addebito separazione

Addebito separazione anche per un solo episodio di violenza Violenza fisica e addebito della separazione: la Cassazione conferma che basta anche un solo episodio

Violenza e addebito separazione

Addebito separazione: con l’ordinanza n. 10021/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha confermato un principio fondamentale in materia di addebito della separazione coniugale, chiarendo che anche un unico episodio di violenza fisica può fondare la pronuncia di separazione e l’addebito, a prescindere dalla gravità delle lesioni provocate.

La decisione si colloca in un filone giurisprudenziale che tutela in modo sempre più marcato la dignità personale e l’integrità fisica e morale del coniuge vittima di comportamenti lesivi, valorizzando il principio del rispetto reciproco come fondamento del vincolo matrimoniale.

Il caso

La vicenda riguarda una coppia legalmente sposata, nella quale la moglie aveva chiesto la separazione giudiziale con addebito al marito, allegando un episodio di violenza fisica avvenuto nel corso di una lite domestica, culminato in percosse. L’uomo aveva ammesso l’alterco, ma negava l’intento violento e sosteneva che l’episodio fosse isolato e privo di conseguenze gravi.

La Corte d’appello aveva escluso l’addebito, ritenendo che un singolo episodio, non seguito da ulteriori comportamenti aggressivi, non potesse configurare una violazione così grave da determinare l’addebito della separazione.

Cassazione: anche una sola violenza è sufficiente

La Cassazione ha accolto il ricorso della donna e ha affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di separazione personale dei coniugi, anche un solo episodio di violenza fisica, posto in essere da uno dei coniugi nei confronti dell’altro, è idoneo a giustificare l’addebito della separazione, a prescindere dalla gravità delle lesioni causate, in quanto integra una violazione grave e intollerabile dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c.”

Il Collegio sottolinea che l’aggressione fisica costituisce di per sé un fatto oggettivamente idoneo a compromettere irreversibilmente la convivenza coniugale, violando il dovere di reciproco rispetto e assistenza morale.

Centralità della dignità coniugale

La Corte richiama i doveri coniugali sanciti dall’art. 143 del codice civile, evidenziando come la violenza fisica rappresenti una lesione insanabile della fiducia reciproca, anche in assenza di effetti clinicamente gravi.

Nel testo dell’ordinanza si legge: “Il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, e di reciproco rispetto tra coniugi è incompatibile con qualsiasi forma di aggressione fisica. L’episodio, anche isolato, esprime una rottura radicale del vincolo coniugale, tale da giustificare non solo la separazione, ma anche l’addebito”. 

Il carattere episodico non attenua, secondo la Corte, la gravità oggettiva del gesto, che può aver minato irreparabilmente il legame matrimoniale, determinando la responsabilità esclusiva del coniuge autore dell’aggressione nella crisi coniugale.

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spese straordinarie figli

Spese straordinarie figli: rimborso possibile anche senza accordo Il genitore può ottenere il rimborso delle spese straordinarie per i figli anche senza accordo, se utili e compatibili con il tenore di vita familiare

Spese straordinarie figli

Anche in assenza di un’intesa preventiva, il genitore che anticipa integralmente le spese straordinarie sostenute per i figli ha diritto al rimborso da parte dell’altro, purché l’esborso risponda concretamente alle esigenze della prole e risulti proporzionato al tenore di vita familiare. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9392 del 10 aprile 2025, intervenendo nuovamente sulla questione della ripetizione delle spese straordinarie nel contesto dei rapporti familiari post-separazione.

Rimborso spese straordinarie: quando è dovuto

Il principio affermato dalla Cassazione è chiaro: non è sempre necessario l’accordo preventivo tra i genitori affinché uno di essi possa agire per ottenere il rimborso delle spese straordinarie sostenute. In particolare, quando le uscite economiche sono:

  • necessarie per l’interesse del minore,

  • coerenti con le condizioni economiche dei genitori e il tenore di vita mantenuto in famiglia, e

  • riferite a bisogni ricorrenti e prevedibili, come le spese mediche ordinarie o quelle scolastiche,

non è richiesta una preventiva concertazione.

Al contrario, il consenso preventivo è generalmente necessario per spese eccezionali, imprevedibili o economicamente gravose, cioè quelle che eccedono la normalità del regime di vita del figlio. Tuttavia, anche in tali casi, la mancanza di comunicazione anticipata non comporta automaticamente la perdita del diritto al rimborso. Spetta infatti al giudice valutare la congruità della spesa rispetto:

  • all’interesse superiore del minore,

  • alla sua utilità concreta, e

  • alla sostenibilità economica in relazione alle disponibilità dei genitori.

