settembre 2022 e successivamente fino al 28 febbraio 2023 tramite note dell’Assessorato.

Il Collegio osserva che è illegittimo il provvedimento della Regione che imponga, ai sensi dell’art. 92, comma 4ter, D.L. 18/2020, in via unilaterale, la proroga dell’affidamento di un servizio pubblico, in quanto la norma citata – nel consentire la proroga degli affidamenti in atto al 23 febbraio 2020 fino a dodici mesi successivi alla dichiarazione di conclusione dell’emergenza dovuta al virus Covid-19 – presuppone comunque necessariamente il consenso del privato, affidatario del servizio e destinatario della proroga stessa, non potendo tale norma essere interpretata nel senso di consentire all’amministrazione di imporre, in via unilaterale, una proroga al contratto contro la volontà dell’affidatario.

Ad ogni modo, ha natura di danno ingiusto e deve essere risarcito il pregiudizio patrimoniale subito dall’affidatario di un servizio pubblico che abbia continuato a svolgere il servizio alle medesime condizioni economiche nelle more dell’individuazione del nuovo affidatario anche oltre lo svolgimento di una prima procedura andata deserta, in quanto, anche in presenza di una clausola contrattuale che ciò preveda, essa deve essere interpretata secondo buona fede ex art. 1366 c.c., con la conseguenza che la ultravigenza del corrispettivo può estendersi temporalmente fino all’espletamento della prima gara, ma non anche per tutto il successivo periodo di tempo necessario per l’espletamento di ulteriori gare, qualora la prima gara sia andata deserta.

*Contributo in tema di “Proroga unilaterale dell’affidamento di servizio pubblico e corrispettivo dovuto”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria Qualora il donante paghi soltanto una parte del prezzo di un immobile, può configurarsi la donazione indiretta del bene oggetto di compravendita?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

La donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo. – Cass., sez. II, 12 giugno 2024, n. 16329.

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’istituto della donazione indiretta, che si concretizza quando, come nella vicenda in questione, il denaro corrisposto dal disponente contribuisce alla conclusione della compravendita di un bene immobile.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte muove dall’atto con il quale una coerede aveva convenuto in giudizio la sorella, onde ottenere la dichiarazione di apertura della successione della madre, in virtù di testamento pubblico che la nominava erede universale ed istituiva, altresì, un legato in sostituzione di legittima in favore della convenuta. La coerede legataria, con autonoma domanda giudiziale, aveva eccepito la nullità del testamento, lamentando il difetto di forma dell’atto e l’incapacità naturale della de cuius. Qualora, viceversa, il testamento fosse stato ritenuto valido, attesa la rinuncia al legato e l’attribuzione della quota di legittima, in via subordinata aveva chiesto la riduzione della donazione della liberalità disposta dalla defunta madre in favore di parte attrice, avente ad oggetto la metà di un immobile di proprietà della disponente.

Costituendosi in giudizio, la coerede donataria aveva obiettato che, ai fini della formazione della massa ereditaria, avrebbe dovuto tenersi conto anche di altra donazione di diverso immobile già ricevuto dalla sorella.

Il Tribunale, disposto lo scioglimento della comunione su base testamentaria, aveva accertato la composizione della massa ereditaria e, con separata ordinanza, aveva statuito il prosieguo del giudizio per la stima dei cespiti.

Entrambe le coeredi, dunque, avevano impugnato la sentenza non definitiva, eccependone in primo luogo la nullità, per avere il Tribunale deciso in composizione monocratica e non collegiale, in violazione dell’art. 50-bis c.p.c. Una delle appellanti aveva altresì dedotto la nullità del testamento pubblico per falsità dell’atto, dolendosi, anch’ella, dell’incapace di intendere e volere della disponente.

Nel disattendere i suesposti motivi di gravame, la Corte d’Appello aveva osservato che l’erede aveva comunque dato esecuzione alle disposizioni testamentarie, chiedendo che venisse formata la massa ereditaria secondo le volontà testamentarie della madre, asseritamente viziate da nullità.

