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Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale È legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per l’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel piano educativo individualizzato (P.E.I.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo, non essendo il Piano educativo individualizzato (P.E.I.) vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale in relazione al complesso delle risorse disponibili (Cons. Stato, sez. III, 12 agosto 2024, n. 7089).

Il Collegio osserva che è legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per la promozione dell’autonomia e della comunicazione dell’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e richiesto dal dirigente scolastico, non essendo il P.E.I. vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale, da esercitarsi con prudente equilibrio a mente del rango fondamentale dei diritti sottesi alle misure di inclusione scolastica, in relazione al complesso delle risorse disponibili.

È necessario ricordare che vi è una distinzione tra ore di sostegno didattico, quali funzioni scolastiche stricto sensu, di competenza dell’ufficio scolastico regionale (USR), e le misure di sostegno ulteriori rispetto a quelle didattiche, tra le quali le misure di assistenza scolastica di competenza dei comuni, oggetto della decisione, per le quali i comuni attribuiscono le risorse complessive secondo le modalità attuative e gli standard qualitativi previsti nell’apposito accordo concluso in sede di conferenza unificata.

Emerge, in ogni caso, il carattere prevalente del diritto alla salute ed all’integrazione del disabile rispetto a vincoli di bilancio genericamente allegati; da qui l’obbligo per l’ente locale di misurarsi con le condizioni del caso concreto e tendere sempre al raggiungimento di un punto di equilibrio che assicuri la massima tutela possibile al disabile.

(*Contributo in tema di “Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Potere di autotutela e denuncia di inizio attività (DIA/SCIA) È consentito il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esaminare gli atti del procedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in relaziona a una denuncia di inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2024, n. 6636).

Preliminarmente è opportuno ricordare che il differimento del termine iniziale per l’esercizio del potere di autotutela, ai sensi dell’art. 21nonies della L. 241/1990, deve essere determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado. Viceversa, nel caso in cui l’amministrazione sia nelle condizioni di conoscere lo stato dei luoghi e la conformità documentale, l’inerzia nell’esaminare gli atti, come nella DIA, si rivela del tutto ingiustificata.

Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è, dunque, consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non potendo la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa. Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha riscontrato l’esercizio del potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività e pertanto tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla disciplina dell’autotutela e rispetto alla posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della DIA annullata.

(*Contributo in tema di “Potere di autotutela e denunzia di inizio attività (DIA/SCIA)”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Vendita di bene immobile con vizi gravi In caso di vendita di bene immobile con vizi gravi, il venditore può chiamare in causa il terzo costruttore per essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Nell’ipotesi di vendita di bene immobile con vizi gravi, è possibile chiamare in causa il terzo costruttore: tuttavia il venditore non può trasferire la responsabilità derivante dalla mancata comunicazione all’acquirente dei vizi noti dell’immobile, trattandosi di una violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, ai sensi dell’art. 1175 c.c., che rimane esclusivamente a carico del venditore (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233). 

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare a quali condizioni il venditore può essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione di un bene immobile.

In primo grado il venditore veniva condannato al pagamento di una somma a titolo di riduzione del prezzo di vendita, escludendo la responsabilità della società costruttrice sia perché il convenuto si era limitato a chiedere di essere da questa manlevato, senza tuttavia esperire una vera e propria azione ex art. 1669 c.c., sia perché sarebbe comunque trascorso il termine decennale dall’ultimazione dell’opera.

In secondo grado, viceversa, la società costruttrice veniva condannata a tenere indenne il venditore da tutte le conseguenze economiche derivanti dalla condanna.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea applicazione dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali. In particolare, si obbiettava che, pur avendo riconosciuto la violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’adempimento dei rapporti contrattuali ex art. 1175 c.c. a carico del venditore, venivano addebitate queste conseguenze economiche, derivanti da un suo personale comportamento, alla società costruttrice.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha stabilito che nell’ipotesi in cui il venditore sia a conoscenza di un vizio del rapporto contrattuale, occorre valutare in che misura ciò possa incidere, ai sensi del principio di buona fede e correttezza, nelle trattative e nell’esecuzione del contratto.

