riconvenzionale mediazione

Domanda riconvenzionale e mediazione La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha affermato che la domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione

Riconvenzionale e mediazione obbligatoria

La domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione. E quanto hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza numero 3452/2024, emanando il seguente principio di diritto: “La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 D.Lgs. n. 28/2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile”.

La motivazione principale su cui è fondato l’assunto riguarda la considerazione che la mediazione rientra tra le disposizioni:  “finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile” (Corte Cost. 18 aprile 2019, n. 97)”.  Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria. Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione” (Corte Cost. 20 gennaio 2022, n. 10).

Quindi la mediazione, con l’auspicata conciliazione delle controversie, mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale.

Orbene, nell’evenienza di una riconvenzionale tale scopo non è più raggiungibile in quanto il processo è già iniziato. E tale considerazione vale per ambedue le riconvenzionali cioè quella connessa ai diritti fatti valere con l’azione e quella cd. eccentrica che invece fonda su fatti completamente diversi si pensi ad un’eccezione di compensazione, ecc.

Ma il principio viene ulteriormente affermato con un ragionamento per assurdo riportato sempre nella motivazione della sentenza in esame: “la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata.

Da ciò che la domanda riconvenzionale non è sottoposta all’obbligo del preventivo esperimento del procedimento di mediazione. Ciò non significa che il Giudice non la possa disporre in ogni stato e grado del procedimento eventualmente anche su richiesta delle parti.

giurista risponde

Immissioni acustiche moleste La normativa in materia di immissioni acustiche nelle attività produttive definisce il carattere molesto delle immissioni anche nei rapporti tra privati?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

In materia di immissioni, il superamento dei limiti di rumore stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che disciplinano le attività produttive è, senz’altro, illecito, in quanto, se le immissioni acustiche superano la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela degli interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione esse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino – ancora più esposto degli altri, in ragione della contiguità dei fondi, ai loro effetti dannosi – devono, per ciò solo, considerarsi intollerabili, ex art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. – Cass., sez. II, 26 febbraio 2024, n. 5074.

La questione sottoposta alla Suprema Corte origina da una domanda risarcitoria formulata dai proprietari di un immobile, carente di idoneo isolamento acustico, nei confronti della ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione.

In particolare, gli istanti ritenevano che l’intollerabilità dei rumori nella propria abitazione fosse causata dai gravi vizi dell’immobile sotto il profilo dei requisiti tecnico-acustici.

Nel doppio grado di giudizio veniva accertata la violazione dei limiti soglia, di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 1997, in materia di requisiti acustici passivi degli edifici e veniva stabilito come tale violazione comportasse di per sé il superamento della normale tollerabilità delle immissioni acustiche ex art. 844 c.c. all’interno dell’abitazione.

Conseguentemente, tanto il Giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello aditi, sebbene in misura diversa sotto il profilo quantitativo, condannavano la parte inadempiente al risarcimento del danno, ritenendo sussistente il danno patrimoniale patito dai proprietari dell’abitazione, costretti alla locazione di altra unità immobiliare idonea all’uso abitativo a causa dei gravi vizi acustici del proprio immobile.

In sede di censura della pronuncia d’appello, la ditta soccombente ha denunciato la violazione e falsa applicazione normativa in ordine alla natura rigorosa dell’onere della prova, che dovrebbe dimostrare l’esistenza dei rumori intollerabili esclusivamente per il carente isolamento acustico dell’immobile. Ai fini del riconoscimento risarcitorio, la ricorrente ha lamentato il mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alla causazione dell’evento dannoso ed alla sussistenza del nesso causale con il danno ex adverso patito e consistente nella necessità di locare altra unità abitativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto ed ha introdotto un principio di presunzione assoluta circa la violazione delle condizioni di normale tollerabilità delle immissioni acustiche, avuto riguardo alla condizione dei luoghi ex art. 844 c.c., in ipotesi di superamento dei limiti soglia dei requisiti acustici passivi degli edifici.

Di contro, però, la Cassazione ha stabilito come l’osservanza di dette soglie non determini l’insita liceità delle immissioni, rimettendo al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione in ordine alla tollerabilità delle immissioni, alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c.

Sotto il profilo del riconoscimento del danno, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza d’appello anche nella parte in cui ha considerato l’inagibilità dell’appartamento nella sua unitarietà, non rilevando l’accertamento tecnico in ordine alla maggiore percezione delle immissioni sonore in alcuni vani dell’immobile, sì da escludere la necessità di locazione di altra unità abitabile.

Il complessivo accertamento del superamento dei limiti soglia integra un’ipotesi di responsabilità del danneggiante secondo un giudizio di merito, immune da vizi logico-giuridici, che rintraccia nei costi di locazione di altro appartamento agibile una conseguenza immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., del danno patito dai proprietari del bene gravato da vizi.

*Contributo in tema di “Immissioni acustiche moleste”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

deposito telematico sentenza impugnata

Deposito telematico sentenza: i chiarimenti della Cassazione La Suprema Corte chiarisce che per effetto del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull'originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema

Deposito della sentenza priva della stampigliatura

La questione posta all’attenzione del Giudice di legittimità, per quanto qui rileva, attiene al seguente quesito “se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (…), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza”.

Rispetto al suddetto dubbio interpretativo, la S.C., ripercorrendo i precedenti formatesi in seno alla giurisprudenza di legittimità rispetto a casi analoghi, ha ricordato come l’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata ad esempio dichiarata nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risultava priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione e questo anche perché “la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato”.

Più nel dettaglio, ha spiegato la Corte, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità muovono dal rilievo che le disposizioni che si occupano di stabilire l’equivalenza delle copie informatiche all’originale dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale” attribuiscono “al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza”.

Tale orientamento ha dunque sostenuto che “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”.

Deposito copia informatica con stampigliatura equivale a deposito duplicato informatico

La Corte ha proseguito il proprio esame rilevando come, in applicazione dei suddetti principi, nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non sia possibile evincere la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso, è stata, in precedenti casi, pronunciata l’inammissibilità del ricorso. Resta comunque fermo che, non si può considerare come copia non autentica la copia analogica prodotta con modalità telematiche e ciò in quanto essa risulta conforme all’esemplare presente nel fascicolo informatico.

Per dare seguito ai quesiti posti alla sua attenzione, la Corte è poi passata ad esaminare le nozioni offerte dall’ordinamento giuridico in ordine alla “copia informatica”, al “duplicato informatico” e alla “attestazioni di conformità nel processo civile”.

All’esito del suddetto esame, e per quel che qui rileva,  la Corte ha affermato che è “conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (..) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine”.

Per quanto infine attiene alla nozione di “contrassegno elettronico”, il Giudice di legittimità ha precisato che, ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D. “Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale e possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico”.

Sulla base del quadro normativo di riferimento, la Corte ha rilevato pertanto che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico da parte del sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e diviene poi consultabile dai difensori nella versione originale, rappresentata dal duplicato, ovvero nella copia informatica che reca la stampigliatura.

Ne consegue dunque che, il concetto di “originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione”.

Principi di diritto

La Corte, con sentenza n. 12971-2024, ha concluso il proprio esame enunciando, per quanto qui rileva, i seguenti principi di diritto:

“a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di Legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione (…);

b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore”.

 

 

 

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accettazione tacita eredita

Accettazione tacita eredità: il punto della Cassazione La Corte, con due recenti ordinanze, ha precisato che si ha accettazione tacita dell’eredità quando sono posti in essere atti incompatibili con la volontà di rinunciare all'eredità

L’assunzione della qualità di erede

Con le ordinanze n. 10544-2024 e n. 7995-2024, la Suprema Corte ha avuto modo di definire alcuni tratti distintivi dell’accettazione tacita di eredità.

Nell’ambito delle sopracitate ordinanze la Corte di Cassazione si è occupata d’individuare gli elementi sulla base dei quali è possibile affermare che vi sia stata accettazione tacita da parte degli eredi.

A tal proposito, con l’ordinanza n. 10544/2024 la Corte ha ricordato che “è già stato posto il principio secondo il quale l’assunzione in giudizio della qualità di erede di un originario debitore costituisce accettazione tacita dell’eredità, qualora il chiamato si costituisca dichiarando tale qualità senza in alcun modo contestare il difetto di titolarità passiva della pretesa (…); è altresì stato posto il principio secondo il quale l’accettazione tacita di eredità può essere desunta anche dalla partecipazione in contumacia a giudizi di merito concernenti beni del de cuius (….)”.

Quando si ha accettazione tacita dell’eredità

Nella medesima direzione, con l’ordinanza n. 7995/2024, il Giudice di legittimità ha ripercorso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, con cui è stato affermato che l’accettazione tacita dell’eredità può venire in rilievo in svariate ipotesi in cui il chiamato eserciti l’azione in giudizio, quali, a titolo esemplificativo “l’agire in giudizio del figlio del defunto nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto al medesimo dovuto (…), la riassunzione del processo da parte del figlio del de cuius (…), la proposizione di azioni di rivendica o di azioni dirette alla difesa della proprietà o alla richiesta di danni per la mancata disponibilità dei beni ereditari, in quanto azioni che travalicano il mero mantenimento dello stato di fatto esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse ex art. 460 cod. civ.”.

Sulla base di tali principi, la Corte ha pertanto ritenuto che anche la proposizione di un ricorso per cassazione possa essere considerata quale tacita accettazione tacita dell’eredità.

Atti incompatibili con la volontà di rinuncia all’eredità

La Corte ha concluso l’esame dell’ordinanza n. 10544/2024, rigettando il ricorso proposto ed affermando che “integrano accettazione tacita di eredità gli atti incompatibili con la volontà di rinunciare all’eredità e non altrimenti giustificabili se non con la veste di erede, mentre sono privi di rilevanza gli atti che, ammettendo come possibili altre interpretazioni, non denotano in maniera univoca una effettiva assunzione della qualità di erede, spetta al giudice di merito il relativo accertamento”.

Per quanto invece attiene all’ordinanza n. 7995/2024, la Corte ha accolto il ricorso proposto e rilevato che “poiché l’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità, essa può legittimamente reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che  (…) non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 cod. civ., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non presupponendo di voler far propri i diritti successori”.

 

 

 

 

Allegati

dichiarazione sostitutiva atto notorio

Dichiarazione sostitutiva di atto notorio Con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio si comunicano alla PA stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato

Cos’è la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Sono molte le occasioni in cui in cittadino si interfaccia con la Pubblica Amministrazione: ad esempio, per richiedere un’autorizzazione, partecipare a un concorso o presentare un’istanza per ottenere benefici economici.

Sovente, l’ente pubblico ha necessità di ottenere delle informazioni dal cittadino e queste, in un’ottica di semplificazione dell’attività della pubblica amministrazione, possono essere fornite tramite dichiarazione sostitutiva di atto notorio, con cui si comunicano fatti, stati o qualità personali, senza necessità di ricorrere all’attestazione da parte di pubblico ufficiale e ai costi che il suo intervento comporterebbe.

Il contenuto della dichiarazione sostitutiva di atto notorio

I mezzi più frequenti con cui comunicare delle informazioni alla p.a. sono le dichiarazioni in autocertificazione e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Quest’ultima, in particolare, è prevista e disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. 445 del 2000 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

Tale articolo, rubricato “dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà”, dispone che l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo.

La norma in esame, al secondo comma, specifica anche che la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.

In altre parole, con la dichiarazione sostitutiva il cittadino può fornire autonomamente determinate informazioni, senza perciò ricorrere all’intervento di un pubblico ufficiale (ad esempio, un notaio) per ottenere il c.d. atto notorio.

Differenza tra autocertificazione e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possono, pertanto, attestarsi tutti quei fatti, stati e qualità personali che non possono attestarsi con l’analogo, ma differente, mezzo della dichiarazione in autocertificazione (cfr. art. 47, comma terzo).

Quest’ultima, infatti, a norma dell’art. 46 del medesimo DPR, è una dichiarazione sostitutiva di certificazione con la quale possono essere comprovati stati, qualità personali e fatti che solitamente vengono certificati dalla pubblica amministrazione, come data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato di famiglia, iscrizione in albi, titolo di studio, qualifica professionale, situazione reddituale etc.

Pertanto, a differenza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che prende il posto dell’atto notorio formato e rilasciato dal pubblico ufficiale, l’autocertificazione consente, invece, di evitare la richiesta di rilascio della certificazione da parte dell’ente pubblico.

La sottoscrizione della dichiarazione ex art. 47 DPR 445/2000

Si è detto che la dichiarazione sostituiva di atto notorio prevista dall’art. 47 del DPR 445/2000 dev’essere sottoscritta dal richiedente.

Al riguardo, va precisato che, a norma dell’art. 38, comma 3, “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.

Pertanto, se la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non avviene davanti al pubblico dipendente, deve esservi allegata a una fotocopia del documento d’identità in corso di validità. Di regola, quindi non è necessaria l’autenticazione della firma.

Inoltre, il primo comma dell’art. 38 dispone che “tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica”, sempre in ossequio ai principi di semplificazione e rapidità dell’attività pubblica e dei rapporti tra cittadino e p.a.

Sanzioni in tema di autocertificazione e dichiarazioni sostitutive

Infine, va ricordato che con la dichiarazione ex art. 47 il cittadino deve rendere dichiarazioni che corrispondano al vero.

Qualora, invece, a seguito di controlli risulti la mendacità di quanto comunicato alla p.a., è possibile che il cittadino incorra in sanzioni penali, a norma dell’art. 76 del citato decreto, che al primo comma dispone che “chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”, specificando al comma terzo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 (…) sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

affitti brevi

Affitti brevi: la guida La normativa italiana ed europea sugli affitti brevi in Italia. Finalità ed effetti delle regole sulla gestione delle locazioni turistiche brevi

Disciplina affitti brevi in Italia

Nel panorama immobiliare italiano, gli affitti brevi hanno guadagnato un’importanza crescente negli ultimi anni, diventando una modalità di locazione sempre più apprezzata sia dai turisti che dai proprietari di immobili.

La risposta del legislatore italiano a questo fenomeno in rapida espansione si è concretizzata attraverso normative volte a fornire un quadro legale chiaro a chi desidera affittare il proprio immobile per periodi brevi.

Queste le norme di riferimento dell’ordinamento italiano per gli affitti brevi:

  • Il comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge n. 50/2017, che definisce le locazioni brevi a uso abitativo come quelle che hanno una durata non superiore ai 30 giorni e che includono il servizio di pulizia dei locali. Il locatore è una persona fisica, che non esercita la locazione in forma di impresa e che si avvale di soggetti che svolgono attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono portali telematici per mettere in contatto persone in cerca di un alloggio per le vacanze con chi dispone di immobili da locare per periodi brevi.
  • Il comma 2 dell’articolo 4, modificato di recente dalla legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023), che prevede le percentuali di imposta. Sulla proprietà del primo immobile la percentuale dell’aliquota è del 21%. Dal secondo al quarto immobile invece il locatore è gravato da un’aliquota del 26%
  • Il decreto anticipi n. 145/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 191/2023, nel nuovo articolo 13-ter, prevede nuovi obblighi per i proprietari delle unità abitative destinate alle locazioni brevi e per i proprietari delle strutture turistico ricettive, sia alberghiere che extra-alberghiere. Gli obblighi consistono nel comunicare in modalità telematica al Ministero del Turismo i dati catastali dell’immobile locato, la presenza dei necessari requisiti tecnici di sicurezza degli impianti (per la rilevazione di gas combustibili e del monossido di carbonio) e degli estintori portatili.

Regolamento UE locazioni brevi

A livello europeo il Regolamento Europeo sulla Raccolta e sulla condivisione dei dati, che ha dato vita al Codice Unico Europeo, ha ricevuto il via libera dal Consiglio il 18 marzo 2024.

Il Regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE del 29 aprile 2024, sarà in vigore dal 20 maggio 2026.

Grazie a questa fonte sarà possibile avere una banca dati europea in cui confluiranno i dati dei locatori, degli immobili locati e delle prenotazioni.

Banca Dati unica

In attesa della Banca Dati Europea, il Ministero del Turismo ha predisposto un decreto che porterà alla creazione di una Banca Dati Unica. Il testo ha già ricevuto il parere positivo della Commissione Politiche del turismo della Conferenza delle Regioni e Province Autonome.

La fase pilota vedrà coinvolte le Regioni dotate di una tecnologia più avanzata per poi passare gradualmente alla creazione di un Registro Unico, con l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale e garantire la massima trasparenza.

L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza potranno effettuare i controlli necessari grazie alla possibilità di incrociare i dati e intercettare le situazioni a rischio.

Il Codice Identificativo Nazionale

Il censimento degli immobili destinati alle locazioni turistiche previsto dal decreto anticipi è finalizzato al rilascio del CIN, il Codice identificativo nazionale, che il locatore dovrà esporre all’esterno dell’immobile locato e che dovrà sempre comparire negli annunci.

Il CIN sarà fondamentale anche per l’identificazione degli immobili destinati alla locazione turistica all’interno della banca dati unica.

La piena operatività del CIN è prevista per il mese di settembre 2024, dopo che sarà operativa la Banca Dati Unica. Il Codice verrà assegnato mediante procedura telematica, come contemplata dall’art. 13 ter del DL n. 145/2023.

Il locatore di immobili destinati agli affitti brevi senza CIN sarà soggetto a una multa massima di 8.000 euro, mentre l’inserimento degli annunci senza CIN sarà punito con una sanzione fino a 5000 euro.

Normativa affitti brevi: finalità ed effetti

Le normative analizzate si pongono l’obiettivo di bilanciare le esigenze di flessibilità nel mercato degli affitti temporanei con la necessità di garantire sicurezza, trasparenza ed equità sia per i locatori che per gli inquilini.

Con la definizione di specifici obblighi fiscali e amministrativi per i proprietari, l’Italia si sta muovendo verso un sistema più organizzato, che promette di apportare benefici significativi all’economia locale, pur affrontando le sfide legate al fenomeno delle locazioni turistiche.

In questo contesto, comprendere in dettaglio le nuove disposizioni legislative è fondamentale per tutti i soggetti coinvolti, per navigare con successo nel mercato degli affitti brevi.

Nel contesto degli affitti brevi in Italia, l’arrivo della proposta europea rappresenta una svolta significativa in grado di garantire equità nel mercato, proteggere i diritti dei consumatori e assicurare condizioni di concorrenza leali tra i fornitori di alloggi.

In Italia, dove il settore degli affitti brevi è fiorente ma anche fonte di controversie, soprattutto nelle città d’arte e nelle località turistiche, la nuova normativa potrebbe avere impatti rilevanti. Gli operatori del settore dovranno adeguarsi a standard più stringenti in termini di sicurezza, trasparenza e rispetto delle normative locali, inclusi eventuali limiti agli affitti brevi imposti per preservare il tessuto residenziale.

ddl intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale Il 23 aprile 2024 il Governo ha varato un disegno di legge in materia di intelligenza artificiale. Tante le novità: dal pacchetto giustizia ai nuovi reati

DDL Intelligenza artificiale

Il Consiglio dei ministri ha approvato il 23 aprile 2024 un disegno di legge in materia di Intelligenza Artificiale, prevedendo un giro di vite e introducendo anche fattispecie di reato, oltre all’obbligo dei professionisti di informare i clienti sull’utilizzo dei sistemi di IA.

Cinque gli ambiti in cui il ddl, recante “Disposizioni e delega al governo in materia di intelligenza artificiale”, mira ad intervenire compresa una delega al governo per l’adeguamento al Regolamento UE sull’alfabetizzazione dei cittadini sull’IA e la formazione degli ordini professionali per professionisti e operatori, oltre all’adeguamento, sul fronte penale, di reati e sanzioni per l’uso illecito dell’IA.

I cinque ambiti di intervento

Il ddl individua criteri regolatori capaci di riequilibrare il rapporto tra le opportunità che offrono le nuove tecnologie e i rischi legati al loro uso improprio, al loro sottoutilizzo o al loro impiego dannoso. Inoltre, introduce norme di principio e disposizioni di settore che, da un lato, promuovano l’utilizzo delle nuove tecnologie per il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e della coesione sociale e, dall’altro, forniscano soluzioni per la gestione del rischio fondate su una visione antropocentrica.

Le norme intervengono in cinque ambiti: la strategia nazionale, le autorità nazionali, le azioni di promozione, la tutela del diritto di autore, le sanzioni penali.

Strategia nazionale

Si introduce la Strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, il documento che garantisce la collaborazione tra pubblico e privato, coordinando le azioni della PA in materia e le misure e gli incentivi economici rivolti allo sviluppo imprenditoriale ed industriale.

I risultati del monitoraggio vengono trasmessi annualmente alle Camere.

Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale

Si istituiscono le Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale, disponendo l’affidamento all’Agenzia per l’Italia digitale (AgID) e all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) del compito di garantire l’applicazione e l’attuazione della normativa nazionale e dell’Unione europea in materia di AI.
AgID e ACN, ciascuna per quanto di rispettiva competenza, assicurano l’istituzione e la gestione congiunta di spazi di sperimentazione finalizzati alla realizzazione di sistemi di intelligenza artificiale conformi alla normativa nazionale e dell’Unione europea.

Misure di sostegno ai giovani sull’intelligenza artificiale

Tra i requisiti per beneficiare del regime agevolativo a favore dei lavoratori rimpatriati rientrerà l’aver svolto un’attività di ricerca nell’ambito delle tecnologie di intelligenza artificiale.
Nel piano didattico personalizzato (PDP) delle scuole superiori per le studentesse e gli studenti ad alto potenziale cognitivo potranno essere inserite attività volte alla acquisizione di ulteriori competenze attraverso esperienze di apprendimento presso le istituzioni della formazione superiore.

Disciplina penale

Il ddl prevede un aumento della pena per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, per la loro natura o per le modalità di utilizzo, “abbiano costituito mezzo insidioso, o quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa o aggravato le conseguenze del reato”. Un’ulteriore aggravante è prevista per chi, attraverso la diffusione di prodotti dell’IA, prova ad alterare i risultati delle competizioni elettorali, come già avvenuto in altre nazioni europee.
Si punisce l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di intelligenza artificiale, atti a indurre in inganno sulla loro genuinità, con la pena da uno a cinque anni di reclusione se dal fatto deriva un danno ingiusto.
Si introducono circostanze aggravanti speciali per alcuni reati nei quali l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale abbia una straordinaria capacità di propagazione dell’offesa.

Attraverso la delega, il governo è chiamato infine a prevedere “una o più autonome fattispecie di reato, punite a titolo di dolo o di colpa, nonché ulteriori fattispecie di reato, punite a titolo di dolo, dirette a tutelare specifici beni giuridici esposti a rischio di compromissione per effetto dell’utilizzazione di sistemi di IA; una circostanza aggravante speciale per i delitti dolosi puniti con pena diversa dall’ergastolo nei quali l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale incida in termini di rilevante gravità sull’offesa; una revisione della normativa sostanziale e processuale vigente, anche a fini di razionalizzazione complessiva del sistema”.

interessi legali 2024

Interessi legali 2024 Il tasso degli interessi legali per il 2024 è stato determinato dal Mef nella misura del 2,5%

Tasso interessi legali

Con decreto del 29 novembre 2023, pubblicato in GU l’11 dicembre scorso, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha reso noto il tasso degli interessi legali per l’anno 2024, determinandolo nella misura del 2,5%, dimezzata rispetto al 2023 (anno in cui il tasso era pari al 5%).

Il saggio degli interessi legali nel codice civile

È l’articolo 1284 c.c. a prevedere che il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5% in ragione d’anno. Tuttavia, viene demandato al ministro del tesoro (oggi al Mef), con proprio decreto pubblicato entro e non oltre il 15 dicembre di ogni anno, il compito di modificarne la misura, sulla base del rendimento medio annuale lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a 12 mesi tenendo conto del tasso di inflazione registrato durante l’anno.

La mancata fissazione del nuovo saggio di interessi entro la data del 15 dicembre fa sì che il tasso rimanga invariato anche l’anno successivo.

A cosa si applicano gli interessi legali

Gli interessi legali si applicano alle obbligazioni di natura contrattuale, alle obbligazioni che insorgono in virtù di un fatto illecito o di altro atto o fatto idonei a produrle. Si applicano automaticamente, dunque, ai rapporti tra le parti, ma nulla vieta che le stesse possano concordare interessi maggiori (interessi convenzionali). Resta comunque nullo il patto con il quale vengano determinati interessi sproporzionati rispetto a quelli legali (interessi usurari, il cui tasso è stabilito dal ministero competente, sentiti Bankitalia e l’ufficio italiano cambi).

Gli interessi legali, infine, non vanno confusi con quelli moratori che sono invece collegati all’inadempimento di una obbligazione pecuniaria.

trattamento dati personali

Trattamento dei dati personali: non spetta alle Regioni La Corte Costituzionale ha chiarito che disciplinare il trattamento dei dati personali è compito dello Stato e dell'Unione Europea

Trattamento dei dati personali

È incostituzionale una disciplina regionale che regola il trattamento dei dati personali nella installazione degli impianti di videosorveglianza, in quanto vìola gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e invade le competenze legislative esclusive dello Stato nella materia «ordinamento civile». Lo ha chiarito la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 69-2024, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’articolo 3 della legge della Regione Puglia n. 13 del 2023 per contrasto con l’art. 117, commi primo e secondo, della Costituzione.
La Corte ha rilevato che l’Unione europea, nell’esercizio della competenza fissata nell’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, “detta una complessa disciplina in materia di trattamento dei dati personali, che «trova completamento e integrazione nelle fonti nazionali»”.

Legislatore europeo e nazionale

Per il giudice delle leggi, la Regione non può dunque regolare autonomamente la materia, né operare una selezione di fonti e di previsioni, «che, all’interno dell’articolato plesso normativo contemplato sia dall’Unione europea sia dal legislatore statale, sono chiamate a disciplinare questa complessa e delicata materia», poiché in questo modo «non solo si sovrappone alle normative eurounitaria e statale, travalicando le proprie competenze, ma oltretutto effettua una arbitraria scelta, il cui contenuto precettivo equivale a ritenere vincolanti le sole regole individuate dal legislatore regionale e non anche le altre», dettate dall’UE e dal legislatore statale.

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gratuito patrocinio spese lite

Gratuito patrocinio: nessuna riduzione per le spese di lite del soccombente La Corte Costituzionale ha chiarito che alla controparte soccombente vengono applicati gli ordinari criteri di liquidazione delle spese anche quando la parte vittoriosa è ammessa al gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio e spese di lite

Alla controparte soccombente si applicano gli ordinari criteri di liquidazione delle spese di lite, anche laddove la parte vittoriosa è ammessa al gratuito patrocinio. La quantificazione delle spese di lite, infatti, non subisce deroghe nel «caso particolare in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato»; anche in tal caso il giudice civile «applica gli ordinari criteri di liquidazione», pure se lo Stato corrisponde al difensore del non abbiente un compenso dimezzato. Lo ha chiarito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 64/2024, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002.

Patrocinio a spese dello Stato: le parti sono estranee

La sentenza ha precisato che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato fa sorgere un rapporto che si instaura direttamente tra lo Stato stesso e il difensore del beneficiario del patrocinio. A tale rapporto «le parti del giudizio rimangono totalmente estranee»: l’applicazione dei normali criteri di liquidazione pertanto non si traduce, per il soccombente, in una «ulteriore effettiva decurtazione» patrimoniale rispetto a quella avrebbe subito ove la controparte non fosse stata indigente.
Ragionando diversamente, del resto, si perverrebbe al risultato di «garantire un ingiustificato vantaggio patrimoniale alla parte soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico, anche attraverso la fiscalità generale, dell’onere del loro patrocinio».
Sono state così disattese le censure con le quali il Tribunale di Cagliari sosteneva che, per effetto della disposizione censurata, il soccombente subirebbe un «prelievo coattivo» di natura tributaria.

Nessun eccesso di delega

La sentenza ha anche escluso la violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega.
La disposizione censurata non ha, infatti, secondo la Consulta, «carattere realmente innovativo rispetto al quadro normativo previgente»; nella redazione del testo unico, pertanto, il Governo ha rispettato il criterio direttivo del coordinamento formale delle norme oggetto del riordino delegatogli.

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