Nel merito, il Collegio territoriale aveva poi ritenuto provata la donazione indiretta della quota di immobile in favore della coerede, sulla base delle prove raccolte in giudizio, e, ai fini della collazione, aveva ricompreso nella massa ereditaria la ridetta porzione di immobile.

Entrambi le eredi ricorrevano per la cassazione della pronuncia di secondo grado.

L’istante principale censurava la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto provata la donazione indiretta della quota dell’immobile da parte della de cuius alla figlia, contestando l’approssimazione con cui era stato determinato l’apporto della defunta nell’acquisto del bene. Per le medesime ragioni, eccepiva la violazione di legge per avere la Corte d’Appello ricompreso nella massa ereditaria la ridetta quota di un quarto dell’immobile donato.

Con ricorso incidentale, infine, l’altra coerede reclamava la nullità della gravata sentenza, poiché la Corte distrettuale si era limitata ad esaminare i motivi di impugnazione e non anche il merito della causa, omettendo di pronunciarsi sulle ulteriori domande proposte dalla ricorrente in sede di ricorso in appello.

Scrutinando il gravame principale, nella sentenza in argomento la Corte di Cassazione basa il proprio iter motivazionale su un consolidato orientamento delle Sezioni Unite, in forza del quale, in ipotesi di acquisto di immobile con denaro proprio del disponente, ed intestazione ad altro soggetto che il donante intenda, in tal modo, beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene. Per l’effetto, il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario integra donazione indiretta del bene stesso, e non anche del denaro.

Da tanto discende che, in caso di collazione, il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, e non il denaro impiegato per il suo acquisto (così anche Cass., Sez. Un., 5 agosto 1992, n. 9282).

Ciò premesso, la Corte prosegue illustrando che, in epoca successiva all’intervento delle Sezioni Unite si sono andati formando due orientamenti contrapposti, con riguardo alla configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile in caso di corresponsione da parte del donante di una parte del prezzo.

Secondo un primo arresto, la donazione indiretta dell’immobile non si configura quando il donante paga soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una differente modalità di attuazione dell’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo (così anche Cass., sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149).

Un differente orientamento, invece, ha concluso che l’oggetto della donazione indiretta è caratterizzato dal meccanismo della corresponsione da parte del donante delle somme necessarie a soddisfare l’obbligo di pagamento del corrispettivo della vendita effettivamente compiuta da parte del donatario (così anche Cass., sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759).

Condividendo la prima delle due impostazioni illustrate, nell’esaminanda pronuncia la Cassazione ripropone la distinzione, ai fini della collazione, tra erogazione dell’intero costo del bene immobile e corresponsione di una parte di esso.

Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, è configurabile una donazione indiretta solo nel caso in cui l’intero costo del bene sia stato sostenuto dal donante, con conseguente imputazione, ai fini della collazione, della corrispondente quota del cespite.

Per tali motivazioni, il caso in contestazione non può ricondursi alla fattispecie della donazione indiretta di immobile, atteso che solo una parte del prezzo era stata corrisposta, nella vicenda di specie, dalla de cuius.

La sentenza in commento risulta altresì interessante per quanto statuito, in punto di rito, all’esito dello scrutinio del proposto gravame incidentale.

Invero, ritiene la Cassazione che la Corte distrettuale si sarebbe limitata soltanto ad esaminare i motivi d’appello, e non anche il merito della causa, posto che la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado non comportava la remissione della causa al primo Giudice. Nel caso in discussione, pertanto, sussiste il vizio di omessa pronuncia sulle ulteriori domande proposte dalle parti, tanto in via principale, quanto in via subordinata, con conseguente rinvio al Collegio territoriale in diversa composizione.

*Contributo in tema di “Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Furto di energia elettrica e circostanza aggravante In caso di furto di energia elettrica, la natura della circostanza aggravante dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio, di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p., ai fini di formularne la contestazione, ha natura auto-evidente o valutativa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

 

Nel caso di furto di energia elettrica, stante la natura valutativa e non auto-evidente della circostanza ex art. 625, comma 1, n. 7, c.p., essa deve essere esplicitamente contestata al fine di permettere all’imputato di esercitare efficacemente il proprio diritto di difesa. – Cass., sez. V, 14 giugno 2024, n. 23918.