Nel caso di specie, il venditore era a conoscenza del vizio di costruzione imputabile alla società costruttrice, ma, ciò nonostante, non informava l’acquirente di questo difetto strutturale dell’immobile.

La disciplina contenuta nell’art. 1669 c.c. rappresenta un’ipotesi di responsabilità speciale di natura extracontrattuale atta a garantire la conservazione e la funzionalità di edifici destinati per loro natura a durare nel tempo, a tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica. Pertanto, fermo restando la responsabilità della società costruttrice per i vizi dell’immobile, che possono essere ascritti nel novero della responsabilità ex art. 1669 c.c., essa non può rispondere per gli ulteriori danni derivanti dal comportamento, contrario a buona fede e correttezza, tenuto dalla società venditrice durante le trattative e l’esecuzione del contratto.

Per tali ragioni, la Cassazione ha accolto questo motivo di ricorso e rinviato la causa al Giudice di merito, il quale dovrà valutare se il comportamento della società venditrice è stato conforme ai canoni di buona fede e correttezza.

(*Contributo in tema di “Vendita di bene immobile con vizi gravi”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Regolamento edilizio adottato prima del 1967 e violazione del principio di uguaglianza Costituisce violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale il regolamento edilizio adottato da un ente locale prima del 1967 che abbia subordinato l’esercizio dello jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il regolamento edilizio non viola il principio di uguaglianza (Cons. Stato, sez. III, 8 febbraio 2024, n. 1297).

Preliminarmente è opportuno ricordare che l’art. 10 della L. 6 agosto 1967, n. 765 ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale, per il periodo antecedente al 1967 l’art. 31 della L. 17 agosto 1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati.

Con riguardo alla vicenda in esame, all’epoca in cui erano stati realizzati gli abusi, il Comune era dotato di un regolamento edilizio e di un programma di fabbricazione, il quale inseriva l’area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di immobili nel territorio comunale. L’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza edilizia rilasciata nel 1965 e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto il permesso di abitabilità.

I Giudici di Palazzo Spada hanno enunciato che il regolamento edilizio discrezionalmente adottato da un ente locale prima della L. 6 agosto 1967, n. 765 che abbia subordinato l’esercizio dello jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato non integra la violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio dello jus aedificandi, a seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa diversità di trattamento.

Per quanto attiene al rilascio del certificato di abitabilità, questo non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive in quanto la illiceità dell’immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi. I due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.

Contributo in tema di “Regolamento edilizio”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Responsabilità del proprietario del fondo per danni cagionati da escavazioni La responsabilità del proprietario per i danni cagionati da escavazioni od opere realizzate nel sottosuolo ha natura colposa, ex art. 840 c.c. o carattere oggettivo, ai sensi dell’art. 2053 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

La responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazioni, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo ma richiede una condotta colposa. Ne deriva che, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere, di regola, l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera. Ciò salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro. In tale ultimo caso la responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario ma non sostituirla o eliminarla (Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 3092).

La sentenza in commento risolve il problema dei rapporti tra l’art. 840 c.c. e l’art. 2053 c.c., tracciando la linea di confine tra l’intervento della responsabilità a titolo colposo del proprietario o la sua qualificazione in termini di responsabilità oggettiva.

L’art. 840 c.c. – nel riconoscere la facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nell’ambito di tutta l’estensione della proprietà e, dunque, anche nel sottosuolo – postula l’accertamento della condotta colposa del proprietario in ipotesi di evento dannoso.

L’art. 2053 c.c., secondo un criterio di imputazione oggettivo, attribuisce la responsabilità al proprietario per i danni cagionati dalla rovina di un edificio o di una costruzione, salva la prova dell’assenza di difetti di manutenzione o di vizi di costruzione (così anche Cass. 21 febbraio 2023, n. 5368).

Nella fattispecie in esame, i proprietari di un immobile danneggiato dal crollo di un muro di contenimento sotterraneo (c.d. diaframma), costruito nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del fondo adiacente, formulavano domanda risarcitoria tanto nei confronti della ditta appaltatrice dell’opera quanto nei riguardi, in via oggettiva ai sensi dell’art. 2053 c.c., della società proprietaria del fondo danneggiante. Tale ultima domanda giudiziale si basava sul presupposto che la caduta dell’opera sotterranea integrasse la nozione di rovina di edificio, di cui alla citata norma, essendo il diaframma un’opera non provvisionale ma definitiva, la cui distruzione qualificava in termini oggettivi la responsabilità del proprietario.

Nei primi due gradi di giudizio, veniva esclusa la responsabilità della società proprietaria del fondo danneggiante ai sensi dell’art. 2053 c.c., oltre che la responsabilità del progettista dell’opera e della direzione dei lavori per ragioni probatorie.

I danni causati durante l’esecuzione dell’opera sotterranea venivano imputati, nella specie, alla sola responsabilità della ditta appaltatrice, con esclusione di un accertamento della condotta colposa del proprietario committente ex art. 840 c.c., trattandosi di lavori di opere nel sottosuolo della proprietà.

Con ricorso in Cassazione, i proprietari del fondo danneggiato hanno lamentato, tra le altre, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2053 c.c. per mancata osservanza, nel giudizio di merito, del regime di responsabilità speciale previsto dalla citata norma.

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha precisato che l’applicazione della disciplina per responsabilità colposa del proprietario ex art. 840 c.c. si applica tanto alle ipotesi di danno derivante da mera escavazione del sottosuolo quanto a quelle di realizzazione di opere sotterranee, in un’ottica di uniformità di trattamento postulato dalla norma.

Entrambe le attività sono espressione dell’esercizio di facoltà proprietarie, che incontrano il solo limite dell’impossibilità di causare danni al vicino. Se, nell’esercizio di tali facoltà, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto di cui all’art. 840 c.c., il proprietario è obbligato al risarcimento del danno, anche in via solidale con l’impresa appaltatrice dei lavori, ove sia provata la sua ingerenza nei lavori medesimi.

Se, invece, l’evento lesivo è frutto della rovina di un edificio o di una costruzione, preesistenti o successivi all’attività di escavazione o al compimento di opere nel sottosuolo, il proprietario risponderà in via oggettiva del danno, ai sensi dell’art. 2053 c.c., prescindendo dall’eventuale condotta colposa.

La Corte ha affidato ad un momento temporale – il crollo dell’opera sotterranea durante o dopo la sua costruzione – e, dunque, all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie il discrimen per l’applicazione dei due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario (così anche Cass. 17 ottobre 2006, n. 22226).

Nel caso di specie, il diaframma di contenimento sotterraneo, costruito per evitare movimentazione di terreno durante l’attività di ristrutturazione, si configura come un’opera, se non provvisionale, priva di autonomia funzionale. Correttamente, pertanto, il Giudice di merito ha fatto applicazione del criterio di imputazione soggettivo di cui all’art. 840 c.c. – e non di quello oggettivo di cui all’art. 2053 c.c. – e del correlato principio per cui la responsabilità del proprietario-committente esige l’accertamento, non configurato nella specie, della condotta di ingerenza colposa nei lavori appaltati.

Contributo in tema di “Responsabilità del proprietario del fondo”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare In caso di conclusione di un negozio diverso da quello per cui l’incarico di mediazione era stato conferito ma avente il medesimo spostamento patrimoniale come risultato finale, il mediatore ha comunque diritto alla provvigione?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore (Cass. 20 giugno 2024, n. 16973).

Tizio, nella qualità di rappresentante legale della società a responsabilità limitata alfa, ha conferito alla società beta l’incarico di adoperarsi per la vendita di un immobile avente un prezzo soglia minima. Ricevuta un’offerta inferiore e poi declinata, la società alfa ha ceduto il proprio intero patrimonio alla società gamma il cui amministratore era il coniuge del primo offerente, al fine di assicurare la cessione immobiliare con un risparmio fiscale.