Il caso dell’equitazione e dell’acquisto del cavallo

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il padre contestava il proprio obbligo di contribuire alle spese per il mantenimento di un cavallo utilizzato dai figli per l’attività sportiva dell’equitazione. I giudici, tuttavia, hanno rigettato la sua opposizione, osservando che tale pratica sportiva era stata intrapresa dai minori già in costanza di convivenza tra i genitori, e che l’acquisto dell’animale e l’iscrizione a un centro sportivo erano stati frutto di decisioni condivise dalla coppia. Tali elementi confermano la sussistenza di un accordo implicito e continuato nel tempo, idoneo a legittimare la ripartizione della spesa.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi Il tenore di vita può essere accertato anche con elementi presuntivi per quantificare l'assegno di mantenimento

Tenore di vita assegno di mantenimento

Per stabilire l’assegno di separazione, la valutazione del tenore di vita durante il matrimonio e delle condizioni economiche dei coniugi dopo la separazione può basarsi su indizi e deduzioni. È fondamentale però che tale valutazione sia fondata su un’analisi specifica e dettagliata delle circostanze reali. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 11611/2025.

Nessun mantenimento per la moglie

Una donna ricorre in appello contro due sentenze che, in virtù della separazione dal marito le assegnavano la casa familiare, le addebitavano la separazione e obbligavano l’ex marito a versare 1.000 euro mensili per il mantenimento del figlio, oltre all’80% delle spese straordinarie. La donna contestava l’addebito della separazione a suo carico e chiedeva il mantenimento in suo favore.

Tenore di vita: moglie impossibilitata a conservarlo

La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado. Essa respinge la richiesta di addebito della separazione alla moglie e riconosce alla donna un assegno di mantenimento di 800 euro mensili (oltre rivalutazione Istat). Il resto della decisione viene confermato. Per la Corte il tenore di vita matrimoniale era sostenuto principalmente dal reddito dell’uomo. Lo stesso aveva infatti revocato i mandati professionali alla moglie (avvocato) e si era appropriato dei risparmi comuni. Nonostante la capacità professionale della donna e la futura divisione dei beni, la Corte riconosce una riduzione delle sue disponibilità economiche e la sua incapacità di mantenere le precedenti condizioni di vita. L’assegno di 800 euro appare pertanto equo. L’uomo a questo punto ricorre in Cassazione.

Assegno mantenimento: rileva il tenore di vita

La Cassazione accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti tutti gli altri. Nella motivazione ricorda che l’articolo 156, comma 1, del codice civile stabilisce che il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto necessario per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, qualora non abbia redditi adeguati.

In sede di separazione (a differenza del divorzio), il parametro per valutare l’adeguatezza dei redditi è il mantenimento del tenore di vita matrimoniale. Questo perché il vincolo coniugale permane e sussiste ancora il dovere di assistenza materiale.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi

Per quantificare l’assegno, il giudice di merito deve quindi necessariamente accertare il tenore di vita della coppia durante la convivenza. Nel compiere questa valutazione deve considerare i redditi dichiarati fiscalmente, altri elementi economici come il patrimonio (anche mobiliare), uno stile di vita agiato, o redditi non dichiarati. Tale accertamento può basarsi anche su elementi presuntivi, ma deve essere concreto.

Nel caso specifico, la Cassazione critica la Corte d’Appello per aver stabilito la prevalenza del contributo economico dell’uomo nel determinare il tenore di vita coniugale senza descrivere in alcun modo quale fosse tale tenore di vita.

Peggioramento delle condizioni di vita della moglie da specificare

Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto peggiorate le condizioni economiche della donna dopo la separazione senza specificare quali fossero prima e dopo. La Corte di Cassazione contesta quindi alla Corte d’Appello di aver espresso un’opinione sulla maggiore incidenza del reddito dell’uomo nel sostenere il tenore di vita familiare e sul peggioramento della situazione economica della donna senza aver prima chiaramente definito e valutato le reali circostanze economiche in cui versava la famiglia e ciascun coniuge. La mancanza di una precisa determinazione delle effettive condizioni di vita dei coniugi ha portato la Corte d’Appello a decidere sull’obbligo e sull’entità dell’assegno di mantenimento senza avere una comprensione concreta del loro pregresso tenore di vita familiare e delle loro attuali risorse individuali. Alla Corte d’Appello in diversa composizione il compito di decidere su questi punti nel rispetto di quanto affermato in sentenza.

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affido condiviso

Affidamento condiviso: il ddl di riforma Affidamento condiviso: il ddl che riforma l'istituto prevede importanti novità su responsabilità, obblighi genitoriali e mediazione

Affidamento condiviso: la riforma 

Il disegno di legge n. 832 che contiene “Modifiche al codice civile, al codice di procedura civile e al codice penale in materia di affidamento condiviso” e che è composto da 18 articoli, mira a rafforzare la disciplina dell’affido condiviso e della responsabilità genitoriale, ponendo sempre al centro l’interesse superiore del minore.