Rispetto alle modalità con le quali deve essere contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio sussiste un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Per una prima impostazione interpretativa, dato che l’aggravante è di natura auto-evidente in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è, di per sé, un bene funzionalmente destinato al pubblico servizi, sarebbe legittima la contestazione posta in essere senza una specifica ed espressa formulazione che la menzioni.

Altro orientamento, invece, siccome ritiene che l’aggravante predetta abbia natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli svelte del legislatore, non considera legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l’aggravante configurata solo dal fatto che i beni oggetto di sottrazione siano destinati al pubblico servizio.

Rammentate le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite “Sorge del 2019 (n. 24906) secondo cui “la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”, diversamente dai casi in cui, per le aggravanti, la previsione normativa include componenti valutative, ossia modalità della condotta integrative dell’ipotesi aggravata solo in presenza di particolari connotazioni qualitative e quantitative, i Giudici di legittimità propendono per il secondo orientamento.

In particolare, pur considerando indubbia la rilevanza pubblicistica di un bene come l’energia, la Suprema Corte ha ritenuto che ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 625 c.p. è la concreta destinazione (piuttosto che la natura) del bene a un pubblico servizio, elemento che non può essere considerato alla stregua di un connotato intrinseco e auto-evidente data la pluralità di destinazioni che il bene-energia può avere e che, dunque, richiede una valutazione da parte dell’interprete, anche riguardo a norme extra-penali, in continua evoluzione.

A conferma di tale interpretazione vi sarebbe la lettera stessa dell’art. 625 c.p. che prevede, al suo interno, la compresenza di due diverse ipotesi di aggravanti, quelle previste dal n. 7 e dal n. 7bis (relativa alla commissione del fatto su componenti metalliche o altro materiale sottratto a infrastrutture destinate all’erogazione), legate tra loro da un rapporto di specialità.

Ritenuta la natura valutativa della circostanza, risulta necessario che il capo di imputazione sia formulato anche con specifico riferimento a una serie di elementi descrittivi e qualificativi relativi alla circostanza aggravante dell’essere il bene sottratto destinato a pubblico servizio così da rendere pienamente esercitabili i diritti di difesa dell’imputato. Necessità che deriva anche dal livello di tutela preteso a riguardo dall’art. 6, par. 3, lett. a) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che individua, tra i canoni dell’equo processo, come elemento prodromico ai fini della difesa il rendere in concreto edotto l’imputato della prospettazione accusatoria formulata a suo carico in tutte le sue componenti.

Contributo in tema di “Furto di energia elettrica”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene L’onere probatorio in caso di violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene può essere soddisfatto mediante elementi presuntivi?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore. – Cass. 27 giugno 2024, n. 17758.

L’oggetto della materia del contendere di cui al caso in esame ha riguardato il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta ad una distanza inferiore a quella minima rispetto al balcone del fondo limitrofo.

In sede di appello, la Corte ha rigettato la domanda risarcitoria in quanto, oltre ad aver ritenuto insussistente il danno alla salute, la parte onerata non avrebbe allegato e provato il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene: per tali ragioni è stato infine proposto ricorso per Cassazione.

Spiegano i giudici di ultima istanza che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi ex art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione di pericolosità assoluta se prevista da norme comunali di tipo regolamentare ovvero relativa in assenza di esse.

Nondimeno, la violazione della distanza della canna fumaria dal balcone di proprietà di parte attrice è stata accertata assieme alla sua intrinseca pericolosità attesa altresì la sua composizione in amianto e le scarse condizioni manutentive; ciò che la Corte territoriale ha omesso di valutare tuttavia, ancorché in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante all’esposizione a materiali nocivi abbia limitato il godimento del bene a prescindere dalle immissioni dello stesso.

È stato dato seguito al principio di diritto elaborato dalla sez. II della Corte di Cassazione (Cass., sez. II, 18 luglio 2013, n. 17635) e poi ripreso dalle Sezioni Unite del 2022 (Cass., Sez. Un., 15 luglio 2022, n. 33645) secondo cui, “in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria” nonché nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” debba essere sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale” privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze.