Di fronte al rifiuto di corrispondere la provvigione, la società mediatrice beta ha citato in giudizio le parti alienanti e acquirenti, nonché i relativi rappresentanti legali.

Il tribunale di primo grado rigettò tuttavia la domanda traendo spunto dalla natura ontologicamente diversa dell’affare concluso (cessione di quote sociali) rispetto a quello per cui era stato l’incarico di mediazione (vendita del bene), nonostante il patrimonio della società venditrice fosse costituito solo da questo.

A seguito di impugnazione proposta dalla società beta, la Corte di Appello ha dato atto della raggiunta mediazione tra gli appellanti e la società alfa, condannando questi ultimi al pagamento di una somma pecuniaria; le argomentazioni proposte dai giudici di secondo grado hanno riguardato, ex multis, la continuità tra il soggetto che aveva partecipato alle trattative e quello stipulante, il rapporto di causalità tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare, nonché l’effetto esclusivo di ottenere un risparmio fiscale attraverso la cessione immobiliare per quote societarie.

Adita la Corte di Cassazione, i giudici si sono espressi nel seguente modo:

–   in primo luogo, gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante legale ricadono sulla società rappresentata organicamente, specie se dotata di piena autonomia patrimoniale e personalità giuridica; purtuttavia, i giudici di prime cure non hanno propriamente esaminato se il legale rappresentante avesse agito anche nell’interesse proprio o si sia mosso ingenerando nel terzo il legittimo affidamento che lo stesso incaricando della vendita di un bene nella propria signoria e piena disponibilità, al fine di escluderne la personale responsabilità dell’agente;

–   in secondo luogo, viene ribadito che “il diritto del mediatore alla provvigione consegue alla conclusione dell’affare, mentre non rileva che questo sia concluso dalle medesime parti ovvero da parti diverse da quelle cui è stato proposto, purché vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria – che resta debitrice nei confronti del mediatore, per avere costei avuto rapporti con lo stesso – e quella con cui è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto”; infatti, l’art. 1755 c.c. parla di “affare” e non di “contratto” stante che il diritto al compenso non è condizionato dalla corrispondenza tra il contratto prospettato con l’incarico e quello attraverso il quale è stato reso possibile il regolamento dei privati interessi, bensì dal raggiungimento dello scopo economico per la persecuzione del quale la parte aveva dato incarico al mediatore. La condizione per cui il predetto diritto possa sorgere è l’identità dell’affare proposto con quello concluso senza che assuma rilevanza il caso in cui le parti sostituiscano altri a sé nella stipulazione finale, ovvero che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto, e che la conclusione dell’affare sia collegabile al contratto determinato dal mediatore tra le parti originarie, tenute comunque al pagamento della provvigione, senza che assumano rilevanza le forme giuridiche mediante le quali l’affare medesimo è concluso.

In conclusione, rigettando il ricorso, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto:

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore”.

(*Contributo in tema di “Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Concorso anomalo e progressione criminosa Nell’applicazione dell’istituto del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., in che rapporto si deve porre l’elemento psicologico del dolo con la prevedibilità della progressione criminosa dell’azione?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 116 c.p. (concorso anomalo) è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (Cass., sez. I, 20 giugno 2024, n. 24520).

Preliminarmente il Supremo Collegio, nel rispondere al quesito oggetto della presente sentenza ha ritenuto di specificare quelli che sono i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo distinguendolo dalle ipotesi di concorsi di cui all’art. 110 c.p.

Ciò posto, premettendo che è oramai consolidata una concezione unitaria del concorso di presone nel reato – contrariamente a quanto avveniva con il Codice Zanardelli –, l’attività che integra gli estremi dell’art. 110 c.p. può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di: ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva della fattispecie di reato. Tale attività, peraltro, non necessita di un previo accordo diretto alla causazione dell’evento; infatti il concorso ben potrebbe estrinsecarsi in un intervento di carattere estemporaneo, sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (Cass., Sez. Un., 3 maggio 2001, n. 31).

