giurista risponde

Titolo di “professore emerito” all’università: i presupposti Alla luce del combinato disposto dell’art. 15 della L. 18 marzo 1958, n. 311 in relazione all’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, il periodo di servizio trascorso rivestendo la qualifica di professore associato può essere riconosciuto ai fini del raggiungimento della soglia dei venti anni di servizio, indispensabile per l’attribuzione della qualifica di professore emerito?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

Ai sensi dell’art. 15, comma 2, della L. 18 marzo 1958, n. 311, e dell’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, al fine del conferimento della onorificenza di professore emerito, rileva unicamente l’attività svolta nella qualità di professore ordinario per almeno venti anni e non anche il periodo di servizio prestato quale professore associato (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 gennaio 2025, n. 1 – titolo di “Professore emerito”).

La sez. VII ha rimesso all’ Adunanza Plenaria la seguente questione di diritto: “Se alla luce del combinato disposto dell’art. 15 della L. 18 marzo 1958, n. 311, in relazione all’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, il periodo di servizio trascorso rivestendo la qualifica di professore associato possa essere riconosciuto ai fini del raggiungimento della soglia dei venti anni di servizio, indispensabile per l’attribuzione della qualifica di professore emerito”.

L’Adunanza ritiene condivisibile la ricostruzione della Sezione, evidenziando che, come è stato correttamente sottolineato, l’art. 15, comma 2, della L. 311/1958 contiene un espresso richiamo all’art. 111 del R.D. 1592/1933 che, a sua volta, individua la qualifica di “professore emerito” e i requisiti per il suo conferimento. Ad avviso del Collegio, tale rinvio ha ribadito, dunque, il perdurante vigore della suddetta disposizione e dei requisiti ivi indicati.

Il dato letterale, ad avviso dei Giudici, è chiaro e insuperabile e comporta la non condivisibilità della ricostruzione effettuata da questo Consiglio di Stato con il parere della sez. II, 2203/2015 e con la sentenza della sez. VI, 1506/2021.

Entrambe queste pronunce, infatti, hanno dato preminente rilievo alla prima frase del secondo comma del citato art. 15, mentre avrebbero dovuto rilevare il significativo richiamo contenuto nella frase successiva (“ai sensi dell’art. 111 del testo unico delle leggi sulla istruzione superiore approvato con R.D. 31 agosto 1933, n. 1592”).

L’Adunanza Plenaria rileva come il primario criterio di interpretazione della legge sia quello letterale.

Infatti, l’art. 12 (rubricato ‘Interpretazione della legge’) delle “disposizioni sulla legge in generale’ allegate al codice civile dispone che: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

La rilevanza del dato testuale della legge, evidenzia l’Adunanza Plenaria, è desumibile anche dall’art. 101 della Costituzione, il quale – nel prevedere che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” – dispone il dovere del giudice di darne applicazione, salve le possibilità, consentite da altre disposizioni costituzionali, di emanare una ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale o di dare applicazione a prevalenti regole dell’Unione europea.

Gli altri criteri di interpretazione rilevano solo quando risulti equivoca la formulazione linguistica dell’enunciato normativo e la disposizione presenti ambiguità e si presti a possibili differenti o alternative interpretazioni (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2024, n. 6440).

Nel caso di specie, sostiene il Collegio, la formulazione linguistica risulta univoca e non si presta a dubbi interpretativi, atteso che occorre tenere conto anche dell’ultima frase contenuta nel sopra riportato comma 2 dell’art. 15.

Inoltre, i Giudici ritengono di non condividere la tesi dell’appellante anche sulla base dei criteri della interpretazione storico-sistematica e dell’interpretazione teleologica.

Innanzitutto, il Collegio disattende la tesi secondo cui vi sarebbe stata la “implicita abrogazione” dell’art. 15, comma 2, cit., in quanto tale disposizione va letta in modo sistematico in relazione alle altre disposizioni della L. 311/1958, e in particolare al suo art. 3, secondo cui: “I professori di ruolo sono straordinari e ordinari”; la portata innovativa di tale disposizione è consistita nell’estendere la valutabilità del servizio come professore di ruolo non solo nella qualità di professore ordinario (come previsto dall’art. 111, cit.), ma anche in quella di professore straordinario.

Rimarca il Collegio che la tesi dell’appellante neppure è supportata dalle considerazioni riguardanti la portata applicativa delle riforme universitarie, disposte dapprima con il D.P.R. 381/1980 (avente il rango di decreto legislativo) e poi dalla L. 240/2010, in quanto hanno sì previsto l’unicità del ruolo dei professori ordinari e di quelli associati, ma li hanno distinti per diversi aspetti.

L’art. 1 del D.P.R. 382/1980, pur prevedendo l’unicità del ruolo, ha distinto i compiti e le responsabilità degli uni e degli altri, inquadrandoli in due fasce funzionali.

Le perduranti differenze tra le due qualifiche riguardano: – le regole sul reclutamento, poiché per accedere alla qualifica di professore ordinario occorre l’abilitazione scientifica nazionale di prima fascia, che dimostra il raggiungimento della piena maturità scientifica, mentre per accedere alla qualifica di professore associato occorre l’abilitazione scientifica nazionale; – i presupposti per potere accedere alle due qualifiche, poiché alla qualifica di professore ordinario si accede a seguito del raggiungimento della “piena maturità scientifica”; – le regole sul conferimento degli incarichi direttivi (Direttore di dipartimento, rettore, prorettore), riservati ai professori ordinari, con l’eccezione delle Università nelle quali essi non vi siano), con un regime diverso anche sull’elettorato attivo.

Dunque, anche dopo la riforma universitaria non si può ravvisare l’equiparazione tra la qualifica del professore ordinario e quella di quello associato.

Oltre alla persistente differenza sostanziale delle qualifiche di professore ordinario e di professore associato, in sede di interpretazione del secondo comma dell’art. 15, il Collegio afferma che occorre tenere conto della sua specifica ratio.

Sulla base di una specifica valutazione del legislatore, l’onorificenza può essere conferita al professore ordinario in considerazione della perduranza nel tempo – fissato in venti anni – dello svolgimento dell’attività lavorativa nella posizione apicale della docenza universitaria.

Tale perduranza, evidenzia la Plenaria, è stata considerata decisiva dal legislatore, affinché possa essere valutata la eccezionalità della carriera accademica, giustificativa dell’onorificenza.

Rileva, dunque, anche il dato testuale dell’art. 22 del D.P.R. 382/1980, per il quale sussiste l’equiparazione dello stato giuridico dei professori ordinari e di quello dei professori associati, “salvo che non sia diversamente disposto”: in materia di conferimento dell’onorificenza, il legislatore ha sempre attribuito rilievo esclusivamente alla qualifica di professore ordinario.