Nel caso di specie, rilevano i giudici della Suprema Corte, avrebbe errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria per l’assenza di un danno effettivo alla salute, senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a compromettere il godimento del bene, dovendo accertare se, per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile.

Tale provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con l’orientamento maggioritario (e accolto dalla sent. Cass., sez. II, 23 giugno 2023, n. 18108) secondo cui l’esistenza di un danno risarcibile ben può fondarsi su presunzioni quando vengono soppresse o limitate le facoltà di godimento e disponibilità di cui il bene ne è oggetto.

Per tali ragioni, il ricorso è stato accolto e la Corte ha disposto il rinvio ai giudici dell’appello che, in diversa composizione, dovranno conformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

(*Contributo in tema di “Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Riconoscimento qualifiche professionali conseguite all’estero e abilitazione all’insegnamento Le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento devono definirsi in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Michela Colapinto, Raffaella Alessia Miccoli

 

Le misure organizzative adottate dal Ministero sulla base della sopra menzionata normativa di rafforzamento della capacità amministrativa di recente introduzione inducono ad apprezzare la collaborazione istituzionale, volta ad evitare l’ulteriore proposizione di ricorsi nella materia in esame, ed a ritenere ragionevole la previsione formulata nei chiarimenti, in base alla quale le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento dovrebbero essere definite in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico (Cons. Stato, Ad. Plen., 22 aprile 2024, n. 6).

Con la pronuncia in rassegna il Consiglio di Stato è stato chiamato a interrogarsi in ottemperanza sulla questione del riconoscimento in Italia delle qualifiche professionali conseguite all’estero.

Nel dettaglio, le ricorrenti, aspiranti docenti di ruolo nelle istituzioni scolastiche pubbliche, hanno vittoriosamente agito nella presente sede giurisdizionale amministrativa contro i dinieghi a suo tempo loro opposti dall’allora Ministero dell’Istruzione (ora dell’Istruzione e del Merito) di riconoscimento in Italia delle qualifiche professionali dalle stesse conseguite all’estero, secondo la direttiva 2005/36/CE del 7 settembre 2005 (relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali).

Il giudicato formatosi a definizione dei giudizi di annullamento dei dinieghi in questione, di cui alla sentenza della Adunanza Plenaria del 28 dicembre 2022, n. 18, ha stabilito che l’allora Ministero dell’Istruzione è tenuto a: i) «esaminare «l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli», posseduti da ciascuna interessata; non dunque a «prescindere» dalle attestazioni rilasciate dalla competente autorità dello Stato d’origine»; ii) «procedere quindi ad «un confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale», onde accertare se le stesse interessate abbiano o meno i requisiti per accedere alla professione regolamentata di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative di cui al sopra richiamato art. 14 della direttiva».

A fronte dell’inerzia serbata dall’Amministrazione successivamente al giudicato, le ricorrenti hanno quindi agito nel presente giudizio per la relativa ottemperanza.

Con l’ordinanza del 4 dicembre 2023, n. 17, l’Adunanza Plenaria ha riunito i ricorsi per ragioni di connessione e ha disposto un’istruttoria, con la quale ha chiesto al Ministero dell’Istruzione e del Merito chiarimenti su eventuali misure di carattere normativo, regolamentare e organizzativo adottate per definire le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali conseguite all’estero per l’abilitazione all’insegnamento in Italia.

L’incombente istruttorio è stato adempiuto con la nota del Capo del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito in data 5 febbraio 2024 (prot. n. 486).

Con l’innanzi indicata ordinanza istruttoria 17/2023 la Adunanza Plenaria ha chiesto al Capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito di riferire sull’adozione di «misure di razionalizzazione e di semplificazione delle procedure di riconoscimento delle qualifiche professionali ottenute all’estero», con l’obiettivo di «deflazionare l’arretrato accumulatosi presso gli uffici ministeriali – nel rispetto delle posizioni soggettive dei singoli interessati – e di contenere l’ingente contenzioso amministrativo sviluppatosi in materia».

