invalidità del matrimonio civile

Cause di invalidità del matrimonio civile Cause di invalidità del matrimonio civile: nullità e annullabilità, procedura, conseguenze e giurisprudenza

Invalidità del matrimonio civile

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge. In alcuni casi, possono verificarsi infatti situazioni che rendono nullo o annullabile il matrimonio. L’invalidità del matrimonio si verifica quindi quando manca uno degli elementi essenziali previsti dalla normativa italiana, difetto che comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Le cause di invalidità del matrimonio civile

Le cause di invalidità del matrimonio civile sono disciplinate dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 117-129 bis. Esse si dividono in cause di nullità e cause di annullabilità.

1. Nullità assoluta del matrimonio

Un matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, compreso il Pubblico Ministero. Le principali cause di nullità sono:

Matrimonio contratto in violazione degli impedimenti assoluti (art. 117 c.c.), ad esempio:

  • Matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • Matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle
  • Matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

2. Annullabilità del matrimonio

L’annullabilità riguarda situazioni in cui il matrimonio è valido, ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti. Le cause principali sono:

  • Incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • Minore età senza autorizzazione.
    • Interdizione per infermità mentale.
  • Errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • Ad esempio, se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi.
  • Matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • Se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

Procedura di annullamento del matrimonio

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario.

  • L’azione di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo.
  • L’azione di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente un anno dalla scoperta del vizio).

Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Conseguenze invalidità matrimonio civile

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge, riacquisto della libertà di stato;
  • cessazione degli obblighi coniugali: i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci;
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici: cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio;
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito interpretazioni importanti sui casi di invalidità del matrimonio.

Cassazione n. 1772/2024

In ambito matrimoniale, la validità di un matrimonio putativo, ovvero un matrimonio nullo ma considerato valido per gli effetti civili a causa della buona fede di almeno uno dei coniugi, è regolata dal principio generale di presunzione di buona fede. Questo significa che, al momento della celebrazione del matrimonio, si presume che entrambi i coniugi fossero in buona fede, cioè che ignorassero le cause di nullità del matrimonio. Di conseguenza, chiunque contesti la validità del matrimonio putativo o la buona fede di uno dei coniugi, ha l’onere di dimostrare la loro mala fede.

Tribunale di Livorno 12 luglio 2024

L’errore sulle qualità personali del coniuge è considerato essenziale e può portare all’annullamento del matrimonio solo se, conoscendo la verità, l’altro coniuge non avrebbe dato il suo consenso. Questo vale specificamente per errori riguardanti malattie fisiche o psichiche, o anomalie sessuali, che impediscono la normale vita coniugale. Tuttavia, la semplice mancata conoscenza del sesso originario del coniuge non è sufficiente per annullare il matrimonio. Considerata la durata di 18 anni del matrimonio e l’intenzione di adottare, la richiesta di annullamento deve essere respinta.

Corte di Cassazione n. 28409/2023

il matrimonio può essere annullato se uno dei coniugi, al momento della celebrazione, era incapace di intendere e di volere. Questa incapacità deve essere di tale gravità da impedirgli di comprendere il significato e le conseguenze del matrimonio. In altre parole, non è sufficiente una semplice immaturità o fragilità emotiva, ma è necessario che la persona si trovasse in uno stato patologico che avesse compromesso significativamente le sue facoltà mentali, rendendola incapace di esprimere una volontà cosciente. Tale condizione deve essere assimilabile a un grave deficit psichico, tale da annullare la capacità di comprendere appieno l’atto matrimoniale.

assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori: legittimo escludere i richiedenti asilo Per la Corte Costituzionale è legittima l'esclusione dei richiedenti asilo dall'assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori

Con la sentenza n. 40 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), del decreto-legge 8 giugno 2021, n. 79 (convertito con modifiche dalla legge 30 luglio 2021, n. 112), che disciplina l’assegno temporaneo per i figli minori.

Le questioni erano state sollevate dal Tribunale di Padova, adito da una cittadina extracomunitaria, madre di due minori e titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, alla quale l’INPS aveva negato l’assegno temporaneo in quanto priva del requisito del titolo di soggiorno previsto dalla norma (permesso UE per soggiornanti di lungo periodo o permesso per lavoro o ricerca di durata non inferiore a sei mesi).

Nessun contrasto con la Costituzione

Il giudice a quo aveva ipotizzato un contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione, ritenendo irragionevole l’esclusione di soggetti in stato di bisogno sulla sola base del titolo di soggiorno. Tuttavia, la Corte ha ritenuto infondate le censure.

Secondo i giudici costituzionali, l’assegno temporaneo non rientra tra le prestazioni sociali essenziali a tutela dei diritti inviolabili della persona. Si tratta, piuttosto, di una misura volta a incentivare la genitorialità, connessa a specifiche condizioni economiche, e destinata a essere assorbita dall’assegno unico universale previsto dal d.lgs. n. 230/2021.

I richiedenti asilo e le altre tutele previste

La Corte ha sottolineato che ai richiedenti asilo e ai loro familiari sono già garantiti diversi strumenti di tutela, tra cui l’assistenza sanitaria, l’accesso all’istruzione per i minori e la possibilità di svolgere attività lavorativa, idonei a fronteggiare i bisogni primari.

Una volta riconosciuta la protezione internazionale o sussidiaria, i beneficiari accedono alle medesime prestazioni sociali previste per i cittadini italiani, compreso l’assegno per i figli.

Discrezionalità legislatore e principio ragionevolezza

In conclusione, la Consulta ha ribadito che il legislatore, nel rispetto del principio di ragionevolezza e tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie, può prevedere criteri selettivi o escludere determinate categorie di stranieri dall’accesso a prestazioni sociali non essenziali. L’esclusione dei richiedenti asilo dall’assegno temporaneo, quindi, non risulta lesiva dei principi costituzionali.

genitore sulla cie

La Cassazione ripristina la parola “genitore” sulla CIE La parola “genitore” sulla CIE è maggiormente rappresentativa della realtà sociale attuale delle famiglie con due padri o con due madri

Cassazione: “genitore” sulla CIE

C’è la possibilità di indicare il termine “genitore” sulla CIE al posto delle tradizionali diciture “padre” e “madre”? Su questo tema si è espressa la Corte di Cassazione (sentenza n. 9216/2025) sul ricorso del Ministero dell’Interno avverso le sentenze di primo e secondo grado, entrambe favorevoli a una coppia omogenitoriale.

“Genitore”: rappresentazione più aderente alla realtà

La vicenda portata all’attenzione degli Ermellini prende origine dal Tribunale di Roma, che ordina al Ministero dell’Interno di modificare la modalità di compilazione della CIE per un minore con due madri – una biologica, l’altra adottiva.

Il giudice stabilisce che, disapplicando il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019, occorre riportare sulla carta la dicitura “genitore” o, in alternativa, formule inclusive come “padre/genitore” e “madre/genitore”.

La decisione viene confermata anche dalla Corte d’Appello di Roma. Il modello ministeriale impone in effetti una rappresentazione familiare non più aderente alla realtà giuridica, come dimostrato dalla presenza, sempre più frequente, di famiglie con due genitori dello stesso sesso. In particolare, l’adozione in casi particolari – disciplinata dalla legge 184/1983 – è idonea a creare un legame di piena parentela, e quindi a legittimare la richiesta di un’identificazione coerente del genitore adottivo anche nei documenti d’identità del minore.

“Padre e madre” sulla CIE: discriminatorio

Il Ministero dell’Interno di fronte alla Cassazione solleva però tre motivi di doglianza nei confronti della sentenza della Corte d’Appello.

Il primo denuncia un vizio di motivazione della sentenza della Corte d’Appello, perché carente e generica. La Cassazione però ritiene infondata la critica. La Corte territoriale ha infatti esaminato tutte le doglianze, rigettandole in modo esplicito e motivato, sottolineando come la scelta del Ministero generi discriminazione e irragionevolezza, precludendo al minore la possibilità di ottenere una CIE valida per l’espatrio.

Il secondo motivo contesta la disapplicazione del decreto ministeriale, perché lesiva del principio di bigenitorialità e contraria al quadro normativo vigente. Anche in questo caso però la Cassazione dimostra di pensarla diversamente. Gli Ermellini ricordano che il decreto in questione ha carattere meramente tecnico e non normativo. Lo stesso inoltre si pone in contrasto con l’art. 3, comma 5, del T.U.L.P.S., che consente l’indicazione del termine “genitori” nella CIE. Il termine neutro è più adeguato per rappresentare la realtà giuridica di famiglie con due madri o due padri. In questo modo si tutela il diritto del minore all’identità e alla verità affettiva e giuridica della propria famiglia.

Il terzo motivo infine sostiene che l’indicazione dei termini “padre” e “madre” è obbligatoria in virtù della disciplina dello stato civile, la quale prevede solo tali qualificazioni. La Cassazione però esclude la fondatezza anche di questo motivo. Il caso di specie infatti non riguarda una modifica degli atti di stato civile, ma unicamente le modalità di compilazione della CIE. L’adozione in casi particolari in ogni caso produce effetti pieni, inclusa la nascita di relazioni parentali con i familiari dell’adottante, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 79/2022.

Corretto indicare “genitore” sulla CIE

La decisione finale della Cassazione conferma quindi le sentenze dei giudici di merito, ritenendo corretta la disapplicazione del decreto ministeriale e legittima la scelta di indicare sulla CIE la parola “genitore“. In questo modo sì riafferma il principio per il quale la pubblica amministrazione è tenuta a rappresentare fedelmente, anche nei documenti ufficiali, le diverse forme familiari oggi riconosciute dalla legge.

In conclusione la dicitura “padre/madre” non più essere considerata universalmente rappresentativa. La società cambia, e con essa anche il diritto: a ogni famiglia deve essere garantita dignità e visibilità giuridica, senza discriminazioni.

 

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Allegati

Genitori responsabili dei profili social dei figli Genitori responsabili dei profili social dei figli: spetta a loro vigilare sulle attività, facendo attenzione anche ai software di manipolazione

Profili social dei figli

Genitori responsabili di quanto fanno i figli sui social. Essi hanno l’obbligo di controllare i profili social dei figli, anche se falsi, soprattutto se la prole è fragile o immatura. Il controllo serve a prevenire comportamenti illeciti o pericolosi. Non basta chiedere le password o dire di aver fatto il possibile. I genitori devono sorvegliare in modo attivo e costante. Il Tribunale di Brescia, con la recente sentenza n. 879/2025, ribadisce questo principio e condanna i genitori di una ragazza con un lieve ritardo intellettivo a risarcire 15mila euro alla vittima del comportamento della figlia.

Diffamazione aggravata e altri reati

Una ragazza crea più profili fake e con questi insulta una compagna e pubblica immagini pornografiche ottenute con un software di manipolazione delle immagini. Le indagini penali per diffamazione aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico portano alla giovane.

I genitori della vittima decidono quindi di agire in giudizio e chiedono il risarcimento dei danni subiti dalla figlia. La giovane racconta infatti di aver ricevuto insulti continui su Instagram. A causa di questi episodi inoltre ha iniziato ad avere paura a uscire di casa da sola e ha temuto in diverse occasioni di essere  perseguitata da malintenzionati.

Genitori responsabili: attenzione massima ai social

Il Tribunale nel decidere sulle responsabilità e sul risarcimento richiesto, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nella sorveglianza dei dispositivi digitali dei figli. Nel caso di specie la ragazza frequentava le superiori, aveva un’insegnante di sostegno e un’educatrice. Quest’ultima in particolare aveva avviato un percorso educativo sull’uso dei social, avvisando anche i genitori sui rischi di questi strumenti. Tutto questo però evidentemente non è bastato. La ragazza infatti ha creato molti profili falsi e sconosciuti alla famiglia e tramite questi ha commesso gli illeciti di rilievo penale che le sono stati contestati in sede penale.

I genitori si difendono dalle accuse loro rivolte, affermando di aver fatto il possibile. Il giudice però ritiene che quanto affermato non sia sufficiente. Per evitare la responsabilità genitoriale (art. 2047 c.c.) serve infatti dimostrare di non aver creato o tollerato situazioni pericolose. Il compito dei genitori è di prevenire i rischi, non di reagire solo quando è troppo tardi.

Massima attenzione anche alle immagini manipolabili

Il Tribunale si sofferma inoltre sull’impiego dei contenuti manipolati con software. I ragazzi oggi possono accedere facilmente a strumenti di intelligenza artificiale per modificare immagini o video. Per questo motivo i genitori devono aumentare ancora di più il controllo sui figli in relazione a questi strumenti. Lasciare i figli soli davanti allo schermo può avere infatti gravi conseguenze legali.

La giurisprudenza recente è concorde nel rafforzare l’obbligo di vigilanza dei genitori sull’utilizzo dei social da parte dei figli. I genitori sono chiamati a limitare sia il tempo sia le modalità di accesso ai social da parte dei figli. L’educazione digitale deve essere concreta e continua. Non basta dire ai figli cosa è giusto: è necessario verificare che lo mettano in pratica.

La precoce autonomia digitale dei minori non solleva i genitori dalle loro responsabilità. Al contrario, li obbliga a educare in modo ancora più attento e moderno. Serve un impegno reale nell’insegnare e verificare l’uso corretto delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale.

 

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ascolto del minore

L’ascolto del minore dopo la riforma Cartabia Ascolto del minore d’età: cosa è cambiato con la riforma Cartabia e cosa dice la giurisprudenza

Ascolto del minore

L’ascolto del minore è un principio fondamentale nei procedimenti giudiziari che lo riguardano. La normativa italiana, in conformità con le convenzioni internazionali, garantisce al minore capace di discernimento il diritto di esprimere la propria opinione in tutte le questioni che lo coinvolgono. Con la riforma Cartabia (D.lgs. 149/2022), il legislatore ha rafforzato e precisato le modalità di ascolto, introducendo importanti novità procedurali.

Normativa di riferimento

L’ascolto del minore trova fondamento in diverse fonti normative, tra cui:

  • Art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (1989): riconosce al minore il diritto di essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano.
  • Art. 315-bis c.c.: sancisce il diritto del minore ad essere ascoltato nei procedimenti che lo riguardano.
  • Art. 473-bis.4 c.p.c. (introdotto dalla riforma Cartabia): disciplina le modalità di ascolto nei procedimenti di famiglia e minorili.

Ascolto del minore: novità della riforma Cartabia

La riforma Cartabia ha introdotto significativi cambiamenti nella disciplina dell’ascolto del minore, tra cui:

  1. generalizzazione dell’obbligo di ascolto: l’ascolto è ora obbligatorio per tutti i minori capaci di discernimento, salvo che sia manifestamente contrario al loro interesse;
  2. formalizzazione della procedura: l’ascolto deve avvenire in un ambiente idoneo, con modalità tali da evitare qualsiasi forma di pressione psicologica sul minore;
  3. ruolo del giudice e dei consulenti tecnici: il giudice deve provvedere all’ascolto personalmente, con l’eventuale supporto di esperti in psicologia dell’infanzia;
  4. maggior attenzione alla tutela del minore: il minore può essere affiancato da un curatore speciale in caso di conflitto tra i genitori;
  5. nullità del provvedimento in assenza di ascolto: se l’ascolto non viene effettuato senza una giustificazione adeguata, il provvedimento può essere dichiarato nullo.

Giurisprudenza rilevante sull’ascolto del minore

Numerose pronunce giurisprudenziali hanno sottolineato l’importanza dell’ascolto del minore.

Cassazione n. 4561/2025

L’ascolto del minore rappresenta un principio fondamentale, ma non è un obbligo assoluto. Nei procedimenti riguardanti l’affidamento e la regolamentazione dei rapporti familiari, il giudice deve sempre valutare l’interesse del minore, potendo escludere l’audizione solo con una motivazione rigorosa e adeguata. La Riforma Cartabia ha introdotto maggiori tutele per garantire il diritto del minore a esprimere la propria opinione, ma ha comunque mantenuto un margine di discrezionalità per il giudice, il quale deve decidere caso per caso in base alle specifiche circostanze del procedimento.

Cassazione n. 3537/2024

Nel contesto dell’affidamento del minore, il suo ascolto non può essere considerato superfluo solo perché il giudice ritiene di aver già individuato la soluzione migliore per il suo interesse. Al contrario, il principio generale impone che il minore venga ascoltato prima che il giudice maturi una decisione sull’affidamento.L’unica eccezione a questa regola si verifica quando il minore rifiuta esplicitamente l’audizione, quando vi è un concreto rischio di pregiudizio da accertare in modo specifico e non astratto, oppure quando l’ascolto risulti superfluo, ossia non apporti alcun ulteriore beneficio ai suoi interessi, pur senza arrecare danno.

Cassazione n. 3456/2023

L’ascolto del minore è un diritto soggettivo che gli riconosce la possibilità di essere informato ed esprimere la propria opinione nei procedimenti che lo riguardano. Questo diritto integra una forma di partecipazione alle decisioni che incidono sulla sua sfera individuale e rappresenta uno strumento di tutela dei suoi interessi (Cass. n. 6129/2015). Pur non essendo formalmente parte del processo, il minore è considerato parte sostanziale, poiché portatore di interessi propri, che possono essere distinti o in contrasto con quelli delle altre parti. Pertanto, la legge impone che gli sia garantito il diritto al contraddittorio attraverso l’ascolto. Il mancato ascolto costituisce una violazione di tale diritto e vizia il provvedimento giudiziale (Cass. n. 16410/2020). Tuttavia, l’ascolto non è obbligatorio in tutti i procedimenti, ma solo in quelli che incidono su aspetti rilevanti della vita, della crescita o della tutela degli interessi del minore.

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diritti e doveri dei coniugi

Diritti e doveri dei coniugi Diritti e doveri dei coniugi: quali sono, le norme di riferimento, le conseguenze previste dalla legge in caso di violazione

Diritti e doveri derivanti dal matrimonio

Il matrimonio in Italia comporta una serie di diritti e doveri dei coniugi, così come sanciti dall’articolo 143 del Codice Civile. Tali obblighi hanno lo scopo di garantire la stabilità e la collaborazione all’interno del rapporto coniugale, regolando gli aspetti fondamentali della vita matrimoniale.

L’articolo 143 del Codice Civile stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. In particolare, i coniugi sono tenuti a rispettare i seguenti obblighi:

1. Obbligo di fedeltà

  • I coniugi devono mantenere reciproca fedeltà, evitando comportamenti che possano compromettere la fiducia e l’integrità del rapporto matrimoniale.

2. Obbligo di assistenza morale e materiale

  • I coniugi devono sostenersi reciprocamente, sia dal punto di vista morale che economico. Ciò implica un dovere di cura e supporto nei momenti di difficoltà.

3. Obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia

  • I coniugi devono contribuire al benessere familiare, sia attraverso il lavoro domestico che mediante attività lavorative esterne.

4. Obbligo di coabitazione

  • La convivenza è un elemento essenziale del matrimonio, salvo giustificati motivi che ne impediscano l’attuazione (ad esempio, esigenze lavorative o motivi di salute).

5. Obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia

I coniugi devono infine contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in base alle proprie sostanze e alle rispettive capacità professionali o di lavoro casalingo.

Normativa diritti e doveri dei coniugi

Oltre all’articolo 143 del Codice Civile, ci sono altre norme che regolano i diritti e doveri dei coniugi:

  • Articolo 144 c.c.: disciplina l’accordo tra i coniugi sull’indirizzo della vita familiare e sulla residenza della famiglia in base alle esigenze di entrambi e della stessa.
  • Articolo 145 c.c.: regola l’intervento del giudice in caso di disaccordo sulla convivenza o su altri affari essenziali della famiglia.
  • Articolo 146 c.c.: prevede l’esonero dall’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare.
  • Articolo 147 c.c.: sancisce i doveri dei coniugi verso i figli.

Violazione doveri coniugali 

La violazione dei doveri matrimoniali può comportare diverse conseguenze di natura giuridica:

1. Separazione per colpa

Se uno dei coniugi viene meno ai propri doveri matrimoniali in maniera grave, l’altro coniuge può richiedere la separazione con addebito. Questo significa che il coniuge responsabile perderà alcuni diritti, come l’eventuale assegno di mantenimento.

2. Domanda di divorzio

In caso di rottura irreversibile del rapporto coniugale, il mancato rispetto dei doveri coniugali può essere una delle cause scatenanti il divorzio.

3. Riflessi economici

La violazione degli obblighi di assistenza materiale può portare a richieste di risarcimento danni o all’obbligo di versare un assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole.

 

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comunione dei beni

La comunione dei beni Comunione dei beni: regime patrimoniale legale della famiglia: come funziona e differenza con la separazione dei beni

Cos’è la comunione dei beni

La comunione dei beni è il regime patrimoniale legale previsto dall’ordinamento italiano per le coppie sposate, disciplinato dagli articoli 159 e seguenti del Codice Civile. In assenza di una diversa scelta espressa dai coniugi, questo regime si applica automaticamente al matrimonio, determinando la condivisione dei beni acquisiti durante la vita coniugale.

Cos’è il regime patrimoniale della famiglia?

Il regime patrimoniale della famiglia stabilisce le norme che regolano la proprietà e la gestione dei beni dei coniugi durante il matrimonio. In Italia, i principali regimi patrimoniali sono la comunione dei beni e la separazione dei beni. La scelta del regime influisce significativamente sulla titolarità e sull’amministrazione del patrimonio familiare.

Come funziona

In virtù di questo regime i beni acquistati dai coniugi durante il matrimonio, sia congiuntamente che separatamente, diventano automaticamente di proprietà comune. Questo implica che entrambi i coniugi possiedono una quota indivisa del 50% su tali beni, indipendentemente dal contributo economico effettivamente apportato da ciascuno.

Beni rientranti nella comunione

Secondo l’articolo 177 del Codice Civile, rientrano nella comunione legale:

  • i beni acquistati dai coniugi durante il matrimonio, ad eccezione di quelli personali;
  • gli utili e gli incrementi delle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio;
  • i frutti dei beni propri di ciascun coniuge, se percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione.

Beni esclusi dalla comunione

Sono esclusi dalla comunione e considerati beni personali:

  • i beni posseduti prima del matrimonio dal singolo coniuge;
  • i beni acquisiti durante il matrimonio per donazione o successione, salvo diversa volontà del donante o del testatore di destinarli alla comunione.
  • i beni di uso strettamente personale e quelli necessari all’esercizio della professione di ciascun coniuge.
  • i beni ottenuti a titolo di risarcimento per danni e pensioni attinenti alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa.

Vantaggi e svantaggi della comunione dei beni

L’istituto della comunione applicata ai coniugi presenta vantaggi e svantaggi. Vediamoli più in dettaglio.

Vantaggi

  • parità patrimoniale: entrambi i coniugi beneficiano equamente dei beni acquisiti durante il matrimonio;
  • tutela del coniuge economicamente più debole: garantisce una protezione patrimoniale a chi ha contribuito meno finanziariamente.

Svantaggi

  • responsabilità condivisa: i debiti contratti per esigenze familiari ricadono su entrambi i coniugi;
  • limitazioni nella gestione autonoma: per atti di straordinaria amministrazione è necessario il consenso di entrambi.

Differenze con la separazione dei beni

Nel regime di separazione dei beni, ciascun coniuge mantiene la proprietà esclusiva dei beni acquisiti sia prima che durante il matrimonio. Questo comporta una netta distinzione patrimoniale, offrendo maggiore autonomia nella gestione dei propri beni. Tuttavia, in caso di scioglimento del matrimonio, il coniuge che ha contribuito meno economicamente potrebbe trovarsi in una posizione svantaggiata.

Principali differenze

  • Proprietà dei beni: nella comunione, i beni acquisiti durante il matrimonio sono condivisi; nella separazione, ogni coniuge è proprietario esclusivo dei beni acquistati a proprio nome.
  • Gestione patrimoniale: nella comunione, per atti di straordinaria amministrazione è richiesto il consenso di entrambi; nella separazione, ciascun coniuge gestisce autonomamente i propri beni.
  • Responsabilità sui debiti: i debiti contratti per esigenze familiari gravano su entrambi; nella separazione, ciascun coniuge risponde dei propri debiti, salvo quelli contratti per necessità familiari.

 

 

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separazione dei beni

La separazione dei beni Cos’è la separazione dei beni, come funziona, quando è opportuna, vantaggi e svantaggi, differenze con la comunione

Cos’è la separazione dei beni

La separazione dei beni è un regime patrimoniale matrimoniale in cui ciascun coniuge mantiene la proprietà esclusiva dei beni acquisiti sia prima che durante il matrimonio. Questo implica che ogni coniuge gestisce autonomamente il proprio patrimonio, senza condivisione automatica con l’altro.

Come funziona il regime

Nel regime di separazione dei beni, ogni coniuge è proprietario esclusivo dei beni acquistati a proprio nome, sia prima che dopo il matrimonio. Tuttavia, è possibile che i coniugi decidano di acquistare beni in comune; in tal caso, la proprietà sarà condivisa secondo le quote stabilite al momento dell’acquisto. È importante sottolineare che, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto, entrambi i coniugi hanno l’obbligo di contribuire alle necessità della famiglia in proporzione alle proprie capacità economiche e lavorative.

Normativa di riferimento

In Italia, il regime patrimoniale legale previsto in assenza di diversa scelta è la comunione dei beni. Per adottare la separazione dei beni, i coniugi devono esprimere una volontà esplicita. Questa scelta può essere effettuata:

  • prima del matrimonio: mediante una dichiarazione resa davanti a un notaio in presenza di testimoni;
  • al momento del matrimonio: dichiarando la scelta all’ufficiale di stato civile o al ministro di culto che celebra il matrimonio, affinché venga annotata nell’atto matrimoniale;
  • dopo il matrimonio: modificando il regime patrimoniale attraverso un atto notarile.

Quando scegliere la separazione dei beni

La scelta del regime di separazione dei beni può essere opportuna in diverse situazioni, tra cui:

  • attività imprenditoriali o professionali a rischio: per proteggere il patrimonio personale del coniuge non coinvolto da eventuali obbligazioni o debiti derivanti dall’attività dell’altro coniuge;
  • differenze patrimoniali significative: quando uno dei coniugi possiede un patrimonio significativamente superiore e desidera mantenerne la gestione separata.
  • secondo matrimonio o famiglia allargata: per tutelare gli interessi patrimoniali dei figli avuti da precedenti unioni.

Vantaggi del regime di separazione

  • autonomia patrimoniale: ogni coniuge mantiene il controllo esclusivo sui propri beni e sulle decisioni economiche correlate.
  • tutela dalle obbligazioni altrui: i creditori di un coniuge non possono aggredire il patrimonio dell’altro, limitando così i rischi finanziari.

Svantaggi della separazione dei beni

  • mancata condivisione automatica: i beni acquistati non sono automaticamente condivisi, il che potrebbe richiedere accordi specifici per la gestione di patrimoni comuni.
  • gestione separata delle risorse: potrebbe risultare più complesso coordinare le finanze familiari, soprattutto in presenza di figli o spese comuni significative.

Differenze con la comunione dei beni

La principale differenza tra separazione e comunione dei beni risiede nella titolarità dei beni acquisiti durante il matrimonio:

  • Comunione dei beni: i beni acquistati dopo il matrimonio, ad eccezione di quelli personali, sono di proprietà comune di entrambi i coniugi.
  • Separazione dei beni: i beni acquistati da ciascun coniuge restano di proprietà esclusiva di chi li ha acquistati.

Inoltre, nel regime di comunione, i creditori possono rivalersi sui beni comuni per debiti contratti da uno dei coniugi nell’interesse della famiglia, mentre nella separazione dei beni, i creditori possono aggredire solo il patrimonio del coniuge debitore.

La scelta tra comunione e separazione dei beni dovrebbe essere ponderata attentamente, considerando le specifiche esigenze e situazioni patrimoniali della coppia, al fine di adottare la soluzione più idonea alla tutela degli interessi di entrambi i coniugi.

 

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promessa di matrimonio

Promessa di matrimonio Promessa di matrimonio: significato, definizione, riferimenti normativi, valore giuridico, procedura, documenti ed effetti

Cos’è la promessa di matrimonio

La promessa di matrimonio, disciplinata dagli articoli 79 e seguenti del Codice Civile, rappresenta un impegno reciproco tra due persone di contrarre matrimonio in futuro. Sebbene abbia un valore morale e sociale, il nostro ordinamento non la considera un obbligo giuridico vincolante, salvo specifiche eccezioni.

Tipologie di promessa di matrimonio

Si tratta, dunque, di un impegno che due persone assumono reciprocamente con l’intento di sposarsi. Essa può essere:

  • semplice, quando si traduce in un accordo informale tra le parti;
  • solenne, se formalizzata attraverso un atto ufficiale davanti all’ufficiale di stato civile o con scrittura privata autenticata.

Nonostante il suo carattere vincolante dal punto di vista etico e sociale, la promessa non obbliga legalmente al matrimonio, evitando qualsiasi forma di costrizione nell’unione coniugale.

Valore giuridico e conseguenze della rottura

Secondo l’art. 79 c.c., questo istituto non ha effetti vincolanti sul futuro matrimonio.

La norma prevede infatti che la mera promessa, di fatto, non obbliga le parti a contrarlo, così come non prevede di eseguire quanto convenuto in caso di mancato adempimento.

L’art. 80 c.c prevede però alcune conseguenze in caso di revoca:

se la promessa è stata formalizzata e revocata senza giusta causa, l’altra parte può chiedere il risarcimento delle spese sostenute per i preparativi delle nozze e delle eventuali obbligazioni assunte in vista del matrimonio.

ai sensi dell’art. 80 c.c., i regali fatti in previsione del matrimonio devono essere restituiti se le nozze non vengono celebrate per cause non imputabili a chi li ha ricevuti.

Procedura e documenti necessari

Sebbene la promessa non sia obbligatoria, nei casi in cui si decida di formalizzarla, la procedura prevede:

  • dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile, che registra l’intento dei promessi sposi;
  • documenti richiesti:
    • carta d’identità e codice fiscale di entrambi i futuri sposi;
    • certificati di nascita;
    • certificati di residenza e stato libero;
    • eventuale documentazione aggiuntiva in caso di precedenti matrimoni.

Dopo la formalizzazione, la promessa può essere utilizzata come presupposto per richiedere le pubblicazioni di matrimonio, un passaggio obbligatorio prima delle nozze.

Effetti della promessa di matrimonio

La promessa ha effetti limitati dal punto di vista legale, ma può avere conseguenze  sotto il profilo patrimoniale e morale, come abbiamo potuto vedere:

  • obbligo di risarcimento in caso di revoca ingiustificata, ma solo se la promessa è stata resa in forma solenne;
  • restituzione dei doni ricevuti in previsione delle nozze;
  • non può essere imposta l’esecuzione forzata del matrimonio, in quanto lederebbe la libertà personale garantita dalla Costituzione.

 

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minore emancipato

Il minore emancipato Minore emancipato: in cosa consiste l’emancipazione del minore, normativa di riferimento, acquisto, atti consentiti e limiti

Emancipazione del minore

Il minore emancipato diventa tale in virtù dell’ emancipazione, un istituto giuridico che consente a un soggetto di età inferiore ai 18 anni di acquisire una parziale capacità di agire, anticipando alcune facoltà tipiche della maggiore età. Questa condizione è disciplinata dal Codice Civile italiano, in particolare dagli articoli 390 e seguenti.

Cos’è l’emancipazione del minore

L’emancipazione è un istituto che consente a un minore di almeno 16 anni, che contrae matrimonio, di ottenere una capacità giuridica più ampia rispetto a quella ordinaria, pur rimanendo soggetto a determinate limitazioni. L’obiettivo è permettere al giovane di gestire autonomamente alcuni aspetti della propria vita, pur sotto la tutela di un curatore.

Normativa di riferimento

L’art. 390 del Codice Civile stabilisce che il minore diventa emancipato automaticamente con il matrimonio. Tuttavia, essendo il matrimonio tra minorenni un’eccezione nel nostro ordinamento, l’emancipazione è un fenomeno piuttosto raro. Per sposarsi prima dei 18 anni, il minore deve ottenere l’autorizzazione del Tribunale per i minorenni, che valuta la maturità del soggetto e l’idoneità della sua scelta matrimoniale.

Come si acquista lo status di minore emancipato

L’emancipazione si verifica nei seguenti casi:

  • matrimonio del minore: il minore che ha compiuto 16 anni può sposarsi solo con il consenso del Tribunale per i minorenni, che valuta la maturità psicologica ed emotiva del soggetto;
  • pronuncia del Tribunale: in casi eccezionali, il giudice può dichiarare l’emancipazione per garantire una maggiore autonomia al minore in situazioni particolari.

Una volta ottenuta l’emancipazione, il minore non acquisisce la piena capacità di agire, ma ottiene alcuni diritti tipici di un maggiorenne, sempre con l’affiancamento di un curatore, che in caso di matrimonio con un maggiorenne è il coniuge.

Cosa può fare il minore emancipato

Il minore emancipato gode di una capacità di agire limitata, che gli consente di compiere atti giuridici autonomamente, salvo alcune eccezioni:

  • può esercitare attività lavorativa e firmare contratti di lavoro;
  • può amministrare i propri beni e gestire il proprio patrimonio;
  • può stipulare contratti e obbligazioni, ma per quelli di particolare importanza (ad esempio, vendere un immobile) è necessario il consenso del curatore e, in alcuni casi, l’autorizzazione del giudice;
  • può esercitare in autonomia un’’impresa commerciale previa autorizzazione del giudice tutelare, dopo aver sentito il curatore.

Limiti del minore emancipato

Il minore emancipato, pur avendo maggiore autonomia rispetto a un minore non emancipato, incontra alcune restrizioni:

  • non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza l’approvazione del curatore;
  • non può disporre liberamente del proprio patrimonio senza il consenso del giudice tutelare;
  • non può contrarre matrimonio senza autorizzazione se ha ottenuto l’emancipazione per via giudiziaria.

 

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