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Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia Nel calcolo della pena per un delitto di omicidio tentato posto in essere in un contesto di maltrattamenti in famiglia deve applicarsi il cumulo temperato previsto dall’art. 81 c.p., oppure la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale deve ritenersi assorbita – ai sensi dell’art. 84 c.p. – dall’aggravante specifica prevista per il delitto di omicidio tentato?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).

Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.

La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.

Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.

Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.

La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.

La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.

 

(*Contributo in tema di “Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Unioni di fatto e doveri di natura morale e sociale Sono configurabili doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate dopo la cessazione della convivenza more uxorio?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza (Cass., sez. I, 2 gennaio 2025, n. 28).

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla richiesta avanzata dal ricorrente al fratello maggiore unilaterale (generato dallo stesso padre ma da madre diversa) di restituzione delle somme versate dalla madre al padre dopo la cessazione della loro convivenza, nonché della metà delle spese sostenute in proprio per il mantenimento del padre dopo la morte della madre.

In primo e secondo grado era stata accolta soltanto la seconda richiesta, mentre la prima era stata rigettata in quanto, secondo i giudici di merito, il contributo dato dalla madre al padre si configurava come adempimento di un’obbligazione naturale.

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, poiché, per il ricorrente, una volta cessata la convivenza non è configurabile alcun obbligo morale di un convivente nei confronti dell’altro.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha preliminarmente rammentato quanto stabilito da Cass., sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578 e cioè che, per valutare la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c. occorre dapprima accertare se ricorra, in rapporto alla valutazione corrente nella società, un dovere morale o sociale e, successivamente, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza.

La giurisprudenza consolidata ha già riconosciuto l’esistenza di un obbligo di assistenza reciproca nelle unioni di fatto, sicché le attribuzioni finanziarie effettuate nel corso del rapporto per le esigenze della famiglia configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., sempre che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, da valutare in relazione alle circostanze del caso concreto e non devono essere restituite (così Cass. 13 giugno 2023, n. 16864).

Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione ha dovuto affrontare una questione diversa, sulla quale non constano precedenti giurisprudenziali, e cioè se l’obbligo di assistenza reciproca perduri dopo la cessazione della convivenza.

La Suprema Corte, aderendo alla soluzione adottata dalle Corti di merito, ha dato risposta affermativa, ritenendo che, poiché le convivenze di fatto sono sempre più diffuse, addirittura superando in numero le famiglie fondate sul matrimonio, il mantenimento dell’ex convivente sia conforme “alla valutazione corrente nella società” e sia, pertanto, tale da integrare un’obbligazione naturale, al ricorrere degli altri requisiti previsti dalla legge.

 

(*Contributo in tema di “Unioni di fatto e i doveri di natura morale e sociale”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento L’accordo patrimoniale tra genitori ex conviventi può essere risolto per inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cui all’art. 337ter, comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege”, l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta e incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole. Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 1324 – Accordo patrimoniale tra ex conviventi).

La vicenda trae origine da una scrittura privata sottoscritta dalle parti, ex conviventi, per definire gli aspetti relativi al mantenimento del figlio e le questioni patrimoniali insorte nella coppia.

Ivi le parti avevano inserito una clausola con cui una di esse si impegnava a vendere l’immobile di sua proprietà e a corrispondere una cospicua somma all’altra parte, a condizione che questi assolvesse agli obblighi di mantenimento del figlio.

In primo grado il Tribunale aveva ritenuto tale accordo di natura transattiva e ne aveva dichiarato la risoluzione per grave inadempimento di una delle parti.

In secondo grado, la Corte d’Appello aveva qualificato diversamente la scrittura privata, attribuendole natura di accordo stipulato in occasione di una crisi familiare ex art. 337ter, comma 4 c.c. a struttura non sinallagmatica, ritenendo inammissibile l’azione di risoluzione per inadempimento.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per Cassazione.