Con la nota di riscontro del 5 febbraio 2024, il Capo Dipartimento ha innanzitutto rappresentato che è stato di recente rafforzato l’organico della competente direzione generale, ovvero quella per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionali di istruzione. Inoltre, egli ha sottolineato che è stata data attuazione all’art. 5, comma 18, del D.L. 22 aprile 2023, n. 44 (recante “Disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche”, convertito dalla L. 21 giugno 2023, n. 74), il quale prevede che «(i)l Ministero dell’istruzione e del merito, sulla base di una convenzione triennale, si avvale del Centro di informazione sulla mobilità e le equivalenze accademiche per le attività connesse al riconoscimento dei titoli di abilitazione all’insegnamento ovvero di specializzazione sul sostegno conseguiti all’estero».

A questo specifico riguardo, il Capo del Dipartimento ha riferito che dopo la stipula della convenzione il Centro è attualmente operativo ed è impegnato nell’istruttoria delle domande di riconoscimento, secondo quanto previsto nell’accordo.

Sulla base di queste misure di carattere organizzativo, conclude la nota, è stato fissato l’«obiettivo di definire tutte le posizioni soggettive dei richiedenti il riconoscimento del titolo estero entro il 30 giugno 2024», in tempo per l’assegnazione degli incarichi per il prossimo anno scolastico; in parallelo si prevede che il contenzioso attualmente pendente in sede giurisdizionale amministrativa in materia sia portato a graduale definizione.

Tanto premesso in merito alla questione giuridica e alla luce dei chiarimenti depositati dall’Amministrazione, la Corte ha ritenuto che la presente controversia possa ritenersi sufficientemente istruita, senza necessità di sentire il Capo del Dipartimento.

Le misure organizzative adottate dal Ministero sulla base della sopra menzionata normativa di rafforzamento della capacità amministrativa di recente introduzione inducono ad apprezzare la collaborazione istituzionale, volta ad evitare l’ulteriore proposizione di ricorsi nella materia in esame, ed a ritenere ragionevole la previsione formulata nei chiarimenti, in base alla quale le domande di riconoscimento dei titoli di qualificazione professionale acquisiti all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento dovrebbero essere definite in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico.

 

Contributo in tema di “Riconoscimento delle dei titoli di qualificazione professionale conseguiti all’estero e relativa abilitazione all’insegnamento”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Michela Colapinto, Raffella Alessia Miccoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Competenza delitto di lesioni personali dopo la riforma Cartabia Delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta: chi è competente?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

 

Se la competenza per materia per il delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, permanga in capo al tribunale ovvero sia stata attribuita dalla stessa norma al giudice di pace.

Appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia in ordine al delitto di lesione personale nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento. – Cass., Sez. Un., 28 marzo 2024, n. 12759.

Nel caso di specie, la Corte d’appello territoriale confermava la sentenza con cui il Tribunale, sul presupposto della sua competenza, aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 582 c.p., per aver cagionato lesioni personali alla persona offesa, giudicate guaribili in trenta giorni.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in ordine alla individuazione del giudice competente, relativamente al delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, quando il fatto è perseguibile a querela, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Secondo un primo orientamento, il giudice di pace è competente per il delitto di lesioni personali, anche nel caso di malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, sempre che la perseguibilità sia a querela a norma dell’art. 582 c.p. attualmente in vigore.

A fondamento di questo indirizzo, una interpretazione estensiva, o “parzialmente analogica” dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 274/2000, coerente con la finalità deflattiva della Riforma e con la persistente vigenza del D.Lgs. 274/2000, istitutivo della competenza penale del giudice di pace.

Secondo un diverso orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del combinato disposto del “nuovo” art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4 D.Lgs. 274/2000, il giudice di pace non ha più alcuna competenza in materia di lesioni personali, poiché le ipotesi perseguibili a querela sono ora previste tutte nel primo comma dell’art. 582 c.p. e dall’art. 4, limite di ogni altro metodo ermeneutico, ivi compreso quello dell’interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso, ha ritenuto che nella interpretazione delle citate disposizioni occorra farsi guidare da una interpretazione letterale, limite insuperabile anche qualora si proceda a una interpretazione estensiva, ai sensi degli artt. 12 preleggi e 101, comma 2, Cost. Tuttavia, il rispetto della lettera della legge impone di esaminare la singola disposizione in modo sistematico, per individuare il preciso significato e l’ambito applicativo della stessa, ovvero considerando tutte le norme riferite alla disciplina dell’identica vicenda che si pongano tra loro in rapporti di reciproca interferenza, dal momento che le disposizioni normative non possono mai essere prese in considerazione isolatamente, dovendo sempre essere valutate come componenti di un “insieme” tendenzialmente unitario, in coordinamento con le altre riferite alla disciplina dell’identica vicenda. Per tale ragione, la Suprema Corte afferma che l’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, va letto in combinato disposto con l’art. 15, comma 1, L. 24 novembre 1999, secondo una interpretazione sistematica, che valorizza il dato testuale risultante dal combinato disposto delle due previsioni normative.

In questa prospettiva, è possibile ritenere che, tra i possibili significati attribuibili al dato testuale del combinato disposto delle due previsioni normative, rientra senz’altro anche quello secondo cui sono devoluti alla competenza del giudice di pace i delitti consumati o tentati di lesione personale, quando la procedibilità per gli stessi sia a querela e fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento.

*Contributo in tema di “Delitto di lesioni personali e competenza”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Millantato credito e traffico di influenze illecite Sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito e il reato di traffico di influenze illecite?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346bis c.p., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della L. 3/2019; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma 2, c.p., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice. – Cass., Sez. Un., 15 maggio 2024, n. 19357.

Il caso da cui scaturisce il rinvio alle Sezioni Unite Penali è quello di un soggetto, detenuto in carcere, il quale convinceva un altro recluso a promettergli del denaro in cambio dell’intermediazione che il primo avrebbe esercitato su di un agente penitenziario, rimasto ignoto, per evitare che l’altro recluso fosse trasferito in altra struttura detentiva, nonostante tale trasferimento non fosse stato programmato dall’amministrazione penitenziaria. Nelle more del giudizio – nel quale inizialmente si procedeva per il delitto ex art. 319quater c.p. – interveniva la L. 3/2019 che introduceva il reato di cui all’art. 346bis c.p., per cui l’imputato veniva condannato dalla Corte d’Appello che riformulava la condanna di primo grado.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è relativo alla possibilità di ravvisare continuità normativa tra l’abrogata fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346bis c.p.), con particolare riguardo alla punibilità del “venditore di fumo” (ovvero del soggetto che chieda ad un soggetto denaro o altre utilità in cambio della sua intermediazione presso un pubblico ufficiale, quanto tuttavia tale influenza non esista, configurandosi la stessa quale mera occasione per ingannare il privato).

La soluzione positiva si fondava su due ordini di considerazioni. In primo luogo la volontà del legislatore del 2019 sarebbe stata quella di conformarsi agli obblighi di criminalizzazione imposti dalle fonti sovranazionali e, pertanto, l’introduzione dell’art. 346bis c.p. dovrebbe “ampliare” lo spettro delle condotte punibili, certamente non restringerlo. In secondo luogo si sostiene che le condotte che l’art. 346, comma 2, c.p. riconduceva al “pretesto” di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, coinciderebbero con le “relazioni (reali o) asserite” di cui all’art. 346bis c.p.

La soluzione negativa, invece, parte innanzitutto dalla considerazione che, innanzitutto, ci sarebbe diversità strutturale già nei beni tutelati tra il millantato credito di cui all’art. 346, comma 2 c.p. ed il nuovo 346bis c.p.. Infatti se nella prima norma assume una rilevanza centrale la tutela del patrimonio del compratore “circuito” dalla millanteria, la nuova disposizione è incentrata sull’anticipazione della tutela del buon andamento della p.a. che, nel caso del venditore di fumo, non risulterebbe affatto intaccata. A seguire la medesima giurisprudenza ha a più riprese osservato che non può farsi coincidere il “pretesto” del vecchio millantato credito con le “relazioni asserite” del traffico di influenze illecite. La prima espressione, infatti, designa un rapporto che l’intermediario sa inesistente e che viene utilizzato per raggirare il privato “compratore di fumo”; la seconda espressione delinea invece una serie di rapporti dell’intermediario i quali possano far aspirare il privato al favorevole esercizio del patrimonio pubblico, pure se tale risultato non si configuri come sicuro.

Le Sezioni Unite, investite della questione controversa in giurisprudenza, sposano la tesi della discontinuità tra le due fattispecie di reato, precisando quanto segue. Innanzitutto la differenza strutturale tra le due fattispecie emerge anche solo dalla considerazione che, mentre il millantato credito era reato monosoggettivo, il nuovo traffico di influenze illecite, ai sensi del comma 2, è reato necessariamente plurisoggettivo nel quale entrambe le parti vengono sanzionate se c’è la relazione con il pubblico ufficiale. Si riafferma inoltre che, per quanto concerne l’offensività delle condotte di cui all’art. 346bis c.p., ora il bene giuridico tutelato è certamente il solo buon andamento della pubblica amministrazione che, nel caso di un’influenza solo millantata, non sarebbe di certo offeso. Non possono essere dirimenti, in senso contrario, le pur valide obiezioni che valorizzano l’astratta volontà del legislatore di ampliare le ipotesi di reato punibili e non certo di restringerle: sul punto, infatti, per pacifico insegnamento giurisprudenziale si evidenzia che anche l’interpretazione sistematica non può comunque ignorare la formulazione ed il significato letterale delle norme di legge (cfr. Cass., Sez. Un., 19 maggio 1999, n. 11).

Per quanto concerne l’offesa al patrimonio del “compratore di fumo” – che la giurisprudenza prevalente vedeva offeso nel vecchio reato di millantato credito – la Corte si occupa anche della punibilità della condotta del “venditore di fumo” a titolo di truffa. La questione impone di valutare se tra il delitto di truffa e l’abrogata fattispecie di millantato credito (e, in particolare, delle condotte di cui al secondo comma) sussista un rapporto di specialità e, quindi, se possa ravvisarsi un fenomeno di abrogatio sine abolitione. Il rapporto di specialità ex art. 15 c.p., secondo le conclusioni sulle quali si è attestata la giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664), va investigato alla luce della comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non essendo valorizzabili, per un deficit di legalità, i criteri di assorbimento e consunzione.

Nel caso in esame le Sezioni Unite evidenziano come, confrontando la struttura delle due fattispecie, tra esse non possa rinvenirsi un rapporto di specialità unilaterale ma, piuttosto, di specialità bilaterale poiché ognuna presenta elementi specializzanti rispetto all’altra: il pretesto di dover comprare la funzione nel millantato credito, l’ingiusto profitto e l’induzione in errore nella truffa). Tale rapporto di interferenza esclude che tra i due reati possa individuarsi una continuità temporale con “riespansione” della norma generale e, pertanto, la condotta del venditore di fumo sarà punibile purché nel processo sia stato contestato anche quest’ultimo reato e ne siano stati accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi.

(*Contributo in tema di “Millantato credito e traffico di influenze illecite”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Vendita immobile oggetto di locazione e pagamento quote condominiali In presenza di un contratto di compravendita di un immobile oggetto di locazione, il cessionario acquirente dell’immobile subentra nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In mancanza di una contraria volontà dei contraenti, la vendita di immobile oggetto di locazione (vale anche per la donazione o cessione) determina, ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., la surrogazione del terzo acquirente (o donatario o cessionario) nei diritti e nelle obbligazioni del venditore (o donante o cedente) che sia anche locatore senza necessità del consenso del conduttore, perciò anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali del condominio di cui fa parte l’immobile locato. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a scrutinare il ricorso per cassazione con cui si richiedeva di definire gli effetti rinvenienti dalla stipula di un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile locato.

La pronuncia in esergo prende le mosse da un’articolata vicenda processuale in cui un Condominio – dopo aver infruttuosamente esperito due procedure di espropriazione mobiliare nei confronti del titolare di un immobile per il mancato pagamento di contributi condominiali negli anni dal 2008 al 2014 – agiva in giudizio per chiedere l’emissione di un provvedimento monitorio nei confronti della società (ex proprietaria-cedente) che aveva ceduto gli immobili al soggetto moroso, e da cui, medio tempore, aveva riacquistato gli stessi, salvo poi cederli in locazione.