Il ddl pone l’accento sull’affido condiviso come modello prioritario, sulla pariteticità della responsabilità genitoriale e sulla tutela del diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. Introduce strumenti come la mediazione familiare obbligatoria in una fase preliminare e la figura del coordinatore genitoriale per gestire la conflittualità e favorire l’attuazione del piano genitoriale. Rafforza inoltre gli strumenti a disposizione del giudice per intervenire in caso di inadempienze e comportamenti pregiudizievoli per il minore. Analizziamo nel dettaglio cosa prevede la riforma.

Domicilio, obblighi paritetici e responsabilità

Il disegno di legge stabilisce che, in caso di affido condiviso, il minore abbia il domicilio di entrambi i genitori, sottolineando così la pariteticità del ruolo genitoriale anche a livello formale. La cura, l’educazione, l’istruzione e l’assistenza morale dei figli diventano obblighi paritetici di entrambi i genitori, indipendentemente dal loro stato civile. Si definisce la responsabilità genitoriale come l’insieme di diritti e doveri dei genitori finalizzati all’interesse dei figli. Eliminato il riferimento alla “residenza abituale” del minore, in coerenza con l’introduzione del domicilio presso entrambi i genitori in caso di affido condiviso.

Affidamento condiviso: genitori non coniugati

Per quanto riguarda i genitori non coniugati il nuovo art. 316-ter prevede che il padre contribuisca alle spese del parto non coperte dal sistema sanitario e al mantenimento della madre per tre mesi se priva di risorse. L’articolo 316-quater invece stabilisce un obbligo di mantenimento temporaneo a carico del genitore economicamente più forte verso l’altro genitore in difficoltà, per un massimo di due anni o fino al terzo anno di età del figlio. Viene infine ampliato il diritto a conservare i rapporti tra minori e ascendenti

Bigenitorialità e poteri del giudice

L’articolo 337-ter c.c, cuore della disciplina sull’affidamento condiviso, viene sostituito. La nuova norma afferma il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambi con pari responsabilità e opportunità di frequentazione. L’affido condiviso diventa la modalità ordinaria, salvo eccezioni motivate dall’interesse del minore. Il giudice deve:

  • determinare le modalità specifiche della presenza dei figli presso ciascun genitore;
  • stabilire la residenza anagrafica e fissare il domicilio presso entrambi i genitori;
  • definire le modalità di contribuzione al mantenimento, tenendo conto della capacità di ciascun genitore e della valorizzazione economica dei compiti domestici e di cura.

In caso di disaccordo, il giudice decide. Viene ribadito il diritto dei minori a conservare rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di entrambi i rami genitoriali.

ISEE e cambio residenza

Si provvede ad adeguare il regolamento sull’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) per tenere conto delle modalità dell’affido condiviso e vengono abrogati i commi 6 e 7 dell’art. 6 della legge sul divorzio (n. 898/1970), che riguardano le disposizioni patrimoniali in caso di affidamento esclusivo.

Il ddl prevede che, qualora il cambio di residenza o domicilio del genitore interferisca con le modalità dell’affido, si possa procedere alla ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti, inclusi quelli economici.

Figli maggiorenni e mantenimento

L’assegno perequativo per il mantenimento del figlio  maggiorenne spetta direttamente a quest’ultimo al raggiungimento della maggiore età, se non autosufficiente. In caso di inadempimento del genitore obbligato e inerzia del figlio, l’altro genitore è legittimato ad agire. Si prevede anche la possibilità di stabilire una quota mensile a carico di ciascun genitore in caso di mantenimento diretto precedente alla maggiore età.

Ascolto minore, mediazione e coordinatore

Rafforzato il diritto del minore a essere ascoltato. Il giudice deve valutare la fondatezza di un eventuale rifiuto del minore a essere ascoltato e procede all’ascolto dello stesso se ne fa domanda, anche in caso di omologazione di accordi tra i genitori. Si provvede a introdurre l’obbligo di un primo incontro informativo sulla mediazione familiare in caso di disaccordo sull’affido condiviso, prima di adire il giudice (salvo urgenze). Il primo incontro è gratuito e il giudice può anche segnalare l’opportunità della mediazione in fasi successive del giudizio. In caso di fallimento della mediazione o del suo rifiuto, il giudice invita le parti a redigere un piano genitoriale e si prevede la figura del coordinatore genitoriale, che può essere nominato dal giudice o dalle parti per facilitare l’attuazione del piano e risolvere eventuali disaccordi, anche con il potere di assumere decisioni di secondario rilievo.

Reato art. 570 bis esteso alle unioni civili

I poteri del giudice vengono rafforzati in caso di gravi inadempienze, inclusi i trasferimenti del minore senza consenso. In questi casi il giudice potrà disporre il rientro immediato e il risarcimento dei danni, valutando tale comportamento ai fini dell’affido.

Il reato di violazione degli obblighi economici in materia di separazione e affido condiviso – previsto dall’art. 570-bis del codice penale, viene esteso alle unioni civili.

 

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assegno divorzile

L’assegno divorzile Assegno divorzile: cos’è, quando spetta, normativa di riferimento, funzione, differenze con l’assegno di mantenimento e Cassazione

Assegno divorzile: cos’è

L’assegno divorzile è una misura economica prevista dalla legge italiana per garantire equilibrio e tutela al coniuge economicamente più debole in seguito alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Disciplina, funzione e criteri di attribuzione sono stati oggetto di numerosi interventi normativi e giurisprudenziali, che ne hanno ridefinito la natura e l’estensione nel tempo.

Esso si traduce in una somma di denaro che il giudice può disporre a favore di uno dei due coniugi, in sede di sentenza di divorzio, al fine di assicurare un sostegno economico al coniuge che, all’esito della separazione definitiva, non dispone di mezzi adeguati o non può procurarseli per ragioni oggettive.

L’assegno di divorzio è disciplinato dall’articolo 5, comma 6, della legge n. 898/1970 (Legge sul divorzio), come modificato dalla legge n. 74/1987, ed è distinto rispetto all’assegno di mantenimento, previsto in fase di separazione.

Normativa di riferimento

La normativa principale dell’assegno di divorzio è rappresentata quindi:

  • dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, art. 5;
  • dalle modifiche introdotte dalla legge n. 74/1987 e, per gli effetti fiscali, dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR).

Quando spetta l’assegno divorzile

In base alla legge, l’assegno può essere attribuito solo in presenza di determinati requisiti soggettivi e oggettivi, valutati dal giudice nel rispetto di parametri stabiliti dal legislatore e interpretati dalla giurisprudenza.

Il diritto all’assegno divorzile spetta infatti quando uno dei coniugi non ha mezzi adeguati o non può procurarseli per cause indipendenti dalla propria volontà. La sua attribuzione non è automatica, ma è subordinata a una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, effettuata dal giudice.

Tra i criteri principali di valutazione:

  • durata del matrimonio;
  • età e stato di salute del coniuge richiedente;
  • condizioni economiche e reddituali di entrambe le parti;
  • contributo dato alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale;
  • capacità lavorativa e opportunità occupazionali del coniuge richiedente;
  • esistenza di figli minori o non autosufficienti.

Il giudice potrà disporre l’assegno in forma periodica, oppure in unica soluzione (una tantum), se richiesto dalle parti o se ritenuto equo in relazione alle circostanze.

Funzione dell’assegno divorzile

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che l’assegno divorzile svolge una funzione composita:

  • assistenziale, per garantire il sostegno economico al coniuge privo di mezzi adeguati;
  • compensativa, per valorizzare il contributo dato dal coniuge alla vita familiare e alla costruzione del patrimonio comune, anche rinunciando alla propria carriera;
  • perequativa, per riequilibrare eventuali sperequazioni patrimoniali causate dallo scioglimento del vincolo matrimoniale.

La sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018 ha superato il criterio del “tenore di vita matrimoniale”, affermando che l’assegno non serve a garantire la prosecuzione dello stile di vita pregresso, ma a riconoscere il ruolo economico-sociale assunto all’interno del matrimonio, anche in chiave solidaristica.

Differenze con l’assegno di mantenimento 

È fondamentale distinguere l’assegno di mantenimento dall’assegno divorzile, poiché si collocano in fasi giuridiche diverse:

Assegno di mantenimento

Assegno divorzile

Si applica in fase di separazione legale

Si applica in fase di divorzio

Ha finalità assistenziale e temporanea

Ha finalità compensativa e definitiva

Mira a garantire il tenore di vita matrimoniale

Mira al riequilibrio economico post-divorzio

Può essere sempre modificato o revocato

Può essere revocato o ridotto solo in presenza di gravi mutamenti delle condizioni

Cosa dice la giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha delineato, negli anni, un’evoluzione significativa nell’interpretazione dell’assegno divorzile. L’orientamento giurisprudenziale recente valorizza un approccio equilibrato e personalizzato, volto a evitare sia automatismi sia disparità ingiustificate.

Tra le sentenze più rilevanti:

  • Cassazione SS.UU. n. 18287/2018: ha introdotto il principio della funzione compensativa-perequativa, superando il criterio del tenore di vita.
  • Cassazione n. 32198/202021: se viene provata una stabile convivenza del coniuge divorziato (accertabile sia nel giudizio di divorzio che in quello di revisione), il diritto alla componente assistenziale dell’assegno di divorzio cessa. Questo avviene perché la nuova convivenza rappresenta una rottura con il passato e offre all’ex coniuge la possibilità di ricevere e prestare reciproca assistenza all’interno del nuovo nucleo familiare. Questa cessazione del diritto si verifica anche se il tenore di vita della nuova famiglia di fatto è molto inferiore a quello precedente o a quello che l’ex coniuge avrebbe potuto mantenere integrando i propri mezzi con l’assegno divorzile.
  • Cassazione n. 28727/2020: ha precisato che anche il coniuge economicamente più debole può non aver diritto all’assegno se non vi è stato un effettivo sacrificio personale o patrimoniale durante il matrimonio.

 

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invalidità del matrimonio civile

Cause di invalidità del matrimonio civile Cause di invalidità del matrimonio civile: nullità e annullabilità, procedura, conseguenze e giurisprudenza

Invalidità del matrimonio civile

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge. In alcuni casi, possono verificarsi infatti situazioni che rendono nullo o annullabile il matrimonio. L’invalidità del matrimonio si verifica quindi quando manca uno degli elementi essenziali previsti dalla normativa italiana, difetto che comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Le cause di invalidità del matrimonio civile

Le cause di invalidità del matrimonio civile sono disciplinate dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 117-129 bis. Esse si dividono in cause di nullità e cause di annullabilità.

1. Nullità assoluta del matrimonio

Un matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, compreso il Pubblico Ministero. Le principali cause di nullità sono:

Matrimonio contratto in violazione degli impedimenti assoluti (art. 117 c.c.), ad esempio:

  • Matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • Matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle
  • Matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

2. Annullabilità del matrimonio

L’annullabilità riguarda situazioni in cui il matrimonio è valido, ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti. Le cause principali sono:

  • Incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • Minore età senza autorizzazione.
    • Interdizione per infermità mentale.
  • Errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • Ad esempio, se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi.
  • Matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • Se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

Procedura di annullamento del matrimonio

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario.

  • L’azione di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo.
  • L’azione di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente un anno dalla scoperta del vizio).

Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Conseguenze invalidità matrimonio civile

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge, riacquisto della libertà di stato;
  • cessazione degli obblighi coniugali: i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci;
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici: cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio;
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito interpretazioni importanti sui casi di invalidità del matrimonio.

Cassazione n. 1772/2024

In ambito matrimoniale, la validità di un matrimonio putativo, ovvero un matrimonio nullo ma considerato valido per gli effetti civili a causa della buona fede di almeno uno dei coniugi, è regolata dal principio generale di presunzione di buona fede. Questo significa che, al momento della celebrazione del matrimonio, si presume che entrambi i coniugi fossero in buona fede, cioè che ignorassero le cause di nullità del matrimonio. Di conseguenza, chiunque contesti la validità del matrimonio putativo o la buona fede di uno dei coniugi, ha l’onere di dimostrare la loro mala fede.

Tribunale di Livorno 12 luglio 2024

L’errore sulle qualità personali del coniuge è considerato essenziale e può portare all’annullamento del matrimonio solo se, conoscendo la verità, l’altro coniuge non avrebbe dato il suo consenso. Questo vale specificamente per errori riguardanti malattie fisiche o psichiche, o anomalie sessuali, che impediscono la normale vita coniugale. Tuttavia, la semplice mancata conoscenza del sesso originario del coniuge non è sufficiente per annullare il matrimonio. Considerata la durata di 18 anni del matrimonio e l’intenzione di adottare, la richiesta di annullamento deve essere respinta.

Corte di Cassazione n. 28409/2023

il matrimonio può essere annullato se uno dei coniugi, al momento della celebrazione, era incapace di intendere e di volere. Questa incapacità deve essere di tale gravità da impedirgli di comprendere il significato e le conseguenze del matrimonio. In altre parole, non è sufficiente una semplice immaturità o fragilità emotiva, ma è necessario che la persona si trovasse in uno stato patologico che avesse compromesso significativamente le sue facoltà mentali, rendendola incapace di esprimere una volontà cosciente. Tale condizione deve essere assimilabile a un grave deficit psichico, tale da annullare la capacità di comprendere appieno l’atto matrimoniale.

carta per i nuovi nati

Bonus nuovi nati: cos’è e a chi spetta Il bonus per i nuovi nati è destinato alle famiglie che devono affrontare le prime spese per neonati e figli adottivi

Bonus per i nuovi nati

La legge di bilancio 2025 ha introdotto un bonus per i nuovi nati, una nuova misura di sostegno dedicato alle famiglie, con obiettivo primario di incentivare la natalità e alleggerire il peso economico derivante dall’arrivo di un bambino.

Il bonus per i nuovi nati consiste in un importo di 1.000 euro, erogato una tantum, spettante alle famiglie con un ISEE inferiore a 40.000 euro.

La circolare INPS n. 76 del 14 aprile 2025 definisce i requisiti di accesso, le modalità di presentazione delle domande e il regime fiscale della misura.

Bonus per i nuovi nati: come funziona

Il bonus nuovi nati consiste in un importo, che verrà erogato una tantum e che potrà essere utilizzato per l’acquisto di beni e servizi destinati al neonato.

La misura spetta per ogni figlio nato o adottato dopo il 1° gennaio 2025.

Il Bonus non concorre alla formazione del reddito imponibile.

A chi spetta il Bonus per i nuovi nati

Il bonus viene erogato a chi è in possesso dei seguenti requisiti soggettivi e reddituali:

  1. Cittadini italiani, cittadini UE e familiari dei suddetti cittadini, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente;
  2. Cittadini di Stati non UE:
  • Titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi; di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi.
  • In applicazione della normativa UE e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, possono accedere al bonus anche cittadini extracomunitari in possesso di permessi di soggiorno di durata non inferiore a un anno, anche se non espressamente indicati nella legge di Bilancio 2025.
  1. Soggetti equiparati ai cittadini italiani: come apolidi, rifugiati politici e titolari di protezione internazionale.
  2. Cittadini del Regno Unito: sono equiparati ai cittadini UE se residenti in Italia entro il 31 dicembre 2020. La verifica della residenza a tale data avviene tramite l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) o altri archivi anagrafici. In tal caso, non sono richiesti ulteriori titoli di soggiorno. Per i cittadini del Regno Unito residenti in Italia successivamente al 31 dicembre 2020, si applicano le disposizioni previste per i cittadini extracomunitari in materia di documenti di soggiorno.

Requisiti per l’accesso al Bonus:

  • Residenza: il genitore richiedente deve essere residente in Italia al momento della presentazione della domanda e tale requisito deve sussistere dalla data dell’evento (nascita, adozione, affido preadottivo).
  • ISEE: è necessario un Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) del nucleo familiare in cui è presente il figlio per il quale si chiede il contributo, non superiore a 40.000 euro annui. Nel calcolo dell’ISEE minorenni viene neutralizzato l’importo dell’Assegno unico e universale (AUU) erogato ai componenti del nucleo familiare.
  • Data di nascita, adozione o affido preadottivo: il figlio deve essere nato o adottato a partire dal 1° gennaio 2025. Per le adozioni, il contributo può essere richiesto solo per figli minorenni. In caso di affido preadottivo, si considera la data di ingresso del minore nel nucleo familiare su ordinanza del Tribunale per i minorenni. Per le adozioni internazionali, fa fede la data di trascrizione del provvedimento nei registri dello stato civile. In fase di prima attuazione, per i minori adottati a partire dal 1° gennaio 2025 con provvedimento di affido preadottivo antecedente a tale data, è possibile richiedere il bonus con riferimento alla data della sentenza di adozione.

Come richiedere il bonus

Il Bonus nuovi nati 2025 si richiede tramite apposita domanda, presentabile da uno dei genitori (o dal genitore convivente in caso di non convivenza).

Per genitori incapaci o minorenni, la domanda è inoltrata dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore, verificando i requisiti del genitore del neonato. La domanda va presentata entro 60 giorni dall’evento (nascita, adozione, affido), pena decadenza.

È necessario possedere un ISEE minorenni valido o aver presentato la DSU per il suo calcolo. La domanda si inoltra tramite il portale INPS (SPID, CIE, CNS, eIDAS), l’app INPS mobile, il Contact Center INPS o gli istituti di patronato.

All’atto della domanda va indicata la modalità di pagamento (accredito su conto IBAN o bonifico domiciliato), con possibilità di utilizzare IBAN già registrati presso l’INPS o indicarne uno nuovo.

L’erogazione avviene in ordine cronologico di ricezione delle domande accolte, nei limiti dei fondi disponibili.

Domande dal 17 aprile 2025

Con il messaggio n. 1303/2025 del 16 aprile 2025, l’INPS ha comunicato che dalle 8:30 del 17 aprile 2025 è possibile presentare la domanda per il Bonus Nuovi Nati.

Il servizio è accessibile sul sito dell’INPS, utilizzando la propria identità digitale. In alternativa, è possibile presentare l’istanza tramite il Contact Center Multicanale o gli istituti di patronato.

Con un successivo messaggio, l’istituto comunicherà la data dalla quale sarà possibile effettuare la domanda tramite l’app INPS Mobile.

 

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assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori: legittimo escludere i richiedenti asilo Per la Corte Costituzionale è legittima l'esclusione dei richiedenti asilo dall'assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori

Con la sentenza n. 40 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), del decreto-legge 8 giugno 2021, n. 79 (convertito con modifiche dalla legge 30 luglio 2021, n. 112), che disciplina l’assegno temporaneo per i figli minori.

Le questioni erano state sollevate dal Tribunale di Padova, adito da una cittadina extracomunitaria, madre di due minori e titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, alla quale l’INPS aveva negato l’assegno temporaneo in quanto priva del requisito del titolo di soggiorno previsto dalla norma (permesso UE per soggiornanti di lungo periodo o permesso per lavoro o ricerca di durata non inferiore a sei mesi).

Nessun contrasto con la Costituzione

Il giudice a quo aveva ipotizzato un contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione, ritenendo irragionevole l’esclusione di soggetti in stato di bisogno sulla sola base del titolo di soggiorno. Tuttavia, la Corte ha ritenuto infondate le censure.

Secondo i giudici costituzionali, l’assegno temporaneo non rientra tra le prestazioni sociali essenziali a tutela dei diritti inviolabili della persona. Si tratta, piuttosto, di una misura volta a incentivare la genitorialità, connessa a specifiche condizioni economiche, e destinata a essere assorbita dall’assegno unico universale previsto dal d.lgs. n. 230/2021.

I richiedenti asilo e le altre tutele previste

La Corte ha sottolineato che ai richiedenti asilo e ai loro familiari sono già garantiti diversi strumenti di tutela, tra cui l’assistenza sanitaria, l’accesso all’istruzione per i minori e la possibilità di svolgere attività lavorativa, idonei a fronteggiare i bisogni primari.

Una volta riconosciuta la protezione internazionale o sussidiaria, i beneficiari accedono alle medesime prestazioni sociali previste per i cittadini italiani, compreso l’assegno per i figli.

Discrezionalità legislatore e principio ragionevolezza

In conclusione, la Consulta ha ribadito che il legislatore, nel rispetto del principio di ragionevolezza e tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie, può prevedere criteri selettivi o escludere determinate categorie di stranieri dall’accesso a prestazioni sociali non essenziali. L’esclusione dei richiedenti asilo dall’assegno temporaneo, quindi, non risulta lesiva dei principi costituzionali.

genitore sulla cie

La Cassazione ripristina la parola “genitore” sulla CIE La parola “genitore” sulla CIE è maggiormente rappresentativa della realtà sociale attuale delle famiglie con due padri o con due madri

Cassazione: “genitore” sulla CIE

C’è la possibilità di indicare il termine “genitore” sulla CIE al posto delle tradizionali diciture “padre” e “madre”? Su questo tema si è espressa la Corte di Cassazione (sentenza n. 9216/2025) sul ricorso del Ministero dell’Interno avverso le sentenze di primo e secondo grado, entrambe favorevoli a una coppia omogenitoriale.

“Genitore”: rappresentazione più aderente alla realtà

La vicenda portata all’attenzione degli Ermellini prende origine dal Tribunale di Roma, che ordina al Ministero dell’Interno di modificare la modalità di compilazione della CIE per un minore con due madri – una biologica, l’altra adottiva.

Il giudice stabilisce che, disapplicando il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019, occorre riportare sulla carta la dicitura “genitore” o, in alternativa, formule inclusive come “padre/genitore” e “madre/genitore”.

La decisione viene confermata anche dalla Corte d’Appello di Roma. Il modello ministeriale impone in effetti una rappresentazione familiare non più aderente alla realtà giuridica, come dimostrato dalla presenza, sempre più frequente, di famiglie con due genitori dello stesso sesso. In particolare, l’adozione in casi particolari – disciplinata dalla legge 184/1983 – è idonea a creare un legame di piena parentela, e quindi a legittimare la richiesta di un’identificazione coerente del genitore adottivo anche nei documenti d’identità del minore.

“Padre e madre” sulla CIE: discriminatorio

Il Ministero dell’Interno di fronte alla Cassazione solleva però tre motivi di doglianza nei confronti della sentenza della Corte d’Appello.

Il primo denuncia un vizio di motivazione della sentenza della Corte d’Appello, perché carente e generica. La Cassazione però ritiene infondata la critica. La Corte territoriale ha infatti esaminato tutte le doglianze, rigettandole in modo esplicito e motivato, sottolineando come la scelta del Ministero generi discriminazione e irragionevolezza, precludendo al minore la possibilità di ottenere una CIE valida per l’espatrio.

Il secondo motivo contesta la disapplicazione del decreto ministeriale, perché lesiva del principio di bigenitorialità e contraria al quadro normativo vigente. Anche in questo caso però la Cassazione dimostra di pensarla diversamente. Gli Ermellini ricordano che il decreto in questione ha carattere meramente tecnico e non normativo. Lo stesso inoltre si pone in contrasto con l’art. 3, comma 5, del T.U.L.P.S., che consente l’indicazione del termine “genitori” nella CIE. Il termine neutro è più adeguato per rappresentare la realtà giuridica di famiglie con due madri o due padri. In questo modo si tutela il diritto del minore all’identità e alla verità affettiva e giuridica della propria famiglia.

Il terzo motivo infine sostiene che l’indicazione dei termini “padre” e “madre” è obbligatoria in virtù della disciplina dello stato civile, la quale prevede solo tali qualificazioni. La Cassazione però esclude la fondatezza anche di questo motivo. Il caso di specie infatti non riguarda una modifica degli atti di stato civile, ma unicamente le modalità di compilazione della CIE. L’adozione in casi particolari in ogni caso produce effetti pieni, inclusa la nascita di relazioni parentali con i familiari dell’adottante, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 79/2022.

Corretto indicare “genitore” sulla CIE

La decisione finale della Cassazione conferma quindi le sentenze dei giudici di merito, ritenendo corretta la disapplicazione del decreto ministeriale e legittima la scelta di indicare sulla CIE la parola “genitore“. In questo modo sì riafferma il principio per il quale la pubblica amministrazione è tenuta a rappresentare fedelmente, anche nei documenti ufficiali, le diverse forme familiari oggi riconosciute dalla legge.

In conclusione la dicitura “padre/madre” non più essere considerata universalmente rappresentativa. La società cambia, e con essa anche il diritto: a ogni famiglia deve essere garantita dignità e visibilità giuridica, senza discriminazioni.

 

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Genitori responsabili dei profili social dei figli Genitori responsabili dei profili social dei figli: spetta a loro vigilare sulle attività, facendo attenzione anche ai software di manipolazione

Profili social dei figli

Genitori responsabili di quanto fanno i figli sui social. Essi hanno l’obbligo di controllare i profili social dei figli, anche se falsi, soprattutto se la prole è fragile o immatura. Il controllo serve a prevenire comportamenti illeciti o pericolosi. Non basta chiedere le password o dire di aver fatto il possibile. I genitori devono sorvegliare in modo attivo e costante. Il Tribunale di Brescia, con la recente sentenza n. 879/2025, ribadisce questo principio e condanna i genitori di una ragazza con un lieve ritardo intellettivo a risarcire 15mila euro alla vittima del comportamento della figlia.

Diffamazione aggravata e altri reati

Una ragazza crea più profili fake e con questi insulta una compagna e pubblica immagini pornografiche ottenute con un software di manipolazione delle immagini. Le indagini penali per diffamazione aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico portano alla giovane.

I genitori della vittima decidono quindi di agire in giudizio e chiedono il risarcimento dei danni subiti dalla figlia. La giovane racconta infatti di aver ricevuto insulti continui su Instagram. A causa di questi episodi inoltre ha iniziato ad avere paura a uscire di casa da sola e ha temuto in diverse occasioni di essere  perseguitata da malintenzionati.

Genitori responsabili: attenzione massima ai social

Il Tribunale nel decidere sulle responsabilità e sul risarcimento richiesto, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nella sorveglianza dei dispositivi digitali dei figli. Nel caso di specie la ragazza frequentava le superiori, aveva un’insegnante di sostegno e un’educatrice. Quest’ultima in particolare aveva avviato un percorso educativo sull’uso dei social, avvisando anche i genitori sui rischi di questi strumenti. Tutto questo però evidentemente non è bastato. La ragazza infatti ha creato molti profili falsi e sconosciuti alla famiglia e tramite questi ha commesso gli illeciti di rilievo penale che le sono stati contestati in sede penale.

I genitori si difendono dalle accuse loro rivolte, affermando di aver fatto il possibile. Il giudice però ritiene che quanto affermato non sia sufficiente. Per evitare la responsabilità genitoriale (art. 2047 c.c.) serve infatti dimostrare di non aver creato o tollerato situazioni pericolose. Il compito dei genitori è di prevenire i rischi, non di reagire solo quando è troppo tardi.

Massima attenzione anche alle immagini manipolabili

Il Tribunale si sofferma inoltre sull’impiego dei contenuti manipolati con software. I ragazzi oggi possono accedere facilmente a strumenti di intelligenza artificiale per modificare immagini o video. Per questo motivo i genitori devono aumentare ancora di più il controllo sui figli in relazione a questi strumenti. Lasciare i figli soli davanti allo schermo può avere infatti gravi conseguenze legali.

La giurisprudenza recente è concorde nel rafforzare l’obbligo di vigilanza dei genitori sull’utilizzo dei social da parte dei figli. I genitori sono chiamati a limitare sia il tempo sia le modalità di accesso ai social da parte dei figli. L’educazione digitale deve essere concreta e continua. Non basta dire ai figli cosa è giusto: è necessario verificare che lo mettano in pratica.

La precoce autonomia digitale dei minori non solleva i genitori dalle loro responsabilità. Al contrario, li obbliga a educare in modo ancora più attento e moderno. Serve un impegno reale nell’insegnare e verificare l’uso corretto delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale.

 

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