Il concorso anomalo ex art. 116 c.p. si differenzia rispetto al concorso “pieno” – sopradescritto – e sussiste alla presenza di tre requisiti: l’adesione dell’agente ad un reato voluto in concorso con altri; la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso – eventualmente più grave –; un nesso causale, non solo materiale ma anche psicologico tra la condotta del compartecipe rispetto al reato voluto e l’evento diverso concretamente realizzato da altri. Pertanto è necessario che il concorrente non abbia previsto e voluto, nemmeno a titolo di dolo eventuale, il reato diverso, posto in essere dall’esecutore. Invero, nel caso in cui il soggetto non soltanto si sia rappresentato l’evento, ma l’abbia voluto – sia che tale volizione si estrinsechi sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni) – si ricadrà nell’alveo applicativo dell’art. 110 c.p. e, pertanto, si applicherà la disciplina ordinaria del concorso di persone nel reato. A tali tre requisiti si aggiunge poi un ulteriore aspetto che estrinseca il terzo requisito, ovvero, la prevedibilità della progressione criminosa dell’agire.

Su quest’ultimo, cruciale, punto la Corte ribadisce come sia assolutamente preponderante la prevedibilità dell’evento reato differente. Invero, il requisito della prevedibilità dell’evento posto in progressione criminosa, anche se non espressamente previsto nella disposizione normativa, è di fondamentale importanza. Questo, lo si si evince in forza di una interpretazione sistematica e teleologica delle norme fondanti la responsabilità penale e vive ormai una condizione di assoluta stabilità dopo la pronuncia della Corte cost. 42/1965. Pertanto è imprescindibile un “nesso psicologico” in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi.

Tale aspetto, peraltro, non può dirsi integrato dalla sola sussistenza di un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave, ma è necessario che sussista un rapporto di “causalità psichica”, nel senso che il reato diverso – e più grave – commesso dal compartecipe deve essere astrattamente rappresentabile nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 744), il tutto senza, comunque, che l’agente debba avere effettivamente previsto e accettato il rischio della sua commissione, giacché, in tal caso – come affermato in precedenza –, sarebbe configurabile il dolo eventuale e quindi il concorso pieno ex art. 110 c.p.

La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello voluto, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso anomalo ex art. 116 nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che la componente psichica del concorso anomalo ex art. 116 c.p. si collochi, in un’area compresa fra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile (situazione nella quale la responsabilità resta esclusa) e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità (situazione nella quale si realizza un’ordinaria fattispecie concorsuale su base dolosa). Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata ritenendo che il corrente avesse agito con dolo diretto e, pertanto, con il pieno intento di cooperare all’esecuzione del disegno criminoso nella sua forma più grave effettivamente verificatasi.

*Contributo in tema di “Concorso anomalo e progressione criminosa”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali Nell’applicazione dell’istituto della legittima difesa putativa, ovvero dell’eccesso colposo di legittima difesa, i timori personali possono essere di per sé stessi sufficienti ad escludere la punibilità del soggetto agente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

L’accertamento della legittima difesa, reale o putativa o dell’eccesso colposo di questa, deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’ interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Cass., sez. I, 26 giugno 2024, n. 25230).

Nell’affrontare il thema decidendum, il Supremo Collegio ha operato un pregevole lavoro di ricostruzione ermeneutica in ordine ai requisiti per la sussistenza della legittima difesa, differenziando le ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. come novellato dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, da quello più generale della legittima difesa putativa di cui al combinato disposto degli artt. 52 e 59 c.p.

Più nello specifico, l’ipotesi dell’eccesso colposo della legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. ricorre nel caso in cui il superamento del limite della necessaria proporzione che deve esserci tra la difesa del bene giuridico minacciato e l’offesa è dipeso da errore determinato da colpa (Cass. 12 ottobre 2023, n. 41552). Sotto tale profilo, infatti, lo stato di grave turbamento che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa ex art. 61, comma 5 c.p., per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dal novellato art. 55, comma 2 c.p., richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse ed è necessario un esame di tutti gli elementi della situazione per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (Cass. 3 dicembre 2020, n. 34345). Per l’effetto una condotta antecedente a quella delittuosa che fa sorgere dei meri timori personali non può essere idonea ad integrare il presupposto della norma.

