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Infiltrazioni: mancato godimento immobile per inagibilità procurata da terzi L’inutilizzabilità di un immobile per infiltrazioni causate da terzi dà luogo a un danno che deve essere risarcito in via presuntiva?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

Nell’ipotesi di perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito, sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato; a fronte della specifica contestazione del convenuto, la prova può essere fornita anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (Cassazione, sez. II, 2 dicembre 2024, n. 30791).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla risarcibilità del danno per mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da un’attività colposa di terzi.

In primo e secondo grado il proprietario di un appartamento danneggiato da alcune infiltrazioni provenienti da una soprastante terrazza aveva chiesto, nei confronti del condominio e del proprietario dell’immobile di cui la terrazza era proiezione, di essere risarcito, fra l’altro, dei danni derivanti dalla mancata utilizzazione del proprio appartamento. La domanda in questione era stata rigettata in entrambi i gradi di giudizio sulla scorta dell’assunto secondo cui il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile era stato solo allegato, ma non provato dal presunto danneggiato, il quale, per poter ottenere il risarcimento, avrebbe dovuto dimostrare di aver ricevuto concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile.

Il danneggiato, con il ricorso per cassazione, ha quindi lamentato la mancata applicazione, da parte della Corte di merito, degli approdi della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in tema di prova presuntiva del danno da mancato godimento del bene.

La Corte di cassazione, con la decisione in commento, ha accolto questo motivo di ricorso.

Nel proprio percorso argomentativo la Corte ha richiamato Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645, la quale, operando una mediazione fra la teoria normativa del danno e quella causale, ha affermato che in caso di occupazione senza titolo di un immobile da parte di un terzo, il danno da perdita del godimento del bene possa essere provato anche in via presuntiva.

In particolare, la Corte ha ricordato i passaggi fondamentali della citata sentenza delle Sezioni Unite, ovverosia che in caso di occupazione illegittima di un immobile: i) il danno evento è rappresentato dalla lesione del diritto di godere della cosa e non già da un pregiudizio cagionato al bene oggetto del diritto di proprietà; ii) il danno conseguenza è la perdita della concreta possibilità di godimento – diretto o indiretto – del bene, quale conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto di godimento; iii) il danneggiato ha l’onere di allegare la concreta possibilità di godimento perduta e, a fronte della specifica contestazione del convenuto, ha l’onere di fornirne la prova, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

La pronuncia in commento ha precisato che il principio affermato da Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645 debba trovare applicazione anche nel caso – come quello oggetto del giudizio – in cui la perdita del godimento sia dovuta all’inagibilità dell’immobile causata da un’attività colposa di terzi.

Sulla scorta di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha rilevato come il giudice di seconde cure avesse erroneamente rigettato la domanda di risarcimento del danno per la perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello, per l’applicazione del principio di diritto riportato nella massima.

 

(*Contributo in tema di “Infiltrazioni: mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da terzi”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il danno morale costituisce una duplicazione del danno biologico?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus, con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass., sez. III, 14 novembre 2024, n. 30461).

Il giudizio di merito trae origine da un’azione di risarcimento danni intentata iure proprio e altresì come rappresentante legale della persona offesa dalla coniuge di un uomo rimasto invalido al 90% a seguito di una caduta su scala mobile interna ad una clinica ospedaliera, in cui si era recato a seguito di un malore e da cui era stato dimesso dopo esservisi recato per due giorni consecutivi. Il giudice di prime cure ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei medici che hanno dimesso il paziente e della clinica, decisione altresì confermata dalla Corte di Appello in sede di impugnazione, la quale ha tuttavia ridotto l’ammontare del danno in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato.

Con ricorso per Cassazione, la coniuge ha impugnato la decisione di merito, deducendo anzitutto l’illogicità dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico in caso di premorienza, che hanno comportato una riduzione del danno risarcibile a causa della morte del danneggiato in pendenza di giudizio. Secondo le tabelle milanesi utilizzate dalla Corte di Appello, infatti, l’invalidità permanente inciderebbe in misura maggiore all’inizio e in maniera progressivamente decrescente con il trascorrere del tempo, sino alla morte del soggetto leso.

La Suprema corte ha accolto le censure della ricorrente, poiché secondo costante e recente giurisprudenza in caso di premorienza per cause avulse dall’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, non già a quella statisticamente probabile, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass., sez. III, 29 maggio 2024, n. 15112).

Ulteriore motivo di doglianza è stata altresì l’omessa liquidazione del danno da invalidità temporanea, che a parere della ricorrente è diverso ed ultroneo dal danno biologico da premorienza. Anche per la Cassazione si tratta, infatti, di due voci di danno diverse: il danno da premorienza è il danno biologico permanente che, data la morte, cessa e che – pertanto – richiede una liquidazione parametrata sull’effettivo vissuto, cioè per la durata dell’invalidità permanente, senza che però ciò inglobi ex se il danno cagionato dall’invalidità temporanea, che va liquidato a parte.

Infine, la ricorrente ha lamentato l’omessa liquidazione del danno morale soggettivo, sull’assunto del giudice di merito per cui esso sarebbe una duplicazione del danno biologico. La Corte di cassazione ha – di contro – ribadito il principio consolidato per cui il danno morale costituisce un’autonoma voce del danno non patrimoniale. Esso va allegato e provato, ma è disgiunto dal danno biologico, al punto che esso può prodursi anche senza che il danneggiato abbia subito una lesione del diritto alla salute, come nel caso del danno all’onore o alla reputazione.

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti comprende, oltre al danno biologico, il danno morale, cioè la sofferenza interiore cagionata al danneggiato, nonché il danno esistenziale o dinamico-relazionale, ove la lesione abbia un impatto negativo sulla vita quotidiana. Trattasi, dunque, di tre voci di danno non patrimoniale che sono autonomamente risarcibili, salvo l’onere della prova in capo al richiedente.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Pubblico impiego, procedure concorsuali e titoli di preferenza È necessaria la comunicazione già all’atto di partecipazione al concorso del possesso del titolo preferenziale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, i giudici di Palazzo Spada evidenziano che non è necessaria la comunicazione già all’atto di partecipazione al concorso del possesso di titoli di preferenza quale elemento fondamentale, determinante la perdita del titolo medesimo (Cons. Stato, sez. V, 3 dicembre 2024, n. 9667).

Il Consiglio di Stato, nella fattispecie in esame, ha evidenziato che non è necessaria la comunicazione, già all’atto di partecipazione al concorso, del possesso del titolo preferenziale quale elemento fondamentale, determinante la perdita del titolo medesimo.

L’art. 5 del D.P.R. 487/1994 prevede che i titoli di preferenza sono valutabili sebbene non dichiarati nella domanda di partecipazione, ma posseduti all’atto della stessa ed esibiti nei termini previsti dal bando, in caso di superamento delle prove selettive.

Infatti, i titoli di preferenza, a differenza dei titoli di merito, non sono oggetto di esame da parte della commissione giudicatrice, ma vengono in considerazione solo dopo lo svolgimento delle prove selettive, al momento della redazione della graduatoria di merito.

 

(*Contributo in tema di “Pubblico impiego, procedure concorsuali e titoli di preferenza”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT della PA In tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica, si determina un vuoto di tutela?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica non si determina un vuoto di tutela, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2024, n. 30220).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che: “In tema di impugnazione dell’elenco annuale ISTAT delle pubbliche amministrazioni predisposto ai sensi del SEC 2010, l’art. 23quater D.L. 137/2020, nel delimitare la giurisdizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite alla sola applicazione della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non ha determinato un vuoto di tutela o il mancato rispetto dell’effetto utile della disciplina unionale, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo”.

Pertanto, la Cassazione conferma la centralità dell’art. 103 Cost., che attribuisce alla Corte dei Conti una giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, senza tuttavia precludere al legislatore di ridefinirne i confini per esigenze di sistema. Inoltre, ribadisce che il sistema italiano è compatibile con il principio di effettività, affidando al G.A. il controllo sugli aspetti procedurali e di legittimità e alla Corte dei Conti il compito di vigilare sugli effetti contabili della spesa pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA.”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto con strappo e rapina Il contegno con cui il reo asporta una res particolarmente aderente al corpo della vittima è sussumibile nella fattispecie di furto con strappo o in quella più grave della rapina?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Il soggetto agente che, con violenza sulla cosa, sottrae un bene strettamente aderente al corpo della persona offesa e se ne impossessa commette il delitto di cui all’art. 628 c.p., indipendentemente dalla volontaria resistenza della vittima o dalle ecchimosi da questa subite, in quanto, per superare la fisiologica opposizione posta dal corpo e conseguire, quindi, il risultato atteso, la violenza sulla cosa si estende necessariamente alla persona e si sviluppa su di essa (Cass., sez. II, 17 ottobre 2024, n. 45589 (Furto con strappo e rapina).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità sono stati chiamati a sciogliere i nodi circa la qualificazione di una peculiare fattispecie in cui l’imputato si è reso autore dell’impossessamento di una collana particolarmente stretta al collo di una signora ultrasessantenne e in condizioni di vulnerabilità, in quanto rimasta vittima di tale condotta criminosa all’interno del suo domicilio cui il reo ha avuto accesso mediante artifizi e raggiri.

