giurista risponde

Infiltrazioni: mancato godimento immobile per inagibilità procurata da terzi L’inutilizzabilità di un immobile per infiltrazioni causate da terzi dà luogo a un danno che deve essere risarcito in via presuntiva?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

Nell’ipotesi di perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito, sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato; a fronte della specifica contestazione del convenuto, la prova può essere fornita anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (Cassazione, sez. II, 2 dicembre 2024, n. 30791).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla risarcibilità del danno per mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da un’attività colposa di terzi.

In primo e secondo grado il proprietario di un appartamento danneggiato da alcune infiltrazioni provenienti da una soprastante terrazza aveva chiesto, nei confronti del condominio e del proprietario dell’immobile di cui la terrazza era proiezione, di essere risarcito, fra l’altro, dei danni derivanti dalla mancata utilizzazione del proprio appartamento. La domanda in questione era stata rigettata in entrambi i gradi di giudizio sulla scorta dell’assunto secondo cui il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile era stato solo allegato, ma non provato dal presunto danneggiato, il quale, per poter ottenere il risarcimento, avrebbe dovuto dimostrare di aver ricevuto concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile.

Il danneggiato, con il ricorso per cassazione, ha quindi lamentato la mancata applicazione, da parte della Corte di merito, degli approdi della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in tema di prova presuntiva del danno da mancato godimento del bene.

La Corte di cassazione, con la decisione in commento, ha accolto questo motivo di ricorso.

Nel proprio percorso argomentativo la Corte ha richiamato Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645, la quale, operando una mediazione fra la teoria normativa del danno e quella causale, ha affermato che in caso di occupazione senza titolo di un immobile da parte di un terzo, il danno da perdita del godimento del bene possa essere provato anche in via presuntiva.

In particolare, la Corte ha ricordato i passaggi fondamentali della citata sentenza delle Sezioni Unite, ovverosia che in caso di occupazione illegittima di un immobile: i) il danno evento è rappresentato dalla lesione del diritto di godere della cosa e non già da un pregiudizio cagionato al bene oggetto del diritto di proprietà; ii) il danno conseguenza è la perdita della concreta possibilità di godimento – diretto o indiretto – del bene, quale conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto di godimento; iii) il danneggiato ha l’onere di allegare la concreta possibilità di godimento perduta e, a fronte della specifica contestazione del convenuto, ha l’onere di fornirne la prova, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

La pronuncia in commento ha precisato che il principio affermato da Cass., Sez. Un., 15 novembre 2022, n. 33645 debba trovare applicazione anche nel caso – come quello oggetto del giudizio – in cui la perdita del godimento sia dovuta all’inagibilità dell’immobile causata da un’attività colposa di terzi.

Sulla scorta di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha rilevato come il giudice di seconde cure avesse erroneamente rigettato la domanda di risarcimento del danno per la perdita della disponibilità e del godimento dell’immobile ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello, per l’applicazione del principio di diritto riportato nella massima.

 

(*Contributo in tema di “Infiltrazioni: mancato godimento di un immobile a causa dell’inagibilità procurata da terzi”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

rendita vitalizia

La rendita vitalizia Rendita vitalizia: cos'è, cosa la distingue dalla rendita perpetua, a chi spetta, come funziona e giurisprudenza di rilievo in materia

Cos’è la rendita vitalizia?

La rendita vitalizia è un contratto disciplinato dagli articoli 1872 e seguenti del Codice Civile, con il quale una parte (denominata costituitore) si obbliga a corrispondere periodicamente una somma di denaro o una quantità di beni a un’altra parte (beneficiario o vitaliziato), per tutta la durata della vita di quest’ultimo o di un terzo.

Il contratto può essere a titolo oneroso, quando il vitaliziato trasferisce un bene o versa una somma in cambio della rendita, oppure a titolo gratuito, se costituito come donazione.

Tipologie di rendita

Il nostro codice civile prevede e disciplina due tipi di rendite:

  • perpetua: non è legata alla durata della vita di una persona specifica (art. 1861 c.c.) e si costituisce tramite contratto. Essa conferisce il diritto a esigere in modo perpetuo una prestazione periodica di denaro o di cose fungibili, quale corrispettivo della vendita di un immobile o della cessione di un capitale;
  • vitalizia: quando dipende dalla vita di un individuo determinato (art. 1872 c.c.). Ai sensi del comma 2 dell’art. 1873 del Codice Civile la rendita può essere costituita anche per la durata della vita di più persone.

Quando e a chi spetta

La rendita vitalizia può essere pattuita tra privati, derivare da specifiche disposizioni testamentarie o da una donazione. È uno strumento spesso utilizzato:

  • nell’ambito della pianificazione successoria, per garantire un reddito stabile a un familiare;
  • nei contratti di cessione di beni immobili con riserva di rendita a favore del cedente;
  • per assicurare un sostegno economico in caso di cessione d’azienda o quote societarie;
  • in ambito previdenziale, con rendite assicurative legate ai piani pensionistici.

La rendita spetta al beneficiario designato, il quale ha diritto a percepirla secondo le condizioni stabilite nel contratto. In caso di premorienza del beneficiario, la rendita si estingue, salvo diversa pattuizione.

Giurisprudenza in materia di rendita vitalizia 

La giurisprudenza ha spesso affrontato controversie relative alla rendita vitalizia.

Cassazione n. 8116/2024

Per accertare la validità di una rendita vitalizia, elemento essenziale è l’alea, ovvero l’equivalenza del rischio tra le parti al momento della stipula. Questa equivalenza si valuta considerando l’entità della rendita e la presumibile durata della vita del beneficiario. Il contratto è nullo se, per l’età e la salute del vitaliziato, era prevedibile con certezza il suo decesso, rendendo calcolabili guadagni e perdite per entrambe le parti. Nel caso specifico, la Cassazione ha confermato la nullità perché la vitaliziata di 48 anni, conoscendo la situazione economica della società vitaliziante, non presentava un rischio equivalente per quest’ultima.

Cassazione n. 10031/2023

L’accordo stipulato in sede di separazione e recepito nel divorzio congiunto, in cui un coniuge cede quote societarie all’altro in cambio di un assegno vitalizio a favore del cedente e dei figli, senza interruzione anche dopo la maggiore età di questi ultimi, non è soggetto a revisione ai sensi dell’articolo 8 della legge sul divorzio. La Corte qualifica tale pattuizione non come un assegno divorzile, ma come la costituzione di una rendita vitalizia, con conseguente inapplicabilità delle norme sulla revisione dell’assegno divorzile.

Cassazione n. 11290/2017

Secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, il vitalizio alimentare è un contratto atipico che si distingue dalla rendita vitalizia per la sua aleatorietà più accentuata. Questa alea non riguarda solo la durata del contratto, legata alla vita del beneficiario, ma anche la quantità e la natura delle prestazioni dovute (vitto, alloggio e assistenza), che possono variare nel tempo in base a fattori imprevedibili come le condizioni di salute del beneficiario. Inoltre, le prestazioni di assistenza hanno una natura spiccatamente personale e richiedono un vitaliziante specificamente scelto in base alle sue qualità individuali. Nel vitalizio alimentare, una parte si obbliga a fornire queste prestazioni in cambio del trasferimento di un immobile o di altri beni.

 

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opposizione di terzo

Opposizione di terzo all’esecuzione Opposizione di terzo all’esecuzione art. 619 c.p.c.: cos’è, chi la può proporre, come funziona la procedura e sentenze di rilievo

Cos’è l’opposizione di terzo all’esecuzione

L’opposizione di terzo all’esecuzione è un rimedio processuale a tutela di soggetti estranei a un’esecuzione forzata, che rivendicano un diritto di proprietà o altro diritto reale su un bene pignorato. Secondo l’art. 619 c.p.c., se un terzo sostiene di avere un diritto incompatibile con l’esecuzione in corso, può proporre opposizione per ottenere la liberazione del bene.

Chi può proporre l’opposizione di terzo

Sono legittimati a proporre opposizione di terzo:

  • il proprietario del bene pignorato, se dimostra che il bene non appartiene al debitore esecutato;
  • chi vanta sul bene dei diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, servitù);
  • il creditore pignoratizio o il titolare di altri diritti di garanzia;
  • chi ha stipulato un contratto opponibile ai terzi (es. locazione registrata prima del pignoramento).

L’onere della prova del diritto vantato sul bene spetta all’opponente, che deve dimostrare la titolarità mediante documentazione idonea (es. atti notarili, contratti, registrazioni nei pubblici registri).

Procedura di opposizione di terzo all’esecuzione

L’opposizione si propone con ricorso al giudice dell’esecuzione. Tale atto deve contenere seguenti elementi:

  • l’individuazione del bene pignorato;
  • la natura del diritto vantato;
  • le prove documentali a supporto della domanda. L’articolo 621 ccc dipone infatti che il terzo opponente non possa dimostrare il suo diritto per mezzo di testimoni, a meno che l’esistenza del diritto non sia verosimile in relazione alla professione o al commercio svolti da terzo o dal debitore.

Il giudice, esaminata l’istanza, può decidere di:

  • accogliere l’opposizione e disporre l’esclusione del bene dal pignoramento;
  • rigettare l’opposizione, se il diritto vantato non è sufficientemente provato;
  • sospendere l’esecuzione in via cautelare, in attesa della decisione.

Se l’opposizione è respinta, l’opponente può impugnare la decisione dinanzi alla Corte d’Appello.

Come opporsi?

Per proporre l’opposizione di terzo all’esecuzione, l’opponente deve compiere i seguenti passaggi:

  1. raccogliere la documentazione che attesti la titolarità del diritto;
  2. depositare il ricorso presso il Tribunale competente (dove si svolge l’esecuzione);
  3. notificare il ricorso alle parti coinvolte (creditore procedente e debitore);
  4. partecipare all’udienza, ove il giudice valuterà la fondatezza della richiesta.

Il giudice, su istanza del terzo, può anche, in presenza di gravi motivi, sospendere il processo con o senza cauzione.

Giurisprudenza rilevante

Alcune sentenze significative della Corte di Cassazione in tema di opposizione di terzo all’esecuzione:

Cassazione n. 40751/2021: l’azione prevista dall’articolo 619 del codice di procedura civile, essendo qualificata in questo modo, implica che essa rimane soggetta al principio generale secondo cui l’onere della prova ricade su chi, attraverso una propria affermazione, intende far derivare conseguenze giuridiche a suo favore. Pertanto, spetterà all’opponente dimostrare il fatto giuridico su cui basa il suo presunto diritto sui beni mobili soggetti a esecuzione, come stabilito anche dalla sentenza n. 1506/1972 della Sezione 3 della Corte di Cassazione.

Cassazione n. 17913/2022: nonostante la sua struttura bifasica, il giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione, disciplinato dall’articolo 619 del codice di procedura civile, presenta una natura unitaria. Di conseguenza, l’atto di citazione per la fase di merito, che eventualmente segue la fase sommaria dinanzi al giudice dell’esecuzione, è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella prima fase, a meno che la parte destinataria non abbia espresso una volontà diversa e esplicita di limitare la validità del mandato difensivo a tale fase.

Cassazione civile n. 4005/2022: se un terzo vanta un diritto reale su un bene immobile soggetto a esecuzione forzata, la sua possibilità di azione varia a seconda della sua partecipazione al procedimento esecutivo: se ha preso parte al procedimento, può presentare solo opposizione agli atti esecutivi; se non ha partecipato, può presentare opposizione di terzo ai sensi dell’articolo 619 del codice di procedura civile durante il giudizio di esecuzione e, dopo la vendita e l’aggiudicazione, può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario.

 

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giurista risponde

Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il danno morale costituisce una duplicazione del danno biologico?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus, con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass., sez. III, 14 novembre 2024, n. 30461).

Il giudizio di merito trae origine da un’azione di risarcimento danni intentata iure proprio e altresì come rappresentante legale della persona offesa dalla coniuge di un uomo rimasto invalido al 90% a seguito di una caduta su scala mobile interna ad una clinica ospedaliera, in cui si era recato a seguito di un malore e da cui era stato dimesso dopo esservisi recato per due giorni consecutivi. Il giudice di prime cure ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei medici che hanno dimesso il paziente e della clinica, decisione altresì confermata dalla Corte di Appello in sede di impugnazione, la quale ha tuttavia ridotto l’ammontare del danno in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato.

Con ricorso per Cassazione, la coniuge ha impugnato la decisione di merito, deducendo anzitutto l’illogicità dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico in caso di premorienza, che hanno comportato una riduzione del danno risarcibile a causa della morte del danneggiato in pendenza di giudizio. Secondo le tabelle milanesi utilizzate dalla Corte di Appello, infatti, l’invalidità permanente inciderebbe in misura maggiore all’inizio e in maniera progressivamente decrescente con il trascorrere del tempo, sino alla morte del soggetto leso.

La Suprema corte ha accolto le censure della ricorrente, poiché secondo costante e recente giurisprudenza in caso di premorienza per cause avulse dall’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, non già a quella statisticamente probabile, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass., sez. III, 29 maggio 2024, n. 15112).

Ulteriore motivo di doglianza è stata altresì l’omessa liquidazione del danno da invalidità temporanea, che a parere della ricorrente è diverso ed ultroneo dal danno biologico da premorienza. Anche per la Cassazione si tratta, infatti, di due voci di danno diverse: il danno da premorienza è il danno biologico permanente che, data la morte, cessa e che – pertanto – richiede una liquidazione parametrata sull’effettivo vissuto, cioè per la durata dell’invalidità permanente, senza che però ciò inglobi ex se il danno cagionato dall’invalidità temporanea, che va liquidato a parte.

Infine, la ricorrente ha lamentato l’omessa liquidazione del danno morale soggettivo, sull’assunto del giudice di merito per cui esso sarebbe una duplicazione del danno biologico. La Corte di cassazione ha – di contro – ribadito il principio consolidato per cui il danno morale costituisce un’autonoma voce del danno non patrimoniale. Esso va allegato e provato, ma è disgiunto dal danno biologico, al punto che esso può prodursi anche senza che il danneggiato abbia subito una lesione del diritto alla salute, come nel caso del danno all’onore o alla reputazione.

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti comprende, oltre al danno biologico, il danno morale, cioè la sofferenza interiore cagionata al danneggiato, nonché il danno esistenziale o dinamico-relazionale, ove la lesione abbia un impatto negativo sulla vita quotidiana. Trattasi, dunque, di tre voci di danno non patrimoniale che sono autonomamente risarcibili, salvo l’onere della prova in capo al richiedente.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

fermo tecnico

Il fermo tecnico Fermo tecnico: significato, normativa di riferimento, danno risarcibile e prova dello stesso, tipologie e giurisprudenza rilevante

Cos’è il fermo tecnico?

Il fermo tecnico è il periodo di tempo durante il quale un veicolo, un macchinario o un’attrezzatura non può essere utilizzato. Il mancato utilizzo può dipendere da un guasto o da un incidente che ne ha compromesso il normale funzionamento. Esso si verifica quindi quando un bene è immobilizzato per cause impreviste e necessita di riparazioni o interventi per tornare operativo.

Nel contesto di un incidente stradale, il fermo tecnico si riferisce al periodo in cui un veicolo non è utilizzabile perché danneggiato. Il proprietario quindi deve essere risarcito per i danni economici derivanti dalla perdita d’uso. Non si tratta di un danno fisico diretto al bene, ma di una perdita economica che può avere un impatto significativo sul reddito o sull’attività professionale.

Normativa di riferimento

Il fermo tecnico non ha una disciplina specifica all’interno del Codice Civile italiano. Esso si inserisce nel contesto delle disposizioni generali sui danni patrimoniali e sul risarcimento dei danni derivanti da incidenti e da responsabilità civile. Esso è collegato agli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile, che trattano della responsabilità civile per i danni causati da fatti illeciti.

Nel caso di un incidente stradale, il danno da fermo tecnico viene generalmente risarcito dal responsabile dell’incidente. Costui infatti dovrà risarcire il danno subito dal proprietario del veicolo danneggiato. Il danneggiato può chiedere il risarcimento del fermo tecnico anche per il periodo in cui il veicolo o l’attrezzatura è inutilizzabile. La prova del danno può essere fornita da un preventivo di riparazione o da un certificato di inidoneità rilasciato da un professionista.

In cosa consiste il danno da fermo tecnico

Il danno da fermo tecnico consiste nella perdita di guadagni o nella riduzione della produttività a causa dell’incapacità di utilizzare il veicolo, il macchinario o l’attrezzatura. Ad esempio, nel caso di un incidente che danneggia un veicolo utilizzato per il lavoro, il danno da fermo tecnico si concretizza nel periodo in cui il mezzo non può essere impiegato, con conseguente perdita economica per l’azienda o per il professionista.

Nel caso di un veicolo, il danno può essere calcolato in base al costo del noleggio di un altro mezzo equivalente o al guadagno perso durante il periodo in cui il veicolo è stato immobilizzato. Per un macchinario, il danno da fermo tecnico può essere determinato attraverso una stima del valore economico che l’azienda perde per l’impossibilità di utilizzare l’attrezzatura, considerando la durata del fermo e il tipo di attività che viene impedita.

Tipologie di danno da fermo tecnico

  • Fermo tecnico di un veicolo: il danno si calcola sulla base della perdita economica derivante dall’impossibilità di utilizzare il mezzo (Es: attività commerciale che dipende dal trasporto).
  • Fermo tecnico di un macchinario: in questo caso, il danno riguarda il fermo produttivo e viene calcolato sulla base dei guadagni che l’impresa non è riuscita a realizzare a causa dell’impossibilità di utilizzare l’
  • Fermo tecnico in ambito professionale: può riguardare anche il caso di un libero professionista che non può utilizzare il proprio veicolo o attrezzatura per lavorare, con la conseguente perdita di reddito.

Come va dimostrato il danno

Dimostrare il danno da fermo tecnico è essenziale per poter chiedere il risarcimento. Per ottenere un risarcimento, il danneggiato deve fornire prove adeguate del periodo di fermo, della causa che ha provocato l’immobilizzazione del bene e della perdita economica derivante da tale fermo.

Documenti utili per dimostrare il danno

  • Certificato di inidoneità (nel caso di incidenti stradali): serve a documentare il danno subito dal veicolo o dal macchinario.
  • Preventivo o fattura di riparazione: serve per provare i costi necessari per riparare il danno e far tornare il bene operativo.
  • Testimonianze: nel caso di incidenti o guasti, può essere utile avere testimonianze di persone che hanno assistito all’incidente o che possono confermare il periodo di fermo del bene.
  • Documentazione commerciale: come contratti, ordini e fatture che provano la perdita economica derivante dal fermo tecnico, ad esempio la mancata esecuzione di un servizio.
  • Contratti di noleggio: in caso di sostituzione del veicolo danneggiato con uno a noleggio, i contratti di noleggio possono dimostrare il periodo di immobilizzazione e i costi sostenuti.

Giurisprudenza sul fermo tecnico

La giurisprudenza italiana ha trattato diversi casi relativi al fermo tecnico e al risarcimento dei danni derivanti da tale immobilizzazione. Di seguito alcune sentenze significative:

Cassazione n. 15262/2023: il danno da “fermo tecnico” di un veicolo incidentato non può considerarsi automaticamente sussistente (“in re ipsa”). Esso richiede un’adeguata prova. A tal fine, è sufficiente dimostrare l’effettiva spesa sostenuta per il noleggio di un mezzo sostitutivo, la cui riconducibilità causale all’illecito può essere desunta attraverso un ragionamento presuntivo.

Cassazione n. 7358/2023: il danno da fermo tecnico di un veicolo incidentato deve essere adeguatamente allegato e dimostrato. Non è sufficiente la sola prova della sua indisponibilità. Spetta al danneggiato fornire evidenza della spesa sostenuta per il noleggio di un veicolo sostitutivo o del mancato guadagno derivante dall’impossibilità di utilizzare l’auto. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto erronea la decisione del giudice di merito che aveva richiesto anche la prova della necessità della spesa, nonostante fosse già stata dimostrata l’effettiva erogazione dell’importo

Cassazione n. 27343/2024: nel caso di illegittimo fermo amministrativo, il danno non patrimoniale, anche se invocato per la presunta violazione di diritti di rango costituzionale, non è risarcibile quando si limita a incidere sulla quotidianità con disagi, fastidi, frustrazioni, ansie o altre forme di insoddisfazione di lieve entità. Tali conseguenze, non configurandosi come gravi, restano prive di rilevanza risarcitoria in quanto di natura bagatellare e non suscettibili di una quantificazione economica.

 

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Sanzioni tributarie: non si trasmettono agli eredi La Cassazione si è pronunciata sull'intrasmissibilità delle sanzioni tributarie agli eredi in base alla normativa vigente

Intrasmissibilità sanzioni tributarie agli eredi

Le sanzioni tributarie non si trasmettono agli eredi del contribuente deceduto. Tale principio trova fondamento nell’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, rubricato appunto «Intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi», il quale stabilisce in modo esplicito che: «L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi». E’ quanto ha rammentato la sezione tributaria della Cassazione, nell’ordinanza n. 8684/2025, esaminando il ricorso di una vedova del socio di una società di fatto, chiamata a rispondere del debito tributario del de cuius, in qualità di erede del predetto.

Sanzioni civili e amministrative: diverso regime

La S.C. si è quindi soffermata, sul diverso regime successorio delle sanzioni civili rispetto a quelle amministrative. “Mentre le sanzioni civili sono sanzioni aggiuntive, destinate a risarcire il danno ed a rafforzare l’obbligazione con funzione di deterrente per scoraggiare l’inadempimento, le sanzioni amministrative (di cui alla l. n. 689/1981) – hanno affermato quindi i giudici della S.C. – quelle tributarie (di cui alla l. n. 472/1997) hanno un carattere afflittivo ed una destinazione di carattere generale e non settoriale, sicché rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, nei limiti della ragionevolezza, quando la violazione debba essere colpita da un tipo di sanzione piuttosto che da un altro”.

A tale scelta, peraltro, “si ricollega il regime applicabile, anche con riferimento alla trasmissibilità agli eredi, prevista solo per le sanzioni civili, quale principio generale in materia di obbligazioni, e non per le altre, per le quali opera il diverso principio dell’intrasmissibilità, quale corollario del carattere personale della responsabilità (cfr. Cass. n. 15067 del 2008; Cass. n. 25315 del 2022)”.

Interessi sui tributi: quando sono trasmissibili

Diversa è la questione relativa agli interessi maturati sui tributi dovuti, i quali, a differenza delle sanzioni, sono considerati accessori dei tributi stessi e dunque trasmissibili agli eredi.

La decisione

Per cui, limitatamente alla doglianza sulle sanzioni, il ricorso della donna è accolto e la sentenza cassata.

Allegati

impresa individuale

Impresa individuale Cos’è l’impresa individuale, qual è la normativa di riferimento e le caratteristiche, come aprirla e con quali costi

Cos’è l’impresa individuale

L’impresa individuale è una forma giuridica in cui un singolo individuo esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. In questo contesto, il titolare dell’impresa assume personalmente tutte le decisioni e le responsabilità connesse all’attività.

Caratteristiche dell’impresa individuale

  • Semplicità di costituzione: l’avvio è relativamente semplice e non richiede un capitale minimo iniziale;
  • Gestione autonoma: il titolare ha il pieno controllo sulle decisioni aziendali e può avvalersi di collaboratori o dipendenti per lo svolgimento dell’attività;
  • Responsabilità illimitata: il titolare risponde con tutto il suo patrimonio personale per le obbligazioni assunte dall’impresa.

Normativa di riferimento

In Italia, questo istituto è regolato dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 2082 e seguenti, che definiscono l’imprenditore e le modalità di esercizio dell’attività d’impresa.

Differenza tra ditta e impresa individuale

I termini “ditta individuale” e “impresa individuale” sono spesso utilizzati erroneamente come sinonimi. La “ditta” però è uno dei segni distintivi di un’impresa, è infatti il nome che l’impresa utilizza per identificarsi sul mercato. L’impresa individuale invece caratterizza l’attività svolta dall’imprenditore in modo organizzato, economico e professionale.

Vantaggi e svantaggi dell’impresa individuale

Vantaggi

  • Costi di avvio ridotti: non è necessario un capitale sociale minimo e le procedure burocratiche sono meno complesse rispetto ad altre forme giuridiche.
  • Gestione semplificata: il titolare ha il controllo diretto su tutte le operazioni e decisioni aziendali.

Svantaggi

  • Responsabilità personale illimitata: il titolare risponde con il proprio patrimonio personale per i debiti dell’impresa.
  • Capacità finanziaria limitata: essendo basata su un’unica persona, l’impresa potrebbe avere accesso limitato a risorse finanziarie rispetto a società con più soci.

Come aprire un’impresa individuale

Per avviare un’impresa individuale, è necessario seguire questi passaggi:

  1. Apertura della Partita IVA: richiedere l’attribuzione del numero di Partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate.
  2. Iscrizione al Registro delle Imprese: registrare l’impresa presso la Camera di Commercio competente territorialmente.
  3. Comunicazione di inizio attività: presentare la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) al Comune dove ha sede l’impresa.
  4. Iscrizione agli enti previdenziali: Registrarsi presso l’INPS e, se previsto, all’INAIL per le coperture assicurative obbligatorie.

Numero di dipendenti

Non esiste un limite specifico al numero di dipendenti che un’impresa individuale può assumere. Il titolare può decidere liberamente in base alle esigenze operative e alle capacità finanziarie dell’impresa.

Responsabilità per i debiti

Il titolare è personalmente responsabile per tutti i debiti e le obbligazioni dell’impresa. Ciò significa che, in caso di insolvenza, i creditori possono rivalersi sia sul patrimonio aziendale che su quello personale dell’imprenditore.

Costi di avvio

I costi per avviarla possono variare, ma generalmente includono:

  • Imposta di bollo e diritti di segreteria: circa 120€ – 400€, a seconda della Camera di Commercio locale;
  • Diritto annuale camerale: importo variabile in base al tipo di attività e alla provincia;
  • Spese per consulenze professionali: eventuali costi per commercialisti o consulenti per l’assistenza nelle pratiche burocratiche;

È consigliabile consultare gli enti locali o professionisti del settore per ottenere informazioni aggiornate sui costi specifici.

 

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quietanza di pagamento

La quietanza di pagamento Quietanza di pagamento: cos'è, quale forma deve avere, quali dati deve contenere, giurisprudenza e fac-simile

Cos’è la quietanza di pagamento e a cosa serve

La quietanza di pagamento è un documento con cui il creditore attesta di aver ricevuto un pagamento da parte del debitore, liberandolo dall’obbligazione. Questo strumento ha una funzione probatoria, dimostrando l’avvenuto saldo di un debito e prevenendo eventuali contestazioni future.

La quietanza può riguardare qualsiasi tipologia di pagamento, come il saldo di fatture, la chiusura di un prestito o il pagamento di un contratto di locazione. La sua importanza è fondamentale sia in ambito commerciale che civile, poiché certifica in modo inequivocabile l’adempimento di un’obbligazione.

La quietanza nel codice civile

La norma di riferimento per questo istituto è l’articolo 1199 del codice civile, che disciplina il diritto del debitore alla quietanza. La norma dispone infatti che il creditore che riceve il pagamento dal debitore, su richiesta di questo soggetto, deve a spese del richiedente, rilasciare quietanza e annotarlo sul titolo, se questo non viene restituito al debitore.

Forma e contenuto del documento

La quietanza di pagamento deve essere rilasciata in forma scritta.  Questa forma è preferibile per garantire certezza giuridica e maggiore tutela in caso di contestazioni.

Contenuto essenziale della quietanza di pagamento

Affinché la quietanza sia valida, deve contenere i seguenti elementi:

  • dati delle parti: nome e cognome del creditore e del debitore (o ragione sociale in caso di aziende);
  • importo pagato: cifra esatta corrisposta in numeri e in lettere;
  • causale del pagamento: specificazione dell’obbligazione adempiuta (es. pagamento fattura n. XXXX, saldo prestito, affitto mensile);
  • data e luogo del pagamento;
  • modalità di pagamento: contanti, bonifico bancario, assegno, ecc.;
  • firma del creditore: elemento essenziale per la validità della quietanza.

Giurisprudenza

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito il valore probatorio della quietanza di pagamento, stabilendo alcuni principi fondamentali.

Cassazione n. 19034/2024: la quietanza non è soggetta a particolari requisiti formali previsti dalla legge e può essere contenuta in qualsiasi documento che attesti in modo inequivoco l’avvenuto pagamento, specificandone l’importo e la causale. Tuttavia, affinché abbia valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria, deve essere rilasciata e sottoscritta dal creditore, poiché solo la firma conferisce al documento la validità probatoria tipica della scrittura privata, come stabilito dall’art. 2702 c.c.

Cassazione n. 5945/2023: Il creditore che, rilasciando una quietanza al debitore, riconosce di aver ricevuto il pagamento, effettua una confessione stragiudiziale opponibile alla controparte, con pieno valore probatorio ai sensi degli articoli 2733 e 2735 del codice civile. Pertanto, egli non può contestare tale dichiarazione se non dimostrando, conformemente a quanto previsto dall’articolo 2732 c.c., che essa è stata resa per errore di fatto o sotto costrizione, non essendo sufficiente provare la falsità della dichiarazione stessa.

Cassazione n. 23875/2021: La quietanza rilasciata al debitore costituisce prova piena dell’avvenuto pagamento. Se prodotta in giudizio, il creditore non può dimostrare tramite testimoni l’inesistenza del pagamento, ma solo provare che la dichiarazione è stata resa per errore di fatto o sotto violenza. Inoltre, affinché l’errore possa determinare l’annullamento, deve presentare i requisiti di essenzialità e riconoscibilità previsti dall’art. 1428 c.c.

Fac-simile di quietanza

Ecco un modello di quietanza di pagamento che può essere utilizzato per attestare l’avvenuta corresponsione di una somma dovuta:

QUIETANZA DI PAGAMENTO

Io sottoscritto/a [Nome e Cognome del creditore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], in qualità di creditore, dichiaro di aver ricevuto da [Nome e Cognome del debitore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], la somma di € [importo] ([importo in lettere]), a saldo dell’obbligazione relativa a [causale del pagamento, es. fattura n. XXXX, contratto di locazione, ecc.].

Il pagamento è avvenuto in data [data del pagamento] mediante [modalità di pagamento: bonifico bancario, contanti, assegno, ecc.].

Con la presente quietanza, dichiaro integralmente soddisfatta l’obbligazione di cui sopra e libero il debitore da ogni ulteriore pretesa relativa al pagamento in oggetto.

Luogo e data: ________________

Firma del creditore: ________________

 

 

 

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legato remuneratorio

Il legato remuneratorio Il legato remuneratorio: definizione, l’articolo 632 c.c., gli effetti, differenze con la donazione rimuneratoria e giurisprudenza

Cos’è il legato remuneratorio

Il legato remuneratorio è una disposizione testamentaria con cui il testatore attribuisce un bene o un diritto a un soggetto per ricompensarlo di servizi o benefici ricevuti in vita, senza che vi sia un obbligo giuridico di corrispettivo. Si distingue dalla donazione remuneratoria, poiché opera mortis causa.

Normativa di riferimento: articolo 632 c.c.

Il comma 2 dell’articolo 632 del Codice Civile disciplina il legato remuneratorio, stabilendo che “Sono validi i legati fatti a titolo di rimunerazione per i servizi prestati al testatore, anche se non ne sia indicato l’oggetto o la quantità.”

Per comprendere il significato del legato rimuneratorio occorre menzionare però anche il comma 1 della norma, ai sensi del quale: “È nulla la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato.”

In sostanza il legislatore ammette il legato per riconoscenza, a condizione che la volontà testamentaria venga rispettata e non sia rimesso a un terzo o al beneficiario del legato compreso, la determinazione arbitraria dell’oggetto o della quantità del legato stesso.

Effetti del legato remuneratorio

  1. Acquisto automatico: come ogni legato, si acquista di diritto alla morte del testatore, senza necessità di accettazione espressa, salvo rinuncia;
  2. Irriducibilità totale o parziale: se il valore del legato eccede la quota disponibile, può essere ridotto a tutela dei legittimari;
  3. Diritto di prelazione: in alcuni casi, il legatario può vantare un diritto di prelazione sul bene rispetto agli eredi;
  4. Esonero dai debiti ereditari: il legatario non risponde delle passività ereditarie oltre il valore del legato ricevuto.

Differenze con la donazione remuneratoria

A differenza della donazione remuneratoria (disciplinata dall’art. 770 c.c.), che è un atto inter vivos, il legato remuneratorio produce effetti solo alla morte del testatore e non richiede accettazione espressa.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti applicativi dell’articolo 632 c.c

Cassazione n. 191/1970: l’art. 632, comma 1, c.c., prevede la nullità della disposizione testamentaria quando l’oggetto o la quantità del legato sono rimessi al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo. Tuttavia, tale norma non si estende alla scelta della data di esecuzione della prestazione, anche se questa può influire sull’ammontare del legato.

 

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usucapione breve

Usucapione breve Usucapione breve: cos'è, tipologie, caratteristiche distintive ed elementi comuni all’usucapione breve sugli immobili

Usucapione breve: definizione generale

L’usucapione breve è una forma accelerata di acquisto della proprietà o di altri diritti reali di godimento su un bene immobile che si realizza con il possesso continuato nel tempo. Rispetto all’usucapione ordinaria, che richiede un possesso ventennale, quella abbreviata riduce i tempi a 10 e a 5 anni, a seconda dei casi.

Tipologie  

1. Usucapione abbreviata decennale (art. 1159 c.c.)

  • riguarda gli immobili e i diritti reali di godimento sugli immobili;
  • l’acquisto deve avvenire in buona fede e da chi non è proprietario dell’immobile;
  • il possesso deve essere in buona fede e derivare da un titolo idoneo a trasferire la proprietà (es. atto di compravendita nullo per vizi formali);
  • il titolo deve essere trascritto nei registri immobiliari;
  • dopo 10 anni di possesso continuato, il possessore può ottenere la proprietà del bene in presenza di tutti i requisiti sopra indicati.

2. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale (art. 1159 bis c.c)

  • riguarda i fondi rustici con fabbricati annessi situati nei comuni montani, così come definiti dalla legge;
  • l’acquisto deve avvenire da chi non è proprietario dell’immobile;
  • il possesso deve  avvenire in buona fede in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà;
  • il titolo deve essere trascritto nei registri immobiliari;
  • dopo 5 anni dalla data di trascrizione, si compie l’usucapione.

Questa seconda tipologia di usucapione è regolata, dal punto di vista procedurale, da leggi speciali. Essa si realizza anche su fondi rustici con fabbricati annessi presenti in comuni non montani, ma in questi casi il reddito dell’immobile non deve superare certi limiti.

Elementi chiave 

Gli elementi che caratterizzano questo tipo particolare di usucapione possono essere così sintetizzati:

  • il possesso pacifico e ininterrotto: il possesso deve essere esercitato in modo continuativo, senza interruzioni e senza contestazioni;
  • la buona fede: il possessore deve essere convinto, in modo ragionevole, di essere il legittimo proprietario del bene;
  • il titolo idoneo: deve trattarsi di un contratto valido che, se non fosse nullo o inefficace,  potrebbe trasferire la proprietà;
  • trascrizione nei registri pubblici: questo elemento è essenziale per l’usucapione abbreviata sugli immobili e sulle piccole proprietà rurali.

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