L’Adunanza Plenaria, pertanto, condivide e fa proprie le considerazioni poste a base della sentenza della Corte cost. 990/1988, per la quale “l’unitarietà della funzione docente non equivale all’unicità del ruolo dei professori universitari. Il sistema normativo del 1980 stabilisce una gerarchia di valori e delle funzioni tra le due fasce del ruolo dei professori, riservando compiti direttivi, organizzativi e di coordinamento all’ordinario, acquisito all’istruzione universitaria attraverso più severa selezione concorsuale mirante ad individuare una personalità scientifica compiutamente matura, mentre le diverse modalità del reclutamento dell’associato è preordinata soltanto ad accertarne l’idoneità scientifica e didattica.

Non hanno pertanto rilievo gli indiscussi principi relativi alla unitarietà della funzione docente e alla pari garanzia di libertà didattica e di ricerca, evocati dall’appellante.

La distinzione tra le due qualifiche, ciascuna delle quali correlata ad un diverso livello di maturità scientifica e didattica, è stata confermata anche dalla riforma universitaria recata dalla L. 240/2010, che nulla ha innovato in materia.

 

(*Contributo in tema di “L’adunanza plenaria chiarisce i presupposti per il conferimento del titolo di “Professore emerito” nell’università”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Mancato deposito sentenza entro il termine: quali conseguenze L'Adunanza plenaria sulla questione relativa all’individuazione delle conseguenze del mancato adempimento dell’onere di depositare la sentenza impugnata entro il termine di legge

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 94, comma 1, del codice del processo amministrativo non dispone l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’impugnazione, nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 marzo 2025, n. 4 e 5 – mancato deposito della sentenza)

Per un orientamento condiviso dalle ordinanze di rimessione, l’onere del deposito della copia della decisione impugnata entro il termine di trenta giorni dall’ultima notificazione dell’impugnazione sarebbe da intendersi a pena di decadenza, in quanto «funzionale a garantire esigenze di ordine pubblico processuale, indisponibili per le parti private, strumentali al regolare svolgimento del giudizio», rispetto alle quali l’adempimento in questione si configurerebbe come corollario dei «canoni di chiarezza, sinteticità, leale collaborazione, che non sono mere enunciazioni di principio o puri esercizi cartolari, ma il contenuto di puntuali doveri delle parti» (così da ultimo, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154, 20 febbraio 2024, n. 1663 e 4 giugno 2024, n. 5000; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, 23 gennaio 2023, n. 86, e 22 settembre 2022, n. 956, Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4520).

Secondo l’indicato orientamento, rileverebbe a contrario il testo dell’art. 45, comma 4, del c.p.a., per il quale non si verifica alcuna decadenza, qualora il ricorrente non abbia depositato il provvedimento impugnato e la relativa documentazione, non sempre facile da reperire: l’ultima frase del comma 1 dell’art. 94 affermerebbe un principio opposto a quello sancito dal medesimo art. 45, comma 4.

A parere di tale prospettazione, rileverebbe anche l’introduzione di una espressa regola nel c.p.a., innovativa rispetto al diverso principio contenuto nell’art. 347, comma 2, del codice di procedura civile, in precedenza applicabile al processo amministrativo.

Non vi sarebbe pertanto alcuna lacuna nell’art. 94, sicché non vi sarebbero i presupposti per applicare l’art. 39, comma 1, del c.p.a., che, quale ‘disposizione di chiusura’, determina il ‘rinvio esterno’ alle disposizioni del codice di procedura civile (cfr., sui presupposti per l’operatività del ‘rinvio esterno’, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 marzo 2024, n. 4; 27 aprile 2015, n. 5, e 10 dicembre 2014, n. 33).

Nel vigore del codice del processo amministrativo, si è affermato che il deposito di copia della sentenza impugnata – quando esso non sia contestuale al deposito dell’atto di impugnazione – debba esservi entro il «termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione del ricorso, dimezzato nel rito abbreviato» (Cons. Stato, sez. III, 14 giugno 2011, n. 3619 – onere deposito sentenza impugnata).

Tale orientamento è stato seguito anche dopo l’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, poiché l’art. 94 del c.p.a. si dovrebbe considerare quale norma inderogabile, che imporrebbe doveri puntuali a tutela di interessi di ordine pubblico processuale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2023, n. 9958; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, n. 955, 956, 958, 959, 960, 962, 965/2022; Cons. Stato, sez. VI 3 giugno 2022, n. 4520, e 20 febbraio 2024, n. 1680).

Si è anche rimarcato come le riforme approvate nel periodo successivo alla digitalizzazione amministrativa, pur apportando numerose modifiche al codice del processo amministrativo (si pensi all’inserimento dei commi 1bis e 1ter nell’art. 25 o alle innovazioni relative all’art. 136 e a diverse norme di attuazione [in primis l’art. 5], per opera del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni in L. 25 ottobre 2016, n. 197), abbiano lasciato invariato l’art. 94.

Secondo tale indirizzo, l’onere di deposito della sentenza impugnata non sarebbe diventato un ‘adempimento superfluo’, malgrado i componenti del Consiglio di Stato possano accedere al fascicolo di primo grado, così come a quello del giudizio al loro esame, ove si consideri che va verificato se la sentenza impugnata sia stata notificata al soccombente, al fine di accertare se l’impugnazione sia tempestiva.

Si osserva al riguardo che la parte appellante, con il deposito della sentenza, non si limita a compiere un’attività materiale, ma pone in essere un’attività stricto sensu giuridica, perché, depositando la sentenza senza la documentazione attestante la sua notifica, assume implicitamente la responsabilità di dichiarare che essa non è stata notificata.

Inoltre, si aggiunge che il giudice che acquisisse d’ufficio la sentenza impugnata nel fascicolo di primo grado dovrebbe disporre anche una istruttoria per verificare, ai fini dello scrutinio della tempestività dell’impugnazione, se la sentenza sia stata, o meno, notificata, in contrasto con le regole sull’onere della prova nel processo amministrativo.

Si è, infine, messo in rilievo che l’onere di deposito della sentenza non si potrebbe considerare “sproporzionato o irragionevole” nemmeno alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, essendo richiesto solo il deposito della sentenza, entro un termine ragionevole decorrente dalla notifica dell’impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154), tanto più che non occorre il deposito di una copia autentica della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2024, n. 1384, e la già richiamata sent. 2773/2014).

In definitiva, l’art. 94 c.p.a., comma 1, andrebbe interpretato nel senso che l’impugnazione sarebbe inammissibile nel caso di mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata, in coerenza con il dovere di cooperazione di cui all’art. 2, comma 2, del c.p.a., preordinato a consentire la ragionevole durata del processo.

Per un orientamento più recente, invece, l’onere del deposito della sentenza impugnata non sarebbe previsto a pena di inammissibilità dell’atto di impugnazione (Cons. Stato, sez. VI, 4542 e 4548/2024; sez. III, 8 marzo 2023, n. 2403).

Questo indirizzo interpretativo si basa sul dato testuale dell’art. 94, comma 1, del c.p.a., il quale prevede la sanzione della decadenza unicamente per il caso del mancato tempestivo deposito del ricorso, e non anche per quella del mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata: le parole “a pena di decadenza” sono contenute nella frase che riguarda esclusivamente il deposito del ricorso e non vi è la espressa previsione sulla decadenza anche per il diverso caso di mancato deposito della sentenza impugnata.