Tale ipotesi differisce, peraltro, dalla legittima difesa putativa, di cui all’art. 59 c.p., perché il concetto di errore ha una portata ben più generale rispetto al turbamento. Invero, l’errore scusabile non è altro che una rappresentazione falsata della realtà che prescinde da un turbamento emotivo e potrebbe, astrattamente, ricomprenderlo se questo non integra il requisito di cui all’art. 55, comma 2 c.p.

In altri termini la rappresentazione falsata del pericolo, nel caso di cui all’art. 59 c.p. è ontologicamente incompatibile con l’ipotesi di un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, perché nel caso di cui all’art. 55, comma 2 c.p. non è esigibile una valutazione sulla proporzione della reazione. Di converso l’errore, per dirsi scusabile, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Per cui, la capacità di razionale valutazione dell’agente è necessaria per l’applicazione dell’art. 59 c.p., mentre è in radice esclusa per l’applicazione dell’art. 55, comma 2 c.p., i quali peraltro si inseriscono in momenti della condotta che possono essere diversi.

Ciò posto la presente sentenza, prendendo le mosse (Cass. 21 marzo 2013, n. 13370), ha ritenuto di affermare che al fine di valutare l’eventuale sussistenza dell’eccesso colposo di legittima difesa devono essere valutate ex ante le specifiche e peculiari circostanze concrete dell’azione. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali.

Sul punto nonostante sia ampiamente condivisibile la ricostruzione ermeneutica testé riportata, in ordine ai c.d. “timori personali”, è d’uopo segnalare l’esistenza di un orientamento parzialmente differente, coevo alla novella normativa del 2019, il quale però a parare di chi scrive può dirsi superato. Detto orientamento, prendendo comunque le mosse dall’arcinota sentenza Cass. 21 marzo 2013, n. 13370, ha ritenuto che, a seguito della novella legislativa del 2019, “i timori personali” laddove possano essere riconducibili nella categoria del “grave turbamento” (di cui alla nuova formulazione dell’art. 55 c.p.) debbano essere necessariamente oggetto di valutazione da parte del giudice di merito ed in assenza di tale valutazione la sentenza deve essere annullata (Cass. 10 dicembre 2019, n. 49883).

Alla luce di quanto sopraesposto, nel caso di specie la Corte ritenendo di aderire al primo orientamento ha, altresì, ricordato che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo nella stessa – qualora gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito – è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità. In forza di ciò, non essendo stati riscontrati vizi procedurali nell’accertamento degli elementi di prova o motivazionali nel vaglio degli stessi, la Corte ha confermato la sentenza di condanna.

Contributo in tema di “Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione Costituisce materia di giurisdizione esclusiva il risarcimento del danno ingiusto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore ( T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 3 giugno 2024, n. 3528).

È opportuno precisare che in tema di riparto della giurisdizione, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.

Pertanto, la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’amministrazione per i danni subiti dal privato, che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo, rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato.

Ed invero, la situazione giuridica, la cui lesione costituisce la causa della pretesa del privato di vedersi risarciti i danni causati dall’annullamento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, non è l’interesse legittimo alla conservazione del bene della vita acquisito con tale provvedimento, bensì l’affidamento incolpevole dal medesimo riposto nella legittimità di tale provvedimento.
Sul punto la giurisprudenza della Cote di Cassazione (Cass., Sez. Un., ord. 24 aprile 2023, n. 10880; Id., 6 febbraio 2023, n. 3514; Id., ord. 24 gennaio 2023, n. 2175, Id., ord. 29 aprile 2022, n. 13595; Id., 11 maggio 2021, n. 12428; Id., 8 luglio 2020, n. 14231) ha specificato che in relazione agli interessi legittimi pretensivi, infatti, l’interesse del privato all’ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto quando l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo, senza che rilevi, dal punto di vista del medesimo privato, se tale emanazione sia legittima o illegittima; al privato interessa soltanto di poter vedere ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha dichiarato il difetto di giurisdizione, in relazione ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta dell’ente che aveva dapprima autorizzato lo svolgimento dell’attività degli indicati locali e, successivamente, rilevato l’assenza dei presupposti per il rilascio della necessaria autorizzazione unica ambientale.

Contributo in tema di “Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Mutuo a tasso fisso e mancata indicazione modalità di ammortamento La mancata indicazione di elementi, quali le modalità di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale ovvero il regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori, è causa di nullità parziale del contratto per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

 

In tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti (Cass., Sez. Un., 29 maggio 2024, n. 15130).

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi a seguito di rinvio proposto da un tribunale di merito che ha evidenziato l’esistenza di diverse interpretazioni giurisprudenziali in ordine alle conseguenze derivanti sia dalla mancata indicazione del regime di ammortamento c.d. “alla francese” nel contratto di mutuo bancario nonché alle modalità con cui vengono composte le singole rate di rimborso e determinati gli interessi relativi al capitale.

Tale regime di ammortamento, molto diffuso nella prassi bancaria, prevede la corresponsione di rate costanti di rimborso in cui la quota parte degli interessi è progressivamente decrescente e quella della sorte capitale è progressivamente crescente, essendo dapprima corrisposti prevalentemente gli interessi e poi il capitale via via residuo.

Una prima ricostruzione, restrittiva, ritiene che non deriverebbe alcuna conseguenza di sorta in punto di determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto.

Una seconda ricostruzione, invece, ritiene che la mancata indicazione del regime di ammortamento (nel caso di specie, cd. “alla francese”) avrebbe conseguenze in termini di validità del contratto, facendo leva sul principio di trasparenza bancaria e sul diritto del cliente di ricevere una corretta e trasparente informazione in quanto “parte debole” contrapposta al “bonus argentarius”; ciò soprattutto in relazione al fatto che tale regime di ammortamento potrebbe determinare un significativo incremento del costo del denaro per effetto del regime “composto” di capitalizzazione degli interessi poiché l’interesse prodotto in ogni periodo si sommerebbe al capitale e produrrebbe a sua volta interessi. Secondo questa tesi, la mancata esplicitazione del regime di ammortamento renderebbe indeterminato il tasso con conseguente violazione del requisito della forma ad substantiam e nullità parziale del contratto ex artt. 1346 e 1418 c.c.

Viene sottolineato come una dottrina abbia ammesso l’estraneità di questa tipologia di ammortamento alla tematica dell’anatocismo, rilevando che tale sistema non farebbe incrementare il montante complessivo ma, diversamente, non permetterebbe di farlo scendere nonostante gli avvenuti pagamenti, deprivando in via istituzionale la forza restitutoria dei pagamenti.

Altra dottrina ne contesta la validità sotto il profilo della meritevolezza dell’interesse perseguito e della causa concreta del negozio, argomentando come tale sistema di ammortamento comporti una programmata imputazione dei pagamenti a interessi in misura maggiore che al capitale, con conseguente esigibilità degli interessi prima di quella del capitale a cui sono correlati e per una misura superiore che si assume non consentito ex art. 821, comma 3 c.c.; a tale impostazione si replica tuttavia come sia presente nel sistema civilistico italiano l’istituto degli interessi compensativi che decorrono sul capitale ancorché questo non sia ancora divenuto esigibile. L’obbligazione degli interessi sarebbe quindi “accessoria”, con un vincolo genetico dipeso nella sua vicenda costitutiva dall’obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, separato dalla sua causa genetica con assunzione di una propria autonomia.

In conclusione le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale in corso, hanno dato risposta negativa al quesito oggetto di rinvio, enunciando come nel regime di ammortamento alla francese di tipo standardizzato normale non sia causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione degli interessi.

Contributo in tema di “Mutuo bancario a tasso fisso e mancata indicazione delle indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica