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Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere Che rilevanza hanno i «disturbi della personalità» ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Nel percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto, hanno rilievo precisi indici rivelatori non di un qualsiasi disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità, idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma. – Cass., sez. I, 19 marzo 2024, n. 11539.

 La Corte di legittimità è chiamata a pronunciarsi sul riconoscimento del vizio di mente in caso di disturbo della personalità con discontrollo degli impulsi.

Con la sentenza impugnata, infatti, la Corte di Assise di Appello confermava la condanna emessa dal Giudice per le indagini preliminari relativamente al reato di omicidio pluriaggravato consumato all’interno di una drammatica situazione familiare, segnata dalla malattia mentale dell’imputato, affetto da anni da disturbi psichiatrici che lo rendevano violento nei confronti dei familiari.

Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione dal difensore dell’imputato con il quale si denunciava, tra gli altri motivi, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere in capo all’imputato.

Secondo il ricorrente, il mancato riconoscimento dell’infermità mentale si poneva in contraddizione anche con quanto evidenziato dallo stesso perito nominato dal primo Giudice, il quale aveva ravvisato in capo al medesimo disturbi della personalità ed, in particolare, un disturbo psichico che comporta discontrollo degli impulsi e improvvise e transeunti perdite della capacità di comprendere il significato e il valore o disvalore delle proprie condotte, emergente soprattutto in fase di forte stress.

Il ricorrente osservava come, secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite della Cassazione con sent. 230317/2005, il termine infermità non allude solo ad una condizione patologica, ma a qualunque disturbo che, incidendo sulla psiche, comprometta irrimediabilmente la capacità di intendere di volere, con la conseguenza che anche il disturbo della personalità può escludere l’imputabilità del soggetto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha evidenziato che il concetto di “infermità” di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è stato al centro di evoluzione giurisprudenziale estensiva: se, infatti, giurisprudenza piuttosto risalente tendeva a considerare rilevanti, ai fini del concetto, le sole patologie aventi substrato organico, da quasi due decenni la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto come, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità” – che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali – possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163).

La decisione delle Sezioni Unite pone alla base del percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto la avvenuta emersione di precisi indici rivelatori non di un «qualsiasi» disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità: deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma.

Ebbene, ciò premesso, la Corte ha osservato che l’analisi svolta in sede di merito ha rettamente escluso la ricorrenza di reali indicatori di perdita del senso di realtà nel caso in esame, specie nella condotta posteriore alla consumazione del fatto, atteso che la prospettata incapacità di intendere e di volere del imputato si pone apertamente in contrasto con l’atteggiamento da costui tenuto nell’immediatezza del fatto, avendo da subito egli con cinismo fornito una versione dei fatti finalizzata a crearsi immediatamente una strategia difensiva.

Infine, occorre osservare come l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisca questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Cass., sez. I, 17 gennaio 2014, n. 32373), salvi casi di cd. travisamento della prova.

*Contributo in tema di “Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Fideiussione prestata da confidi minore È valida la fideiussione prestata da un c.d. “confidi minore”, iscritto nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4, TUB (ratione temporis applicabile alla fattispecie), nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La fideiussione prestata da un cd. “confidi minore, come il Consorzio ricorrente, soc. coop. r.l., iscritto nell’elenco di cui all’art. 155 , comma 4, T.u.b. (ratione temporis applicabile), nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario, non è nulla per violazione di norma imperativa, non essendo la nullità prevista in modo testuale, né ricavabile indirettamente dalla previsione secondo la quale detti soggetti svolgono “esclusivamente” la “attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali” per favorire il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario. Il rilascio di fideiussioni è attività non riservata a soggetti autorizzati (come gli intermediari finanziari ex art. 107 T.u.b. ), né preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale. –  Cass. Sez. Un. 15 marzo 2022, n. 8472.

Alla risposta indicata nella massima, le Sezioni Unite pervengono valorizzando una serie di elementi.

Anzitutto, rilevano che il rilascio di fideiussioni, diversamente dall’attività di concessione di finanziamenti, è un’attività non riservata a soggetti autorizzati, (come gli intermediari ex art. 107 TUB); né è preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale.

Il contratto sub iudice è, per l’appunto, una fideiussione di diritto comune non specificamente riservata agli intermediari autorizzati dal TUB e non può quindi dirsi – in mancanza di specifici divieti – proibita a un confidi minore. È vero che quest’ultimo, in mancanza di apposita iscrizione all’albo ex art. 106 TUB, non può svolgere operazioni riservate agli intermediari finanziari, ma nella fattispecie al consorzio non sono contestate tali attività, bensì il semplice fatto di aver stipulato una fideiussione.

Questa però non è un contratto bancario, né ha una disciplina ad hoc.

Al contrario tale negozio è regolato dal codice civile ed è identico sia se rilasciato da un intermediario, sia se concesso da un soggetto diverso.

Sotto altro profilo il fatto che il confidi minore debba svolgere “esclusivamente” l’attività di garanzia collettiva dei fidi non implica necessariamente un divieto assoluto, a pena di nullità, di attività diverse.

In sostanza il fatto di svolgere attività estranea all’oggetto sociale, in forma comunque non sistematica, non comporta la nullità dei negozi e/o contratti relativi (in tal senso vengono richiamate pronunce in tema di contratti assicurativi vedi Cass. 384/2018 o di affitto di azienda vedi Cass. 8499/2018).

In secondo luogo, si ricorda che la nullità virtuale posta dall’art. 1418, comma 1, c.c. è sì fondata sulla trasgressione di una norma imperativa ma non è insensibile al tipo di norma imperativa violata.

Al riguardo, è necessario, infatti, distinguere le regole di fattispecie dalle regole di condotta, riconnettendosi alla violazione delle prime la sanzione della nullità e alla violazione delle seconde il meccanismo della responsabilità, secondo il ben noto insegnamento del giudice della nomofilachia.

Occorre, quindi, individuare di volta in volta quali siano le norme imperative la cui violazione determini la nullità del contratto, non potendosi sostenere sempre una chiara equiparazione tra norma inderogabile e norma imperativa.

A tal proposito, si rammenta che la giurisprudenza ha dapprima classificato come imperative le disposizioni relative alla struttura essenziale e al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti; ha poi progressivamente esteso il campo della nullità anche alla violazione di norme che attengono a determinate condizioni oggettive o soggettive che direttamente o indirettamente vietano la stipula stessa del contratto. Il trend ultimo che si registra è compendiato dalle Sezioni Unite, le quali rendono manifesta la tendenza attuale di ritenere imperative le norme che operano «come strumento di reazione dell’ordinamento rispetto alle forme di programmazione negoziale lesive di valori giuridici fondamentali».

Non si può dimenticare, invero, che la nullità è la negazione dell’autonomia negoziale sì da dover essere contenuta nei limiti di una sanzione residuale ed estrema.

La nullità negoziale ex art. 1418, comma 1, c.c. deve discendere, allora, dalla violazione di norme aventi contenuti specifici, precisi e individuati non potendosi in caso contrario applicare una sanzione tanto grave, pena il rischio di violare contrapposti valori e principi di rango costituzionale come la libertà negoziale e la libera iniziativa economica.

Alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite concludono che non sussistono le caratteristiche per considerare la disposizione citata come imperativa; non può affermarsi, quindi, alcuna nullità per la fideiussione rilasciata.

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Continuazione tra reati e non punibilità La continuazione tra i reati è di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo è solo in presenza di determinate condizioni?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea in concreto ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale. – Cass. Sez. Un. 12 maggio 2022, n. 18891.

Nel caso di specie, la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare se ad escludere l’operatività della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., sia sufficiente il solo riconoscimento del vincolo di continuazione tra i reati, ovvero sia a tal proposito altresì necessaria la sussistenza di ulteriori condizioni previste dalla predetta disposizione normativa.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte ha evidenziato che l’utilizzo del termine “abituale” e non “occasionale” da parte del legislatore, nel disposto di cui all’art. 131bis c.p., ha sollevato un contrasto tra due opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità circa l’applicabilità in concreto della causa di esclusione della punibilità al reato continuato.

Secondo il primo indirizzo interpretativo, inizialmente prevalente, la causa di non punibilità non troverebbe applicazione nel caso di più reati esecutivi del medesimo disegno criminoso, in quanto tale vincolo, rispondendo alla medesima ratio del comportamento abituale, non supererebbe lo sbarramento posto dalla predetta disposizione normativa. Pur comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo, invero, il vincolo della continuazione consisterebbe in un’oggettiva reiterazione di condotte rilevanti, sintomatiche di una devianza non occasionale, pertanto espressive di un comportamento abituale che giustificherebbe l’esclusione dal suddetto beneficio (Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897).

Il secondo indirizzo interpretativo, attualmente prevalente, ritiene configurabile la particolare tenuità del fatto nell’ipotesi di reato continuato, purché lo stesso non sia espressivo di una tendenza o inclinazione al crimine (Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358).

L’esclusione dell’abitualità anche rispetto ad un reato continuato, invero, dovrebbe avvenire valorizzando elementi ulteriori desumibili dall’art. 131bis c.p., in presenza dei quali, pertanto, il vincolo di continuazione non sarebbe indicativo del carattere seriale dell’attività criminosa o dell’abitudine del soggetto a violare la legge, ostativi all’operatività della predetta disposizione normativa.

Tuttavia, tale indirizzo distinguerebbe tra continuazione diacronica, sussistente in caso di una pluralità di reati avvinti dal vincolo della continuazione, ma commessi in contesti spaziali e temporali diversi, e continuazione sincronica, sussistente in caso di una pluralità di condotte espressive di un medesimo disegno criminoso, ma commesse in un unico contesto spaziale e temporale.

La violazione criminosa in caso di continuazione sincronica sarebbe invero unica, stante la contemporanea esecuzione temporale e spaziale delle distinte azioni delittuose e sarebbe pertanto compatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla personalità positiva del reo, da cui si desumerebbero i presupposti finalizzati alla valutazione dell’operatività dell’art. 131bis c.p. (Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434).

Sul punto, gli Ermellini hanno richiamato quanto stabilito dalle Sezioni Unite in una precedente pronuncia, che ha analizzato le tre ipotesi tassative di comportamento abituale di cui all’art. 131bis, comma 3, c.p.

Il primo di tale triplice criterio risulta non suscitare problemi di interpretazione, essendo già definita dal legislatore la qualificazione di delinquente abituale, professionale o per tendenza attraverso gli artt. 105 e ss. c.p.

In relazione al secondo criterio, vale a dire più reati della stessa indole, il dato normativo parla di “reati” e non di “condanne”; pertanto, la pluralità di reati, da intendere partendo da almeno due rispetto a quello in sede di accertamento, è configurata non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche a fronte di accertamenti di reato non ancora definitivi o di reati da giudicare nel medesimo procedimento.

In relazione al terzo criterio, vale a dire condotte abituali e reiterate, la sentenza richiamata chiarisce che il legislatore richiami fattispecie che prevedono l’elemento tipico della condotta abituale, come nel caso del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., nonché delle condotte reiterate, come nel caso del reato di atti persecutori di cui all’art. 612bis c.p.

Le condotte plurime, lungi dall’essere una ripetizione delle condotte abituali e reiterate, si riferiscono a fattispecie concrete connotate da distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Non è desumibile, pertanto, alcun riferimento preclusivo al reato continuato (Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681).

Le Sezioni Unite aderiscono alle conclusioni della predetta pronuncia e condividono l’impostazione del secondo orientamento giurisprudenziale.

Il Supremo Collegio muove, in prim’ordine, dalla premessa che il concorso formale di reati è caratterizzato dall’unicità dell’azione o dell’omissione, escludendone pertanto sia la collocazione tra i reati della stessa indole o tra le condotte plurime, abituali e reiterate, sia la natura di condotta abituale.

Il reato continuato, parimenti, consiste in una particolare ipotesi di concorso di reati, essendo tuttavia considerato unitario ai soli fini della determinazione della pena o della garanzia di un eventuale risultato favorevole al reo (Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775; Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286).

Di conseguenza, annoverare il concorso formale di reati tra i presupposti per la particolare tenuità del fatto a discapito del reato continuato, comporterebbe un trattamento discriminatorio e una violazione del canone di ragionevolezza.

Chiarito che i reati avvinti dal vincolo della continuazione possono essere suscettibili di applicazione dell’art. 131bis c.p., le Sezioni Unite hanno altresì stabilito che gli stessi devono essere oggetto di un complessivo apprezzamento discrezionale del giudice, che deve soppesarli con la sussistenza di ulteriori criteri al fine di valutare l’operatività dell’art. 131bis c.p., tra cui la natura e la gravità dei reati unificati, dei beni giuridici lesi o posti in pericolo, l’entità delle disposizioni di legge violate, le finalità e le modalità esecutive della condotta, le motivazioni e le conseguenze derivatene, l’arco temporale e il contesto in cui le violazioni medesime si collocano, l’intensità del dolo e la rilevanza dei comportamenti successivi ai fatti.

La natura dei reati in continuazione e il bene giuridico dagli stessi leso, tuttavia, sollevano la possibilità di integrare più reati della stessa indole, che definiscono un comportamento abituale tale, dunque, da escludere il reato continuato dall’operatività dell’art. 131bis c.p.

La soluzione cui perviene il Supremo Collegio consiste invero nella valutazione del dato numerico dei reati della stessa indole, posto che l’art. 131bis c.p. parla di più reati, che pertanto devono essere almeno due e a cui deve aggiungersi il reato oggetto di accertamento giudiziario. Ne consegue che, solo se inferiori a tre, i reati della stessa indole uniti dal vincolo della continuazione non incorrono nel comportamento abituale preclusivo dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità.

Tuttavia, nella nozione di “stessa indole” vi rientra la sola continuazione omogenea, caratterizzata dalla plurima violazione della medesima disposizione di legge.

Le Sezioni Unite infine escludono dall’ambito dell’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis c.p., la sola continuazione diacronica, dal momento che comporta la reiterazione di condotte delittuose in contesti spaziali e temporali distanti, sintomatiche di una pervicacia criminale che non consente di qualificare il fatto come occasionale.

Pertanto, le Sezioni Unite hanno stabilito che la pluralità di reati uniti dal vincolo della continuazione non è ostativa all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., salvo che il giudice la ritenga idonea ad integrare una o più delle condizioni previste dalla medesima disposizione normativa per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358; Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434;
Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681;  Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775;
Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286
Difformi:      Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897
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Contratto preliminare di compravendita e regolarità urbanistica In caso di mancanza della regolarità urbanistica dell’appartamento oggetto del preliminare, il contratto è risolto per inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

In tema di contratto preliminare di compravendita immobiliare, ove sia stata proposta una domanda di risoluzione dello stesso per inadempimento del promittente alienante all’obbligo di sanare l’abuso correlato alla variazione della destinazione d’uso del bene, è necessario verificare, in base alle circostanze concrete desumibili dal compendio probatorio, che le difformità riscontrate non siano in alcun modo sanabili. – Cass., sez. II, ord. 3 aprile 2024, n. 8749.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è chiamata a valutare la validità della stipula di un contratto preliminare di compravendita di un immobile all’epoca privo del certificato di agibilità, in quanto privo della destinazione ad uso abitativo.

In primo grado, il Tribunale adito pronunciava la risoluzione del contratto preliminare di vendita per grave inadempimento della promittente venditrice nella consegna di un valido certificato di abitabilità, evidenziando che la medesima non avesse fornito alcuna prova circa le caratteristiche necessarie per l’uso proprio dell’immobile promesso in vendita e della sanabilità della difformità edilizia acclarata.

La promittente venditrice ha promosso appello avverso la sentenza del Tribunale.

La Corte d’Appello ha accolto il ricorso, rigettando la domanda di risoluzione del preliminare di vendita.

La sentenza d’appello ha evidenziato le seguenti circostanze: al momento in cui era stata fissata la stipula del definitivo, la promittente venditrice non era in grado di consegnare il certificato di agibilità, ne’ esso era stato rilasciato nel corso del giudizio di primo grado; nel preliminare era stato stabilito che, in caso di esito negativo del giudizio pendente dinanzi al Tar e di annullamento dei provvedimenti amministrativi di rigetto delle istanze di sanatoria, la promittente alienante si impegnava a restituire, in favore della promissaria acquirente, le somme nel frattempo versate; le parti avevano inteso subordinare la risoluzione del preliminare alla mancata positiva conclusione del giudizio amministrativo; il Tar aveva rilevato nella propria sentenza che la promittente alienante non era stata messa in grado di fornire un principio di prova circa la realizzazione dell’opera entro il termine ultimo di legge, con conseguente annullamento del provvedimento del Comune di rigetto delle istanze di condono, con conseguente obbligo dell’Amministrazione di rinnovare la procedura istruttoria; il Tar aveva inoltre rilevato che nessun termine essenziale era stato stabilito per la consegna del certificato di abitabilità entro la data pattuita per la stipula del definitivo.

Viene proposto, quindi, ricorso per Cassazione, contestando il promittente acquirente che la sentenza impugnata sarebbe censurabile nella parte in cui non avrebbe ritenuto insanabile la carenza relativa al difetto della certificazione di agibilità per l’abusivo mutamento di destinazione d’uso, non avendo la società promittente venditrice dimostrato la perdurante possibilità di procurare tale certificato.

La Suprema Corte, nella sentenza de qua, ha chiarito che, in tema di vendita di immobili destinati ad abitazione, la mancanza del certificato di abitabilità configura alternativamente l’ipotesi di: vendita di aliud pro alio, qualora le difformità riscontrate non siano in alcun modo sanabili; vizio contrattuale, sub specie di mancanza di qualità essenziali, qualora le difformità riscontrate siano sanabili; inadempimento non grave, fonte di esclusiva responsabilità risarcitoria del venditore ma non di risoluzione del contratto per inadempimento, qualora la mancanza della certificazione sia ascrivibile a semplice ritardo nella conclusione della relativa pratica amministrativa (Cass., sez. II, 2 agosto 2023, n. 23605; Cass., sez. II, 2 agosto 2023, n. 23604).

Tale insanabilità nella fattispecie doveva essere accertata alla luce del quadro probatorio (documentale) offerto, con precipuo riferimento allo stato in concreto della pratica amministrativa volta ad ottenere l’istanza di sanatoria dell’abusiva variazione di destinazione d’uso da servizi comuni (palestre e piscina) in superfici abitative; tenuto conto, al contempo, del lungo lasso di tempo decorso rispetto alla data fissata nel preliminare per la stipula del definitivo.

In proposito, nella valutazione della gravità ex art. 1455 c.c., sotto il profilo qualitativo e quantitativo, dell’inadempimento dedotto (ossia in ordine alla carenza dei requisiti per ottenere la sanatoria del mutamento di destinazione d’uso da servizi comuni a superficie abitativa), avrebbe dovuto tenersi conto dell’iter della pratica amministrativa (e segnatamente del suo eventuale avvio all’esito della pronuncia giudiziale evocata), dovendo ponderarsi, in difetto di riscontri, se fosse stata esclusa, in modo significativo, l’oggettiva attitudine del bene a soddisfare le aspettative del promissario acquirente, essendo il cespite oggettivamente inadeguato ad assolvere alla sua funzione economico-sociale (Cass., sez. II, ord. 27 dicembre 2017, n. 30950).

Tenuto conto altresì che, nel caso di insanabili violazioni di disposizioni urbanistiche, sono integrati gli estremi di un inadempimento ex se idoneo alla risoluzione della compravendita, da qualificarsi grave in relazione alle concrete esigenze del promissario compratore di utilizzazione diretta od indiretta dell’immobile. In ragione di siffatte direttrici, le carenze sostanziali acclarate non avrebbero potuto ricondursi al mero rilievo formale del difetto della consegna del certificato.

Ebbene, solo quando sia appurata la ricorrenza delle condizioni sostanziali che ne avrebbero giustificato il rilascio non può darsi luogo alla risoluzione del contratto, in quanto tale deficienza non influisce, per definizione, sulla funzione economico-sociale della res alienata, la cui identità sul piano statico e dinamico corrisponde esattamente all’oggetto della pattuizione.

Pertanto, qualora manchi la documentazione amministrativa, ma siano presenti, in concreto, i requisiti richiesti dalla legge per l’agibilità, non si può attivare il rimedio della risoluzione, presupponendo il ricorso a detto rimedio la verifica, sul piano oggettivo e subiettivo, dell’importanza dell’inadempimento ex art. 1455 c.c. (Cass., sez. III, 4 marzo 2022, n. 7187).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha erroneamente applicato la disciplina sulla risoluzione del contratto preliminare per inadempimento, in relazione alla mancanza della licenza di agibilità (ex abitabilità), in assoluta carenza di alcuna dimostrazione, a cura della società promittente venditrice, della regolarità della sanatoria e della perdurante possibilità di ottenere il detto certificato. Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

*Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Servizio di guardia medica e visita domiciliare Commette reato il sanitario in servizio di guardia medica che si rifiuti di eseguire una visita domiciliare?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

Integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che, pur richiesto, decida di non eseguire l’intervento domiciliare urgente per accertarsi delle effettive condizioni di salute del paziente, nonostante gli venga prospettata una sintomatologia grave, trattandosi di un reato di pericolo per il quale a nulla rileva che lo stato di salute del paziente si riveli in concreto meno grave di quanto potesse prevedersi. – Cass., sez. VI, 15 marzo 2024, n. 11085.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è intervenuta in merito al reato di rifiuto di atti di ufficio, vagliando la responsabilità penale del medico in servizio di guardia medica che si rifiuti di eseguire una visita domiciliare urgente richiesta dal paziente.

In particolare, la Corte di Appello confermava la pronuncia con la quale il Tribunale, previa assoluzione per il delitto di omicidio colposo, aveva condannato un medico per il reato di omissioni in atti di ufficio, perché, nella qualità di medico di guardia dell’Asl, aveva rifiutato di eseguire una visita domiciliare, nonostante le riferite gravi condizioni di salute del paziente, limitandosi a diagnosticare telefonicamente una gastroenterite che, successivamente, risultava essere un infarto che portava al decesso dell’uomo.

Avverso tale sentenza il medico ha presentato ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione con atto sottoscritto dal proprio difensore.

In particolare, il ricorrente denunziava la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’ art. 328 c.p. attesa la mancanza sia dell’indebito rifiuto – posto che la scelta del medico di provvedere o meno a visita domiciliare costituisce un atto discrezionale – sia del dolo del reato – in quanto il ricorrente, avendo colposamente errato la diagnosi, non era consapevole delle reali condizioni del paziente e, quindi, non si era rappresentato una situazione che imponesse il dovere di attivarsi.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso parzialmente fondato e ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio.

In relazione alla configurabilità del reato di rifiuto di atti di ufficio, la Suprema Corte ha evidenziato che l’art. 13, D.P.R. 41/1991 stabilisce che il medico in servizio di guardia deve rimanere a disposizione «per effettuare gli interventi domiciliari a livello territoriale che gli saranno richiesti» e durante il turno «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dagli utenti». È di tutta evidenza che, in base alla norma citata, la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare spetti alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sia sulla base della sintomatologia riferitagli che sulla base della propria esperienza. Tale valutazione, però, è sindacabile dal giudice di merito, in forza degli elementi di prova sottoposti al suo esame, per accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata sulla base di dati di ragionevolezza, desumibili dallo specifico contesto e dai protocolli sanitari applicabili, oppure costituisca un pretesto per giustificare l’inadempimento dei propri doveri (Cass., sez. VI, 29 luglio 2019, n. 34535; Cass., sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 23817).

Costituisce, pertanto, consolidato orientamento interpretativo di questa Corte quello secondo il quale integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che, pur richiesto, decida di non eseguire l’intervento domiciliare urgente per accertarsi delle effettive condizioni di salute del paziente, nonostante gli venga prospettata una sintomatologia grave, trattandosi di un reato di pericolo per il quale a nulla rileva che lo stato di salute del paziente si riveli in concreto meno grave di quanto potesse prevedersi. In sostanza, il delitto è integrato ogniqualvolta il medico di turno, pubblico ufficiale, a fronte ad una riferita sintomatologia ingravescente e alla richiesta di soccorso, che presenti inequivoci connotati di gravità e di allarme, neghi un atto non ritardabile, quale appunto quello di un accurato esame clinico volto ad accertare le effettive condizioni del paziente (Cass., sez. VI, 23 maggio 2023, n. 29927; Cass., sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 23817; Cass., sez. VI, 5 giugno 2007, n. 31670).

Nel caso in esame, la motivazione della sentenza di secondo grado, dopo aver correttamente escluso che la condotta di tipo omissivo della ricorrente avesse causalmente determinato la morte del paziente, ha spiegato che l’ostinato rifiuto del medico di eseguire la visita domiciliare andasse qualificato come rifiuto di atti di ufficio. Nonostante la perizia disposta in primo grado avesse ritenuto che i sintomi rappresentati telefonicamente dovessero indurre ragionevolmente a considerare la possibilità teorica che fosse in atto una patologia cardio-vascolare di natura ischemica, la dottoressa aveva diagnosticato una semplice gastroenterite (ritenuta dai periti «francamente erronea»), e non aveva ritenuto necessario eseguire la visita domiciliare sebbene solo il rilevamento di parametri obiettivi (quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, il ritmo cardiaco, la cianosi) avrebbe consentito di comprendere, in concreto, la patologia del paziente.

Quanto alla doglianza riguardante l’insussistenza del dolo del reato, la Suprema Corte ha ritenuto le argomentazioni esposte dalla Corte di merito correttamente fondate sull’indebito e consapevole rifiuto della ricorrente di svolgere l’intervento domiciliare urgente, in assenza di altre esigenze dei servizio (quali, ad esempio, contemporanee richieste di intervento urgente), a fronte dell’ inequivoca gravità e chiarezza della sintomatologia esposta, per sincerarsi personalmente, pur nel dubbio, delle effettive condizioni del paziente e dell’eventuale situazione di pericolo in cui questi si trovava o meno, in base ad un esame clinico diretto. Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del reato, costituito dal dolo generico, è dunque vero che non basta la generica negligenza, ma è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza che il proprio contegno omissivo violi i doveri impostigli (Cass., sez. VI, 15 giugno 2021, n. 33565) tra i quali rientrano quelli delineati nel sopracitato art. 13, D.P.R. 41/1991 la cui necessità va valutata secondo criteri di ragionevolezza desumibili dalla situazione in concreto rappresentata.

*Contributo in tema di “Servizio di guardia medica e visita domiciliare”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Giudizio di ottemperanza e mutamento normativo Il mutamento normativo consente di riproporre il giudizio di ottemperanza in origine dichiarato inammissibile?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, sez. IV, ord. 23 novembre 2022, n. 10342

La vicenda esaminata attiene alla possibilità di riproporre l’azione di ottemperanza, in passato dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione per difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, stante la ritenuta natura meramente amministrativa del decreto decisorio del ricorso straordinario, insuscettibile, come tale, di essere eseguito con il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza.

Come è noto, infatti, nel 2009 è intervenuta la L. n. 69, che ha profondamente inciso sull’istituto del ricorso straordinario, elevato a rimedio sostanzialmente giurisdizionale, con evidenti riflessi sulla ammissibilità di un nuovo ricorso per l’ottemperanza.

Invero, in senso contrario si osserva che la rimodulazione legislativa del ricorso straordinario del 2009 non ha riguardato espressamente la sua efficacia retroattiva, successivamente esclusa dalla giurisprudenza.

Come affermato dai Giudici, si pone, pertanto, la necessità di valutare, in chiave processuale, se un giudicato in rito ostativo alla proposizione di un’azione possa sopravvivere al quadro normativo applicato (in altra prospettiva, se possa avere efficacia ultra-attiva insensibile alle successive modifiche legislative) ovvero se sia condizionato temporalmente alla vigenza di questo, specialmente allorché tale giudicato frustri ed inibisca definitivamente ed irrimediabilmente le istanze di giustizia avanzate dagli interessati.

In chiave sostanziale, inoltre, ci si chiede se la sopravvenuta modifica legislativa di uno strumento di tutela con effetti ampliativi delle facoltà defensionali dei privati (ossia, più in particolare, la rimodulazione della relativa disciplina in maniera così profonda da determinarne, secondo consolidata giurisprudenza, l’evoluzione della stessa natura giuridica, connotata ora da carattere sostanzialmente giurisdizionale) si rifletta e ridondi – in senso parimenti ampliativo – a beneficio delle istanze degli interessati già azionate in epoca antecedente alla novella legislativa e allora dichiarate inammissibili, consentendone hic et nunc la riproposizione, tenendo oltretutto presente che il maggioritario indirizzo pretorio ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex art. 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale, ossia quello antecedente alla novella del 2009.

Si afferma quindi che il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza era stato ritenuto inammissibile a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione: il fatto che la precedente azione di ottemperanza non sia stata respinta nel merito, ma dichiarata inammissibile per ragioni processuali, potrebbe legittimare, in un’ottica esegetico-applicativa particolarmente attenta al valore ordinamentale dell’effettività della tutela giurisdizionale e della pienezza del diritto di difesa, l’attuale presentazione di una nuova istanza di ottemperanza, non ostandovi più la pronuncia di inammissibilità della Corte di cassazione, a suo tempo emessa sulla scorta di un paradigma normativo poi radicalmente travolto, sia pure con valenza ex nunc, dalle modifiche legislative medio tempore intervenute.

Quanto alla possibile violazione del ne bis in idem, si afferma, altresì, che la violazione di tale principio potrebbe tout court non venire in considerazione nella specie, qualora si valorizzasse fortemente la circostanza che l’attuale azione di esecuzione si muove entro una cornice normativa e giurisprudenziale del tutto diversa da quella vigente al momento del radicamento del precedente ricorso, sì che potrebbe assumersi – nell’intento di preservare le istanze di tutela sostanziale del privato – che non si tratti, a stretto rigore, della medesima azione.

Sulla base di tali premesse, la IV sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, chiedendo in particolare se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell’ammissibilità dell’ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l’ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009.

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Accesso agli atti ente di diritto privato Sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse, limitatamente a tali attività. – Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2694.

Preliminarmente con riguardo alla vicenda in esame, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ricorda che l’art. 22, comma 1, lett. e), della L. 241/1990, ammette l’accesso agli atti “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

L’interesse all’ostensione degli atti inerenti all’attività di pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.

Nel caso in esame la Sezione ha ritenuto che, pur muovendo dalla natura privatistica di ASMEL (Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali – è un’associazione senza scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici, tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa nell’ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e servizi”), l’attività dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa, richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati.

*Contributo in tema di “Accesso agli atti”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Contratti di fideiussione e antitrust È possibile per il giudice rilevare d’ufficio la nullità in caso di contratti di fideiussione che riproducono clausole violative della disciplina antitrust?

Quesito con risposta a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi

 

Nel caso di contratti di fideiussione che abbiano recepito clausole nate da intese anticoncorrenziali la sanzione predisposta è quella della nullità parziale. Il generale favore per la conservazione degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, tuttavia, comporta l’eccezionalità dell’estensione all’intero contratto della nullità che colpisce la singola clausola. In conseguenza di ciò è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero atto. – Cass., sez. III, 13 marzo 2024, n. 6685.

La sentenza in commento aderisce, confermandolo, all’orientamento giurisprudenziale avallato da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2021, n. 41994 la quale ha affermato, in esito ad una puntuale ricognizione della normativa nazionale e comunitaria, che i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate nulle in relazione alle clausole contrastanti con la normativa antitrust sono, a loro volta, parzialmente nulli. Tale nullità parziale è, tra le diverse opzioni di tutela riconoscibili in capo al cliente fideiussore, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust apparendo anche idonea a salvaguardare il generale principio di conservazione del contratto.

Sulla base di ciò la Cassazione ha disatteso il motivo di ricorso che postulava la violazione dell’art. 1421 c.c. affermando che, mentre il giudice davanti al quale viene proposta la domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne d’ufficio la nullità solo parziale, ad esso è precluso rilevare la nullità totale in mancanza di dimostrazione dell’interdipendenza dell’ intero contratto dalla parte o dalla clausola nulla.

Il ricorrente, poi, invoca la mancata considerazione del comportamento della società di leasing che, in spregio del principio di buona fede e correttezza, avrebbe gestito il contratto senza preoccuparsi di non ledere gli interessi del fideiussore, evidenziando la violazione delle garanzie di cui agli artt. 1955 e 1956 c.c. La Cassazione, tuttavia, ricorda che la non correttezza della società concedente non porta, da sola, alla liberazione del fideiussore. Occorre, infatti, che da essa sia derivato un pregiudizio non solo economico ma propriamente giuridico che si sostanzia nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. o di regresso ex art. 1950 c.c. non essendo sufficiente la mera maggiore difficoltà di attuarlo derivante dalle diminuite capacità satisfattive del debitore (così anche Cass. 19 febbraio 2020, n. 4175).

*Contributo in tema di “Contratti di fideiussione e antitrust”, a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949
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Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica