doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.

nullità notifica decreto ingiuntivo

Nullità della notifica del decreto ingiuntivo La nullità della notifica del decreto ingiuntivo va fatta valere in sede di opposizione al decreto. Differenze tra nullità e inesistenza della notifica

Il termine per la notifica del decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 641 c.p.c. dev’essere notificato unitamente al ricorso (entrambi gli atti in forma di copia autentica) al debitore entro il termine di sessanta giorni a pena di inefficacia dello stesso (art. 644 c.p.c.).

L’eventuale nullità della notifica del decreto ingiuntivo può essere fatta valere dal debitore con l’opposizione al decreto ex art. 645 c.p.c. o con l’opposizione tardiva di cui all’art. 650, fornendo la dimostrazione che non si è avuta la tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo in conseguenza della nullità della notifica.

Inesistenza e nullità della notifica del decreto ingiuntivo

È importante distinguere tra nullità della notifica del decreto ingiuntivo e inesistenza della stessa. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il destinatario dell’atto può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto stesso.

In particolare, l’inesistenza della notifica si ha quando il vizio della notifica sia talmente grave da privarla dei suoi caratteri essenziali (ad esempio, quando sia compiuta da soggetto non legittimato, oppure in caso di mancanza totale della notifica), mentre in tutti gli altri casi (ad esempio, consegna in un luogo diverso da quelli individuati dalla legge, ma comunque ricollegabile alla persona del destinatario) si deve parlare di nullità.

Solo in caso di inesistenza della notifica il soggetto interessato può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto, ex art. 188 disp. att. c.p.c. In caso contrario, la nullità dev’essere fatta valere solo in sede di opposizione.

Infatti, le cause di nullità della notifica integrano ipotesi in cui l’attività posta in essere dal creditore, pur irregolare, vale come manifestazione dell’intenzione di quest’ultimo di far valere il decreto ingiuntivo precedentemente ottenuto dal giudice, a differenza di quanto succede in caso di inesistenza della notifica.

Nullità della notifica ed effetto sanante della costituzione

Altro aspetto da evidenziare è che la nullità della notifica del decreto ingiuntivo non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi (di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.), potendo essere rilevata solo davanti al giudice competente per l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 o per l’opposizione tardiva ex art. 650.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sé l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione, “con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa” (v. Cass., sez. VI Civ., ord. n. 29729/19).

riforma Cartabia processo civile

Riforma Cartabia processo civile La riforma Cartabia del processo civile e i correttivi in fase di approvazione per rendere la procedura ancora più efficiente 

Riforma Cartabia e correttivi

La riforma Cartabia del processo civile è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022. La legge di bilancio 2023 n. 127/2022 ha anticipato l’entrata in vigore di molte disposizioni della riforma, che ha modificato in modo organico il processo civile.

A meno di un anno dalla sua entrata in vigore, il Ministro della Giustizia Nordio ha già presentato una serie di correttivi alla Riforma Cartabia per velocizzare e alleggerire la procedura, soprattutto attraverso una maggiore digitalizzazione.

In attesa dell’approvazione definitiva dei correttivi, ricordiamo in breve le principali modifiche apportate dalla Cartabia al codice di procedura civile.

Modifiche alle disposizioni generali

Ampliata la competenza per valore del Giudice di Pace, che è stata innalzata a 10.000,00 euro per le cause relative a beni mobili e a 25.000,00 euro per le cause risarcitorie che riguardano i danni prodotto dalla circolazione stradale.

Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ora può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre il difetto del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o di altri giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei gradi di impugnazione il difetto può essere rilevato solo se oggetto di un motivo specifico. L’attore però non può impugnare la sentenza per denunciare la giurisdizione del giudice a cui si è rivolto.

In presenza di cause connesse relative a cause accessorie, di garanzia, accertamento incidentale o eccezione di compensazione, se una di esse è soggetta al rito semplificato di cognizione e l’altra a un rito speciale, le cause devono essere trattate con il rito semplificato di cognizione.

Cambiano le regole del regolamento di competenza. Chi propone l’istanza deve depositare il ricorso e i documenti a corredo della stessa nel termine perentorio di 20 giorni, che decorre dalla data dell’ultima notificazione alle parti. I processi nel cui ambito viene richiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno in cui la copia del ricorso notificato vene depositata davanti al giudice  innanzi al quale pende la causa o dal giorno in cui viene emessa l’ordinanza con cui il giudice chiede il regolamento di competenza.

Il Tribunale in composizione collegiale non decide più le cause indicate nei punti 5 e 6 dell’art. 50 bis c.p.c tra le quali figurano:

  • le impugnazioni alle delibere assembleari;
  • le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione della legittima.

A causa delle imponenti modifiche che hanno investito la normativa dedicata alle persone e alla famiglia l’art. 78 c.p.c limita la nomina del curatore speciale ai soli casi in cui viene rilevata l’urgenza di avere una persona che assista o rappresenti un incapace, una persona giuridica o una associazione, in attesa che venga nominato il soggetto che ne assuma la rappresentanza o lo assista. La nomina del curatore è prevista inoltre se c’è conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante.

Chi si comporta male in giudizio, nei casi contemplati dall’art. 96 c.p.c (responsabilità aggravata), viene raggiunto anche da una sanzione pecuniaria che varia da un minimo di 500 a un massimo di 5.000 euro.

Aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c, dedicato al principio del contraddittorio, che  prevede l’adozione di provvedimenti opportuni nel caso in cui il giudice rilevi una lesione del diritto di difesa.

Il nuovo art. 121 c.p.c, nel sancire la libertà della forme per gli atti per i quali la legge non prevede forme determinate, per tutti gli atti del processo sancisce il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità.

Introdotta la possibilità di svolgere le udienze da remoto, mediante collegamenti audiovisivi, come previsto dal nuovo art. 127 bis c.p.c. e di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte come prevede il nuovo art. 127 ter c.p.c.

Tante le novità che hanno investito le notifiche, con conseguente modifica degli articoli 137, 139, 147 e 149 bis c.p.c. Eliminate le comunicazioni a mezzo telefax, nessun limite orario per le notifiche a mezzo pec, che l’UG esegue ai destinatari obbligati di munirsi di un indirizzo di posta elettronica.

Le novità del processo di cognizione

La parte introduttiva del giudizio di cognizione cambia notevolmente. Modificato il contenuto dell’atto di citazione art. 163 c.p.c, modificati i termini per comparire art. 163 bis, le regole di costituzione dell’attore art. 165 c.p.c e del convenuto art. 166 c.p.c.

Le attività che le parti svolgevano a causa già iniziata con le memorie art. 183 c.p.c vengono ora anticipate all’interno delle memorie integrative art. 171 ter da produrre prima della prima udienza, la cui disciplina, contenuta nell’art. 183 c.p.c è stata completamente riformulata.

Eliminata l’udienza 184 c.p.c dedicata all’assunzione dei mezzi di prova, la riforma ha modificato anche l’art. 188 c.p.c. In base alla nuova formulazione di questa norma il giudice, una volta completata l’istruttoria, rimette le parti davanti al Collegio per la decisione, assegnando termini per note e comparse o dopo la discussione orale art. 275 bis c.p.c.

Cambiate le regole per la remissione della causa dal Collegio al Giudice monocratico e viceversa e introdotto il procedimento semplificato di cognizione per le cause “pronte”per la decisione.

Cambiato anche il procedimento davanti al giudice di Pace, che viene avviato con ricorso e al quale si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme del procedimento semplificato di cognizione.

Il giudizio di appello è stato in gran parte riformato. Modificato l’art. 342 c.p.c sulla forma dell’atto di appello e l’art. 343 c.p.c sui modi e termini dell’appello incidentale, che deve essere proposto a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata dall’appellante. Cambiate le regole sulla improcedibilità dell’appello, che ora viene dichiarata con sentenza. Completamente riformato l’art. 348 bis c.p.c sulla inammissibilità e manifesta infondatezza dell’appello. Torna il giudice istruttore in appello se il procedimento si svolge davanti alla Corte, cambia la trattazione in appello e anche la fase decisionale, che avviene alternativamente in base alle regole dell’art. 350 bis c.p.c dopo la discussione orale o in base a quanto previsto dall’art. 352 c.p.c, che prevede la decisione dopo la concessione di termini per note e comparse.

Il giudizio davanti alla Cassazione viene rinnovato attraverso la previsione di nuovi casi di ricorso e del nuovo rinvio pregiudiziale per la risoluzione di questioni di diritto. Cambiato anche il contenuto del ricorso e i termini di deposito del controricorso e del ricorso incidentale. Distribuiti diversamente anche i casi in cui la Cassazione può pronunciarsi in udienza pubblica o in camera di consiglio.

Il processo esecutivo è stato rinnovato con l’eliminazione della formula esecutiva da apporre sul titolo, sostituita dalla copia attestata conforme all’originale. Riformata la norma sul pignoramento in generale e l’art. 492 bis c.p.c sulla ricerca telematica dei beni da  pignorare. Introdotto ex novo l’art. 568 bis c.p.c che consente al debitore di procedere alla vendita diretta dell’immobile pignorato alle condizioni stabilite dall’art. 569 bis c.p.c.

proprietà fiduciaria

Proprietà fiduciaria Nella proprietà fiduciaria un soggetto trasferisce la titolarità di un bene ad un altro soggetto, con il vincolo di usarlo per soddisfare l’interesse di un beneficiario

La proprietà fiduciaria nel nostro ordinamento

Con la locuzione “proprietà fiduciaria” si suole indicare una particolare configurazione del diritto di proprietà, che postula l’intestazione di un bene in capo a una persona con il vincolo di utilizzarlo per la soddisfazione di un particolare interesse a favore di un altro soggetto, detto beneficiario.

Solitamente, l’istituto che meglio rappresenta lo schema della proprietà fiduciaria è il trust, figura di origine anglosassone, che si sostanzia in un negozio giuridico unilaterale con cui il disponente trasferisce un bene a una persona di fiducia, il trustee, che ha l’obbligo di amministrarlo con lo scopo di favorire in un determinato modo il beneficiario.

Solo negli ultimi decenni la figura del trust, e più in generale il concetto di proprietà fiduciaria, si è fatto largo nell’ordinamento italiano, vincendo soprattutto le riserve di chi vi scorge – con fondati timori – soprattutto un modo per eludere i diritti dei creditori.

Uno dei principali tratti distintivi della proprietà fiduciaria è infatti quello di costituire un patrimonio separato da quello del suo intestatario, quindi non aggredibile dai creditori.

Il trust e l’art. 2645-ter del codice civile

L’art. 2645-ter del codice civile, introdotto nel 2005, disciplina nel nostro ordinamento i c.d. patrimoni di destinazione, caratterizzati dall’amministrazione di fiducia di un bene operata dal soggetto a cui tale bene viene intestato.

In particolare, tale articolo, rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (…)”, riguarda gli atti pubblici con cui beni immobili o mobili registrati vengono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

Con riferimento a tali beni, è possibile operare una trascrizione nei pubblici registri al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione.

È inoltre previsto che, per la realizzazione di tali interessi può agire in giudizio, oltre al disponente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del disponente stesso.

Proprietà fiduciaria e contratto fiduciario: differenze

Le caratteristiche appena descritte, proprie dei patrimoni di destinazione, valgono a distinguere la proprietà fiduciaria dal contratto fiduciario.

Quest’ultimo, infatti, non integra una particolare configurazione di un diritto reale, ma individua un normale negozio giuridico; ed infatti, in tal caso, legittimato ad agire per la soddisfazione dell’interesse del beneficiario è solo il disponente/contraente, e non qualsiasi interessato.

Inoltre, la trascrizione del vincolo di destinazione prevista nelle ipotesi di proprietà fiduciaria fa sì che il vincolo di destinazione “segua” il bene in ogni caso di trasferimento della proprietà di quest’ultimo e sia, pertanto, opponibile agli aventi causa del fiduciario.

Nel caso di negozio fiduciario, invece, agli aventi causa del fiduciante che abbia venduto contravvenendo al contratto, quest’ultimo non può essere opposto, ferma restando la possibilità per il disponente di ottenere il risarcimento del danno dal fiduciario.

Trascrizione del vincolo e tutela dei creditori

Infine, rileva la norma posta dall’ultimo periodo dell’articolo 2645-ter c.c., in base alla quale i beni conferiti dal disponente e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo.

Ciò, comunque, a condizione che, se si tratta di beni immobili o mobili registrati, la trascrizione dell’atto che comporta il vincolo di indisponibilità sia stata trascritta prima del pignoramento, come stabilito dall’art. 2915 c.c., primo comma. È evidente la finalità che ha tale norma di evitare che il patrimonio destinato sia istituito con lo scopo di sottrarre dei beni del disponente all’aggredibilità da parte dei creditori (v. art. 2740 c.c.: “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”).

mediatore immobiliare

Mediatore immobiliare non iscritto L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria e, in caso di reiterazione, può portare a sanzioni penali

Esercizio abusivo dell’attività di mediatore

L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito dalla legge con una consistente sanzione amministrativa pecuniaria, e in caso di reiterazione della violazione, può portare all’applicazione di sanzioni di carattere penale, come vedremo in questa breve guida.

Come noto, l’attività del mediatore consiste nel mettere in contatto due parti affinché queste concludano un affare. La figura del mediatore è disciplinata dalla legge, in particolare, per quanto riguarda i requisiti che il soggetto che voglia svolgere tale attività deve possedere e gli adempimenti che portano all’iscrizione nei registri tenuti dalle Camere di Commercio (CCIAA).

Il mediatore immobiliare non iscritto in tali registri è passibile delle sanzioni cui si accennava più sopra, e che adesso analizzeremo più nel dettaglio.

Mediatore immobiliare requisiti e iscrizione alle CCIAA

In base all’art. 2 della legge n. 39 del 1989, per svolgere l’attività di mediatore occorre possedere una serie di requisiti, attinenti in particolare al possesso del diploma, alla formazione professionale e all’assenza di cause ostative quali il fallimento o la condanna per alcuni determinati reati.

In origine, il possesso di tali requisiti era il presupposto per l’iscrizione nel ruolo dei mediatori (più precisamente, “degli agenti di affari in mediazione”) tenuto dalle CCIAA. Oggi tale ruolo è stato soppresso, per espressa disposizione del d.lgs. 59 del 2010.

Tale decreto dispone, attualmente, che l’attività di mediatore può esercitarsi a seguito di presentazione alla Camera di Commercio competente di una semplice segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), accompagnata da apposita certificazione (o autocertificazione) che dimostri il possesso dei requisiti sopra citati.

Questi ultimi danno diritto, oggi, all’iscrizione del mediatore nel registro delle imprese, se l’attività è svolta in forma di impresa, oppure nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA), se si tratta di persona fisica. In entrambi casi, l’iscrizione è subordinata al controllo sui requisiti da parte della CCIAA.

Le sanzioni per il mediatore immobiliare non iscritto

Alle Camere di Commercio è demandata la vigilanza sull’attività dei mediatori, con potere di erogare sanzioni disciplinari in caso di violazione degli obblighi e doveri connessi con l’esercizio di tale attività.

Inoltre, la Camera di Commercio ha il potere di punire l’esercizio abusivo dell’attività posta in essere dal mediatore immobiliare non iscritto nei registri, irrogando il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal primo comma dell’art. 8 della legge n. 39/1989 sopra citata, sanzione che consiste nel pagamento di una somma da € 7.500 a € 15.000.

Inoltre, il mediatore immobiliare abusivo non ha diritto ad alcuna provvigione: pertanto, egli è tenuto alla restituzione in favore delle parti della provvigione eventualmente già percepita.

Ma le conseguenze per l’esercizio abusivo della mediazione non finiscono qui, perché, come anticipato, vi possono essere anche delle sanzioni di carattere penale.

Infatti, in caso di reiterazione della condotta di mediazione abusiva, e quindi dopo la seconda sanzione amministrativa erogata dalla Camera di Commercio, quest’ultima è tenuta ad inoltrare apposita denuncia all’ Autorità Giudiziaria competente, per consentire l’applicazione della relativa sanzione penale.

Il secondo comma dell’art. 8 della l. 39/1989, infatti, prevede che, in tal caso, si applicano le sanzioni previste dall’articolo 348 del codice penale e dall’articolo 2231 del codice civile.

Tali norme prevedono, rispettivamente, quanto segue: l’art. 348 c.p. punisce l’esercizio abusivo di una professione con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

L’art. 2231 c.c., invece, sanziona sul piano civilistico l’esercizio di un’attività professionale in mancanza d’iscrizione, prevedendo che la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà il diritto di agire in giudizio per ottenere il pagamento del compenso.

usucapione buona fede

Usucapione e buona fede Per aversi usucapione la buona fede è richiesta solo nelle c.d. forme speciali, mentre l’usucapione ordinaria esige solo il possesso e il decorso di un certo periodo di tempo

L’usucapione come modo di acquisto della proprietà

L’usucapione è un particolare modo di acquisto della proprietà a titolo originario (cioè, indipendente dal diritto del precedente titolare), che, nella sua configurazione ordinaria, ha come elementi costitutivi il possesso e il decorso di un determinato periodo di tempo.

Il codice civile individua anche altre ipotesi di usucapione, cosiddette abbreviate o speciali, che esigono la sussistenza di due ulteriori elementi: la buona fede del possessore e l’esistenza di un titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà.

Perché si verifichi l’usucapione la buona fede non è pertanto sempre indispensabile. In questa breve guida proponiamo un esame delle varie ipotesi in cui il possesso di un bene, unitamente ad altri elementi, determina l’acquisto della proprietà.

Usucapione di buona fede e ordinaria

La principale ipotesi ordinaria di usucapione è quella prevista dall’art. 1158 c.c., secondo cui la proprietà su beni immobili si acquista con il possesso ventennale del bene. Come si vede, in questo caso la buona fede non è un elemento richiesto perché si verifichi l’acquisto della proprietà.

Sempre riguardo ai beni immobili, l’art. 1159 c.c. descrive le condizioni per l’usucapione abbreviata. Rimane indispensabile il possesso del bene, ma i termini sono abbreviati a dieci anni, se sussistono anche i seguenti ulteriori elementi: l’acquisto in buona fede da un soggetto diverso dal proprietario, in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà che sia stato trascritto nei registri immobiliari.

La trascrizione, diversamente da quanto accade di solito, ha in questo caso valenza costitutiva ai fini dell’esistenza del diritto: i dieci anni necessari all’usucapione di buona fede iniziano a decorrere, infatti, proprio dalla trascrizione del titolo.

L’usucapione di beni mobili

Sotto diversi aspetti, l’usucapione di buona fede ha molti punti in comune con la disciplina prevista dall’art. 1153 con riferimento ai beni mobili, con la differenza che in quest’ultimo caso per l’acquisto a non domino non è richiesto il decorso di un certo periodo di tempo (in ciò si integra la c.d. regola “possesso vale titolo”, che non vale per i beni immobili, universalità di mobili e mobili registrati, per i quali è prevista solo l’usucapione).

Ancora diversa è l’usucapione di beni mobili, disciplinata dall’art. 1161 c.c., secondo cui, anche quando manchi un titolo idoneo a trasferire la proprietà, il possesso del bene può comportare l’acquisto della proprietà se fu acquistato in buona fede e sia continuato per dieci anni.

In mancanza di buona fede al momento dell’acquisto del possesso, l’usucapione del bene mobile si acquista con il possesso continuato per venti anni.

Giova ricordare che, per aversi buona fede, è necessario che l’accipiente ignori che il bene non appartiene al soggetto da cui ha (rectius: suppone di aver) acquistato il bene.

Altri casi di usucapione con buona fede

Analoga distinzione tra usucapione ordinaria e usucapione di buona fede è individuata dall’art. 1159-bis con riferimento ai fondi rustici con annessi fabbricati (in tal caso il periodo di tempo richiesto è, rispettivamente, di quindici e di cinque anni).

L’usucapione di universalità di mobili si compie parimenti in venti anni, mentre in via abbreviata sono sufficienti dieci anni se c’è buona fede (art. 1160; in tali casi, come noto, non è prevista la trascrizione del titolo).

L’art. 1162, infine, disciplina l’acquisto per usucapione dei beni mobili registrati (navi, automobili, etc.), che si compie in soli tre anni dalla trascrizione del titolo, se vi è buona fede, altrimenti in dieci anni se sussiste il solo possesso ma manca il titolo o la buona fede.

 

 

tribunale online

Tribunale online: come funziona Attivo dal 1° marzo 2024 il tribunale online. La sperimentazione coinvolge sette sedi: Catania, Catanzaro, L'Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona

Tribunale online dal 1° marzo

Tribunali più smart per una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini. E’ questo l’obiettivo della sperimentazione del progetto “Tribunale online” attivo in sette sedi (Catania, Catanzaro, L’Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona) dal 1° marzo 2024.

L’iniziativa, realizzata dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia, è stata finanziata nell’ambito del Pon Governance 2014-2020, in coerenza con le priorità indicate dal Pnrr.

Caratteristiche

Il portale, fruibile da qualsiasi dispositivo, è costituito da una sezione pubblica accessibile a tutti, di natura informativa, e da una sezione riservata, in cui i cittadini dotati di identità digitale possono depositare autonomamente alcune istanze nei procedimenti di volontaria giurisdizione e monitorarne le fasi.

Il portale Tribunale Online è disponibile all’indirizzo https://smart.giustizia.it/to e raggiungibile dal portale dei Servizi Telematici del Ministero della giustizia https://pst.giustizia.it.

All’interno dell’area pubblica, liberamente accessibile, sono contenute informazioni su iter procedurali, attori, tempi e costi dei servizi, modulistica completa e istruzioni sul deposito presso i Tribunali, oltre a una sezione dedicata alle domande frequenti.

All’interno dell’area riservata, accessibile previa autenticazione tramite SPID, CIE e CNS, è possibile depositare le domande e monitorare tutte le fasi del procedimento.

Procedimenti ammessi

I procedimenti ammessi al deposito telematico attraverso la piattaforma sono: amministrazione di sostegno (art.473-bis.58 c.p.c.); gestione dell’eredità giacente e nomina del curatore (art.782 c.p.c.); richiesta di autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione in favore di minori (art. 320, 374 c.p.c.); autorizzazione al rilascio di passaporto o documento valido per l’espatrio per figli minori (art 3, lett.a) della legge 21 novembre 1967, n. 1185).

La piattaforma è predisposta altresì per la consultazione di molteplici procedimenti nell’ambito della volontaria giurisdizione. Nei casi in cui il procedimento, o il Tribunale di riferimento, non sia tra quelli coinvolti nella sperimentazione, l’utente avrà la possibilità di recepire informazioni utili all’avvio dell’iter per l’atto di interesse, con indicazione e riferimenti dell’ufficio giudiziario di competenza territoriale.

Il deposito per l’utenza non qualificata sarà possibile attraverso la compilazione online con procedura guidata e l’invio della domanda direttamente dalla piattaforma.

Le notifiche cartacee da parte dell’ufficio giudiziario, spedite tramite raccomandata postale, saranno sostituite dalle notifiche di avvenuta consegna visualizzabili nell’area riservata del portale.

La modulistica eterogenea tra uffici giudiziari sarà sostituita da una modulistica standard, disponibile nell’Area pubblica del portale.

giurista risponde

Fecondazione ovulo e termine revoca consenso È costituzionalmente legittimo l’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, in relazione da un lato, agli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso»?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

L’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, viola, da un lato, gli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, gli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». – Corte cost. 24 luglio 2023, n. 161.

Nel caso di specie la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo L. 40/2004 che nel disciplinare il consenso informato della coppia all’accesso alla pratica di procreazione medicalmente assistita, ne prevede la revoca fino al momento della fecondazione dell’ovulo.

La questione trae origine dalle sentenze della Corte Costituzionale (Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151 e Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96) che avrebbero fatto venir meno il sostanziale divieto di crioconservazione, sicché la norma sull’irrevocabilità del consenso si troverebbe oggi ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire non più necessariamente «nell’immediatezza della formazione dell’embrione» (formulazione ancora contenuta all’art. 14, comma 3, L. 40/2004) ma anche «a distanza di anni» e, quindi, in una situazione profondamente mutata.

Poiché l’art. 5, comma 1, della L. 40/2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», nell’ipotesi in cui «venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto», dovrebbe ritenersi sempre possibile la revoca del consenso.

Secondo il giudice rimettente la norma censurata contrasterebbe da un lato, con il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore (artt. 2 e 117 Cost., con quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU) e dall’altro, con gli artt. 3 e 13 Cost. poiché, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, la suddetta disciplina normativa irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà», determinando anche una disparità di trattamento tra i genitori intenzionali, potendo, infatti, la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, che non potrebbe esserle imposto in quanto lesivo della sua integrità psicofisica.

La norma sospettata si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 32, comma 2, Cost., giacché assoggetterebbe l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio.

La questione relativa alla violazione del principio di uguaglianza viene ritenuto infondata.

La situazione in cui versa la donna è, infatti, profondamente diversa da quella dell’uomo: come ha correttamente rilevato l’Avvocatura generale dello Stato, dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica.

Proprio tale eterogeneità di situazioni conduce a escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento di questa Corte, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili».

Infondate sono anche le censure relative agli artt. 2 e 3 Cost.

Va innanzitutto precisato che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso.

Inoltre, va precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della L. 40/2004 ha una portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio che comporta un’assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione.

Va poi considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti, in primo luogo attinenti alla donna. Essa, infatti, è sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi; al prelievo dell’ovocita, nel caso di fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo; ad ulteriori trattamenti farmacologici e analisi; nonché interventi medici, successivi alla fecondazione.

L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione.

Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna ha portato questa Corte a ritenere «insindacabile» la «scelta politico-legislativa» di lasciarla «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito, precisando «che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare, all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna»

Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione: la PMA, infatti, «mira a favorire la vita» (Corte cost. 9 aprile 2014, n. 162), volendo assistere la procreazione – cioè, la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia.

Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella L. 40/2004, dai ricordati artt. 8 e 9.

Del resto, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale talmente determinante da far preferire la non vita.

Infine, per ciò che concerne la violazione dell’art. 8 CEDE, la Corte Costituzionale richiama la stessa giurisprudenza della Corte Edu intervenuta a vagliare la compatibilità convenzionale del diritto inglese il quale, contrariamente a quello italiano, riconosce la revocabilità del consenso dell’uomo fino all’impianto dell’embrione nell’utero. In tal caso la Corte Edu, rilevando l’assenza di un comune consenso europeo sul punto ha rimarcato l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel risolvere un dilemma a fronte del quale qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell’una o dell’altra parte, concludendo per l’insussistenza di motivi per ritenere che la soluzione adottata dal legislatore inglese avesse superato il margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU.

In conclusione, la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte.

giurista risponde

Diritti di abitazione e uso coniuge separato I diritti di abitazione e uso spettano al coniuge separato senza addebito?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare. – Cass. II, 26 luglio 2023, n. 22566.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la spettanza al coniuge separato senza addebito del diritto di abitazione ed uso di cui all’art. 540, comma 2, c.c.

Quest’ultimo consiste in un diritto personale di godimento riconosciuto al coniuge superstite, la cui ratio si individua nella necessità di garantire allo stesso la permanenza nella c.d. “casa familiare” in modo da evitare un significativo mutamento del proprio aspetto personale.

Tali attribuzioni vengono qualificati dalla giurisprudenza come prelegati, ossia legati (in questo caso ex lege) a favore dell’erede ed a carico dell’eredità.

In relazioni ad essi si è posto il problema della loro spettanza in favore del coniuge separato senza addebito, nonostante la parificazione normativa, in punto successorio, tra la posizione dello stesso e quella del coniuge non separato.

Secondo un primo orientamento, infatti, per “casa familiare” si dovrebbe intendere la sola la casa di residenza comune al momento dell’apertura della successione.

Ai sensi di una seconda tesi, invece, oggetto dei diritti di abitazione e di uso dovrebbe essere l’ultima casa che fu di residenza comune, benché in un tempo precedente all’apertura della successione, ed i mobili che la corredavano.

Infine, secondo un terzo orientamento la “casa familiare” andrebbe vista nella residenza comune dei due coniuge id in cui quello superstite si trovi ancora al momento di apertura della successione. A tale soluzione, tuttavia, è stato rimproverato di introdurre una disparità di trattamento nei confronti del coniuge senza prole o che vi abbia rinunziato all’assegnazione della casa familiare per ragioni legittime o al quale per qualsiasi motivo, il giudice non abbia attribuito il diritto di abitazione.

Appare dunque preferibile la tesi che esclude che la residenza familiare debba ancora essere in atto al momento dell’apertura della successione, posto che da un lato, la norma non annovera tra i presupposti per l’attribuzione dei diritti in esame la convivenza fra i coniugi e, dall’altro, l’art. 548 c.c. è chiaro nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato.

In un tale contesto, l’unico fattore ostativo al riconoscimento del diritto di abitazione e d’uso al coniuge superstite si ha solo qualora il medesimo, dopo la separazione, abbia abbandonato l’abitazione o questa avesse perso ogni collegamento con la destinazione familiare.

In tali ipotesi, infatti, viene meno la stessa esigenza che sorregge l’istituto in esame, ossia la perpetrazione dell’habitat familiare e la tutela dell’assetto di vita goduto durante il rapporto di coniugo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass., sez. II, 12 giugno 2014; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22456
giurista risponde

Rinuncia azione di riduzione e donazione La rinuncia all’azione di riduzione può integrare una donazione indiretta?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La rinuncia del coniuge all’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima può comportare un arricchimento nel patrimonio della figlia beneficiata, nominata erede universale, tale da integrare gli estremi di una donazione indiretta se corra un nesso di causalità diretta tra donazione e arricchimento. – Cass., sez. II, ord. 28 luglio 2023, n. 23036.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare se la condotta di colui che rinuncia all’azione di riduzione possa o meno integrare una donazione indiretta, ossia quegli atti di liberalità in cui l’intento donativo viene raggiunto con un diverso negozio avente autonoma struttura e funzione, e che sono sottoposte allo stesso regime sostanziale delle donazioni dirette.

La giurisprudenza, per ciò che concerne gli atti di rinuncia, ha più volte affermato come gli stessi possano integrare donazioni indirette.

Il principio è in particolare stato ribadito con riguardo alla rinuncia abdicativa di un diritto reale minore, come l’usufrutto, che pur si estingue con la morte del titolare ma che, se estinto anticipatamente per rinuncia, ispirata da animus donandi, del nudo proprietario, si risolve nel conseguimento da parte del dominus dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe stato sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza (Cass., sez. II, 30 ottobre 1997, n. 1311). O, ancora, con riguardo alla rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto”, ritenuta donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione (Cass., sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819).

Nel caso in esame, tuttavia, la Corte di Appello ha escluso che a tali tipi di donazioni indirette possano essere ricondotti i casi di rinuncia dell’azione di riduzione, avendo questa ad oggetto beni di cui il soggetto non è mai stato proprietario, mancando dunque degli elementi essenziali tipici della donazione tra i quali l’impoverimento del donante.

Tale assunto non è condiviso dalla Corte di Cassazione.

La Corte distrettuale oblitera la circostanza che le donazioni indirette “hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”.

Da ciò discende che lo stesso concetto di impoverimento del donante non va necessariamente inteso come attuale depauperamento patrimoniale, ma assume connotati più ampi, tali da ricomprendere il mero consapevole esercizio – sorretto da intento liberale – della possibilità di arricchire il proprio patrimonio, in favore della parte che da tale azione ne sarebbe risultata impoverita.