Preliminarmente, la Cassazione ha rammentato la giurisprudenza in materia di diversa qualificazione giuridica del rapporto d’ufficio, che la ammette anche in difetto di specifico motivo di impugnazione, in quanto il giudice d’appello ha il potere dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia. Tuttavia, occorre rispettare due limiti: lasciare inalterati il “petitum” e la “causa petendi” e non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (così Cass. 26 giugno 2012, n. 10617; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3893).

La Suprema Corte ha affermato nella decisione de quo che l’accordo negoziale di cui all’art. 337ter comma 4 c.c. è espressione dell’autonomia privata ed è pienamente lecito, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo.

Esso ha ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege, consistente nel mantenimento della prole; pertanto, l’autonomia contrattuale delle parti deve limitarsi a regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta garantendo l’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale dei figli (così Cass., 11 gennaio 2022, n. 633).

Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento.

Per tale motivo, la Cassazione ha cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

(*Contributo in tema di “Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Arricchimento senza causa e nullità del contratto per difetto di forma scritta Nell’ambito dei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione, risulta ammissibile l’azione di arricchimento senza causa in caso di nullità del contratto per difetto di forma scritta?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Vanno rimesse alle Sezioni Unite le seguenti questioni: in riferimento al principio affermato dalla recente sentenza Cass., Sez. Un., 5 dicembre 2023, n. 33954, avuto riguardo alla residualità dell’azione di arricchimento senza causa ex art. 2042 c.c. ed ove non risulti opportuna la definizione della nozione di “giusta causa” in carenza della quale è data l’azione in parola, l’ipotesi di nullità del contratto della p.a. per difetto di forma scritta rientri o meno nelle cause di nullità per violazione di norme imperative o per contrarietà all’ordine pubblico, qualificate ostative all’ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c.; se, ancora in riferimento al suddetto principio, il giudizio sull’ammissibilità dell’azione possa essere declinato diversamente, in caso di declaratoria di nullità del contratto per difetto di forma scritta, qualora, come nella specie, il soggetto “impoverito” sia la stessa p.a. e non la sua controparte privata; se, infine e sempre in riferimento al suddetto principio, ove al quesito di cui sub 1) si risponda nel senso dell’ammissibilità dell’azione, abbia rilievo la circostanza che il contratto dichiarato nullo abbia ad oggetto prestazioni di dare, stante quanto previsto – quale possibile azione alternativa, offerta dall’ordinamento già sul piano astratto – dagli artt. 2033 ss. c.c. in tema di ripetizione d’indebito oggettivo (Cass., sez. III, ord. 20 gennaio 2025, n. 1284).

La vicenda trae origine da una fornitura di acqua, senza un contratto scritto, da parte del Comune di Bojano, il quale promuove un’ordinanza di ingiunzione nei confronti del titolare di una ditta individuale, per il pagamento di oltre centomila euro per i canoni rimasti insoluti. Pur venendo dichiarata nulla in primo grado l’ingiunzione di pagamento, in appello viene accolta una domanda subordinata di arricchimento senza causa, che obbliga l’utente a versare una somma considerevole. La Terza Sezione individua tre questioni centrali che meritano un chiarimento nomofilattico, tale da fornire un quadro più chiaro e organico dei rimedi esperibili in caso di nullità dei contratti con la P.A., definendo i confini tra i singoli istituti.

La prima riguarda il tema della compatibilità tra la nullità per difetto di forma scritta nei contratti della P.A. e il recente orientamento delle Sezioni Unite che esclude l’azione di arricchimento in caso di nullità per violazione di norme imperative. L’ordinanza evidenzia, infatti, che le norme sulla forma scritta dei contratti pubblici hanno natura imperativa. Si ravvisa, in particolare, come l’indennizzo spettante all’impoverito non possa costituire il corrispettivo di una prestazione resa in forza di un contratto nullo, altrimenti si opererebbe una sorta di “fictio”, considerando il contratto come esistente e valido. L’ordinanza solleva critiche a una recente interpretazione della Cassazione che esclude le nullità formali dei contratti pubblici dalle violazioni di norme imperative. In tal modo, infatti, il rischio è quello di creare un paradosso giuridico e forme di diseguaglianza rispetto alla posizione del privato, atteso che la violazione delle regole sulla forma scritta potrebbero addirittura avvantaggiare l’amministrazione inadempiente, che otterrebbe con l’azione ex art. 2041 c.c. più di quanto conseguirebbe stipulando il contratto.

La seconda questione concerne la peculiarità del caso in esame, dal momento che la P.A. assume il ruolo di soggetto “impoverito”, mentre nei precedenti, in tema di rapporto tra declaratoria di nullità dei contratti della P.A. per difetto di forma e l’ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa, era il privato ad assumere le vesti di attore.

La terza problematica attiene, infine, al rapporto tra l’azione di arricchimento e la ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. La Corte si interroga se la disponibilità del rimedio della ripetizione non precluda, per il principio di sussidiarietà, il ricorso all’azione di arricchimento. Il chiarimento richiesto alle Sezioni Unite sarà cruciale, oltre che per stabilire quale sia il rimedio più adeguato per risolvere il caso concreto, anche per definire l’equilibrio tra la tutela degli interessi pubblici e la necessità di non creare ingiustificate disparità di trattamento con i soggetti privati.

 

(*Contributo in tema di “Arricchimento senza causa”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Contratto preliminare di compravendita e mutuo Come si qualifica, in un preliminare di vendita, la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento di un mutuo da parte del promissario acquirente per il pagamento del prezzo?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Va qualificata come mista la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento da parte del promissario acquirente di un mutuo da un istituto bancario, al fine di provvedere al pagamento del prezzo pattuito (Cass., sez. II, ord. 7 gennaio 2025, n. 243 – Contratto preliminare di compravendita e mutuo).

Il caso trattato trae origine dalla citazione in giudizio di una società nei confronti di un’altra, con cui la prima chiedeva l’accertamento della verificazione della “condizione risolutiva espressa” apposta al contratto preliminare di compravendita immobiliare, che l’esponente aveva stipulato in qualità di promissario acquirente. Tale contratto, infatti, era stato subordinato, fra l’altro, all’approvazione del leasing con la specifica che, in caso della sua mancata approvazione l’acconto versato doveva essere restituito. Non essendo stato approvato il leasing nei termini prestabiliti, il promissario acquirente aveva adito il Tribunale, chiedendo che fosse accertato l’avveramento della condizione risolutiva espressa con conseguente condanna della convenuta, promittente alienante, alla restituzione dell’acconto e che fosse annullato l’accordo. Il Tribunale adito, in accoglimento della domanda attorea, ha dichiarato risolto il contratto e condannato la convenuta a pagare l’acconto. Tuttavia, la Corte di Appello disattendeva la decisione di primo grado, qualificando la condizione come potestativa mista. Questa stabiliva, infatti, che, poiché detta condizione era stata inserita nell’interesse di entrambe le parti, era la società acquirente a dover provare di aver agito correttamente per ottenere l’approvazione del leasing. La Corte decideva, pertanto, di accogliere l’impugnazione proposta dalla promittente alienante, disponendo il trasferimento immobiliare, ai sensi dell’art. 2932 c.c.

La Corte di Cassazione, successivamente adita, cassava con rinvio la sentenza d’appello impugnata, soffermandosi sulla natura delle condizioni apposte dalle parti nei contratti di compravendita immobiliare. Per la Suprema Corte, in particolare, nella circostanza in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga un mutuo da un istituto bancario, per poter pagare in tutto o in parte il prezzo pattuito, la relativa condizione è da qualificare come “mista”. La decisione, ha altresì specificato che detta concessione dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica, ma la mancata erogazione comporta le conseguenze previste dal contratto senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente.

Ai fini dell’art. 1359 c.c., infatti, il comportamento omissivo del promissario acquirente non incide poiché l’omissione di attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituisce fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, da escludere per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.

In conseguenza, a differenza di quanto affermato dalla Corte di appello ligure, non è consentito sostenere che al promissario acquirente possa addebitarsi il mancato avveramento della condizione per non aver assolto al preteso onere della prova su costui gravante.

Ciò premesso, la Corte ha cassato la sentenza con rinvio e pronunciato il seguente principio di diritto: «la controversia intercorsa tra promittente alienante e promissario acquirente a riguardo del mancato avveramento di una condizione potestativa mista, apposta nell’interesse di entrambe le parti, non può essere risolta facendo applicazione del generale principio regolante l’onere della prova nei contratti sinallagmatici. Ma deve accertarsi, sulla scorta delle emergenze di causa e in concreto, se sia individuabile una parte inadempiente o, comunque, prevalentemente inadempiente (nel caso gli adempimenti fossero reciproci), per avere mancato di comportarsi secondo buona fede, avuto riguardo alla condizione apposta al negozio e in pendenza di essa».

 

(*Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita e mutuo”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Il dolo nel reato di incendio Quali sono i criteri per accertare il dolo nel reato di incendio, distinguendo tra dolo generico e dolo specifico, e quale rilevanza assume tale distinzione nella qualificazione giuridica del fatto?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Per accertare il dolo nel reato di incendio, si seguono criteri indiziari basati su circostanze esteriori che rivelano l’atteggiamento interiore dell’agente. Il dolo generico implica la volontà di cagionare un incendio con caratteristiche tali da creare un pericolo per la pubblica incolumità, mentre il dolo specifico consiste nell’uso del fuoco esclusivamente per danneggiare un bene altrui.

La distinzione è rilevante per qualificare il fatto come incendio doloso (art. 423 c.p.) o danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), in base alla volontà dell’autore e all’entità dell’evento (Cass., sez. I, 12 settembre 2024, n. 45886).

Nel caso di specie, gli imputati erano accusati di aver causato un incendio doloso utilizzando liquido infiammabile cosparso su automezzi parcheggiati in prossimità di abitazioni.

La Corte d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), rilevando la presenza del dolo generico. La Cassazione ha confermato tale qualificazione affermando che il dolo, quale elemento soggettivo del reato, deve essere ricostruito attraverso un ragionamento indiziario, valutando indicatori fattuali capaci di sostenere la rappresentazione e la volontà dell’autore di realizzare il fatto illecito. La Suprema Corte ha confermato quanto stabilito da Cass., sez. I, 23 giugno 2021, n. 4985 evidenziando che, nel reato di incendio di cui all’art. 423 c.p., il dolo è generico e si configura quando l’agente ha la volontà di cagionare una combustione tale da provocare un concreto pericolo per la pubblica incolumità. Diversamente, nel caso del danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p., è richiesto il dolo specifico, ovvero l’intenzione di danneggiare un bene altrui mediante l’uso del fuoco, senza la previsione o la volontà di generare un incendio (così anche Cass., sez. I, 3 novembre 2020, n.32566).

La Cassazione nel caso in questione ha chiarito ex professo che se l’agente, oltre ad avere l’intenzione di danneggiare, agisce con la consapevolezza e l’accettazione del rischio di provocare un incendio di dimensioni tali da assumere le caratteristiche di un fuoco di non lievi proporzioni, si configura il delitto di incendio, anche se il dolo è eventuale (così anche Cass., sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612).

Nella decisione de qua, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza e la logicità della motivazione resa dalla Corte d’Appello, con gli specifici riferimenti alle modalità utilizzate.

Il Tribunale d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio ex art. 423 c.p., rilevando la presenza del dolo generico.

La Cassazione ha confermato tale qualificazione, evidenziando che l’impiego del liquido infiammabile su più veicoli, con serbatoi pieni, indicava la volontà degli imputati di accettare il rischio di propagazione incontrollata del fuoco, oltre al fatto che il pericolo concreto per la pubblica incolumità era dimostrato dall’intensa attività dei vigili del fuoco per domare l’incendio.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che la qualificazione giuridica dipende dalla volontà dell’agente, che deve essere valutata in base alle circostanze fattuali del caso (così come Cass., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6250).

La Cassazione ha, infine, ribadito quanto affermato da Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cioè che al fine di accertare il dolo è necessario seguire un ragionamento indiziario “dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi presentati e, dopo averli ritenuti complessivamente infondati, ha affermato che la corretta instaurazione del rapporto processuale imponeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione, confermando, tuttavia, la validità delle statuizioni civili.

 

(*Contributo in tema di “Il dolo nel reato di incendio”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Dichiarazione di ignoranza inevitabile La dichiarazione di ignoranza inevitabile dell’età di un minore può escludere la responsabilità penale ai sensi degli artt. 609quater e 609sexies c.p. per reati sessuali nei confronti di una persona al di sotto dei quattordici anni?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

La Corte di Cassazione ha escluso che la dichiarazione di ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa possa valere come scriminante per l’imputato, salvo dimostrazione di una verifica diligente e approfondita da parte dell’imputato per accertare l’età della vittima (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 45805).

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della responsabilità penale per reati sessuali con minori, concentrandosi sui criteri per valutare l’ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa e l’importanza di tutelare l’integrità psicofisica del minore nella sfera sessuale.

Il GUP del Tribunale di Genova ha riconosciuto l’imputato responsabile di un’ipotesi di concorso formale tra reati, condannandolo per i fatti previsti dagli artt. 81 e 609quater c.p., relativi a rapporti sessuali consenzienti con una minore di quattordici anni, e dagli artt. 73, comma 5, e 80 del D.P.R. 309/90, concernenti la cessione di sostanze stupefacenti alla medesima persona offesa.

In sede di giudizio, il Tribunale ha concesso l’attenuante della minore gravità ai sensi dell’art. 609quater, comma 6, c.p. e quella prevista dall’art. 62, n. 6, c.p. per la riparazione del danno.

Applicata la riduzione di pena connessa al rito abbreviato, l’imputato è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione.

Successivamente, la Corte d’Appello di Genova, pronunciandosi sia sull’appello proposto dall’imputato che sul ricorso per Cassazione del Procuratore Generale, ha riconosciuto ulteriori attenuanti generiche e ridotto la pena a dieci mesi di reclusione.

La sentenza della Suprema Corte rappresenta un consolidamento della giurisprudenza che valorizza la tutela del minore nella sfera sessuale, anche alla luce delle normative internazionali e nazionali. Essa si pone in continuità con precedenti orientamenti giurisprudenziali precisando che l’ignoranza inevitabile è configurabile solo qualora nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, possa essere rivolto all’agente per non aver rispettato il dovere di accertarsi adeguatamente dell’età del soggetto coinvolto (così Cass., sez. III, 10 dicembre 2013, n. 3651; Cass., sez. III, 6 maggio 2014, n. 37837).

La Corte pone l’accento sul dovere di diligenza chiarendo che in tali circostanze è necessario compiere controlli adeguati e proporzionali alla rilevanza del bene giuridico tutelato rappresentato dal libero sviluppo psicofisico dei minori.

Avallando quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, tali controlli avrebbero potuto includere richieste di informazioni a parenti della vittima o verifiche oggettive sulla sua età.

Nella decisione de qua la Cassazione precisa che dichiarazioni mendaci del minore circa la propria età o indizi fisici non possono essere considerate sufficienti per invocare la scriminante ex art 609sexies (del pari Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n.775).

Tale interpretazione riflette l’importanza di preservare il libero sviluppo psicofisico dei minori e di evitare esperienze traumatiche che possano compromettere il loro futuro chiarendo che qualsiasi condotta che arrechi un pregiudizio rilevante a tale bene giuridico non può considerarsi priva di offensività, anche se vi è il consenso del minore (così anche Cass. pen., sez. III, 14 dicembre 2011, n.12464).

La pronuncia in questione rafforza l’obbligo di comportamenti responsabili e scrupolosi in situazioni che coinvolgono minori definendo i confini applicativi della scriminante di cui all’art. 609sexies c.p.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, ha confermato la condanna e ha disposto il pagamento delle spese processuali nonché di una somma in favore della Cassa delle ammende, sottolineando che l’imputato non aveva soddisfatto i criteri per invocare l’ignoranza inevitabile.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di ignoranza inevitabile”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Infiltrazioni: mancato godimento immobile per inagibilità procurata da terzi L’inutilizzabilità di un immobile per infiltrazioni causate da terzi dà luogo a un danno che deve essere risarcito in via presuntiva?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

Nell’ipotesi di perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito, sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato; a fronte della specifica contestazione del convenuto, la prova può essere fornita anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (Cassazione, sez. II, 2 dicembre 2024, n. 30791).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla risarcibilità del danno per mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da un’attività colposa di terzi.

In primo e secondo grado il proprietario di un appartamento danneggiato da alcune infiltrazioni provenienti da una soprastante terrazza aveva chiesto, nei confronti del condominio e del proprietario dell’immobile di cui la terrazza era proiezione, di essere risarcito, fra l’altro, dei danni derivanti dalla mancata utilizzazione del proprio appartamento. La domanda in questione era stata rigettata in entrambi i gradi di giudizio sulla scorta dell’assunto secondo cui il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile era stato solo allegato, ma non provato dal presunto danneggiato, il quale, per poter ottenere il risarcimento, avrebbe dovuto dimostrare di aver ricevuto concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile.

Il danneggiato, con il ricorso per cassazione, ha quindi lamentato la mancata applicazione, da parte della Corte di merito, degli approdi della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in tema di prova presuntiva del danno da mancato godimento del bene.

La Corte di cassazione, con la decisione in commento, ha accolto questo motivo di ricorso.

Nel proprio percorso argomentativo la Corte ha richiamato Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645, la quale, operando una mediazione fra la teoria normativa del danno e quella causale, ha affermato che in caso di occupazione senza titolo di un immobile da parte di un terzo, il danno da perdita del godimento del bene possa essere provato anche in via presuntiva.

In particolare, la Corte ha ricordato i passaggi fondamentali della citata sentenza delle Sezioni Unite, ovverosia che in caso di occupazione illegittima di un immobile: i) il danno evento è rappresentato dalla lesione del diritto di godere della cosa e non già da un pregiudizio cagionato al bene oggetto del diritto di proprietà; ii) il danno conseguenza è la perdita della concreta possibilità di godimento – diretto o indiretto – del bene, quale conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto di godimento; iii) il danneggiato ha l’onere di allegare la concreta possibilità di godimento perduta e, a fronte della specifica contestazione del convenuto, ha l’onere di fornirne la prova, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

La pronuncia in commento ha precisato che il principio affermato da Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645 debba trovare applicazione anche nel caso – come quello oggetto del giudizio – in cui la perdita del godimento sia dovuta all’inagibilità dell’immobile causata da un’attività colposa di terzi.

Sulla scorta di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha rilevato come il giudice di seconde cure avesse erroneamente rigettato la domanda di risarcimento del danno per la perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello, per l’applicazione del principio di diritto riportato nella massima.

 

(*Contributo in tema di “Infiltrazioni: mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da terzi”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il danno morale costituisce una duplicazione del danno biologico?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus, con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass., sez. III, 14 novembre 2024, n. 30461).

Il giudizio di merito trae origine da un’azione di risarcimento danni intentata iure proprio e altresì come rappresentante legale della persona offesa dalla coniuge di un uomo rimasto invalido al 90% a seguito di una caduta su scala mobile interna ad una clinica ospedaliera, in cui si era recato a seguito di un malore e da cui era stato dimesso dopo esservisi recato per due giorni consecutivi. Il giudice di prime cure ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei medici che hanno dimesso il paziente e della clinica, decisione altresì confermata dalla Corte di Appello in sede di impugnazione, la quale ha tuttavia ridotto l’ammontare del danno in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato.

Con ricorso per Cassazione, la coniuge ha impugnato la decisione di merito, deducendo anzitutto l’illogicità dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico in caso di premorienza, che hanno comportato una riduzione del danno risarcibile a causa della morte del danneggiato in pendenza di giudizio. Secondo le tabelle milanesi utilizzate dalla Corte di Appello, infatti, l’invalidità permanente inciderebbe in misura maggiore all’inizio e in maniera progressivamente decrescente con il trascorrere del tempo, sino alla morte del soggetto leso.

La Suprema corte ha accolto le censure della ricorrente, poiché secondo costante e recente giurisprudenza in caso di premorienza per cause avulse dall’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, non già a quella statisticamente probabile, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass., sez. III, 29 maggio 2024, n. 15112).

Ulteriore motivo di doglianza è stata altresì l’omessa liquidazione del danno da invalidità temporanea, che a parere della ricorrente è diverso ed ultroneo dal danno biologico da premorienza. Anche per la Cassazione si tratta, infatti, di due voci di danno diverse: il danno da premorienza è il danno biologico permanente che, data la morte, cessa e che – pertanto – richiede una liquidazione parametrata sull’effettivo vissuto, cioè per la durata dell’invalidità permanente, senza che però ciò inglobi ex se il danno cagionato dall’invalidità temporanea, che va liquidato a parte.

Infine, la ricorrente ha lamentato l’omessa liquidazione del danno morale soggettivo, sull’assunto del giudice di merito per cui esso sarebbe una duplicazione del danno biologico. La Corte di cassazione ha – di contro – ribadito il principio consolidato per cui il danno morale costituisce un’autonoma voce del danno non patrimoniale. Esso va allegato e provato, ma è disgiunto dal danno biologico, al punto che esso può prodursi anche senza che il danneggiato abbia subito una lesione del diritto alla salute, come nel caso del danno all’onore o alla reputazione.

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti comprende, oltre al danno biologico, il danno morale, cioè la sofferenza interiore cagionata al danneggiato, nonché il danno esistenziale o dinamico-relazionale, ove la lesione abbia un impatto negativo sulla vita quotidiana. Trattasi, dunque, di tre voci di danno non patrimoniale che sono autonomamente risarcibili, salvo l’onere della prova in capo al richiedente.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Pubblico impiego, procedure concorsuali e titoli di preferenza È necessaria la comunicazione già all’atto di partecipazione al concorso del possesso del titolo preferenziale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, i giudici di Palazzo Spada evidenziano che non è necessaria la comunicazione già all’atto di partecipazione al concorso del possesso di titoli di preferenza quale elemento fondamentale, determinante la perdita del titolo medesimo (Cons. Stato, sez. V, 3 dicembre 2024, n. 9667).

Il Consiglio di Stato, nella fattispecie in esame, ha evidenziato che non è necessaria la comunicazione, già all’atto di partecipazione al concorso, del possesso del titolo preferenziale quale elemento fondamentale, determinante la perdita del titolo medesimo.

L’art. 5 del D.P.R. 487/1994 prevede che i titoli di preferenza sono valutabili sebbene non dichiarati nella domanda di partecipazione, ma posseduti all’atto della stessa ed esibiti nei termini previsti dal bando, in caso di superamento delle prove selettive.

Infatti, i titoli di preferenza, a differenza dei titoli di merito, non sono oggetto di esame da parte della commissione giudicatrice, ma vengono in considerazione solo dopo lo svolgimento delle prove selettive, al momento della redazione della graduatoria di merito.

 

(*Contributo in tema di “Pubblico impiego, procedure concorsuali e titoli di preferenza”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)