Si è anche osservato che la sanzione della decadenza per mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con il diritto di azione e difesa di cui agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché all’art. 117, comma 1, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 47 della Carta di Nizza, in quanto rappresenterebbe una conseguenza sproporzionata ed eccessiva, anche perché in attuazione delle regole sul processo amministrativo telematico il giudice dell’impugnazione può reperire nel fascicolo d’ufficio la copia digitale della sentenza impugnata, così come può reperirla consultando il sito della Giustizia amministrativa (così Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4542).

Seguendo il medesimo percorso argomentativo, nel richiamare la giurisprudenza formatasi prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (per la quale solo nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata nel corso del giudizio si poteva pronunciare l’improcedibilità dell’appello: Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20), si è affermato che: «Le esigenze di carattere processuale poste a fondamento della soluzione finora seguita dalla giurisprudenza prevalente possono essere efficacemente soddisfatte con la fissazione di un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata» (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4548).

Per un orientamento ‘mediano’, l’impugnazione sarebbe inammissibile soltanto nel caso più grave in cui manchi l’effettiva volontà della parte di depositare la sentenza impugnata congiuntamente all’atto introduttivo (Cons. Stato, sez. IV, 4488/2020), sicché per i casi di “sviste” o di “inconvenienti informatici” il collegio potrebbe fissare un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 maggio 2024, n. 4831, 4832, 4833 e 4834; 8 maggio 2024, n. 4130 e ord. 22 gennaio 2024, n. 683, in casi in cui la sentenza impugnata risultava indicata nel foliario depositato, unitamente all’atto di impugnazione).

Questa Adunanza ritiene di aderire all’orientamento secondo cui l’art. 94, comma 1, del c.p.a. va interpretato nel senso che la sanzione della decadenza, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione, non è riferibile al mancato (tempestivo) deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata).

Rileva in primo luogo, l’argomento letterale (la cui importanza, ex art. 12 delle disposizioni generali, è stata sottolineata da questa Adunanza plenaria con le sent. 1/2025, §4.2, 7/2022, §5; 3/2017, §3.1; 3/2010, §18.1).

La disposizione in parola fissa un chiaro e diretto collegamento con la sanzione della decadenza unicamente per l’incombenza relativa al deposito del ricorso, e non anche per quelle dei depositi della sentenza impugnata e della prova delle eseguite notificazioni. Infatti, l’effetto preclusivo è confinato in un inciso (“[…] a pena di decadenza […]”) che il legislatore ha inserito, sul piano strutturale, nella parte del precetto riferita esclusivamente al deposito del ricorso. Il testo dell’articolo disgiunge, poi, le due proposizioni attraverso una virgola che crea una cesura tra l’adempimento principale (il deposito dell’atto di appello) e i due adempimenti accessori (i depositi della sentenza di primo grado e della prova delle eseguite notificazioni). La forza di tali elementi testuali è corroborata dalla considerazione logica per cui, se il legislatore avesse inteso riferire la rilevanza del termine di decadenza anche ai due adempimenti integrativi, esso avrebbe anticipato l’inserimento del sintagma in parola collocandolo dopo la parola “ricorso”, dando vita alla seguente formulazione: “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso, unitamente ad una copia della sentenza impugnata […], deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45”.

Da tali argomenti si ricava che la decadenza è correlata expressis verbis al solo mancato rispetto del termine per il deposito dell’atto di impugnazione e che, quindi, l’estensione del medesimo effetto preclusivo agli altri incombenti, non prevista in modo univoco dalla lettera della legge, richiederebbe una interpretazione estensiva, volta a dilatare la portata del dato testuale. Tale metodo interpretativo è, tuttavia, ostacolato dal rilievo che le disposizioni che fissano oneri decadenziali e cause di inammissibilità, in quanto precetti a carattere eccezionale ex art. 14 delle preleggi, devono essere formulate in modo tassativo e, quindi, soggiacciono, per esigenze di certezza del diritto e in omaggio al canone di prevedibilità degli effetti applicativi, a un’interpretazione ancorata al dato strettamente linguistico (vedi Corte cost. 14 maggio 2021, n. 98, che ha ribadito il primato del dato testuale, considerato limite esterno di legittimità al potere giurisdizionale).

Si deve fare pertanto applicazione del principio per il quale non può essere applicata analogicamente una disposizione processuale che comporta come conseguenza la sanzione della decadenza.

D’altra parte, in coerenza con il principio della effettività della tutela giurisdizionale, il giudice deve preferire una interpretazione che consenta una pronuncia sulla spettanza del ‘bene della vita’, piuttosto che quella che imponga una sentenza di inammissibilità o di improcedibilità, eccedente rispetto al testo ed alla ratio della previsione violata.

La previsione di un termine a pena di decadenza si giustifica solo per il deposito del ricorso, trattandosi di un incombente diretto all’instaurazione del rapporto processuale e alla devoluzione all’organo giurisdizionale della res litigiosa.

Nell’attuale quadro normativo, non sussiste invece una effettiva esigenza di depositare anche la sentenza impugnata.

Il comma 1 dell’art. 94 del c.p.a. non richiede il deposito di una ‘copia autentica’ della sentenza impugnata, il cui testo è reperibile nel fascicolo d’ufficio: essa va depositata in una logica di garanzia della mera completezza e regolarità formale del fascicolo (così, già prima del codice, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20; Cons. Stato, sez. VI, 17 settembre 1985, n. 468).

Inoltre, neppure rileva l’osservazione per la quale va verificata la tempestività dell’atto di impugnazione.

In primo luogo, il comma 1 in esame non ha imposto a chi proponga l’impugnazione l’onere di depositare la copia della sentenza eventualmente notificatagli, con gli elementi concernenti la notifica.

In secondo luogo, la questione non si pone quando l’impugnazione sia proposta entro il termine breve calcolato dalla pubblicazione della sentenza impugnata, non potendosi dubitare in tal caso della tempestività dell’impugnazione.

In terzo luogo, non può sottacersi come la parte destinataria dell’impugnazione abbia interesse a costituirsi, per porre il giudice a conoscenza di un fatto (l’avvenuta notifica della sentenza impugnata) non preso in considerazione dal sopra riportato comma 1 dell’art. 94.

D’altra parte, anche il termine per il deposito delle prove delle notifiche non è previsto a pena di decadenza (Cons. Stato, sez. II, 29 aprile 2024, n. 3868). A maggior ragione, il giudice non può dichiarare la decadenza dell’impugnazione, potendo agevolmente consultare il fascicolo d’ufficio, che consente di leggere immediatamente la sentenza impugnata, o la banca dati, accessibile da chiunque sul sito www.giustizia-amministrativa.it.

Tale soluzione è avvalorata dal canone dell’interpretazione storico-evolutiva, che impone al diritto vivente di adeguare il dato letterale ai cambiamenti decisivi verificatisi tra la sua entrata in vigore e la sua applicazione attuale (Cass., Sez. Un., 2061/2021; Cass., sez. III, 26 ottobre 1998, n. 10629).

Nella specie, si deve considerare che l’art. 94 c.p.a. è stato redatto prima dell’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, le cui modalità applicative consentono al giudice di ovviare agevolmente alla dimenticanza della parte che ha proposto l’impugnazione, con la consultazione del fascicolo telematico di primo grado e del sito della giustizia amministrativa.

Se, infatti, la ratio del secondo periodo del comma 1 dell’art. 94 è quella di consentire al giudice dell’impugnazione la lettura della sentenza impugnata, essa è realizzata dalla sua acquisizione, conseguente alla richiesta da parte del segretario della trasmissione del fascicolo d’ufficio al segretario del giudice di primo grado (art. 6, comma 2, all. I, c.p.a.), sul portale SIGA che consente l’accesso diretto al fascicolo di primo grado da parte dei soggetti abilitati (art. 11, all. 2, del decreto Presidente del Consiglio di Stato 28 luglio 2021, recante «Regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico», emanato ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a.), nonché a seguito dell’agevole e immediata consultazione del sito della giustizia amministrativa.

Un’irregolarità solo formale non può dunque comportare alcuna decadenza, che risulterebbe irragionevole e sproporzionata, per il principio di strumentalità delle forme (art. 159 c.p.c.), nel vigore delle regole sul processo amministrativo telematico, improntate alla semplificazione delle forme e all’informatizzazione dell’intero procedimento.

Va, infine, osservato, che una disposizione espressa che comminasse la decadenza – per effetto del mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata) – non sarebbe coerente con i principi costituzionali ed euro-unitari sul diritto di azione e di difesa (artt. 24. 103, 113 e 117, comma 1, della Costituzione; artt. 6 della CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, infatti, l’ampia discrezionalità di cui è dotato il legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene travalicato qualora emerga un’ingiustificata compressione del diritto di agire in giudizio in ragione di un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione (ex multis, sent. 148/2021, 102/2021, 253, 95, 80, 79/2020 e 271/2019).

Inoltre, per la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non può essere dichiarata inammissibile una impugnazione quando sia mancato un adempimento meramente formale (cfr. la sent. 23 maggio 2024, Pat. e altri contro la Repubblica italiana, §102, sulla violazione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea in un caso in cui una impugnazione era stata dichiarata inammissibile per la mancata attestazione della conformità all’originale della sentenza impugnata – onere deposito sentenza impugnata).

In una prospettiva convergente, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che il diritto di agire in giudizio, pur non atteggiandosi a diritto assoluto, è passibile solo di restrizioni proporzionate e volte al perseguimento di uno scopo legittimo (Corte di giustizia UE, sez. III, 15 settembre 2016, C-439/14 e C-488/14, Sc Star; sez. V, 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte salute, sez. II, 30 giugno 2016, C-205715, Directia Generala).

Poiché la regola sull’inammissibilità dell’impugnazione per il mancato deposito della sentenza impugnata contrasterebbe con i sopra richiamati principi costituzionali ed euro-unitari, si deve tenere dunque anche conto del criterio dell’interpretazione ‘conforme’ ‘o adeguatrice’ (cfr. Corte cost. 36/2016 e 559/1988., secondo cui tra le possibili diverse interpretazioni va preferita quella che sia rispettosa dei principi costituzionali).

Sulla base delle considerazioni fin qui esposte, reputa questa Adunanza Plenaria che il mancato deposito della sentenza impugnata, nel termine fissato dall’art. 94 del c.p.a., non produca la conseguenza dell’inammissibilità dell’appello.

Va anche escluso che la parte ricorrente sia onerata, a pena di improcedibilità, a espletare l’incombente in un momento successivo allo spirare del termine legale (e che, comunque, il mancato deposito della sentenza di primo grado costituisca una «causa impeditiva della spedizione della causa in decisione» – onere deposito sentenza impugnata).

Il giudice può leggere la sentenza impugnata, che non sia stata depositata, senza la necessità di compiere atti processuali formali, sicché non vi è alcunché da sanare e non va differita la decisione della causa.

 

(*Contributo in tema di “Mancato adempimento dell’onere di deposito della sentenza oggetto di impugnazione entro il termine di legge. Conseguenze”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Adescamento di minore e reati-fine: quale confine Come si atteggia il delitto di adescamento di minore previsto e punito dall’art. 609undecies c.p. rispetto ai reati-fine cui tende la condotta dell’agente?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

Il delitto di adescamento, di cui all’art. 609undecies c.p., è stato introdotto dalla L. 1° ottobre 2012, n. 172, recante la ratifica della Convenzione di Lanzarote, per accrescere la tutela del minore rispetto ai pericoli cui è esposto, in particolare sul web, e contiene una clausola di riserva “se il fatto non costituisce più grave reato”. Punisce infatti solo le condotte prodromiche a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli art. 609bis, 609quater, 609quinquies, 609octies c.p., sempre che non si sia verificato il reato fine. Il presupposto, pertanto, è che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato fine. Si tratta quindi di una tutela anticipata rispetto alla commissione del reato fine, sia pure allo stadio del tentativo, e non è ammesso il concorso formale tra i due reati, perché vi sarebbe un bis in idem (Cass. sez. VI, 23 gennaio 2025, n. 2787).

Avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado che riconosceva la responsabilità penale dell’imputato in ordine al delitto previsto e punito dall’art. 609undecies c.p., la difesa ricorreva per Cassazione, eccependo violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo alla carenza dell’elemento soggettivo del reato di adescamento sotto il duplice profilo dell’assenza di prova dell’intenzione di commettere il reato-fine di atti sessuali con minorenne e della mancanza di prova della conoscenza o conoscibilità dell’età della persona offesa.

Dall’ipotesi accusatoria recepita dai giudici di merito, emergeva che l’imputato – venticinquenne – avesse adescato la persona offesa – dodicenne – su un social, carpendone la fiducia mediate la cessione delle credenziali di accesso alla piattaforma Netflix, finalizzata ad ottenere incontri sessuali. Inequivocabile appariva l’intento dal contenuto erotico delle conversazioni virtuali intrattenute, connotate da richieste ed inoltro da parte dell’imputato di materiale pornografico autoprodotto, nonché dalle bramose richieste di incontro in circostanze di intimità. Parimenti sconfessata appariva l’eccezione della difesa in ordine alla conoscibilità dell’età della persona offesa, atteso che quest’ultima denegava una richiesta d’incontro a causa della punizione impartita dai genitori.

Ebbene, la Suprema Corte adita – ritenendo il ricorso complessivamente infondato – ha trattato della fattispecie di adescamento di minore, analizzandone natura e funzione. Partendo dalla ratio legis della fattispecie in esame – rappresentata dalla necessità di tutelare i minori rispetto ai pericoli cui sono esposti, in particolare sul web, concepita al precipuo scopo di neutralizzare il rischio di commissione di reati più gravi – e dall’analisi della casistica nella quale si è costantemente ravvisato il tentativo del delitto di atti sessuali con minorenni, la Corte di legittimità ha evidenziato quanto segue. La disposizione di cui all’art. 609undecies c.p., integrando un reato di pericolo concreto, offre una tutela anticipata al bene giuridico che mira a proteggere (corretto sviluppo psicofisico del minore e sua autodeterminazione), criminalizzando condotte prodromiche rispetto a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli artt. 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies c.p., sempreché non si sia verificato il reato fine. Segnatamente, il delitto de quo si configura allorquando l’agente ponga in essere – attraverso artifici, lusinghe o minacce – atti volti a carpire la fiducia del minore, al fine di attrarre la persona offesa al proprio volere e addivenire al compimento del reato-fine. Affinché si configuri il delitto di cui all’art. 609undecies c.p. è, pertanto, necessario che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, cui si accede quando si passa a richieste insistenti o pressanti di ottenere materiale pornografico ovvero atti sessuali. Quanto detto fuga ogni dubbio in ordine alla tenuta costituzionale della norma rispetto al principio di offensività. Parimenti è a dirsi per quanto concerne la legittimità della norma rispetto ai principi di determinatezza e proporzionalità della pena, atteso che il vaglio sull’elemento soggettivo del reato – dolo specifico – e sulla materialità dello stesso è ancorato a parametri oggettivi dai quali possa dedursi il movente sessuale e che gli atti posti in essere dall’agente finalisticamente orientati alla commissione del reato fine sono sanzionati con una cornice edittale autonoma – equa, proporzionata e inferiore – rispetto a quella prevista per i delitti cui accede. Di qui, la compatibilità del sistema anche con il principio di rieducazione della pena.

 

(*Contributo in tema di “Il confine tra il delitto di adescamento di minore e i reati-fine che la norma mira a prevenire”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie Può ritenersi integrato il delitto di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. al cospetto della violazione di doveri professionali dai quali non consegua alcun nocumento?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

In tema di reati contro l’attività giudiziaria, il reato di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione. – Cass., sez. VI, 28 gennaio 2025, n. 3431.

Con sent. 3431/2025, la Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi in tema di patrocinio infedele previsto e punito dall’art. 380 c.p. – conformandosi all’orientamento giurisprudenziale in seno alla stessa consolidatosi, è tornata a sancire la necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, della sussistenza di un concreto nocumento cagionato all’assistito al cospetto della condotta che si assume infedele del patrocinatore.

La pronuncia originava dal ricorso promosso dall’imputato avverso la sentenza emessa in grado d’appello confermativa della condanna di primo grado, con la quale veniva riconosciuta la responsabilità penale del prefato accusato di aver abbandonato la difesa del proprio assistito (omettendo di comparire e costituirsi in giudizio). Ebbene, la difesa ricorreva per Cassazione eccependo violazione di legge ed erronea affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza degli elementi strutturali del reato (sub species dell’elemento soggettivo e oggettivo), atteso che:

  • nell’ambito dei tre procedimenti penali oggetto d’imputazione, l’assistito veniva prosciolto e che all’odierno ricorrente alcun emolumento veniva corrisposto;
  • con riferimento al procedimento di natura civile, al ricorrente non veniva conferito mandato alle liti, difettando così il presupposto di legittimazione del difensore a costituirsi in giudizio.

Alcun pregiudizio subiva la persona offesa, ravvisandosi l’assenza nocumento da intendersi non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 22978; Cass., sez. II, 14 febbraio 2019, n. 12361). Pertanto, nell’accogliere il ricorso, la Corte di legittimità ha sancito l’impossibilità di sussumere il concreto nell’alveo della fattispecie incriminatrice in esame partendo proprio dalla definizione del nocumento quale elemento costitutivo indefettibile della sussistenza dell’illecito penale. In plurimi arresti, infatti, il Supremo Consesso ha sancito il principio secondo il quale la sola violazione dei doveri professionali gravanti in capo al patrocinatore non sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi del delitto de quo, essendo necessario che dalla stessa derivi la verificazione dell’evento ovverossia di un nocumento agli interessi della parte ravvisabile anche al cospetto del mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero di situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 8617; Cass. pen. 7 novembre 2019, n. 5764; Cass., sez. VI, 16 giugno 2015, n. 26542).

 

(*Contributo in tema di “Il delitto di infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie ”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Danno da perdita del rapporto parentale patito dalle figlie Il danno morale patito dalle figlie per perdita della relazione parentale va riconosciuto anche in caso di mancata convivenza con il genitore?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, quest’ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur: in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo. (Cass., sez. III, 16 febbraio 2025, n. 3904  – Danno da perdita del rapporto parentale).

 Nel caso di specie, la Suprema Corte, a distanza di pochi anni da un suo precedente arresto, torna nuovamente a pronunciarsi sul tema del danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riguardo all’incidenza che riveste la coabitazione e la vicinanza geografica fra il defunto, quale vittima primaria, e alcuni suoi familiari, come vittime secondarie o di riflesso.

Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di merito, prima, e della Corte di legittimità, in sede di ricorso, concerne l’azione risarcitoria avanzata dagli attori avverso la struttura ospedaliera per il riconoscimento del danno derivante dalla definitiva deprivazione della relazione parentale, in seguito all’uccisione del rispettivo coniuge e padre.

Atteso il rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, veniva adita la Corte d’appello che, in parziale accoglimento del gravame, riconosceva esclusivamente in capo al coniuge il danno da sofferenza per morte del congiunto, rigettando l’analoga domanda delle figlie.

Le ragioni che hanno condotto ad escludere la rilevanza del legame con la vittima ai fini del diritto al risarcimento, riposerebbero nella lontananza dal de cuius e nella mancata allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva richiesta per i rapporti tra genitori e figli non conviventi.

Avverso il decisum, i soccombenti ricorrevano per Cassazione eccependo, quale unica doglianza, la violazione ed erronea interpretazione degli artt. 1123 e 2059 c.c., nonché violazione dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia, ex art. 29, 30 e 31 Cost.

La Suprema Corte, disattendendo l’assunto confermato in appello, con un’argomentazione più succinta, ma non per questo reticente – tenuto conto dell’evidente rinvio ai precedenti sul punto – si sofferma sul tema del nesso intercorrente tra la cessazione della convivenza e le ricadute in termini probatori ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria.

Il collegio giudicante muove dalla premessa logico-giuridica che l’esistenza di un pregiudizio conseguente dalla perdita del rapporto parentale si presume allorquando il fatto colpisca i membri della c.d. “famiglia nucleare”, ossia quei soggetti legati da un matrimonio o da uno stretto vincolo di parentela.

Da siffatta circostanza ne consegue che l’evento uccisione di uno dei soggetti componenti la cellula minima familiare è idonea ex se a far presumere, a mente dell’art. 2727 c.c., una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima.

Ma vi è di più.

L’enunciato principio di diritto, sostiene la Corte, non subisce alcuna torsione in ragione del fatto che vittima e superstite non convivessero né che fossero distanti, in quanto ciò non si riflette nella volontà di porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo; tuttalpiù, le citate circostanze assumono rilievo ai soli del giudizio di quantificazione del danno sofferto e, comunque, non sarebbero di per sé sole, foriere di un contesto relazionale compromesso.

Sullo sfondo della prospettiva accolta dalla Corte è possibile scrutare gli approdi di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che, per un verso, non riconosce al venir meno della coabitazione alcun valore autonomo circa la produzione del danno non patrimoniale, e, per altro, non richiede l’elemento della convivenza fra la vittima primaria e secondaria per riconoscere il risarcimento del danno morale riflesso dall’uccisione di un parente.

Tale solco ermeneutico, prosegue la sentenza, oltre a costituire un caposaldo della granitica e costante giurisprudenza di legittimità, consente, al contempo, di destrutturare agevolmente le argomentazioni poste a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità.

Ne deve conseguire, il riconoscimento di un danno morale in capo ai superstiti, anche se non più conviventi con la vittima, nonché l’inversione della prova in capo al convenuto circa l’esistenza di un rapporto di indifferenza e di odio tra i medesimi soggetti.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo e facendo buon governo dei precedenti pronunciamenti, la Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata rinviando, per l’effetto, la causa alla Corte d’Appello.

 

(*Contributo in tema di “Danno da perdita del rapporto parentale ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Azione diretta del terzo trasportato: presupposti In caso di risarcimento corrisposto al terzo trasportato, a norma dell’art. 141 D.Lgs. 209/2005 ai fini dell’esatta proposizione della successiva azione di rivalsa da parte dell’impresa assicuratrice del vettore è necessaria la corresponsabilità di almeno due veicoli e la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

La liquidazione del danno da parte dell’assicuratore del vettore prescinde da ogni accertamento sulla responsabilità dei conducenti dei mezzi (almeno due) coinvolti nel sinistro, avendo funzione di massima tutela per il trasportato, né potendo consistere il caso fortuito nel fattore umano riferibile all’altro conducente. Inoltre, l’art. 141 cod. ass. può operare anche nelle ipotesi in cui il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, in quanto la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada (Cass., sez. III, ord. 7 febbraio 2025, n. 3118 – Azione diretta del terzo trasportato).

Nel caso di specie, la sez. III, a distanza di pochi anni dalla leading case delle Sezioni Unite, torna nuovamente a statuire in materia di azione diretta promossa (L’azione diretta del terzo trasportato a seguito di sinistro stradale) dal terzo trasportato all’indirizzo impresa assicuratrice, nonché sul successivo diritto di rivalsa di quest’ultima nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile.

La vicenda processuale sottesa alla pronuncia in esergo prende le mosse dalla richiesta di liquidazione del danno avanzata da un soggetto terza trasportata su un motociclo nei confronti della società assicuratrice del veicolo. Dopo aver provveduto all’erogazione delle somme come sopra richieste, l’impresa designata citava in giudizio l’impresa di assicurazione del responsabile civile, al fine di esercitare, a mente dell’art. 141, comma 1 C.d.a, il proprio diritto di rivalsa alla restituzione del quantum corrisposto.

Nel corso dei giudizi di merito la domanda attorea veniva rigettata in ragione della constatata assenza dei presupposti fondanti l’azione giudiziaria, ex art. 141 c.d.a.: la presenza di una corresponsabilità tra almeno due veicoli; la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile.

Atteso il mancato accoglimento, l’impresa soccombente proponeva ricorso per cassazione.

Per quanto d’interesse in questa sede, la difesa eccepiva la nullità della sentenza impugnata, in quanto la motivazione resa non consentiva di appurare le valutazioni di infondatezza dei motivi di gravame e porgeva il fianco ad un giudizio di illogicità nella parte in cui richiedeva – operando tra l’altro un rinvio a pronunce di legittimità (Cass., sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4147) – la necessaria corresponsabilità del vettore, al lume di una lettura della nozione di “caso fortuito” comprensiva anche del fattore umano.

La seconda doglianza, invece, lamentava una violazione e falsa applicazione dell’art. 141, comma 4, in quanto la parte motiva della sentenza impugnata ne escludeva l’applicazione nell’ipotesi, come quella oggetto di giudizio, in cui era stata accertata l’inesistenza di un contratto di assicurazione con il responsabile civile, con ciò generando una ingiustificata disparità di trattamento.

Investita del ricorso, la sez. III ha accolto le eccezioni di parte cogliendo, al contempo, l’occasione per sagomare i confini operativi dell’azione diretta prevista dall’art. 141 cit.

Nell’esercitare la propria funzione nomofilattica, i giudici di Piazza Cavour hanno consolidato l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla medesima Corte nella sua più alta composizione (Cass., Sez. Un., 30 novembre 2022, n. 35318), che, superando quello fatto proprio dai giudici di merito, ha precisato che l’art. 141 va letto in maniera unitaria e alla luce della sua ratio. In linea con il designato percorso ermeneutico, l’azione diretta in favore del terzo danneggiato si pone come aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare una tutela rafforzata, assegnandogli un debitore certo nonché facilmente individuabile e, soprattutto, consentendogli di essere indennizzato senza dover svolgere dispendiose ricerche per stabilire a quale dei conducenti coinvolti, e in quale misura, la responsabilità è addebitabile.

Valorizzando il dato letterale, non residuano margini di incertezza in ordine alla circostanza che il meccanismo designato dall’art. 141 cod. ass. presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli (rectius due imprese assicuratrici), pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi; quella del vettore provvede ad erogare il risarcimento al trasportato danneggiato, sulla base di un accertamento circoscritto all’esistenza e all’entità del danno causalmente correlato al sinistro, salvo poi rivalersi in tutto o in parte nei confronti della diversa compagnia assicuratrice del responsabile civile, previo accertamento delle responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti.

In pratica, per l’accesso all’azione diretta il trasportato ha l’onere di allegare il coinvolgimento di due conducenti e di due imprese, pena il rischio di una lettura “abrogativa” della norma.

Mutatis mutandis, in caso di coinvolgimento di un unico veicolo, l’azione esperibile è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 cod. ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile.

Quanto alla nozione di caso fortuito, viene nuovamente chiarito che è la stessa disposizione in commento che ne esclude una portata applicativa idonea a ricomprendere il fattore umano riferito all’altro conducente, dovendosi intendere circoscritto alle cause naturali e ai danni causati da condotte umane indipendenti dalla circolazione di altri veicoli.

Per quanto attiene alla seconda doglianza, l’ordinanza ribadisce l’altro principio espresso dalla richiamata sentenza pilota della Cassazione, a tenore del quale laddove il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, nei limiti quantitativi stabiliti dall’art. 283, commi 2 e 4, del D.Lgs. 209/2005.

La bontà di tale asserzione riposerebbe nella stessa espressione “impresa di assicurazione del responsabile civile” di cui all’art. 141, comma 4, c.d.a., nel cui alveo applicativo non può che rientrare anche l’impresa designata dal FGVS, ove il veicolo dello stesso responsabile sia sprovvisto di copertura assicurativa.

In conformità alle conclusioni rassegnate, la Cassazione – discostandosi dalle motivazioni e dai precedenti giurisprudenziali richiamati dai giudici di merito – ha accolto il ricorso di parte e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi evidenziati in massima.

 

(*Contributo in tema di “L’azione diretta del terzo trasportato ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente La condotta provocatoria antecedente al fatto tenuta dalla persona offesa rileva ai fini del consenso e della non sussistenza del reato di violenza sessuale?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di violenza sessuale, il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere al momento del fatto, ma anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale e antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass., sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2381).

Oggetto di scrutinio da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento è la rilevanza del comportamento della persona offesa, antecedente al fatto, ai fini della sussistenza del consenso al momento dell’atto sessuale tale da escludere il reato di cui all’art. 609bis c.p.

La Corte di Appello, in totale riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale, ha assolto l’imputato dal delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p. con formula perché il fatto non sussiste, ritenendo sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che l’imputato abbia imposto alla parte offesa un approccio sessuale violento, in ragione del presunto consenso da questa prestato. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione da parte del Procuratore Generale e della costituita parte civile. In particolare, il Procuratore Generale ha presentato due motivi di doglianza con i quali ha lamentato rispettivamente con il primo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione per mancato ottemperamento degli standard logici e normativi concernenti la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, atteso che l’esito assolutorio a cui è giunta la sentenza d’appello è frutto di una visione parziale e atomistica del compendio istruttorio; con il secondo motivo è stata, invece, denunciata la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning migliorativo. La parte civile, altresì, ha dedotto con un unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, nonché travisamento del fatto e della prova, considerato che secondo le prospettazioni della accusa privata la sentenza gravata ha proposto una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle risultanze processuali in radicale contrasto con il compendio probatorio raccolto in sede dibattimentale, non valorizzando elementi di prova conducenti inequivocabilmente verso una pronuncia di condanna dell’imputato, ponendo, altresì, in dubbio il presunto libero consenso all’atto sessuale espresso dalla persona offesa ritenuto sussistente dai giudici d’appello.

La Suprema Corte, sebbene la difesa dell’imputato abbia chiesto con memoria la dichiarazione di inammissibilità o comunque il rigetto dei due ricorsi, ha ritenuto questi fondati per i motivi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in ragione della violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning della sentenza di primo grado in senso favorevole all’imputato, posto che la Corte distrettuale non ha adeguatamente enucleato un percorso argomentativo dotato di maggiore persuasività.

Secondariamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, i giudici di legittimità hanno riconfermato il consolidato principio di diritto enucleato in massime precedenti secondo il quale il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere ma deve anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale antecedente condotta provocatoria da parte della persona offesa: anche quando il fatto sia preceduto da effusioni o da provocazioni, tale condotta non può mai implicare una presunzione di consenso agli atti sessuali posti in essere successivamente (Cass. 4 marzo 2022, n. 7873). Pertanto, il momento che deve essere preso in considerazione, ai fini del reato di violenza sessuale, è quello del compimento dell’atto sessuale, in relazione al quale va verificata la sussistenza del consenso dell’atto stesso, non rilevando, nemmeno sul piano causale, il comportamento provocatorio antecedente della vittima. La presenza del consenso non può essere dedotta da circostanze esterne al perimetro del fatto (quale l’essersi la persona offesa fatta riaccompagnare a casa) ovvero desunto dai costumi sessuali della stessa e deve perdurare per tutto il rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 5 aprile 2019, n. 15010); la revoca dello stesso intervenuta in itinere può desumersi da fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.

Nel caso di specie, non è stato possibile desumersi il consenso ad un rapporto sessuale completo dalla pregressa presenza di effusioni tra l’imputato e la persona offesa, la quale si è allontanata sotto la pioggia pur di lasciare l’abitazione dell’imputato.

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio da svolgersi secondo i criteri indicati.

 

(*Contributo in tema di “Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Diritto di critica e diffamazione Il diritto di critica di cui all’art. 21 Cost. può comportare l’applicazione dell’istituto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di diffamazione qualora, fatto riferimento ad un fatto preciso, non ci si attenga al criterio di verità?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 51 c.p. quale scriminate in relazione al delitto di diffamazione è soggetta al rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva; pertanto, i fatti narrati debbono essere veri o apparire ragionevolmente come tali al soggetto agente (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2352 (Diritto di critica e diffamazione).

La sentenza impugnata, nel ricondurre la condotta dell’imputato nella sfera applicativa dell’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero ex art. 51 c.p., ha dato continuità al più che costante orientamento del Supremo Collegio secondo cui, pur essendo sussistenti gli elementi oggettivi del diffamazione, le condotte che rappresentano esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, qualora le stesse non si risolvano in uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o in un mezzo per perseguire altre finalità illecite, risultano essere scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p.

Tale orientamento, inizialmente era applicato alla categoria dei giornalisti, ove però si faceva un diverso bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, essendo tale categoria assolutamente peculiare. Invero, più che il “diritto di critica”, veniva invocato il diverso “diritto di cronaca”. Tuttavia, la lettura del diritto di critica, con il mutare anche del contesto sociale è andato via via espandendosi, tale espansione ha portato il Supremo Collegio, anche recentemente ad affermare che il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore ed è tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato a ciascun individuo uti civis (ex multis Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 32829).

Tuttavia, com’è noto, ogni diritto ha delle modalità a mezzo delle quali può essere esplicato oltre le quali non può debordare poiché va a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti. Diversamente si sarebbe davanti a quello che in dottrina viene definito “diritto tiranno” che, come ricordato dalla Consulta con la Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, non esiste né potrebbe esistere nell’Ordinamento. Invero, nella predetta sentenza si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. 264/2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.” Nel caso di specie il “diritto di critica” garantito dall’art. 21 Cost. trova il proprio contraltare nel “diritto all’onore ed alla reputazione” come corollario dell’art. 2 Cost. In applicazione di questo bilanciamento il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di diffamazione, il diritto di critica può essere evocato quale scriminate ex art. 51 c.p.; purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Pertanto, non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In particolare, il requisito della continenza ha una duplice connotazione: continenza sostanziale che attiene alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione; continenza formale concernente il modo con cui il racconto sul fatto è reso, ovvero il giudizio critico è esternato. Tale requisito necessita di una forma espositiva corretta che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur non essendo lo stesso incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. Al tempo stesso, per delimitare il perimetro applicativo della scriminante, risulta imprescindibile contestualizzare le espressioni rectius valutarle in relazione al contesto spazio/temporale e dialettico nel quale sono state profferite, così da verificare il requisito di pertinenza. Debbono quindi essere valutati sia la diversità dei contesti, sia la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta. Invero, determinati ruoli possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che, nonostante le doglianze difensive sulla non verità del fatto, fossero stati rispettati tutti i requisiti per il corretto estrinsecarsi del “diritto di critica” tra cui quello di verità, di conseguenza la condotta delittuosa risulta scriminata ex art. 51 c.p.. Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata mandando assolto l’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Diritto di critica e diffamazione”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Responsabilità di danno circolazione veicoli e presunzione di corresponsabilità Nella responsabilità di danno per la circolazione di veicoli, al fine di superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”?

Quesito con risposta a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di responsabilità civile da sinistro stradale, l’accertamento in concreto di una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti solleva l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., solo quando la colpa concreta dell’uno sia stata tale da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro. Ne deriva che non è possibile attribuire l’intera responsabilità a uno solo dei conducenti ove non sia possibile stabilire in concreto se l’altro abbia avuto la possibilità, almeno teorica, di evitare la collisione. (Cass., sez. III, 20 novembre 2024, n. 29927 – Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità).

Nel caso in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’operatività della presunzione del concorso di colpa paritario dei conducenti di veicoli in caso di sinistro stradale, sancita dall’art. 2054, comma 2, c.c. In particolare, il Giudice di prime cure ha attribuito alla vittima il concorso di colpa nella causazione dell’evento di danno e, ai sensi dell’art. 1227, comma 1 c.c., ne ha stimato il danno risarcibile. La Corte di appello, in sede di impugnazione, ha diversamente opinato sulla questione, stabilendo che la vittima non abbia concorso a cagionare il danno e, pertanto, ha incrementato la misura della liquidazione. Ad avviso del Collegio giudicante, infatti, opererebbe il consolidato principio secondo cui per superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”, anche quando non sia esattamente nota la condotta del conducente antagonista.

La Suprema Corte ha tuttavia precisato che tale principio non basta l’accertamento della colpa grave di uno solo dei conducenti coinvolti, per ritenere l’altro liberato dalla presunzione di pari colpa. Il superamento della presunzione di pari responsabilità, infatti, avviene nell’unico caso in cui la condotta colposa avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista, e cioè quando colpa concreta dell’uno sia stata tale, da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro.

Nella fattispecie concreta – invero – non si è potuto stabilire in concreto quale sia stata la condotta tenuta dall’altro conducente coinvolto, ma la sussistenza della mera possibilità, anche teorica, di evitare la collisione, esclude l’automatica applicazione dell’art. 2054, comma 2, c.c.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte territoriale per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità”, a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Sperequazione economica e trattamento pensionistico Il differente trattamento pensionistico delle parti riconducibile a rinunce, anche professionali, del coniuge economicamente più debole, integra lo squilibrio economico patrimoniale richiesto dall’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio? Nella durata del rapporto matrimoniale va computata anche la relazione more uxorio antecedente al matrimonio?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

La sperequazione economica di non modesta entità fra i coniugi all’esito di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti (riferita, in particolare, ai redditi pensionistici), in presenza di un significativo apporto dato dal coniuge più debole in costanza di matrimonio all’incremento delle prospettive pensionistiche dell’altro, giustifica il riconoscimento dell’assegno divorzile (Sperequazione economica e trattamento pensionistico).

Per la determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, si deve tener conto anche della convivenza prematrimoniale se essa ha avuto connotati di stabilità e continuità e ha comportato reciproche contribuzioni economiche, dimostrando una relazione di continuità con il matrimonio giuridico (Cass., sez. I, 28 novembre 2024, n. 30602).

L’ordinanza in commento ribadisce alcuni principi ormai consolidati in materia di attribuzione dell’assegno divorzile.

Nel caso di specie, in primo grado era stato riconosciuto in favore dell’ex moglie un assegno di divorzio, in considerazione della sussistenza di uno squilibrio economico fra gli ex coniugi emergente dal raffronto dei loro redditi da pensione, nonché della riconducibilità di detto squilibrio a sacrifici e rinunce professionali della moglie che avevano reso possibile la progressione di carriera del marito, con conseguente ottenimento, da parte di quest’ultimo, di un miglior trattamento previdenziale. Nello specifico, il Tribunale aveva valorizzato la circostanza che l’ex moglie, in costanza di matrimonio, avesse seguito il marito in una missione all’estero durata circa tre anni, mettendosi in aspettativa dal proprio lavoro.

La decisione veniva poi confermata in appello sulla base del dato non contestato della disparità dei redditi pensionistici degli ex coniugi, nonché della presenza di sacrifici e rinunce, anche professionali, dell’ex moglie.

L’ex marito ha proposto ricorso per cassazione lamentando, da un lato, l’erronea valutazione, da parte dei giudici di merito, della capacità reddituale delle parti e, dall’altro lato, l’omessa considerazione della breve durata del vincolo coniugale.

Con riferimento al primo profilo, il percorso motivazione della Corte di cassazione ha preso le mosse dai principi affermati da Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, la quale, in tema di assegno divorzile, nel comporre il contrasto giurisprudenziale tra la lettura incentrata sul tenore di vita analogo e quella favorevole all’utilizzo del principio di autoresponsabilità, ha chiarito che gli indicatori contenuti nell’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, assumono una posizione equiordinata nell’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi e all’incapacità di procurarseli e costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sull’attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.

In quest’ottica l’ordinanza in commento ha ribadito che l’adeguatezza dei mezzi deve essere accertata effettuando una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che consideri anche il contributo fornito dal coniuge che richiede l’assegno alla formazione del patrimonio familiare e/o di quello personale dell’altro coniuge.

In altri termini, la pronuncia in esame ha ricordato che ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile occorre verificare che lo squilibrio economico fra le parti presente al momento del divorzio dipenda causalmente dalle scelte comuni di conduzione della vita familiare e dai sacrifici sopportati dal coniuge richiedente l’assegno a favore delle esigenze della famiglia.

La Corte ha poi richiamato altri precedenti (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9004; Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926), anche questi incentrati sulla composita funzione (assistenziale, perequativa e compensativa) dell’assegno divorzile e sulla necessità che, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti riconducibile a scelte comuni, l’assegno assicuri all’ex coniuge richiedente un livello reddituale adeguato al contributo fornito in costanza di matrimonio.

Svolta tale premessa, la Corte di cassazione ha rigettato i primi due motivi di ricorso, affermando come la Corte d’appello avesse correttamente accertato sia la sussistenza dello squilibrio economico tra le parti, in ragione del non contestato differente trattamento pensionistico degli ex coniugi, sia la riconducibilità dello squilibrio stesso a sacrifici, anche professionali, del coniuge richiedente l’assegno.

Con riferimento alla doglianza relativa all’erronea valutazione della durata del vincolo matrimoniale, la Corte ha invece ribadito il principio affermato da Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2023, n. 35385, secondo cui, allorquando vi sia una continuità tra la convivenza prematrimoniale e la vita matrimoniale, ai fini della verifica dell’apporto fornito dal coniuge richiedente l’assegno alla formazione del patrimonio della famiglia e/o di quello personale dei coniugi, occorre considerare anche il periodo della convivenza more uxorio.

 

(*Contributo in tema di “Sperequazione economica e trattamento pensionistico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)