In sede di giudizio abbreviato il soggetto agente è stato condannato con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Modena, riconosciuto il vincolo della continuazione e, quindi, della medesimezza del disegno criminoso, per il delitto di truffa aggravata e rapina aggravata, sentenza questa che è stata, tra l’altro, confermata dalla Corte d’appello di Bologna.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il reo, per mezzo del suo difensore, ha esperito ricorso per cassazione per omessa motivazione e manifesta illogicità della stessa circa alcuni profili dedotti nell’atto di appello.

Il difensore, innanzitutto, ha contestato che il giudice di merito abbia, erroneamente e senza adeguata motivazione, privilegiato la seconda versione dei fatti resa con la querela, quest’ultima successiva all’annotazione della P.G rispetto alla quale risulta contraddittoria.

Infatti, nelle dichiarazioni fornite alla P.G. il giorno in cui si è perfezionato e consumato il reato la persona offesa – per come dedotto nella censura di legittimità – non ha fatto riferimento alcuno alla violenza perpetrata dal reo.

Inoltre, il ricorrente ha lamentato la mancata riqualificazione del fatto in furto con strappo ai sensi dell’art. 624bis c.p.

La violenza eventualmente cagionata dall’imputato – sostiene il difensore – era diretta nei confronti della res senza alcun coinvolgimento della persona offesa, in quanto quest’ultima non opponeva alcuna resistenza all’agire delittuoso.

La seconda sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto logica la motivazione della Corte d’appello circa l’accoglimento della seconda versione fornita dalla vittima mediante querela, in quanto risultante più circostanziata e maggiormente attendibile per la maggiore lucidità psicologica caratterizzante la persona offesa.

Inoltre, la Cassazione con il suo arresto ha ribadito il principio di diritto espresso in una sua precedente decisione Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 34206, nella quale la linea di demarcazione tra furto con strappo e rapina è stata individuata nella direzione della violenza sprigionata dal soggetto agente.

In particolare, il furto con strappo si configura quando la violenza si rivolge direttamente alla cosa, indipendentemente dai riflessi indiretti e involontari che la vittima possa subire a causa della relazione fisica tra la stessa e il bene posseduto. Per contro, si realizza il delitto di rapina nel momento in cui la violenza è diretta alla persona o si sviluppa sulla medesima e, comunque, anche quando viene esercitata per vincere la sua resistenza attiva (così anche Cass. pen., sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2553).

Ciò nonostante, con quest’illuminante sentenza gli Ermellini sono andati oltre e hanno approfondito con un’interessante argomentazione la vexata quaestio circa il confine tra le due tipologie di reato.

Nel caso specifico si è precisato che, quando la cosa che si intende asportare è particolarmente aderente al corpo del possessore, la violenza perpetrata sul bene si estende inevitabilmente anche alla persona (così anche Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41464).

Icasticamente nella fattispecie in questione il soggetto attivo, per raggiungere il risultato criminoso atteso, ha dovuto superare non solo la forza di coesione inerente alla relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, ma altresì la materiale opposizione determinata dal corpo della vittima, per cui qui lo strumento con cui si è realizzata la sottrazione non è tanto lo strappo, quanto la violenza stessa (così anche Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 16899).

La configurazione della rapina, peraltro, non è ostacolata dalla circostanza che la persona offesa non abbia subito alcuna contusione o lesione, in quanto lo strappo della collana determina un inconfutabile esercizio di energia fisica sul collo della donna che si concretizza, quindi, in una violenza sulla persona, elemento quest’ultimo costitutivo ai sensi dell’art. 628 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Furto con strappo e rapina”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Falsa testimonianza e timore di subire lesioni La falsa testimonianza determinata dall’altrui minaccia di un danno grave all’incolumità del deponente è scriminata per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 384 c.p. o, in subordine, dello stato di necessità?

Quesito con risposta a cura di Leonarda di Fonte e Francesco Trimboli

 

In tema di falsa testimonianza, il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o incolumità a causa della deposizione non integra la scriminante di cui all’art. 384 c.p, ma potrebbe al più configurare la causa di giustificazione dello stato di necessità, purché siano accertate in concreto dal giudice di merito le condizioni richieste dall’art. 54 c.p. (Cass., sez. VI, 10 dicembre 2024, n. 45261).

Nel caso specifico i Giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere sulla configurabilità della scriminante ai sensi dell’art. 384 c.p. e, alternativamente, dello stato di necessità in caso di falsa deposizione indotta dal pericolo di subire ritorsioni sulla propria persona dall’organizzazione criminale di tipo mafioso di cui era membro il destinatario delle dichiarazioni testimoniali.

La fase dibattimentale del giudizio di primo grado era stata omessa, in quanto l’imputato ha chiesto l’ammissione al giudizio abbreviato all’esito del quale era stata pronunciata dal G.u.p sentenza di condanna per il delitto a lui ascritto di falsa testimonianza.

In secondo grado la sentenza di condanna è stata riformata dalla Corte d’appello, la quale ha assolto il reo con la formula “il fatto non costituisce reato”, in quanto l’antigiuridicità era esclusa dalla sussistenza dell’esimente ai sensi dell’art. 384 c.p.

Contro la sentenza di condanna della Corte territoriale il Procuratore generale della Corte medesima ha proposto ricorso per cassazione per due motivi di violazione di legge.

In particolare, il P.G. ha censurato la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 384 c.p, in quanto nel caso di specie il timore di subire un pregiudizio era ipotetico e supposto e concerneva l’incolumità personale, ossia un bene giuridico differente dalla libertà o dall’onore indicati dalla norma.

Inoltre, ha contestato alla Corte d’appello l’accertamento del difetto dell’elemento psicologico del dolo in capo al reo.

La sesta Sezione della Corte di cassazione con la decisione in questione ha accolto il ricorso e, conseguentemente, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti ad altra sezione territoriale per un nuovo giudizio sul punto.

Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno ribadito quanto enunciato in una loro recente sentenza Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 2024, n. 27411, secondo cui la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. dev’essere esclusa quando il teste rende la falsa testimonianza per il timore di un nocumento successivo alla vita o all’incolumità propria, circostanza nella quale piuttosto può configurarsi lo stato di necessità.

I Giudici di legittimità, quindi, si sono soffermati sul requisito dell’attualità del pericolo di cui all’art. 54 c.p., il quale sussiste quando, durante la condotta criminosa del reo, ci sia la ragionevole minaccia di una causa prossima e imminente del danno accertata alla luce di una serie di circostanze concrete, tra cui circostanze di tempo e di luogo, tipo di danno temuto e la sua possibile prevenzione (così anche Cass., sez. I, 2 giugno 1988, n. 4903).

Tra l’altro, lo stato di necessità può ricorrere anche quando è determinato dall’altrui minaccia ai sensi dell’art. 54, comma 3 c.p., in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità, con il richiamo di un precedente arresto Cass. pen., sez. III, 2 febbraio 2022, n. 15654, specifica che il pericolo attuale di un danno grave alla persona non dev’essere necessariamente imminente, ma può essere altresì “perdurante”, per cui il pregiudizio minacciato può verificarsi anche in un prossimo futuro

Infine, la scriminante de qua può essere riconosciuta anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59, comma 4 c.p. quando il soggetto agente dimostra, alla luce di dati di fatto concreti e prodotti in giudizio, che la sussistenza dell’attualità o inevitabilità del pericolo sia stata da lui erroneamente supposta senza colpa (così anche Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2024, n. 30592; Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 2019, n. 2241).

Ciò premesso, la Corte conclude con l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio della decisione nel merito alla Corte d’appello, in quanto in base alla motivazione della decisione censurata dal P.G. non è stato possibile accertare la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dall’art. 54 c.p. per lo stato di necessità (ancorché anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59 c.p.) diretta a detergere l’antigiuridicità della falsa testimonianza perpetrata dall’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Falsa testimonianza”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici In materia di beni demaniali gravati da usi civici spetta al Comune il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Deve ritenersi che al Comune spetta il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata di tali beni (Cass., Sez. Un., 14 ottobre 2024, n. 26598). 

I Giudici evidenziano che, in materia di demanio e patrimonio e, più nel dettaglio, di beni gravati da usi civici, deve ritenersi che al Comune spetti il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata da tali beni, la quale succede all’ente locale e subentra nei rapporti da questo già instaurati.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che: “Già la L. 1766/1927, quanto all’individuazione del soggetto cui affidare la rappresentanza degli interessi della collettività, nonché l’amministrazione dei beni interessati da uso civico, optò a favore del Comune, in quanto individuato come ente particolarmente vicino ai fruitori del diritto. Ancorché, secondo la prevalente opinione della giurisprudenza, la proprietà dei beni resti in capo alla collettività dei cittadini (trattandosi di un’entità che di norma preesiste alla stessa istituzione dell’ente locale), la citata legge, accanto ai Comuni ha altresì previsto, nel caso in cui i diritti di uso civico siano riferibili agli abitanti di una frazione, e non all’intero territorio comunale, che vengano costituite le amministrazioni separate, le quali, pur senza acquisire una personalità giuridica (nella legge statale), sono munite di una soggettività giuridica, in quanto centro di imputazione degli interessi della collettività installata nella frazione”.

Nello specifico caso esaminato, l’istituzione dell’amministrazione separata avvenuta solo successivamente all’entrata in vigore della legge della provincia di Trento 6/2005, ha comportato la legittima amministrazione e gestione da parte del Comune, in vista della tutela degli interessi degli abitanti della frazione.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Dichiarazione di interesse culturale di un bene È legittimo il provvedimento della Soprintendenza di dichiarazione di interesse culturale di un bene che applichi in concreto, pur non facendone espressa menzione, i criteri individuati dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il provvedimento anche alla luce della necessaria valutazione di tipo globale e sintetico e posto che l’interesse culturale dell’opera venga espresso in considerazione della norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione, per cui il privato ha l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso da quest’ultima sia scientificamente inaccettabile (Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285).

Il Collegio ricorda che, ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del D.Lgs. 42/2004, il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (il c.d. vincolo diretto) è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, in quanto implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Sulla scorta di tanto, l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecniche e del procedimento applicativo prescelto (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).

Emerge, dall’elaborazione a cui il Collegio dà continuità, che il presupposto del potere ministeriale di vincolo viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione. Ne consegue, dunque, che se è vero che l’interessato può “contestare anche il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso” ha tuttavia l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione, pur non avendone fatta espressa menzione, ha applicato in concreto i criteri individuati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974 (e recepiti dal D.M. 6 dicembre 2017, n. 537), approdando ad una valutazione finale supportata da adeguata motivazione. Motivazione in linea con i già indicati criteri che svolgono un ruolo di mero indirizzo rispetto alla spendita delle potestà di discrezionalità tecnica attribuite all’amministrazione tutoria e pongono parametri compositi da applicare, senza alcun automatismo, in maniera congiunta nell’ambito di un giudizio di tipo globale e sintetico.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di interesse culturale di un bene”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto lieve per stato di necessità L’ipotesi di furto lieve per bisogno può essere riconosciuta in presenza di una situazione di grave indigenza, anche se il valore della merce sottratta supera quello comunemente considerato “tenue”?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di Cassazione ha precisato che il delitto di furto lieve, motivato da esigenze di necessità, può essere riconosciuto nei casi in cui l’oggetto sottratto abbia un valore modesto e sia destinato a soddisfare una necessità grave e urgente. Tale principio stabilisce che, per qualificare l’imputazione come furto lieve anziché come furto comune, non è sufficiente un generico stato di bisogno o di miseria da parte del colpevole; è, invece, necessaria una condizione di urgenza, per la quale non vi siano alternative praticabili se non la sottrazione dell’oggetto stesso (Cass. sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937). (Cass., sez. IV, 6 novembre 2024, n. 40685).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per tentato furto di generi alimentari e prodotti per la cura personale, ritenendo non sussistente lo stato di necessità invocato dalla ricorrente. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato le circostanze oggettive che attestavano un grave stato di malnutrizione e indigenza della ricorrente, la quale era stata descritta come una persona senza fissa dimora e in condizioni di estrema vulnerabilità.

La Corte ha evidenziato che la semplice valutazione del valore dei beni sottratti, superando i cento euro, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di furto lieve per necessità, in quanto la merce era destinata a soddisfare un’urgenza alimentare. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello affinché riesamini la situazione in conformità ai principi giuridici esposti. La Corte ha ribadito che l’analisi del comportamento dell’imputato deve tener conto delle specifiche circostanze di vita e delle necessità in cui si trova.

In conclusione, la decisione della Cassazione evidenzia l’importanza di un’analisi approfondita delle condizioni di fatto che possono giustificare una condotta di furto lieve per bisogno, richiamando l’attenzione sulla differenza tra lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. e l’ipotesi di furto lieve per bisogno di cui all’art. 626 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)