La società ingiunta ricorreva in giudizio promuovendo opposizione a decreto ingiuntivo, anche in virtù della tempestiva comunicazione che era stata al Condominio circa l’avvenuta cessione, al soggetto moroso) delle due unità immobiliari interessate.

Il giudice di prime cure, con una sentenza poi confermata in appello, rigettava la domanda dell’opponente.

Viene proposto, quindi, ricorso per Cassazione, articolato in una pluralità di motivi di gravame.

In particolare, con il primo motivo si denunciava la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1118 e 1123 c.c., nonché dell’art. 63 disp. att. c.c., in quanto il giudice di appello, muovendo da una non corretta qualificazione in sede monitoria della domanda del condominio, sarebbe incorso in un’errata applicazione delle norme sul pagamento del quantum debeatur.

Nel secondo argomento di censura si eccepivano due questioni intrinsecamente connesse: per un verso, la violazione dei criteri di ripartizione degli oneri probatori (artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c.), nella parte in cui i giudici di appello avevano imputato all’opponente (i.e. la società) l’obbligo di esibire il contratto da cui rilevare il trasferimento dell’immobile al cessionario inadempiente, trattandosi di elemento fattuale pacificamente ammesso; per altro verso, la violazione del principio di irretroattività della legge in relazione all’applicazione dell’art. 63 disp. att. c.c., avendo applicato tale disposizione nella formulazione introdotta nel 2012, ad una fattispecie anteriore a tale data.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso di parte denuncia l’illegittima inversione dell’onere della prova in sede di gravame, nella parte in cui era stato imputato erroneamente alla società l’onere di dimostrare l’inesistenza in capo a sé della qualità di condomina con riferimento al periodo della morosità e non già al Condominio, anche tenuto conto di tutte le vicende di cessione e di successivo riacquisto degli immobili.

Ne consegue, in punto di diritto, che l’ingiunto destinatario del ricorso per decreto ingiuntivo andava individuato nel cessionario e non già nella società cedente, la quale – tutt’al più – avrebbe potuto rispondere, per effetto della sopravvenuta entrata in vigore della modifica apportata al citato art. 63 disp. att. c.c., solo delle ultime due annualità.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo, la Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa al Tribunale, il quale dovrà attenersi ai principi di diritto evidenziati in massima.

(*Contributo in tema di “Vendita di immobile oggetto di locazione e obbligo di pagamento delle quote condominiali”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Richiesta di rinvio pregiudiziale e mancata pronuncia Si configura l’errore revocatorio in caso di mancata pronuncia sulla richiesta di rinvio pregiudiziale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, pur se il giudice nazionale di ultima istanza non può essere obbligato dalle parti a presentare una domanda di rinvio pregiudiziale, tuttavia è obbligato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio. – Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3164.

La Sezione ha ritenuto che, pur se il giudice nazionale di ultima istanza non può essere obbligato dalle parti a presentare una domanda di rinvio pregiudiziale, è tuttavia obbligato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio e nel caso in cui ritenga di non rinviare dovrà motivare sul difetto di rilevanza o sulle altre ragioni di esonero dall’obbligo di rinvio, ciò considerata la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia EU.

In ragione del sistema di cooperazione tra la Corte di giustizia EU e i giudici nazionali di cui all’art. 267 T.F.U.E., terzo paragrafo, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. va riferito anche all’istanza di rinvio pregiudiziale avanzata dalle parti.

Pertanto, l’omissione di pronuncia sull’istanza di rinvio pregiudiziale risulta equiparabile all’omessa pronuncia su domanda o eccezione di parte, implicando che anche a tale fattispecie sono applicabili i principi sulla rilevanza del processo causale che ha determinato l’omessa pronuncia non ex se ma come risultato di un vizio dovuto ad errore di fatto revocatorio. Dunque, anche per l’istanza di rinvio pregiudiziale, l’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia, purché si evinca dalla sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame l’istanza.

Contributo in tema di “Richiesta di rinvio pregiudiziale e mancata pronuncia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica