giurista risponde

Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare In caso di conclusione di un negozio diverso da quello per cui l’incarico di mediazione era stato conferito ma avente il medesimo spostamento patrimoniale come risultato finale, il mediatore ha comunque diritto alla provvigione?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore (Cass. 20 giugno 2024, n. 16973).

Tizio, nella qualità di rappresentante legale della società a responsabilità limitata alfa, ha conferito alla società beta l’incarico di adoperarsi per la vendita di un immobile avente un prezzo soglia minima. Ricevuta un’offerta inferiore e poi declinata, la società alfa ha ceduto il proprio intero patrimonio alla società gamma il cui amministratore era il coniuge del primo offerente, al fine di assicurare la cessione immobiliare con un risparmio fiscale.

Di fronte al rifiuto di corrispondere la provvigione, la società mediatrice beta ha citato in giudizio le parti alienanti e acquirenti, nonché i relativi rappresentanti legali.

Il tribunale di primo grado rigettò tuttavia la domanda traendo spunto dalla natura ontologicamente diversa dell’affare concluso (cessione di quote sociali) rispetto a quello per cui era stato l’incarico di mediazione (vendita del bene), nonostante il patrimonio della società venditrice fosse costituito solo da questo.

A seguito di impugnazione proposta dalla società beta, la Corte di Appello ha dato atto della raggiunta mediazione tra gli appellanti e la società alfa, condannando questi ultimi al pagamento di una somma pecuniaria; le argomentazioni proposte dai giudici di secondo grado hanno riguardato, ex multis, la continuità tra il soggetto che aveva partecipato alle trattative e quello stipulante, il rapporto di causalità tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare, nonché l’effetto esclusivo di ottenere un risparmio fiscale attraverso la cessione immobiliare per quote societarie.

Adita la Corte di Cassazione, i giudici si sono espressi nel seguente modo:

–   in primo luogo, gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante legale ricadono sulla società rappresentata organicamente, specie se dotata di piena autonomia patrimoniale e personalità giuridica; purtuttavia, i giudici di prime cure non hanno propriamente esaminato se il legale rappresentante avesse agito anche nell’interesse proprio o si sia mosso ingenerando nel terzo il legittimo affidamento che lo stesso incaricando della vendita di un bene nella propria signoria e piena disponibilità, al fine di escluderne la personale responsabilità dell’agente;

–   in secondo luogo, viene ribadito che “il diritto del mediatore alla provvigione consegue alla conclusione dell’affare, mentre non rileva che questo sia concluso dalle medesime parti ovvero da parti diverse da quelle cui è stato proposto, purché vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria – che resta debitrice nei confronti del mediatore, per avere costei avuto rapporti con lo stesso – e quella con cui è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto”; infatti, l’art. 1755 c.c. parla di “affare” e non di “contratto” stante che il diritto al compenso non è condizionato dalla corrispondenza tra il contratto prospettato con l’incarico e quello attraverso il quale è stato reso possibile il regolamento dei privati interessi, bensì dal raggiungimento dello scopo economico per la persecuzione del quale la parte aveva dato incarico al mediatore. La condizione per cui il predetto diritto possa sorgere è l’identità dell’affare proposto con quello concluso senza che assuma rilevanza il caso in cui le parti sostituiscano altri a sé nella stipulazione finale, ovvero che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto, e che la conclusione dell’affare sia collegabile al contratto determinato dal mediatore tra le parti originarie, tenute comunque al pagamento della provvigione, senza che assumano rilevanza le forme giuridiche mediante le quali l’affare medesimo è concluso.

In conclusione, rigettando il ricorso, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto:

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore”.

(*Contributo in tema di “Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Concorso anomalo e progressione criminosa Nell’applicazione dell’istituto del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., in che rapporto si deve porre l’elemento psicologico del dolo con la prevedibilità della progressione criminosa dell’azione?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 116 c.p. (concorso anomalo) è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (Cass., sez. I, 20 giugno 2024, n. 24520).

Preliminarmente il Supremo Collegio, nel rispondere al quesito oggetto della presente sentenza ha ritenuto di specificare quelli che sono i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo distinguendolo dalle ipotesi di concorsi di cui all’art. 110 c.p.

Ciò posto, premettendo che è oramai consolidata una concezione unitaria del concorso di presone nel reato – contrariamente a quanto avveniva con il Codice Zanardelli –, l’attività che integra gli estremi dell’art. 110 c.p. può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di: ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva della fattispecie di reato. Tale attività, peraltro, non necessita di un previo accordo diretto alla causazione dell’evento; infatti il concorso ben potrebbe estrinsecarsi in un intervento di carattere estemporaneo, sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (Cass., Sez. Un., 3 maggio 2001, n. 31).

Il concorso anomalo ex art. 116 c.p. si differenzia rispetto al concorso “pieno” – sopradescritto – e sussiste alla presenza di tre requisiti: l’adesione dell’agente ad un reato voluto in concorso con altri; la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso – eventualmente più grave –; un nesso causale, non solo materiale ma anche psicologico tra la condotta del compartecipe rispetto al reato voluto e l’evento diverso concretamente realizzato da altri. Pertanto è necessario che il concorrente non abbia previsto e voluto, nemmeno a titolo di dolo eventuale, il reato diverso, posto in essere dall’esecutore. Invero, nel caso in cui il soggetto non soltanto si sia rappresentato l’evento, ma l’abbia voluto – sia che tale volizione si estrinsechi sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni) – si ricadrà nell’alveo applicativo dell’art. 110 c.p. e, pertanto, si applicherà la disciplina ordinaria del concorso di persone nel reato. A tali tre requisiti si aggiunge poi un ulteriore aspetto che estrinseca il terzo requisito, ovvero, la prevedibilità della progressione criminosa dell’agire.

Su quest’ultimo, cruciale, punto la Corte ribadisce come sia assolutamente preponderante la prevedibilità dell’evento reato differente. Invero, il requisito della prevedibilità dell’evento posto in progressione criminosa, anche se non espressamente previsto nella disposizione normativa, è di fondamentale importanza. Questo, lo si si evince in forza di una interpretazione sistematica e teleologica delle norme fondanti la responsabilità penale e vive ormai una condizione di assoluta stabilità dopo la pronuncia della Corte cost. 42/1965. Pertanto è imprescindibile un “nesso psicologico” in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi.

Tale aspetto, peraltro, non può dirsi integrato dalla sola sussistenza di un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave, ma è necessario che sussista un rapporto di “causalità psichica”, nel senso che il reato diverso – e più grave – commesso dal compartecipe deve essere astrattamente rappresentabile nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 744), il tutto senza, comunque, che l’agente debba avere effettivamente previsto e accettato il rischio della sua commissione, giacché, in tal caso – come affermato in precedenza –, sarebbe configurabile il dolo eventuale e quindi il concorso pieno ex art. 110 c.p.

La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello voluto, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso anomalo ex art. 116 nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che la componente psichica del concorso anomalo ex art. 116 c.p. si collochi, in un’area compresa fra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile (situazione nella quale la responsabilità resta esclusa) e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità (situazione nella quale si realizza un’ordinaria fattispecie concorsuale su base dolosa). Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata ritenendo che il corrente avesse agito con dolo diretto e, pertanto, con il pieno intento di cooperare all’esecuzione del disegno criminoso nella sua forma più grave effettivamente verificatasi.

*Contributo in tema di “Concorso anomalo e progressione criminosa”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali Nell’applicazione dell’istituto della legittima difesa putativa, ovvero dell’eccesso colposo di legittima difesa, i timori personali possono essere di per sé stessi sufficienti ad escludere la punibilità del soggetto agente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

L’accertamento della legittima difesa, reale o putativa o dell’eccesso colposo di questa, deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’ interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Cass., sez. I, 26 giugno 2024, n. 25230).

Nell’affrontare il thema decidendum, il Supremo Collegio ha operato un pregevole lavoro di ricostruzione ermeneutica in ordine ai requisiti per la sussistenza della legittima difesa, differenziando le ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. come novellato dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, da quello più generale della legittima difesa putativa di cui al combinato disposto degli artt. 52 e 59 c.p.

Più nello specifico, l’ipotesi dell’eccesso colposo della legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. ricorre nel caso in cui il superamento del limite della necessaria proporzione che deve esserci tra la difesa del bene giuridico minacciato e l’offesa è dipeso da errore determinato da colpa (Cass. 12 ottobre 2023, n. 41552). Sotto tale profilo, infatti, lo stato di grave turbamento che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa ex art. 61, comma 5 c.p., per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dal novellato art. 55, comma 2 c.p., richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse ed è necessario un esame di tutti gli elementi della situazione per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (Cass. 3 dicembre 2020, n. 34345). Per l’effetto una condotta antecedente a quella delittuosa che fa sorgere dei meri timori personali non può essere idonea ad integrare il presupposto della norma.

Tale ipotesi differisce, peraltro, dalla legittima difesa putativa, di cui all’art. 59 c.p., perché il concetto di errore ha una portata ben più generale rispetto al turbamento. Invero, l’errore scusabile non è altro che una rappresentazione falsata della realtà che prescinde da un turbamento emotivo e potrebbe, astrattamente, ricomprenderlo se questo non integra il requisito di cui all’art. 55, comma 2 c.p.

In altri termini la rappresentazione falsata del pericolo, nel caso di cui all’art. 59 c.p. è ontologicamente incompatibile con l’ipotesi di un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, perché nel caso di cui all’art. 55, comma 2 c.p. non è esigibile una valutazione sulla proporzione della reazione. Di converso l’errore, per dirsi scusabile, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Per cui, la capacità di razionale valutazione dell’agente è necessaria per l’applicazione dell’art. 59 c.p., mentre è in radice esclusa per l’applicazione dell’art. 55, comma 2 c.p., i quali peraltro si inseriscono in momenti della condotta che possono essere diversi.

Ciò posto la presente sentenza, prendendo le mosse (Cass. 21 marzo 2013, n. 13370), ha ritenuto di affermare che al fine di valutare l’eventuale sussistenza dell’eccesso colposo di legittima difesa devono essere valutate ex ante le specifiche e peculiari circostanze concrete dell’azione. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali.

Sul punto nonostante sia ampiamente condivisibile la ricostruzione ermeneutica testé riportata, in ordine ai c.d. “timori personali”, è d’uopo segnalare l’esistenza di un orientamento parzialmente differente, coevo alla novella normativa del 2019, il quale però a parare di chi scrive può dirsi superato. Detto orientamento, prendendo comunque le mosse dall’arcinota sentenza Cass. 21 marzo 2013, n. 13370, ha ritenuto che, a seguito della novella legislativa del 2019, “i timori personali” laddove possano essere riconducibili nella categoria del “grave turbamento” (di cui alla nuova formulazione dell’art. 55 c.p.) debbano essere necessariamente oggetto di valutazione da parte del giudice di merito ed in assenza di tale valutazione la sentenza deve essere annullata (Cass. 10 dicembre 2019, n. 49883).

Alla luce di quanto sopraesposto, nel caso di specie la Corte ritenendo di aderire al primo orientamento ha, altresì, ricordato che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo nella stessa – qualora gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito – è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità. In forza di ciò, non essendo stati riscontrati vizi procedurali nell’accertamento degli elementi di prova o motivazionali nel vaglio degli stessi, la Corte ha confermato la sentenza di condanna.

Contributo in tema di “Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione Costituisce materia di giurisdizione esclusiva il risarcimento del danno ingiusto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore ( T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 3 giugno 2024, n. 3528).

È opportuno precisare che in tema di riparto della giurisdizione, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.

Pertanto, la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’amministrazione per i danni subiti dal privato, che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo, rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato.

Ed invero, la situazione giuridica, la cui lesione costituisce la causa della pretesa del privato di vedersi risarciti i danni causati dall’annullamento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, non è l’interesse legittimo alla conservazione del bene della vita acquisito con tale provvedimento, bensì l’affidamento incolpevole dal medesimo riposto nella legittimità di tale provvedimento.
Sul punto la giurisprudenza della Cote di Cassazione (Cass., Sez. Un., ord. 24 aprile 2023, n. 10880; Id., 6 febbraio 2023, n. 3514; Id., ord. 24 gennaio 2023, n. 2175, Id., ord. 29 aprile 2022, n. 13595; Id., 11 maggio 2021, n. 12428; Id., 8 luglio 2020, n. 14231) ha specificato che in relazione agli interessi legittimi pretensivi, infatti, l’interesse del privato all’ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto quando l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo, senza che rilevi, dal punto di vista del medesimo privato, se tale emanazione sia legittima o illegittima; al privato interessa soltanto di poter vedere ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha dichiarato il difetto di giurisdizione, in relazione ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta dell’ente che aveva dapprima autorizzato lo svolgimento dell’attività degli indicati locali e, successivamente, rilevato l’assenza dei presupposti per il rilascio della necessaria autorizzazione unica ambientale.

Contributo in tema di “Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Mutuo a tasso fisso e mancata indicazione modalità di ammortamento La mancata indicazione di elementi, quali le modalità di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale ovvero il regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori, è causa di nullità parziale del contratto per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

 

In tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti (Cass., Sez. Un., 29 maggio 2024, n. 15130).

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi a seguito di rinvio proposto da un tribunale di merito che ha evidenziato l’esistenza di diverse interpretazioni giurisprudenziali in ordine alle conseguenze derivanti sia dalla mancata indicazione del regime di ammortamento c.d. “alla francese” nel contratto di mutuo bancario nonché alle modalità con cui vengono composte le singole rate di rimborso e determinati gli interessi relativi al capitale.

Tale regime di ammortamento, molto diffuso nella prassi bancaria, prevede la corresponsione di rate costanti di rimborso in cui la quota parte degli interessi è progressivamente decrescente e quella della sorte capitale è progressivamente crescente, essendo dapprima corrisposti prevalentemente gli interessi e poi il capitale via via residuo.

Una prima ricostruzione, restrittiva, ritiene che non deriverebbe alcuna conseguenza di sorta in punto di determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto.

Una seconda ricostruzione, invece, ritiene che la mancata indicazione del regime di ammortamento (nel caso di specie, cd. “alla francese”) avrebbe conseguenze in termini di validità del contratto, facendo leva sul principio di trasparenza bancaria e sul diritto del cliente di ricevere una corretta e trasparente informazione in quanto “parte debole” contrapposta al “bonus argentarius”; ciò soprattutto in relazione al fatto che tale regime di ammortamento potrebbe determinare un significativo incremento del costo del denaro per effetto del regime “composto” di capitalizzazione degli interessi poiché l’interesse prodotto in ogni periodo si sommerebbe al capitale e produrrebbe a sua volta interessi. Secondo questa tesi, la mancata esplicitazione del regime di ammortamento renderebbe indeterminato il tasso con conseguente violazione del requisito della forma ad substantiam e nullità parziale del contratto ex artt. 1346 e 1418 c.c.

Viene sottolineato come una dottrina abbia ammesso l’estraneità di questa tipologia di ammortamento alla tematica dell’anatocismo, rilevando che tale sistema non farebbe incrementare il montante complessivo ma, diversamente, non permetterebbe di farlo scendere nonostante gli avvenuti pagamenti, deprivando in via istituzionale la forza restitutoria dei pagamenti.

Altra dottrina ne contesta la validità sotto il profilo della meritevolezza dell’interesse perseguito e della causa concreta del negozio, argomentando come tale sistema di ammortamento comporti una programmata imputazione dei pagamenti a interessi in misura maggiore che al capitale, con conseguente esigibilità degli interessi prima di quella del capitale a cui sono correlati e per una misura superiore che si assume non consentito ex art. 821, comma 3 c.c.; a tale impostazione si replica tuttavia come sia presente nel sistema civilistico italiano l’istituto degli interessi compensativi che decorrono sul capitale ancorché questo non sia ancora divenuto esigibile. L’obbligazione degli interessi sarebbe quindi “accessoria”, con un vincolo genetico dipeso nella sua vicenda costitutiva dall’obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, separato dalla sua causa genetica con assunzione di una propria autonomia.

In conclusione le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale in corso, hanno dato risposta negativa al quesito oggetto di rinvio, enunciando come nel regime di ammortamento alla francese di tipo standardizzato normale non sia causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione degli interessi.

Contributo in tema di “Mutuo bancario a tasso fisso e mancata indicazione delle indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Proroga unilaterale dell’affidamento di servizio pubblico e corrispettivo dovuto È legittima la proroga unilaterale dell’affidamento di un servizio pubblico e sul corrispettivo dovuto all’affidatario?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, è illegittima la proroga unilaterale dell’affidamento di un servizio pubblico (CGARS 9 luglio 2024, n. 527).

Con riguardo alla vicenda in esame, la società appellante evidenzia come l’originario contratto del 15 marzo 2016 di affidamento del servizio aveva una durata di sessanta mesi, fino al 31 dicembre 2020. Tale contratto veniva dapprima prorogato retroattivamente con D.D.G. 29 dicembre 2021, n. 4536, facendo espresso riferimento all’art. 92, comma 4ter D.L. 18/2020, convertito, con modificazioni, con L. 27/2020. La suddetta proroga è stata poi ulteriormente estesa fino al 30 settembre 2022 e successivamente fino al 28 febbraio 2023 tramite note dell’Assessorato.

Il Collegio osserva che è illegittimo il provvedimento della Regione che imponga, ai sensi dell’art. 92, comma 4ter, D.L. 18/2020, in via unilaterale, la proroga dell’affidamento di un servizio pubblico, in quanto la norma citata – nel consentire la proroga degli affidamenti in atto al 23 febbraio 2020 fino a dodici mesi successivi alla dichiarazione di conclusione dell’emergenza dovuta al virus Covid-19 – presuppone comunque necessariamente il consenso del privato, affidatario del servizio e destinatario della proroga stessa, non potendo tale norma essere interpretata nel senso di consentire all’amministrazione di imporre, in via unilaterale, una proroga al contratto contro la volontà dell’affidatario.

Ad ogni modo, ha natura di danno ingiusto e deve essere risarcito il pregiudizio patrimoniale subito dall’affidatario di un servizio pubblico che abbia continuato a svolgere il servizio alle medesime condizioni economiche nelle more dell’individuazione del nuovo affidatario anche oltre lo svolgimento di una prima procedura andata deserta, in quanto, anche in presenza di una clausola contrattuale che ciò preveda, essa deve essere interpretata secondo buona fede ex art. 1366 c.c., con la conseguenza che la ultravigenza del corrispettivo può estendersi temporalmente fino all’espletamento della prima gara, ma non anche per tutto il successivo periodo di tempo necessario per l’espletamento di ulteriori gare, qualora la prima gara sia andata deserta.

*Contributo in tema di “Proroga unilaterale dell’affidamento di servizio pubblico e corrispettivo dovuto”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria Qualora il donante paghi soltanto una parte del prezzo di un immobile, può configurarsi la donazione indiretta del bene oggetto di compravendita?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

La donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo. – Cass., sez. II, 12 giugno 2024, n. 16329.

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’istituto della donazione indiretta, che si concretizza quando, come nella vicenda in questione, il denaro corrisposto dal disponente contribuisce alla conclusione della compravendita di un bene immobile.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte muove dall’atto con il quale una coerede aveva convenuto in giudizio la sorella, onde ottenere la dichiarazione di apertura della successione della madre, in virtù di testamento pubblico che la nominava erede universale ed istituiva, altresì, un legato in sostituzione di legittima in favore della convenuta. La coerede legataria, con autonoma domanda giudiziale, aveva eccepito la nullità del testamento, lamentando il difetto di forma dell’atto e l’incapacità naturale della de cuius. Qualora, viceversa, il testamento fosse stato ritenuto valido, attesa la rinuncia al legato e l’attribuzione della quota di legittima, in via subordinata aveva chiesto la riduzione della donazione della liberalità disposta dalla defunta madre in favore di parte attrice, avente ad oggetto la metà di un immobile di proprietà della disponente.

Costituendosi in giudizio, la coerede donataria aveva obiettato che, ai fini della formazione della massa ereditaria, avrebbe dovuto tenersi conto anche di altra donazione di diverso immobile già ricevuto dalla sorella.

Il Tribunale, disposto lo scioglimento della comunione su base testamentaria, aveva accertato la composizione della massa ereditaria e, con separata ordinanza, aveva statuito il prosieguo del giudizio per la stima dei cespiti.

Entrambe le coeredi, dunque, avevano impugnato la sentenza non definitiva, eccependone in primo luogo la nullità, per avere il Tribunale deciso in composizione monocratica e non collegiale, in violazione dell’art. 50-bis c.p.c. Una delle appellanti aveva altresì dedotto la nullità del testamento pubblico per falsità dell’atto, dolendosi, anch’ella, dell’incapace di intendere e volere della disponente.

Nel disattendere i suesposti motivi di gravame, la Corte d’Appello aveva osservato che l’erede aveva comunque dato esecuzione alle disposizioni testamentarie, chiedendo che venisse formata la massa ereditaria secondo le volontà testamentarie della madre, asseritamente viziate da nullità.

Nel merito, il Collegio territoriale aveva poi ritenuto provata la donazione indiretta della quota di immobile in favore della coerede, sulla base delle prove raccolte in giudizio, e, ai fini della collazione, aveva ricompreso nella massa ereditaria la ridetta porzione di immobile.

Entrambi le eredi ricorrevano per la cassazione della pronuncia di secondo grado.

L’istante principale censurava la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto provata la donazione indiretta della quota dell’immobile da parte della de cuius alla figlia, contestando l’approssimazione con cui era stato determinato l’apporto della defunta nell’acquisto del bene. Per le medesime ragioni, eccepiva la violazione di legge per avere la Corte d’Appello ricompreso nella massa ereditaria la ridetta quota di un quarto dell’immobile donato.

Con ricorso incidentale, infine, l’altra coerede reclamava la nullità della gravata sentenza, poiché la Corte distrettuale si era limitata ad esaminare i motivi di impugnazione e non anche il merito della causa, omettendo di pronunciarsi sulle ulteriori domande proposte dalla ricorrente in sede di ricorso in appello.

Scrutinando il gravame principale, nella sentenza in argomento la Corte di Cassazione basa il proprio iter motivazionale su un consolidato orientamento delle Sezioni Unite, in forza del quale, in ipotesi di acquisto di immobile con denaro proprio del disponente, ed intestazione ad altro soggetto che il donante intenda, in tal modo, beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene. Per l’effetto, il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario integra donazione indiretta del bene stesso, e non anche del denaro.

Da tanto discende che, in caso di collazione, il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, e non il denaro impiegato per il suo acquisto (così anche Cass., Sez. Un., 5 agosto 1992, n. 9282).

Ciò premesso, la Corte prosegue illustrando che, in epoca successiva all’intervento delle Sezioni Unite si sono andati formando due orientamenti contrapposti, con riguardo alla configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile in caso di corresponsione da parte del donante di una parte del prezzo.

Secondo un primo arresto, la donazione indiretta dell’immobile non si configura quando il donante paga soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una differente modalità di attuazione dell’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo (così anche Cass., sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149).

Un differente orientamento, invece, ha concluso che l’oggetto della donazione indiretta è caratterizzato dal meccanismo della corresponsione da parte del donante delle somme necessarie a soddisfare l’obbligo di pagamento del corrispettivo della vendita effettivamente compiuta da parte del donatario (così anche Cass., sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759).

Condividendo la prima delle due impostazioni illustrate, nell’esaminanda pronuncia la Cassazione ripropone la distinzione, ai fini della collazione, tra erogazione dell’intero costo del bene immobile e corresponsione di una parte di esso.

Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, è configurabile una donazione indiretta solo nel caso in cui l’intero costo del bene sia stato sostenuto dal donante, con conseguente imputazione, ai fini della collazione, della corrispondente quota del cespite.

Per tali motivazioni, il caso in contestazione non può ricondursi alla fattispecie della donazione indiretta di immobile, atteso che solo una parte del prezzo era stata corrisposta, nella vicenda di specie, dalla de cuius.

La sentenza in commento risulta altresì interessante per quanto statuito, in punto di rito, all’esito dello scrutinio del proposto gravame incidentale.

Invero, ritiene la Cassazione che la Corte distrettuale si sarebbe limitata soltanto ad esaminare i motivi d’appello, e non anche il merito della causa, posto che la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado non comportava la remissione della causa al primo Giudice. Nel caso in discussione, pertanto, sussiste il vizio di omessa pronuncia sulle ulteriori domande proposte dalle parti, tanto in via principale, quanto in via subordinata, con conseguente rinvio al Collegio territoriale in diversa composizione.

*Contributo in tema di “Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Furto di energia elettrica e circostanza aggravante In caso di furto di energia elettrica, la natura della circostanza aggravante dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio, di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p., ai fini di formularne la contestazione, ha natura auto-evidente o valutativa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

 

Nel caso di furto di energia elettrica, stante la natura valutativa e non auto-evidente della circostanza ex art. 625, comma 1, n. 7, c.p., essa deve essere esplicitamente contestata al fine di permettere all’imputato di esercitare efficacemente il proprio diritto di difesa. – Cass., sez. V, 14 giugno 2024, n. 23918.

Rispetto alle modalità con le quali deve essere contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio sussiste un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Per una prima impostazione interpretativa, dato che l’aggravante è di natura auto-evidente in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è, di per sé, un bene funzionalmente destinato al pubblico servizi, sarebbe legittima la contestazione posta in essere senza una specifica ed espressa formulazione che la menzioni.

Altro orientamento, invece, siccome ritiene che l’aggravante predetta abbia natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli svelte del legislatore, non considera legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l’aggravante configurata solo dal fatto che i beni oggetto di sottrazione siano destinati al pubblico servizio.

Rammentate le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite “Sorge del 2019 (n. 24906) secondo cui “la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”, diversamente dai casi in cui, per le aggravanti, la previsione normativa include componenti valutative, ossia modalità della condotta integrative dell’ipotesi aggravata solo in presenza di particolari connotazioni qualitative e quantitative, i Giudici di legittimità propendono per il secondo orientamento.

In particolare, pur considerando indubbia la rilevanza pubblicistica di un bene come l’energia, la Suprema Corte ha ritenuto che ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 625 c.p. è la concreta destinazione (piuttosto che la natura) del bene a un pubblico servizio, elemento che non può essere considerato alla stregua di un connotato intrinseco e auto-evidente data la pluralità di destinazioni che il bene-energia può avere e che, dunque, richiede una valutazione da parte dell’interprete, anche riguardo a norme extra-penali, in continua evoluzione.

A conferma di tale interpretazione vi sarebbe la lettera stessa dell’art. 625 c.p. che prevede, al suo interno, la compresenza di due diverse ipotesi di aggravanti, quelle previste dal n. 7 e dal n. 7bis (relativa alla commissione del fatto su componenti metalliche o altro materiale sottratto a infrastrutture destinate all’erogazione), legate tra loro da un rapporto di specialità.

Ritenuta la natura valutativa della circostanza, risulta necessario che il capo di imputazione sia formulato anche con specifico riferimento a una serie di elementi descrittivi e qualificativi relativi alla circostanza aggravante dell’essere il bene sottratto destinato a pubblico servizio così da rendere pienamente esercitabili i diritti di difesa dell’imputato. Necessità che deriva anche dal livello di tutela preteso a riguardo dall’art. 6, par. 3, lett. a) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che individua, tra i canoni dell’equo processo, come elemento prodromico ai fini della difesa il rendere in concreto edotto l’imputato della prospettazione accusatoria formulata a suo carico in tutte le sue componenti.

Contributo in tema di “Furto di energia elettrica”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene L’onere probatorio in caso di violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene può essere soddisfatto mediante elementi presuntivi?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore. – Cass. 27 giugno 2024, n. 17758.

L’oggetto della materia del contendere di cui al caso in esame ha riguardato il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta ad una distanza inferiore a quella minima rispetto al balcone del fondo limitrofo.

In sede di appello, la Corte ha rigettato la domanda risarcitoria in quanto, oltre ad aver ritenuto insussistente il danno alla salute, la parte onerata non avrebbe allegato e provato il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene: per tali ragioni è stato infine proposto ricorso per Cassazione.

Spiegano i giudici di ultima istanza che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi ex art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione di pericolosità assoluta se prevista da norme comunali di tipo regolamentare ovvero relativa in assenza di esse.

Nondimeno, la violazione della distanza della canna fumaria dal balcone di proprietà di parte attrice è stata accertata assieme alla sua intrinseca pericolosità attesa altresì la sua composizione in amianto e le scarse condizioni manutentive; ciò che la Corte territoriale ha omesso di valutare tuttavia, ancorché in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante all’esposizione a materiali nocivi abbia limitato il godimento del bene a prescindere dalle immissioni dello stesso.

È stato dato seguito al principio di diritto elaborato dalla sez. II della Corte di Cassazione (Cass., sez. II, 18 luglio 2013, n. 17635) e poi ripreso dalle Sezioni Unite del 2022 (Cass., Sez. Un., 15 luglio 2022, n. 33645) secondo cui, “in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria” nonché nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” debba essere sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale” privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze.

Nel caso di specie, rilevano i giudici della Suprema Corte, avrebbe errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria per l’assenza di un danno effettivo alla salute, senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a compromettere il godimento del bene, dovendo accertare se, per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile.

Tale provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con l’orientamento maggioritario (e accolto dalla sent. Cass., sez. II, 23 giugno 2023, n. 18108) secondo cui l’esistenza di un danno risarcibile ben può fondarsi su presunzioni quando vengono soppresse o limitate le facoltà di godimento e disponibilità di cui il bene ne è oggetto.

Per tali ragioni, il ricorso è stato accolto e la Corte ha disposto il rinvio ai giudici dell’appello che, in diversa composizione, dovranno conformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

(*Contributo in tema di “Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica