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Misure protettive e cautelari nella composizione negoziata della crisi d’impresa Quali sono le misure protettive e cautelari previste dal legislatore nel "percorso" della composizione negoziata della crisi d'impresa

La composizione negoziata della crisi d’impresa

Nell’ambito del “percorso” della composizione negoziata [1] il legislatore ha previsto, come accade per il procedimento (recte: i procedimenti) volto (i) all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza o all’apertura di una procedura d’insolvenza, le misure protettive e cautelari.

Esse non differiscono, rispetto a quelle previste nell’ambito di queste ultime, sotto il profilo definitorio, occorrendo pur sempre fare riferimento all’art. 2 CCI, ma notevoli sono le differenze sotto il profilo sostanziale e processuale.

Le misure protettive

Quanto alle misure protettive, nell’ambito della composizione negoziata esse assolvono al compito di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento.

Ciò avendo a mente, la prima attività che si impone consiste nell’individuarle e nel qualificarle.

Ai sensi dell’art. 18, comma 1, CCI, “l’imprenditore può chiedere, con l’istanza di nomina dell’esperto o con successiva istanza presentata con le modalità di cui all’art. 17, comma 1, l’applicazione di misure protettive del patrimonio”, fermo restando che queste ultime non possono incidere sui diritti di credito dei lavoratori. In tal caso, dal giorno in cui è pubblicata l’istanza nel registro delle imprese “[…] i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore né possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa”.

L’art. 19 CCI, invece, dispone che dette misure, le quali iniziano ad operare automaticamente, debbono essere poi confermate o modificate dal tribunale competente su richiesta dello stesso imprenditore, la quale va avanzata con ricorso da depositarsi “[…] entro il giorno successivo alla pubblicazione dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto […]”, pena la loro inefficacia.

Si tratta, dunque, in analogia con quanto disposto dall’art. 54 CCI, di misure cc.dd. “semi-automatiche” [2], in quanto “scattano” automaticamente ma per conservare i propri effetti richiedono un provvedimento del giudice [3]. Ciò sebbene il riferimento ad una “istanza” con cui si chiede la loro applicazione faccia pensare ad una preventiva valutazione giudiziale, la quale, invece, è, giova ribadire, richiesta solo per la conferma o la modifica [4].

A differenza di quanto statuito dall’art. 54 citato, invece, non è previsto che “[…] le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano”, mentre è contemplato il divieto di acquisire diritti di prelazione non concordati, misura c.d. “automatica” non presente nel suddetto articolo.

Le misure “selettive”

Il comma 3 dell’art. 18 CCI, poi, dispone che l’imprenditore può chiedere ab initio che l’applicazione delle misure protettive sia limitata a determinate iniziative intraprese dai creditori oppure a determinati creditori o categorie di creditori. Si tratta delle cc.dd. misure “selettive”, ossia limitate a determinati procedimenti esecutivi e cautelari, a determinati creditori oppure a determinati beni [5].

A differenza di quanto accade per le misure protettive collocate nella cornice del procedimento unitario, la “selezione” è operabile sia dall’imprenditore, con il ricorso, sia ex post dal tribunale, in quanto, ai sensi dell’art. 19, comma 4, CCI, il giudice, in sede di conferma, sentito l’esperto, “[…] può limitare le misure a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori”. Ai sensi dell’art. 54 CCI, invece, le misure iniziali sono sempre erga omnes e le misure cc.dd. “selettive” sono solo “ulteriori”, nel senso che non possono essere chieste con la domanda ex artt. 40 o 44 CCI ma soltanto successivamente; inoltre, in sede di conferma il tribunale non può calibrarle in relazione al caso concreto. Ancora, sempre ai sensi dell’art. 54 CCI, le misure “ulteriori” sono “atipiche”, mentre nell’ambito della composizione negoziata la “selezione” opera pur sempre con riferimento alla misura “tipica” del blocco delle azioni esecutive e cautelari.

Quest’ultimo non impedisce eventuali pagamenti spontanei compiuti dall’imprenditore a favore dei creditori e ciò, ancora una volta, a differenza di quanto disposto dall’art. 54 CCI, che tace al riguardo [6].

I creditori nei cui confronti operano le misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori e possono solo sospendere l’adempimento dei contratti pendenti dalla pubblicazione dell’istanza di concessione fino alla conferma delle misure richieste.

Misura protettiva “automatica”

Anche in tale ipotesi viene in rilievo una misura c.d. “automatica” e vi è una differenza rispetto al “sistema” di cui all’art. 54 CCI, atteso che analoga disposizione non è ivi contenuta, essendo posta nell’ambito delle norme dedicate agli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

In analogia rispetto a quanto previsto dal comma secondo dell’art. 54 CCI, fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata della crisi non può essere pronunciata la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza [7]: si tratta di una misura protettiva [8] cc.dd. “automatica”, in quanto produce effetti a prescindere dalla domanda dell’imprenditore.

Ciò non sembra escludere che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale possa essere avanzata, ma pare vietare solo che la procedura sia aperta, il che pone il problema della sorte di tale domanda. Sembra doversi ritenere che la stessa rimanga “temporaneamente improcedibile”, in quanto può essere esaminata dal tribunale qualora vengano meno le misure protettive, vale a dire in ipotesi di revoca (art. 18, comma 4, CCI), di cessazione dei loro effetti (art. 19, comma 8, CCI), di pronuncia del decreto di inammissibilità del ricorso (art. 19, comma 3, CCI), della scadenza del termine massimo di durata (art. 19, comma 5, CCI) e della conclusione negativa del procedimento di composizione negoziata senza che vi sia il transito verso altro strumento che consenta di ottenere una ulteriore protezione del patrimonio.

L’art. 20 CCI completa il quadro delle misure protettive connesse alla composizione negoziata della crisi disponendo che l’imprenditore può anche dichiarare – sempre al fine di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento del suo squilibrio patrimoniale o economico-finanziario – che, dalla pubblicazione dell’istanza riguardante le misure protettive e fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata, non si applicano nei suoi confronti gli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, 2482bis, commi 4, 5 e 6, e 2482-ter del codice civile, né la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale, di cui agli artt. 2484, comma 1, n. 4, e 2545duodecies cod. civ. [9]. Si tratta di una ulteriore misura protettiva c.d. “automatica” che del pari non è prevista dall’art. 54 CCI, ma da singole norme dedicate ai diversi strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

Da quanto esposto si evince che le misure protettive nell’ambito della composizione negoziata sono tutte “tipiche” [10], ivi compreso quelle cc.dd. “selettive”, e sono concesse sempre al fine di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento.

Le misure cautelari

Quanto alle misure cautelari, l’art. 19 CCI statuisce che, con il medesimo ricorso con cui si domanda la conferma delle misure protettive, l’imprenditore può chiedere “l’adozione dei provvedimenti cautelari necessari per condurre a termine le trattative”.

Anche in tal caso è evidente la differenza con la cautela accordata dall’art. 54 CCI: mentre le misure cautelari previste da tale articolo sono funzionali ad assicurare il conseguimento degli effetti delle sentenze di omologazione o di apertura della liquidazione giudiziale, quelle collegate alla composizione negoziata sono funzionali a garantire il buon esito delle trattative per il risanamento dell’impresa.

Di qui due ulteriori differenze: per un verso, detti provvedimenti possono essere richiesti solo dal debitore, non dai creditori, e solo contestualmente [11] all’istanza di conferma o modifica delle misure protettive precedentemente “scattate”; per altro verso, si tratta di provvedimenti che, sebbene definiti cautelari, rispondono, nella sostanza, alla stessa finalità delle misure protettive, in quanto non si rinviene la tradizionale strumentalità al diritto da tutelare in sede di merito tipica dei provvedimenti cautelari poiché nella procedura di composizione negoziata manca del tutto il giudizio di merito nel quale il diritto inciso dal provvedimento verrà tutelato.

Siccome l’unica strumentalità è con il risanamento [12], mutano anche i canoni valutativi dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora connessi all’esercizio dell’azione cautelare: il primo va evidenziato in relazione all’obiettivo del risanamento ed il secondo in relazione ai possibili pregiudizi che tale obiettivo subirebbe qualora le misure cautelari richieste non venissero adottate [13].

Quanto al contenuto, occorre tenere conto del fatto che:

  • come si è detto, l’art. 18 CCI vieta ai creditori nei cui confronti operano le misure protettive di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o di modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei debiti anteriori, fermo restando che è possibile la sospensione del rapporto sino alla conferma della misura protettiva;
  • l’art. 16, comma 4, CCI esclude che l’accesso alla composizione negoziata sia causa di sospensione o revoca degli affidamenti bancari, salvo che tali decisioni dipendano da ragioni connesse con l’attuazione dei principi di vigilanza prudenziale cui le banche sono soggette.

Pertanto, non dovrebbe rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 18, comma 5, CCI, la possibilità di imporre di proseguire un rapporto contrattuale ormai cessato per il decorso del suo naturale termine, in quanto tale norma si riferisce ai rapporti pendenti sino alla loro naturale scadenza [14]. Diversamente opinando, infatti, si imporrebbe un facere avente ad oggetto l’instaurazione di una nuova relazione giuridica, per cui la misura cautelare consentirebbe un esito che non sarebbe raggiungibile nemmeno in via contenziosa e non rappresenterebbe neppure un’anticipazione dell’eventuale percorso di ristrutturazione.

Dovrebbe ritenersi, invece, ammissibile la sospensione di contratti bancari di affidamento e di finanziamento “su fatture” con divieto per gli istituti di credito di estinguere, in qualsiasi forma contrattuale prevista, la propria posizione creditoria [15]. Ai sensi dell’art. 97 CCI, infatti, nel contratto di finanziamento bancario costituisce prestazione principale anche la riscossione diretta da parte del finanziatore nei confronti dei terzi debitori della parte finanziata, per cui è possibile lo scioglimento e la sospensione del contratto, fermo restando che, in caso di scioglimento, il finanziatore ha diritto di riscuotere e trattenere le somme corrisposte dai terzi debitori fino al rimborso integrale delle anticipazioni effettuate nel periodo compreso tra i centoventi giorni antecedenti il deposito della domanda di accesso di cui all’art. 40 CCI e la notificazione al contraente in bonis del provvedimento del tribunale che autorizza lo scioglimento. Ne consegue che la misura cautelare anticipa un effetto previsto da una norma.

Potrebbe ritenersi ammissibile anche la sospensione dei pagamenti in favore di creditori strategici e delle banche non disposti a trattare o ad addivenire a soluzioni concordate della crisi in sede di composizione negoziata, al fine di garantire i flussi di liquidità necessari per il risanamento aziendale, a condizione, però, che il dissenso sia “compensato” dal fatto che gli altri soggetti che detengono la maggioranza dei crediti non abbiano esplicitamente negato la disponibilità a trattare e sussistano i presupposti per il risanamento. In tal caso pare applicabile il citato art. 18 CCI che vieta la risoluzione del rapporto per il solo fatto dell’inadempimento e dunque la cautela è strumentale al buon fine delle trattative con gli altri creditori ed alla prosecuzione dell’attività aziendale.

Un problema si pone allorché sia stata avanzata domanda di apertura della liquidazione giudiziale con richiesta di provvedimenti cautelari: non è chiaro, infatti, se il tribunale possa esaminare la domanda cautelare. Sembra, tuttavia, doversi escludere questa possibilità, in quanto, come si è visto, opera il divieto di aprire la liquidazione giudiziale: le misure cautelari chieste nel procedimento che porta all’apertura di detta procedura hanno la finalità di salvaguardare il patrimonio dell’imprenditore in attesa della pronuncia della sentenza, la quale, però, non può essere pronunciata [16]. Inoltre, è evidente che la domanda del debitore relativa alle misure protettive finisce per paralizzare quella del creditore: una volta operante il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, infatti, detta domanda non pare esaminabile, tanto è vero che l’art. 54, comma 2, CCI, dispone che “le misure cautelari possono essere concesse anche dopo la pubblicazione dell’istanza di cui all’art. 18, comma 1, tenuto conto dello stato delle trattative e delle misure eventualmente già concesse o confermate ai sensi dell’art. 19”.

Analogo problema si pone quando le misure cautelari siano già state concesse ed attuate in seno al procedimento unitario: in questo caso la sopravvenuta istanza di ammissione alla composizione negoziata non comporta di per sé l’inefficacia delle misure cautelari già attuate, per cui esse sopravvivono, in quanto l’art. 54, comma 2, CCI citato fa riferimento solo a misure di tale natura non ancora concesse. L’unica soluzione, allora, è quella di ritenere che gli effetti di quelle concesse ed attuate possano solo essere sospesi, al fine di consentire il conseguimento dell’obiettivo del risanamento.

Nulla dice il codice sulla cessazione degli effetti delle misure cautelari, ma la strumentalità correlata alla composizione negoziata della crisi induce a ritenere che essi vengano meno con la cessazione della stessa procedura o con la sua archiviazione, come accade per le misure protettive, così come espressamente stabilito per quanto attiene all’inibizione della pronuncia della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza. Fermo restando, ovviamente, la revoca o la riduzione di durata “[…] quando esse non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti”.

I procedimenti

Il procedimento per la conferma, la revoca o la modifica delle misure protettive e cautelari necessarie per condurre a termine le trattative è, a differenza di quanto stabilito dall’art. 55 CCI, che distingue fra le due misure, identico.

Il comma terzo dell’art. 19 CCI dispone che il tribunale provvede in composizione monocratica e con ordinanza, comunicata dalla cancelleria al registro delle imprese entro il giorno successivo.

Ai sensi del comma 7 dell’art. 19 CCI, i procedimenti relativi alla concessione, revoca e modifica delle misure protettive e cautelari si svolgono “[…] nella forma prevista dagli artt. 669bis e seguenti del codice di procedura civile […]”: è chiara, dunque, la scelta di adottare il modello generale dei procedimenti cautelari, sempre che, ovviamente, per aspetti peculiari del singolo procedimento, non trovino applicazione regole speciali dettate dal codice.

Il quadro che ne esce è un rinvio a dette norme con il limite della compatibilità, come dimostrato dal fatto che lo stesso comma settimo citato dispone che “non si applicano l’art. 669octies, primo, secondo e terzo comma, e l’art. 669novies, primo comma, del codice di procedura civile”.

Quanto al procedimento “iniziale”, l’imprenditore deve depositare il ricorso diretto ad ottenere la conferma o la modifica delle misure protettive entro il giorno successivo rispetto a quello in cui ha formulato la richiesta di ammissione alla composizione negoziata e con lo stesso ricorso può anche richiedere la pronuncia di provvedimenti cautelari. La sanzione per il mancato deposito nel termine stabilito del ricorso è l’inefficacia delle misure protettive, che va dichiarata inaudita altera parte, ossia senza fissare alcuna udienza.

Entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’istanza l’imprenditore deve chiedere pure la pubblicazione nel registro delle imprese del numero di ruolo generale del procedimento instaurato e, siccome decorso tale termine “[…] l’iscrizione dell’istanza è cancellata dal registro delle imprese”, pare che la stessa sanzione sia prevista per la tardiva iscrizione a ruolo del ricorso, sebbene l’art. 19, comma 3, CCI la commini espressamente solo nell’ipotesi in cui il tribunale verifica che esso non è stato depositato nel termine previsto.

La documentazione

Insieme al ricorso, l’imprenditore deve depositare:

  • i bilanci degli ultimi tre esercizi oppure, quando non è tenuto al deposito dei bilanci, le dichiarazioni dei redditi e dell’IVA degli ultimi tre periodi di imposta;
  • una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima del deposito del ricorso;
  • l’elenco dei creditori, individuando i primi dieci per ammontare, con indicazione dei relativi indirizzi di posta elettronica certificata, se disponibili, oppure degli indirizzi di posta elettronica non certificata per i quali sia verificata o verificabile la titolarità della singola casella;
  • un progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo di cui all’art. 13, comma 2, CCI, un piano finanziario per i successivi sei mesi e un prospetto delle iniziative che intende adottare;
  • una dichiarazione avente valore di autocertificazione attestante, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, che l’impresa può essere risanata;
  • l’accettazione dell’esperto nominato ai sensi dell’art. 13, commi 6, 7 e 8, CCI con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata.

Si tratta di documentazione che assolve al compito di consentire al tribunale di verificare [17]:

  • la pendenza della procedura di composizione negoziata;
  • la ricorrenza della condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario dell’imprenditore, che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, ossia del presupposto per l’accesso alla procedura di composizione negoziata;
  • la serietà dell’iniziativa;
  • i creditori coinvolti nelle trattative e potenzialmente incisi dalle misure protettive.

Poiché si tratta di documentazione essenziale, il suo mancato deposito è da ritenersi sanzionato con l’inammissibilità della domanda, salvo che non si ritenga ammissibile la concessione di un termine per integrarla [18].

La procedura

A seguito del deposito del ricorso, il tribunale deve, entro dieci giorni ed a pena di cessazione degli effetti protettivi prodotti [19], fissare con decreto l’udienza, indicando le modalità con le quali detto decreto ed il ricorso vanno notificati, oltre che all’esperto, ai creditori ed ai terzi interessati.

Questi ultimi due pare non siano tutti i creditori e tutti i terzi potenzialmente interessati alla composizione negoziata, bensì solo quelli incisi dagli effetti delle misure protettive cautelari. Si tratta, in buona sostanza, di soggetti – da indicarsi ovviamente nel ricorso introduttivo – che vanno individuati [20]:

  • nei creditori che abbiano già esercitato l’azione esecutiva, ne abbiano annunciato l’esercizio con la notificazione del precetto o siano intervenuti nel processo esecutivo pendente;
  • nei creditori che abbiano esercitato l’azione cautelare per instaurare un processo cautelare ancora pendente o che abbiano già ottenuto un provvedimento cautelare ancora efficace;
  • nei terzi i cui diritti siano incisi dalle misure protettive.

All’udienza fissata, il tribunale, sentite le parti e chiamato l’esperto a esprimere il proprio parere sulla funzionalità delle misure richieste ad assicurare il buon esito delle trattative [21], omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nomina, se occorre, un ausiliario ai sensi dell’art. 68 cod. proc. civ e provvede agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai provvedimenti cautelari richiesti o ai provvedimenti di conferma o modifica delle misure protettive.

Sembra dedursene che in questa fase non vi sia spazio per l’emissione di provvedimenti cautelari inaudita altera parte, anche perché si prevede espressamente che il tribunale pronuncia ordinanza – con la quale viene stabilita anche la durata, non inferiore a trenta giorni e non superiore a centoventi giorni, delle misure protettive e, se occorre, dei provvedimenti cautelari disposti – reclamabile solo ai sensi dell’art. 669terdecies cod. proc. civ.

L’ausiliario in questione non è una figura analoga al commissario giudiziale del concordato preventivo; piuttosto, è assimilabile al consulente tecnico, ossia è un soggetto che il tribunale può nominare per farsi assistere nel compimento di atti istruttori che non è in condizione di compiere da solo. Come correttamente osservato in dottrina, “[…] si tratterà, nella maggior parte di casi, di un consulente contabile, al quale il giudice affiderà la valutazione della documentazione esibita dal ricorrente, e di quella che il consulente stesso riterrà utile acquisire nel corso delle operazioni peritali, siccome strettamente funzionale allo svolgimento dell’incarico a lui affidato[22].

L’art. 19 CCI, che pure impone al giudice di fissare l’udienza entro dieci giorni, tace circa il tempo entro il quale essa deve essere fissata. È evidente, tuttavia, che, tenuto conto della delicatezza degli interessi “in gioco” e del fatto che l’efficacia temporale minima delle misure protettive è di trenta giorni, l’udienza debba essere fissata in tempi assai brevi. Un riferimento potrebbe essere ai quindici giorni previsti dall’art. 669sexies, comma 2, cod. proc. civ. per l’udienza di convalida del decreto cautelare emesso inaudita altera parte [23].

Il procedimento di conferma delle misure protettive o di concessione di quelle cautelari si conclude, come si è anticipato, con ordinanza, la quale deve stabilire la durata, non inferiore a trenta e non superiore a centoventi giorni, delle misure protettive e, se occorre, dei provvedimenti cautelari disposti. Come del pari si è detto, con detta ordinanza, su richiesta dell’imprenditore e sentito l’esperto, le misure possono essere limitate a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori.

L’ordinanza che accoglie il ricorso è suscettibile di essere revocata o modificata. Più in particolare:

  • su istanza delle parti ed acquisito il parere dell’esperto, può essere prorogata la durata delle misure disposte per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative, fermo rimanendo che la durata complessiva delle misure non può superare i duecentoquaranta giorni;
  • su istanza dell’imprenditore, di uno o più creditori o su segnalazione dell’esperto, il tribunale può, in qualunque momento, sentite le parti interessate, revocare le misure protettive e cautelari, o abbreviarne la durata, quando esse non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti.

Quanto alla revoca delle misure, l’art. 19, comma 6, CCI dispone unicamente che il giudice decide “[…] sentite le parti […]”, per cui non è chiaro quale sia l’attività da porre in essere per pervenire a tale pronuncia. Non resta, allora, che applicare anche in questo caso, siccome compatibile, la disciplina processuale prevista per la conferma.

Quanto alla proroga, invece, pare che il giudice non debba instaurare alcun contraddittorio: l’art. 19, comma 5, CCI, infatti, dispone che “il giudice che ha emesso i provvedimenti di cui al comma 4, su istanza delle parti e acquisito il parere dell’esperto, può prorogare la durata delle misure disposte per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative”.

Purtuttavia potrebbe anche ritenersi che ciò sia necessario qualora l’istanza non provenga da tutte le parti interessate e che questa sia l’unica ipotesi in cui è, attesa l’assoluta urgenza nel provvedere, ipotizzabile l’emissione di un provvedimento inaudita altera parte: se nell’analoga ipotesi di cui all’art. 55, comma 4, CCI (ai sensi del quale il tribunale provvede su istanza “[…] del debitore o di un creditore […]”), il collegio decide senza fissare l’udienza perché è sufficiente ad “attivare” il suo potere decisorio anche l’istanza del solo debitore, o comunque di una sola parte, il riferimento generico alle “parti” operato dall’art. 19 citato potrebbe non consente altrettanto, in quanto esso potrebbe inteso a “tutte le parti interessate dalle misure”; di conseguenza, andrebbe fissata l’udienza secondo le modalità già viste. Purtuttavia, poiché il comma settimo dell’art. 19 CCI rinvia alle forme previste dagli artt. 669bis e ss. cod. proc. civ., potrebbe anche ritenersi applicabile l’art. 669sexies cod. proc. civ., il quale consente al giudice di provvedere inaudita altera parte qualora “[…] la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento […]”.

Tutti i provvedimenti di cui si è discusso sono reclamabili davanti al collegio nelle forme dell’art. 669terdecies cod. proc. civ., senza possibilità di ricorrere in Cassazione, atteso il loro carattere provvisorio, comunque non idoneo alla formazione del giudicato sostanziale [24].

Dovrebbe altresì essere riconosciuta all’imprenditore la facoltà di rivolgersi al collegio nelle medesime forme anche nell’ipotesi di implicito rigetto del ricorso per mancata fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dal deposito, fermo rimanendo che, in concreto, potrebbe essere più rapido (ed utile) ripresentare l’istanza ed il ricorso, sollecitando nuovamente il tribunale a dare ingresso al giudizio.

Quanto alle valutazioni del tribunale [25], potrebbe ritenersi che, essendo il procedimento di composizione negoziata puramente privatistico, il giudice debba verificare unicamente l’attitudine delle misure protettive di cui si chiede la conferma e/o dei provvedimenti cautelari che si chiede di disporre a perseguire astrattamente la funzione cui essi sono preordinati (proteggere le trattative e presidiarne il buon esito) e l’assenza di pregiudizi ingiustificati a carico dei creditori e dei terzi.

Potrebbe anche sostenersi, però, che il tribunale debba valutare pure, da un lato, la concreta possibilità che le misure protettive ed i provvedimenti cautelari servano allo scopo di preservare il patrimonio e favorire le trattative e, dall’altro lato, il concreto pregiudizio che, a seguito dell’applicazione delle misure, potrebbero subire i creditori ed i terzi [26].

Premesso che si tratta di valutazioni di carattere sommario che non possono essere nemmeno paragonabili alla valutazione di fattibilità da porsi in essere nell’ambito del concordato preventivo [27] – in quanto, in assenza di un piano definitivo e della connessa attestazione, difetterebbero molti dei dati da porre a sostegno di quel giudizio – proprio questo approccio sembra preferibile, “[…] a meno di non voler predicare un inopinato, progressivo distacco della giurisdizione concorsuale dalla realtà della crisi d’impresa[28].

Se così è, quanto alle misure protettive, il tribunale deve verificare la concreta prospettiva di risanamento sulla base del progetto di piano che l’imprenditore deve produrre: esso deve delineare quantomeno l’obiettivo di fondo che si intende perseguire, nonché le linee principali degli interventi che l’impresa intende assumere, ed il giudice deve accertare che detta prospettiva non appaia manifestamente irrealizzabile e che la stessa non sia fondata su dati inconsistenti [29]. Insomma, il progetto deve consentire al giudice di ritenerlo quantomeno verosimile e coerente con il risanamento: in mancanza di tale requisito, infatti, il debitore può e deve utilizzare altri strumenti (ad esempio: concordato preventivo o accordi di ristrutturazione) e beneficiare della protezione del patrimonio prevista da altre norme del codice [30].

Il giudice, inoltre, deve operare una comparazione dei diversi interessi “in gioco” – ossia quello del debitore ad ottenere la protezione del proprio patrimonio nel corso delle trattative e quello dei creditori ad agire per la soddisfazione del proprio credito – e verificare che la conferma non arrechi eccessivo pregiudizio ai secondi [31].

Ne consegue, allora, che, con riferimento alle misure protettive, la valutazione del giudice non coincide affatto con quella dell’esperto: mentre il parere di quest’ultimo attiene alla funzionalità delle misure rispetto allo svolgimento ed alla prosecuzione delle trattative, il controllo giudiziale attiene non solo a questo aspetto, ma pure alla probabilità di risanamento ed alla tutela degli interessi delle parti.

 

*Contributo estratto dal “Manuale del diritto e della crisi e del risanamento di impresa”, di Antonio Caiafa e Andrea Petteruti, Dike Giuridica, 2023

[1] Pagni-Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), in Dir. crisi, 11/21, 4.

[2] Così Tribunale Milano, 27 gennaio 2022, in www.dirittodellacrisi.it, il quale evidenzia pure che i processi esecutivi pendenti entrano in uno stato di quiescenza in funzione dello svolgimento delle trattative della composizione negoziata.

[3] Ambrosini, La “miniriforma del 2021: rinvio (parziale) del CCI, composizione negoziata e concordato semplificato, in Dir. fall., 2021, I, 919 segg.; Id., La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in www.ristrutturazioniaziendali.it; Costantino, Le “misure cautelari e protettive. Note a prima lettura degli artt. 6 e 7, D.L. 118/2021, in www.inexecutivis.it; Platania, Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c., in www.ilfallimentarista.it; Bottai, La composizione negoziata di cui al D.L. 118/2021: svolgimento e conclusione delle trattative, ivi; Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari a presidio della composizione negoziata della crisi: profili processuali, in www.dirittodellacrisi.it, 2022; Pagni-Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), cit.; Leuzzi, Allerta e composizione negoziata nel sistema concorsuale ridisegnato dal D.L. 118/2021, ivi; De Santis, Le misure protettive e cautelari nella soluzione negoziata della crisi d’impresa, in Fall., 2021, 1536 e segg.; Montanari, Il procedimento relativo alle misure protettive e cautelari nel sistema della composizione negoziata della crisi d’impresa: brevi notazioni, in www.ristrutturazioniaziendali.it; Didone, Appunti su misure protettive e cautelari nel D.L. 118/2021, ivi; D’Alonzo, La composizione negoziata della crisi e l’interferenza delle misure protettive nelle procedure esecutive individuali, in Riv. es. forz., 2021, 874 e segg.; Panzani, La composizione negoziata alla luce della Direttiva Insolvency, in www.ristrutturazioniaziendali.it.

[4] Tribunale Brescia, 2 dicembre 2021, in www.ilfallimentarista.it, con nota di Cesare, La prima decisione sulle misure protettive: per la convalida occorrono pubblicazione e accettazione; Tribunale Milano, 17 gennaio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Ferrara, 21 marzo 2022, ivi.

[5] Tribunale Torino, 23 febbraio 2022, in www.ilcaso.it, ad esempio, ha ritenuto ammissibile l’esclusione di una specifica procedura esecutiva nell’ambito della quale il trasferimento dell’immobile aggiudicato risultava conveniente e comunque non idoneo a pregiudicare le ragioni dei creditori nell’ambito di un eventuale riparto in sede concorsuale.

[6] Panzani, Il D.L. “Pagni ovvero la lezione (positiva) del covid, in www.dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2021, afferma che “il legislatore non ha vietato i pagamenti in considerazione del fatto che tale divieto, che caratterizza ordinariamente la sospensione delle azioni esecutive e che è diretta conseguenza dell’applicazione del regime della par condicio, non avrebbe senso in questo caso, dove il debitore conserva tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione ed è in bonis […]”.

[7] La disposizione recepisce quanto stabilito dalla Direttiva UE 2019/1023, il cui par. 2, art. 7, prevede espressamente che “la sospensione delle azioni esecutive individuali […] sospende, per la durata della sospensione, l’apertura, su richiesta di uno o più creditori, di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore”. Purtuttavia, mentre la normativa europea inibisce il procedimento che porta all’apertura, il codice limita l’inibizione alla pronuncia della sentenza, consentendo, invece, l’apertura del relativo procedimento.

[8] In tal senso Carratta, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, in www.ristrutturazioniaziendali.it, 18 maggio 2022. In giurisprudenza, Tribunale Palermo, 29 novembre 2021, in www.ilcaso.it; Tribunale Brescia, 2 dicembre 2021, ivi; Tribunale Roma, 3 febbraio 2022, ivi, per il quale il divieto di pronunciare sentenza di fallimento “[…] costituisce un effetto di legge […] che non presuppone, né richiede, la conferma o la modifica della misura da parte del giudice”.

[9] Si tratta di una misura protettiva per Didone, Appunti su misure protettive e cautelari, cit. Platania, Composizione negoziata, cit.; Bottai, La composizione negoziata, cit., 10. Contra, De Santis, Le misure protettive e cautelari, cit., 1539; Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 10; Montanari, Il procedimento, cit., 3.

[10] Montanari, Il procedimento relativo alle misure protettive e cautelari nel sistema della composizione negoziata della crisi d’impresa: brevi notazioni, cit.; Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari, cit.; Tedoldi, Le misure protettive e cautelari nella composizione negoziata della crisi, cit., 360; Lamanna, Composizione negoziata e nuove misure per la crisi di impresa, cit., 25. Prima dell’entrata in vigore del codice, non mancavano, tuttavia, opinioni contrarie (Platania, Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c., in www.ilfallimentarista.it, 7 ottobre 2021, 5; Leuzzi, Una rapida lettura dello schema del D.L. recante misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale, in www.dirittodellacrisi.it, 5 agosto 2021, 5).

[11] È da escludersi, perciò, la possibilità di una richiesta successiva per Tribunale Ivrea, 10 febbraio 2022, in www.ilcaso.it.

[12] In questo senso anche Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 12.

[13] Per Costantino, Le “misure cautelari e protettive”, cit., 6, gli esempi che si possono ipotizzare vanno dalla sospensione a favore dell’imprenditore dell’esecuzione di un contratto pendente al divieto di pubblicazione di segnalazioni alla centrale dei rischi, al rilascio del documento di regolarità contributiva nonostante le pregresse inadempienze contributive.

[14] Tribunale Modena, 26 dicembre 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[15] Tribunale Parma, 10 luglio 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[16] Contra, Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 16, secondo cui il riferimento ai “creditori” indurrebbe alla conclusione che le azioni cautelari inibite siano quelle individuali e che, di conseguenza, le misure cautelari di cui si discute non dovrebbero venire colpite dal divieto “[…] dato che, sebbene siano anch’esse chieste dai creditori, vengono concesse, tuttavia, a protezione di un interesse collettivo”. In realtà, come correttamente osservato da Carratta, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, cit., la tesi non convince, in quanto l’art. 18 e l’art. 54 CCI non distinguono affatto fra azioni cautelari con finalità di protezione individuale e con finalità di protezione collettiva.

[17] Tribunale Milano, 24 febbraio 2022, in www.ilcaso.it.

[18] Tribunale Milano, 28 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it.

[19] Per Costantino, Le “misure cautelari e protettive”, cit., 9, la previsione dell’inefficacia delle misure protettive in caso di mancato rispetto da parte del giudice del termine di dieci giorni per fissare l’udienza appare di dubbia legittimità costituzionale, in quanto condiziona il permanere degli effetti protettivi, voluti dall’imprenditore, alla diligenza del giudice.

[20] Tribunale Roma, 24 dicembre 2021, cit.; Tribunale Firenze, 29 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it; Tribunale Bergamo, 19 gennaio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Roma, 3 febbraio 2022, cit., per il quale la legittimazione passiva del procedimento non può riconoscersi “[…] in capo alla massa indifferenziata dei creditori che possono astrattamente promuovere azioni esecutive nei confronti del debitore e che, tuttavia, non abbiano ancora avviato i relativi procedimenti o minacciato di avviarli, con la notifica di un precetto”; Tribunale Milano, 24 febbraio 2022, cit; Tribunale Bergamo, 24 febbraio 2022, in www.dirittodellacrisi.it. Contra, Tribunale Milano, 27 febbraio 2022, ivi; Tribunale Padova, 25 febbraio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Milano, 26 gennaio 2022, ivi.

[21] È ovvio, infatti, che l’esperto debba essere sentito ai fini della conferma o modifica delle misure protettive o della pronuncia degli eventuali provvedimenti cautelari richiesti, in quanto è l’unico soggetto veramente in grado di riferire con imparzialità sull’andamento delle trattative e sulla situazione dell’impresa (così anche Tribunale Roma, 21 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it).

[22] Baccaglini-De Santis, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, cit.

[23] Ibidem.

[24] A questa stessa conclusione è pervenuta la Cassazione sia con riferimento allo scioglimento o della sospensione dei contratti in pendenza del procedimento per l’accesso al concordato preventivo (Cass. 25 maggio 2021, n. 14361, in CED Cassazione; Cass. 2 marzo 2016, n. 4176, in www.ilcaso.it; Cass. 3 settembre 2015, n. 17520, in Foro it., 2016, I, 1377 e segg.), sia con riferimento alle misure di cui all’art. 182bis l.f. (Cass. 19 giugno 2018, n. 16161, in Fall., 2019, 180 segg.).

[25] Panzani, Il D.L. “Pagni ovvero la lezione (positiva) del Covid, cit., rileva che siffatti provvedimenti “[…] debbono essere idonei a vincere una resistenza ingiustificata di un creditore o di un altro soggetto che sia parte della composizione negoziata”.

[26] Tribunale Salerno, 10 maggio 2022, secondo cui “ai fini della conferma delle misure protettive il Giudice deve vagliare, attraverso la disamina della relazione dell’esperto: – la sussistenza di una ragionevole prospettiva di risanamento della crisi dell’impresa; – l’utilità delle misure protettive richieste per lo svolgimento delle trattative; – l’adeguatezza e la proporzionalità delle misure protettive richieste rispetto all’obbiettivo di risanamento dell’impresa”; Tribunale Viterbo, 14 gennaio 2022, secondo cui “per valutare la conferma delle misure protettive richieste occorre delibare, secondo un’analisi prognostica, le possibilità che attraverso la prosecuzione della procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa possa essere risanata l’impresa, operando un bilanciamento tra l’esigenza di non sottrarre l’impresa insolvente alle procedure di composizione della crisi con la necessità di evitare che siffatte procedure abbiano una funzione dilatoria invece che finalizzata ad un tempestivo risanamento dell’impresa. Deve pertanto essere negata la conferma in presenza di un marcato disequilibrio economico/finanziario evidenziato dall’indice di livello di difficoltà del risanamento relativo al rapporto tra debito che deve essere ristrutturato e ammontare annuo dei flussi a servizio del debito, attestato su valori ampiamente superiori al quello massimo”; Tribunale Ravenna, 17 marzo 2023; Tribunale Mantova, 9 marzo 2023; Tribunale Palermo, 2 marzo 2023; Tribunale Padova, 2 marzo 2023, tutte in www.dirittodellacrisi.it.

[27] Tribunale Bergamo, 24 febbraio 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[28] Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari a presidio della composizione negoziata della crisi: profili processuali, cit.

[29] Tribunale Salerno, 13 febbraio 2023, in www.dirittodellacrisi.it. Per Tribunale Frosinone, 24 gennaio 2023, in www.ilcaso.it, ciò è in linea con quanto affermato in sede eurounitaria, avendo la Direttiva Insolvency chiarito che è legittima l’introduzione di una verifica di sostenibilità, purché essa abbia la finalità di escludere il debitore che “[…] non ha prospettive di sostenibilità economica”.

[30] Se i parametri di riferimento sono la sostenibilità economica ed il risanamento dell’impresa, è evidente che il risanamento di cui si discute deve condurre alla continuità aziendale; ne consegue che non pare giustificarsi la concessione di misure protettive in presenza di soluzioni che conducono alla liquidazione dell’impresa non funzionale alla prosecuzione della sua attività.

[31] Per Tribunale Frosinone, 24 gennaio 2023, cit., la Direttiva fornisce anche un altro parametro di valutazione – richiamato dal CCI solo nell’ambito della norma sulla composizione negoziata relativa alla revoca delle misure protettive ed alla riduzione della loro durata (art. 19, comma 6, CCI) – allorché statuisce che lo Stato, nel contesto di un quadro di ristrutturazione preventiva, deve certamente consentire al debitore di poter beneficiare della sospensione delle azioni esecutive individuali al fine di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione, ma pure che la sospensione non deve comportare un ingiusto pregiudizio per i creditori.

due diligence cos'è pratica

Due diligence: cos’è e quando si mette in pratica Cos’è la Due diligence e quando si mette in pratica. In particolare: l’oggetto dell’indagine, il suo obiettivo e le ipotesi di due diligence interna

Cosa si intende per due diligence

L’espressione Due diligence si riferisce all’operazione di ricerca, raccolta e analisi di dati e informazioni, finalizzata alla valutazione sulla convenienza ed opportunità di un’operazione finanziaria o commerciale.

Solitamente, l’attività di Due diligence viene demandata a società di consulenza specializzate, cui si rivolge chi è coinvolto in una trattativa di acquisizione di determinati tipi di asset (partecipazioni societarie, immobili, crediti, operazioni nell’ambito di fusioni e incorporazioni societarie etc.).

Il significato letterale della locuzione in oggetto corrisponde a “dovuta diligenza” e si riferisce alla necessaria attenzione che occorre riporre nell’analisi dei vari aspetti e, soprattutto, dei possibili rischi derivanti da un’operazione commerciale o imprenditoriale.

Due diligence significato

A seconda dell’oggetto dell’analisi, si possono distinguere vari tipi di Due diligence.

L’indagine di fatti, dati e informazioni, ad esempio, si può concentrare sugli aspetti fiscali, oppure su quelli giuridici (e in tal caso si parla di Due diligence legale) o ancora sulle aspettative di mercato e quindi sul valore strategico dell’acquisto che si intende effettuare.

Ancora, l’analisi diligente può riguardare il valore di un’azienda o di uno specifico ramo d’azienda, le difficoltà di recupero di una serie di crediti o la fattibilità di un’offerta pubblica di acquisto.

Anche riguardo all’acquisto di immobili, è prassi consolidata accertarsi sull’esistenza di eventuali garanzie o cause di prelazione che possono rendere meno appetibile l’acquisto o meno probabile il buon esito di un’offerta.

Tipologie di Due diligence

L’incarico di Due diligence può precedere l’operazione di acquisto o anche seguirla.

Nel primo caso, le risultanze dell’attività di indagine svolta dalla società di consulenza influenzeranno il corso delle trattative, rafforzando la convinzione dell’opportunità di un acquisto (o di una diversa operazione, come la quotazione in borsa o l’aumento di capitale sociale) o, al contrario, dissuadendo il potenziale acquirente che ha disposto l’indagine, a seconda delle risultanze di quest’ultima.

A operazione avvenuta, invece, l’avvio di una Due diligence può rispondere ad esigenze di verifica riguardo all’operazione compiuta e, in base all’esito, può risultare utile a rimodulare le condizioni di vendita (a cominciare dal prezzo pattuito, ad esempio, se si è stipulato un semplice contratto preliminare) o a concordare ulteriori condizioni, come la previsione di una penale o la prestazione di una garanzia relativa a determinati rischi.

Due diligence interna

Va segnalato, infine, che la pratica di Due diligence può anche essere adottata da un’azienda per fini conoscitivi della propria stessa struttura e funzionamento.

L’oggetto dell’indagine, in tal caso, è quindi interno, e può rispondere a svariati obiettivi, come ad esempio la verifica della corretta compliance alle normative di interesse (ad esempio, quella fiscale).

In alcuni casi, peraltro, l’indagine interna di Due diligence può essere imposta direttamente dalla legge.

La Due diligence nelle direttive UE

A livello europeo, ad esempio, di recente è stato approvato il nuovo Regolamento Antiriciclaggio (AML Package), in vigore dal luglio 2024, che pone, a carico delle aziende che presentano determinati requisiti, alcuni obblighi in ordine all’identificazione della clientela, per prevenire l’ingresso nel mercato di risorse finanziarie di provenienza illecita.

Leggi anche Antiriciclaggio: al via il grande fratello europeo

Un altro esempio di indagine interna di Due diligence prevista dalla legge è quella oggetto della c.d. direttiva CSDDD, con cui l’Unione Europea intende sensibilizzare le aziende in ordine al monitoraggio e alla prevenzione dei danni ambientali e delle violazioni in tema di diritti umani nell’ambito della propria catena produttiva.

diritti spiaggia cosa sapere

Diritti in spiaggia: cosa c’è da sapere Il manuale pubblicato dall'Unione Nazionale Consumatori contiene circa 50 domande e risposte sui diritti in spiaggia

Diritti in spiaggia, cosa è lecito e cosa no

Portare il cane in spiaggia, accedere alla battigia del lido privato, o ancora portarsi il cibo da casa in uno stabilimento balneare. Sono alcune delle domande più frequenti e attuali con l’approssimarsi delle agognate ferie estive, alle quali ha cercato di dare risposta l’Unione Nazionale Consumatori con un e-book ad hoc Diritti in spiaggia: le risposte alle domande più frequenti contenente circa 50 domande e risposte (a cura di Massimiliano Dona) su cosa è lecito e cosa no sulle spiagge nostrane. 

Vediamo i punti più importanti:

Accesso al mare negli stabilimenti balneari

L’accesso al mare è libero e gratuito e gli stabilimenti balneari dovrebbero consentire l’accesso e il transito per il raggiungimento della battigia anche al fine della balneazione. A prevederlo è l’art. 11 della legge n. 217 del 2011 che prevede “il diritto libero e gratuito di accesso e di fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione“, mentre la legge n. 296 del 2006 stabilisce “l’obbligo per i titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Dunque, spiega l’UNC, se qualche gestore furbetto prova a far pagare l’accesso ai bagnanti che vogliono raggiungere la riva, si tratta di un vero e proprio abuso, visto che la spiaggia è un bene pubblico e impedirne l’accesso è una violazione di legge. In tal caso, si consiglia di chiamare i vigili e chiedergli di intervenire sul posto.

Le cose cambiano ovviamente se si usufruisce dei servizi messi a disposizione dallo stabilimento (ombrellone, sdraio, ecc.). In tal caso, è corretto che il gestore pretenda il pagamento.

Le ordinanze dei Comuni sui diritti in spiaggia

La materia dell’accesso alla battigia è regolata anche da Regioni e Comuni. La legge n. 296 del 27 dicembre 2006, all’art. 1 comma 254, spiega l’ebook dell’UNC, prevede che siano le Regioni a dover “individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili” e a “individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Molte ordinanze dei comuni, poi, prevedono il divieto di occupare con ombrelloni, sdraio o teli mare, la fascia di 5 metri dalla battigia ed il divieto di permanenza in tale spazio, poiché deve restare a disposizione per i mezzi di soccorso. In tal caso, il divieto vale per tutti, anche per i gestori dello stabilimento.

Ombrellone sulla spiaggia

La prassi di lasciare l’ombrellone in spiaggia (parliamo di spiaggia libera) assicurandosi il posto migliore per i giorni successivi è scorretta. Si tratta infatti di un’occupazione illegale del demanio pubblico, per cui non possono essere lasciati oggetti per un tempo prolungato.

Giochi sulla spiaggia

Altra nota dolente riguarda la possibilità di giocare sulla spiaggia, ad esempio a pallone. Non esiste una normativa nazionale che regoli questo aspetto, per cui, avverte l’Unione, è sempre bene informarsi su eventuali divieti imposti in questo senso dalla Capitaneria di Porto o dal Comune. Sempre bene comunque usare il “buon senso” evitando di arrecare danno o disturbo agli altri bagnanti.

Amici a quattro zampe al mare

Per quanto riguarda gli amici a quattro zampe non esiste una legge nazionale che ne regolamenta l’accesso in spiaggia, per cui, spiega ancora l’UNC, “in assenza di espliciti divieti regionali, comunali o delle autorità marittime valgono le regole generali per i luoghi pubblici che prevedono che possano girare se sono tenuti al guinzaglio o se hanno la museruola”. Resta fermo che il titolare della concessione su una spiaggia può vietarne l’accesso o al contrario, potrebbe chiedere al comune l’autorizzazione per consentirne la presenza o prevedere delle aree ad hoc.

Cibo in spiaggia

Anche mangiare sulla spiaggia è un’attività consentita nel rispetto dell’ambiente. Ovviamente, è severamente vietato lasciare oggetti di plastica o comunque inquinanti (come piatti) mentre lasciare gli avanzi di cibo, seppur poco educato, rincara l’Unione, è una pratica che “non nuoce all’ecosistema essendo il cibo un materiale completamente biodegradabile”.

Analogo il discorso che riguarda il portare cibo in uno stabilimento balneare. Non può essere vietato, purchè si rispetti il decoro della spiaggia, quindi al bando senz’altro i pic-nic con tavola imbandita o barbecue ma sicuramente nessuno può impedire di portare panini, bibite o biscotti (ecc.).

Fumare al mare

Quanto al fumo, infine, non esistendo una legge che vieta esplicitamente il fumare all’aperto deve ritenersi consentito. tuttavia, segnala l’UNC vi sono molte amministrazioni locali che stanno approvando divieti ad hoc sul fumo in spiaggia. Ovviamente, rimane sempre vietato abbandonare i mozziconi di sigaretta!

gratuito patrocinio spese stato

Gratuito patrocinio: le spese processuali spettano allo Stato La Cassazione ha precisato che le spese poste a favore della parte vittoriosa, devono essere liquidate allo Stato quando la parte risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato

Separazione e affidamento dei figli

Il caso in esame prende avvio da un giudizio avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la decisione sulle contrapposte pretese inerenti all’assegno, il diritto di abitazione e l’affidamento con le visite dei figli.

All’esito del giudizio di secondo grado, che aveva parzialmente riformato le risultanze del Giudice di prime cure, la Corte d’appello di Venezia aveva, per quanto qui rileva, compensato per 1/6 le spese del primo e del secondo grado di giudizio e per la restante parte, pari a 5/6, posto le spese processuali a carico dell’ex marito ed in favore dell’ex moglie.

Avverso la suddetta decisione di secondo grado l’ex marito avevo proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Spese di lite in favore dello Stato

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14691/2024, ha accolto il motivo d’impugnazione formulato dal ricorrente ai sensi dell’art. 360, commi 1 e 3, c.p.c. in relazione all’art. 133 e all’art. 75 del DPR n. 115/2002.

In particolare, il ricorrente aveva contestato il fatto che, con la sentenza emessa dalla Corte d’appello, egli fosse stato condannato al pagamento delle spese di lite in favore dell’ex moglie anziché in favore dello Stato e ciò nonostante fosse stata dichiarata e documentata l’ammissione dell’ex moglie al patrocinio a spese dello Stato.

Patrocinio a spese dello Stato: la decisione

La Corte, dopo essersi occupata degli altri motivi di ricorso, ha affermato che, quanto alla suddetta doglianza, dovessero essere accolte le ragioni dell’ex marito “in quanto le spese poste a favore della parte vittoriosa, debbono essere liquidate in favore dello Stato in quanto la parte personalmente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato”.

Posto quanto sopra, il Giudice di legittimità ha pertanto disposto che la condanna alle spese del ricorrente, formulata in sede di appello, dovesse essere posta direttamente a favore dello Stato e non dell’ex moglie.

contributo unificato cause

Contributo unificato: cos’è e quando si paga Cos’è il contributo unificato, quando si applica e a quali procedimenti, in che misura e cosa accade in caso di pagamento omesso o insufficiente

Contributo unificato: che cos’è

Il contributo unificato è una somma che deve essere versata allErario nel momento in cui si procede all’iscrizione a ruolo di una causa. Sono soggetti al pagamento del contributo unificato per ogni grado di giudizio il processo civile, le procedure concorsuali, i procedimenti di volontaria giurisdizione, il processo amministrativo e il processo tributario.

Riferimenti normativi

La disciplina del contributo unificato è contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, contenente il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di Giustizia.

Il decreto dedica al contributo unificato il titolo I della parte II, intitolato “Contributo unificato nel processo civile, amministrativo e tributario”. La disciplina del contributo unificato è contenuta nello specifico nell’articolo 9 e seguenti fino all’articolo 18.

Contributo unificato controversie lavoro, previdenza e assistenza

Nei processi relativi alle controversie di previdenza e assistenza obbligatoria, alle cause individuali di lavoro o relative ai rapporti di pubblico impiego, le parti che risultino titolari dall’ultima dichiarazione di un reddito imponibile ai fini Irpef superiore a tre volte l’importo previsto per beneficiare del gratuito patrocinio (pari ad oggi a Euro 12.838,01) sono soggette rispettivamente  al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura prevista:

  • dall’articolo 13 comma 1 lettera a) ossia di Euro 43,00;
  • e dal comma 3 dell’art. 13, ossia ridotto alla 1/2, fatta eccezione per i processi che si tengono davanti alla Corte di Cassazione, per i quali il contributo deve essere corrisposto nella misura indicata dall’articolo 13 comma 1 ossia nella misura ordinaria.

Esenzioni dal pagamento del contributo unificato

Ai sensi dell’articolo 10 del d.p.r. 115/2002 non è soggetto al  pagamento del contributo unificato il processo che ne sia già esente in base a una specifica previsione di legge, il processo di rettificazione dello stato civile, il processo in materia tavolare, il processo in materia di integrazione scolastica in relazione ai ricorsi amministrativi per il sostegno degli alunni con handicap fisici e sensoriali e il processo per l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo.

Il contributo unificato non è dovuto neppure per il processo anche esecutivo, di opposizione, e cautelare, in materia di assegni per il mantenimento della prole e riguardante la stessa. Non sono soggetti al pagamento del contributo unificato neppure determinati processi in materia di diritto di famiglia.

I motivi dell’esenzione devono essere dichiarati dalla parte nelle conclusioni dell’atto che introduce la causa.

Contributo unificato nel processo penale

Il contributo unificato, in base alla previsione dell’articolo 12 del DPR n. 115/2010, non è dovuto neppure quando viene esercitata lazione civile nel processo penale nel caso in cui venga richiesta la condanna generica del responsabile. Se invece è richiesta, anche in via provvisionale, la condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento e la domanda venga accolta, il contributo unificato deve essere corrisposto in base al valore dell’importo liquidato e nel rispetto degli scaglioni di valore previsti dall’articolo 13.

Importi del contributo unificato

L’indicazione degli importi dovuti a titolo di contributo unificato sono specificati all’interno dell’articolo 13.

Al comma 1 il contributo unificato viene calcolato in base agli scaglioni di valore della causa.

Il comma 1bis prevede invece che il contributo dovuto per i giudizi di impugnazione sia aumentato della metà rispetto ai valori indicati nel comma 1 ed è raddoppiato se il processo si svolge davanti alla Corte di Cassazione.

Per i processi in materia di proprietà industriale e intellettuale il valore del contributo unificato contemplato dal comma 1 è raddoppiato.

Se l’impugnazione, anche incidentale, viene respinta integralmente o viene dichiarata inammissibile  o improcedibile, la parte che l’ha proposta deve versare un importo aggiuntivo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione principale o incidentale. Questa regola non vale quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto in base a quanto previsto dall’articolo 380 bis, comma 2, ultimo periodo c.p.c.

Le esecuzioni immobiliari sono soggette al contributo di 278,00 euro, mentre per gli altri processi esecutivi l’importo è ridotto alla metà. Se si tratta di processi esecutivi mobiliari di valore inferiore ai 2500,00 euro allora il contributo è dovuto nell’importo di 43,00 euro. Per i processi di opposizione agli atti esecutivi l’importo dovuto è di 168,00 euro.

Tutti i procedimenti sommari disciplinati dal titolo I del libro IV del codice di procedura civile sono soggetti al contributo unificato ridotto alla metà rispetto agli importi del comma 1, compreso il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, alla sentenza dichiarativa di fallimento e le controversie individuali di lavoro o di pubblico impiego salvo quanto disposto dall’art. 9 comma 1.

Per la procedura fallimentare il contributo è di euro 851.

Il comma 6 bis dell’articolo 13 elenca poi gli importi dei contributi unificati per i ricorsi amministrativi proposti da vanti ai Tar e al consiglio di Stato.

Il comma 6 quater invece si occupa degli importi del contributo unificato per i ricorsi proposti in via principale e incidentale davanti all’organismi di giustizia tributaria.

Il comma 6 quinquies infine stabilisce gli importi del contributo unificato previsti per le procedure relative all’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti correnti bancari.

Quando sorge l’obbligo di pagamento

L’obbligo di pagamento è a carico della parte che si costituisce per prima in giudizio, che deposita il ricorso introduttivo e che, nei processi di esecuzione forzata, presenta l’istanza per l’assegnazione o la vendita dei beni oggetto di pignoramento.

Il pagamento del contributo unificato deve avvenire contestualmente alla presentazione dell’istanza per la ricerca telematica dei beni da pignorare.

Se la parte che che si è costituita per prima o che ha depositato per prima il ricorso introduttivo procede alla modifica della domanda o propone una domanda riconvenzionale deve dichiararlo espressamente e procedere al pagamento del contributo integrativo dovuto.

Lo stesso obbligo viene posto a carico delle parti che modificano o propongono domanda riconvenzionale o svolgono un intervento autonomo.

Controllo sul valore della causa e sul contributo unificato

Il contributo unificato deve essere corrisposto in base al valore della causa che viene dichiarato dalla parte. Il funzionario che provvede a iscrivere la causa deve effettuare la verifica della dichiarazione di valore e sincerarsi che la ricevuta riportante l’importo corrisposto a titolo di contributo unificato corrisponda a quello dovuto per lo scaglione di valore della causa. Questo controllo però non si svolge solo al momento dell’iscrizione, ma viene effettuato anche quando nel corso di causa viene proposta una domanda, che va modificare il valore della controversia.

Pagamento omesso o insufficiente: conseguenze

L’omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato comporta l’obbligo di corresponsione degli interessi legali dal deposito dell’atto per cui è previsto il pagamento o l’integrazione del contribuito dovuto.

In caso di omesso pagamento o di pagamento parziale si applica la sanzione di cui all’art. 71 del DPR n. 131/1986, ma non la detrazione.

giurista risponde

Violazione del diritto alla riservatezza e risarcimento del danno Quali sono le condizioni e i criteri per il risarcimento del danno da violazione del diritto alla riservatezza?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

Il danno da violazione del diritto alla riservatezza, dovendo necessariamente consistere in un profilo consequenziale rispetto al fatto dannoso denunciato, dev’essere essere oggetto di specifica allegazione e di prova, anche tramite il ricorso al valore rappresentativo di presunzioni semplici, ossia anche attraverso l’indicazione degli elementi costitutivi e delle specifiche circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l’esistenza. – Cass., sez. III, ord. 16 aprile 2024, n. 10155.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è chiamata a valutare se il danno da violazione del diritto alla riservatezza sia soltanto patrimoniale o anche morale ed esistenziale.

Il Tribunale adito, in parziale accoglimento dei ricorsi proposti dai danneggiati, condannava l’azienda sanitaria a rifondere i predetti; tenuto conto, altresì, che quest’ultima aveva proceduto ad oscurare i dati sensibili dei medesimi.

Viene proposto, quindi, ricorso, ex art. 380bis, per Cassazione, lamentando i ricorrenti che il danno da violazione del diritto alla riservatezza non sia soltanto patrimoniale, ma anche morale ed esistenziale; e che l’art. 15 del codice della protezione dei dati personali statuisca un generale principio di “indemnisation” integrale del danno non patrimoniale da trattamento dei dati personali; che la danneggiata abbia subito un danno alla vita di coppia ed alla sfera sessuale, un danno alla vita di relazione, all’immagine, al nome, all’onore; in ordine alla quantificazione del danno, che si richiami la definizione del danno non patrimoniale come prevista dall’art. 138 del codice delle assicurazioni (Cass., sez. III, 27 dicembre 2014, n. 1608).

La Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito dalla pronunzia della Corte cost. 6 ottobre 2014, n. 235 e dell’entrata in vigore della L. 124/2017 (che all’art. 1, comma 17, ha modificato l’art. 138 cod. ass., richiamato dai ricorrenti), secondo cui il giudice del merito sia tenuto “a valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se’ stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)” (Cass., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass., sez. III, 21 luglio 2017, n. 21939).

Di talché, è necessario che il danno preteso sia oggetto di specifica allegazione e di prova, dovendo necessariamente consistere in un profilo consequenziale rispetto al fatto dannoso denunciato (non potendo esaurirsi nella figura del c.d. danno-evento, ossia in re ipsa) (Cass., sez. III, ord. 10 luglio 2023, n. 19551; Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass., sez. III, ord. 18 novembre 2022, n. 34026).

Nel caso all’esame, sul punto, giova sottolineare come nella specie il Tribunale ha avuto cura di evidenziare che la divulgazione di informazioni in violazione degli obblighi di riservatezza e di privacy avvenuta in modo illegittimo (in particolare, circa gli aspetti inerenti allo stato di salute e alla vita sessuale della odierna parte ricorrente, nonché alle prestazioni sanitarie cui era stata sottoposta, e alle coordinate bancarie del coniuge su cui accreditare il rimborso ottenuto) determinò l’odierna azienda controricorrente a provvedere in un tempo brevissimo (nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione) ad oscurare i dati sensibili presenti nel testo diffuso.

Di conseguenza, il Tribunale ha correttamente considerato il complesso degli elementi istruttori documentali e testimoniali acquisiti ed è pervenuto alla quantificazione e liquidazione del danno in via equitativa, in modo unitario e omnicomprensivo e proporzionato al danno di natura non patrimoniale subìto in concreto dalla parte ricorrente.

Per tale motivo, il ricorso è inammissibile.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

-Conformi:  Cass., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass., sez. III, 21 luglio 2017, n. 21939; Cass., sez. III, ord. 10 luglio 2023, n. 19551; Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass., sez. III, ord. 18 novembre 2022, n. 34026

-Difformi:   Cass., sez. III, 27 dicembre 2014, n. 1608

*Contributo in tema di “Violazione del diritto alla riservatezza e risarcimento del danno”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

disdetta contratto locazione

Disdetta contratto di locazione La disdetta consente di non rinnovare il contratto di locazione alla scadenza concordata tra le parti, vediamo come funziona nei principali tipi di contratto

Disdetta del contratto di locazione: cos’è

La disdetta del contratto di locazione è un istituto giuridico che consente di non rinnovare il contratto stipulato alla scadenza contrattuale concordata. La disdetta non deve essere confusa con il recesso, che consente di porre fine al contratto in anticipo in presenza di gravi motivi.

La disdetta, con cui si comunica il desiderio di non rinnovare il contratto, è un diritto che la legge disciplina dettagliatamente quando spetta al locatore, al fine di tutelare il conduttore, che è la parte debole del contratto. Vediamo in quali casi e come si deve procedere per dare la disdetta di un contratto di locazione in modo corretto.

Locazioni di immobili: durata e rinnovo

Per comprendere il perché della disdetta è necessario precisare che nel nostro ordinamento i principali contratti di locazione immobiliari ad uso abitativo sono disciplinati dalla legge n. 431/1998 e che gli stessi hanno durate diverse:

  • contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni rinnovabili per altri quattro anni (4+4);
  • contratti di locazione a canone concordato della durata minima di tre anni rinnovabile di altri due (3+2).

Regole e termini particolari per la disdetta e il recesso sono previsti per i contratti di locazione ad uso transitorio e per gli studenti universitari.

Disdetta nelle locazioni 4+4

Per i contratti di locazione di durata non inferiore a 4 anni rinnovabili per un periodo di altri 4 la legge prevede che il secondo rinnovo possa venire meno se il locatore manifesti l’intenzione di adibire l’immobile ad usi particolari, di effettuare sullo stesso delle opere o di venderlo in modi e a condizioni particolari.

Alla seconda scadenza del contratto sia il locatore che il conduttore possono infatti decidere di rinnovarlo a nuove condizioni oppure di rinunciare, comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza. Chi riceve la lettera deve  rispondere a sua volta con lettera raccomandata nel termine di 60 giorni dal ricevimento.

Disdetta nelle locazioni a canone concordato 3+2

I contratti di locazione a canone concordato invece non possono avere una durata inferiore ai 3 anni. Alla prima scadenza del contratto, se le parti non si accordano sul rinnovo, il contratto è prorogato di diritto per altri 2 anni a meno che il locatore non intenda dare disdetta per adibire l’immobile a determinati usi, effettuare sullo stesso delle opere o venderlo a determinate condizioni e nel rispetto di determinate modalità. Quando scade il periodo di proroga biennale del contratto sia il locatore che il conduttore possono decidere di rinnovarlo a nuove condizioni o rinunciare a rinnovo dell’accordo comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza.

Disdetta del locatore: condizioni e modalità

Nei contratti di locazione 4+4 e 3+2 il locatore alla prima scadenza del contratto può quindi negare il rinnovo previa comunicazione al conduttore almeno sei mesi prima per i seguenti motivi:

  • volontà di destinare l’immobile ad uso abitativo commerciale, artigianale, professionale proprio o del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado;
  • volontà del locatore persona giuridica società o ente pubblico di destinare l’immobile all’esercizio di attività con finalità pubbliche, sociali mutualistiche, cooperative, assistenziali, culturali o di culto purché contestualmente offra al conduttore un altro immobile;
  • il conduttore ha la piena disponibilità di un altro immobile libero nello stesso comune;
  • l’immobile locato fa parte di un edificio gravemente danneggiato, che necessita di essere ricostruito o di cui deve essere assicurata alla stabilità e la presenza del conduttore impedisce i lavori;
  • l’immobile è compreso all’interno di un fabbricato che necessita di essere integralmente ristrutturato, demolito o trasformato o sopraelevato (se collocato all’ultimo piano) e per ragioni tecniche è necessario che l’appartamento venga sgomberato;
  • il conduttore non occupa continuativamente l’immobile senza un giustificato motivo e senza una successione legittima nel contratto;
  • il locatore vuole vendere l’immobile a terzi e non ha la proprietà di altri immobili a parte quello già adibito ad abitazione. In questo caso però la legge prevede in favore del conduttore un diritto di prelazione all’acquisto.

Il recesso del conduttore

In relazione ai due principali tipi di locazione immobiliare ad uso abitativo analizzati ovvero il 4+4 e il 3+2, anche il conduttore può decidere di porre fine al contratto anzi tempo. La legge però, in questo caso, non richiede motivazioni particolari, come per il locatore. Il conduttore infatti, in base a quanto previsto dal comma 6 dall’articolo 3 della legge n. 431/1998, può recedere in qualsiasi momento dall’accordo in presenza di gravi motivi, dando un  preavviso di 6 mesi al locatore.

La norma non precisa quali siano i gravi motivi che giustifichino il recesso del conduttore. Per fortuna la giurisprudenza nel tempo ha colmato questo vuoto. La Cassazione ad esempio ha identificato il grave motivo con l’incendio che colpisce l’immobile e che lo rende inservibile alle esigenze del conduttore. Un altro grave motivo è rappresentato dall’inadempimento del locatore nel procedere alle necessarie riparazioni dell’immobile locato. Altri gravi motivi sono stati identificati con la perdita del lavoro da parte del conduttore, con la presenza di problemi familiari gravi e tali da richiedere il trasferimento del conduttore, con il disinteresse manifestato dal locatore in relazione a gravi problemi strutturali dell’edificio, che non lo rendono sicuro per le esigenze abitative del conduttore.

La lettera di disdetta

Per manifestare adeguatamente la volontà di non rinnovare il contratto di locazione la legge richiede l’invio formale di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno (o pec) da inviare almeno sei mesi rispetto alla scadenza.

Nella lettera di disdetta non possono mancare i seguenti dati essenziali:

  • i motivi per i quali si intende dare la disdetta;
  • i dati identificativi del contratto di locazione;
  • la data di decorrenza della disdetta.
responsabilità banca bonifico

Banca paga se fa bonifico a IBAN sbagliato Cassazione: la banca è responsabile per il pagamento effettuato su un IBAN sbagliato se non dimostra di aver adottato le necessarie cautele

Responsabilità della banca

La banca che accredita una somma su un IBAN che è stato indicato in maniera errata da chi ha effettuato il bonifico, diretta a un beneficiario non titolare di conto presso la stessa banca, è responsabile verso il beneficiario che non ha ricevuto il pagamento. La stessa va esente da responsabilità solo se dimostra di aver adottato tutte le cautele necessarie per scongiurare l’accredito errato della somma, o se dimostrare di essersi adoperata adeguatamente per dare modo al pagatore di individuare il destinatario del pagamento comunicandogli, se occorre, i dati anagrafici o della società. Questa necessità scavalca la tutela della privacy. L’interesse alla riservatezza dei dati passa in secondo piano di fronte alla necessità di tutelare l’interesse del beneficiario a ricevere effettivamente il pagamento che gli è dovuto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza numero 17415/2024.

Richiesta risarcitoria per errato pagamento

Con ricorso 702 c.p.c. un fallimento chiede la condanna al risarcimento del danno di 40.000 euro alla banca. L’attore espone di essere creditore di una somma di 40.000 euro a titolo di indennizzo di cui però non ha ricevuto il pagamento perché la compagnia assicuratrice lo ha corrisposto a mezzo bonifico bancario in modo erroneo a un altro soggetto.

Per l’attore la banca è responsabile perché avrebbe dovuto accorgersi che il titolare del conto corrente a cui ha accreditato la somma disposta a mezzo bonifico non era intestata al soggetto a cui avrebbe dovuto pagarla. L’istituto di credito convenuto rivendica la correttezza del proprio operato, ma il tribunale lo ritiene responsabile, a fronte di un ordine di bonifico di importo così elevato ha infatti tenuto una condotta negligente perché avrebbe dovuto verificare la corrispondenza tra il codice IBAN e il nome del beneficiario effettivo del bonifico.

Parte soccombente ricorre in appello la decisione, ma anche la corte la ritiene responsabile in quanto non avrebbe fornito alcuna indicazione sulle cautele adottate per consentire al terzo il recupero della somma corrisposta indebitamente ad altri. La decisione di secondo grado viene portata infine all’attenzione della Corte di Cassazione.

Responsabilità della banca  per danni al cliente o al terzo

La Suprema Corte, preso atto della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, rileva come in materia di servizi di pagamento elettronici siano intervenuti diversi interventi normativi da parte del legislatore italiano e di quello comunitario.

Tirando le fila, alla luce della normativa, della giurisprudenza e della dottrina in materia, per gli Ermellini occorre distinguere due ipotesi:

  • la responsabilità della banca nell’eseguire operazioni di pagamento dopo una disposizione errata qualora l’operazione provochi un danno al proprio cliente che utilizza il servizio di pagamento come pagatore o destinatario dei fondi dell’operazione;
  • la responsabilità della banca rispetto all’ipotesi in cui l’operazione cagioni un danno al beneficiario di una dispositiva di pagamento qualora questo soggetto non sia titolare di un conto da credito presso la banca stessa.

Nel primo caso per ritenere la banca responsabile è necessario dimostrare che la stessa sia consapevole dell’errore del cliente. Per andare esente da colpa la Banca deve dimostrare di aver eseguito l’operazione tramite un sistema completamente automatizzato perché in tal modo la stessa non è tenuta a eseguire un controllo sulla congruità dell’operazione. Se il pagamento è automatico infatti la banca non può avere la consapevolezza dell’eventuale errore dell’utente per cui spetterà quest’ultimo dimostrare che la banca è consapevole dell’ordine errato.

Nel secondo caso la banca ha invece un dovere di diligenza nei confronti del beneficiario effettivo e del pagamento rimasto insoddisfatto. Per andare esente da responsabilità deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per scongiurare l’erronea individuazione del beneficiario o, quantomeno, deve provare di essersi comportata in modo tale da rendere possibile la corretta individuazione del soggetto gratificato dal pagamento che è stato effettuato in maniera erronea.

I prestatori di servizi di pagamento che senza porre in essere verifiche specifiche risultano consapevoli dell’esattezza dell’IBAN che è stato fornito dal proprio cliente devono adoperarsi affinché l’operazione di pagamento venga effettuata correttamente. Il prestatore che esegue il pagamento nonostante la consapevolezza di un IBAN inesatto tiene una condotta pregiudizievole e di tale condotta deve essere  ritenuta responsabile.

Responsabilità della banca per il bonifico se l’IBAN è errato

Questo infine il principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione: “In tema di responsabilità di una banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, allorquando li beneficiario, nominativamente indicato, di un pagamento da eseguirsi tramite bonifico sia sprovvisto di conto di accredito presso la banca intermediaria, sicché nemmeno è utilizzabile la specifica disciplina ex art. 24 del d.lgs. n. 1 del 2010, si applicano le regole di diritto comune, per cui grava sull’intermediaria stessa, responsabile, secondo la teoria del “contatto sociale qualificato”, nei confronti del beneficiario rimasto insoddisfatto a causa dell’indicazione, rivelatasi inesatta, del proprio IBAN, l’onere di dimostrare di aver compiuto l’operazione di pagamento, richiestagli dal solvens, adottando tutte le cautele necessarie al fine di scongiurare il rischio di un’erronea individuazione di detto beneficiario, o quanto meno, di essersi adoperata per consentirgli la individuazione del soggetto concretamente gratificato del pagamento destinato, invece, al primo, anche comunicandogli, ove necessario, i relativi dati anagrafici o societari”. 

Allegati

note 171 ter cpc dubbi

Note 171-ter c.p.c.: le incertezze della riforma Allo studio del Governo i correttivi alla Riforma Cartabia, anche per dirimere le incertezze sul decreto ex art. 171-bis e sui suoi rapporti con le note integrative ex art. 171-ter

I rapporti tra le note integrative e il decreto ex art. 171-bis c.p.c.

Se la Riforma Cartabia si prefiggeva l’obiettivo di portare chiarezza, semplificazione e rapidità nell’ambito del processo civile, purtroppo non si può dire che ciò sia avvenuto con specifico riferimento al tema delle memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. e del decreto che il giudice dovrebbe emanare a margine delle verifiche preliminari ex art. 171-bis.

Sul punto si è verificata una certa confusione e divergenza di opinioni tra gli addetti ai lavori, sfociata in una diversità di operato da parte degli avvocati e nel contrastante tenore dei provvedimenti adottati dai giudici dei Tribunali.

Ricapitoliamo brevemente la materia, per poi concentrarci sui più recenti interventi legislativi, che intendono apportare correttivi alla riforma Cartabia per riportare, quanto meno, la dovuta chiarezza normativa sul tema.

Le memorie integrative dopo la Riforma Cartabia

Come risaputo, le note integrative ex art. 171-ter c.p.c. sostituiscono, sostanzialmente, le vecchie memorie ex art. 183, sesto comma, e consentono alle parti di modificare e precisare domande, eccezioni e richieste istruttorie in un momento che precede la celebrazione della prima udienza.

Ciò allo scopo, diversamente da quanto accadeva nel rito pre-riforma, di mettere il giudice in condizioni di arrivare alla prima udienza già consapevole del thema decidendum ed istruttorio.

Ebbene, secondo le previsioni dell’articolo in questione, tali memorie possono essere depositate dalle parti entro determinati termini (pari a quaranta, venti e dieci giorni prima) da calcolarsi a ritroso, rispetto alla data di udienza di prima comparizione.

Già, ma qual è, di preciso, questa data? Ecco il vero nodo della questione.

Data della prima udienza di comparizione: il decreto ex art. 171-bis

Di regola, la data dell’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. è quella indicata dall’attore nell’atto di citazione.

Il convenuto è tenuto a costituirsi entro 70 giorni prima di tale data, e dalla scadenza di tale termine il giudice, ex art. 171-bis, ha quindici giorni (termine ordinatorio, si badi) per compiere le verifiche preliminari sulla regolarità del contraddittorio e per indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione.

Ebbene, quando pronuncia tali provvedimenti, il giudice ha facoltà di fissare una nuova data per l’udienza di comparizione delle parti, “rispetto alla quale decorrono i termini indicati dall’articolo 171-ter” (art. 171-bis, secondo comma). Inoltre, se non provvede in tal senso, egli “conferma o differisce, fino ad un massimo di quarantacinque giorni, la data della prima udienza”, ed anche in tal caso i termini ex art. 171-ter decorrono con riferimento a tale nuova data.

Adesso, il dilemma che si è posto all’attenzione di dottrina e giurisprudenza è il seguente: il giudice è tenuto in ogni caso ad adottare il decreto di cui all’art. 171-bis, o in mancanza è da ritenersi implicita la conferma della data fissata dall’attore? E cosa succede se adotta il decreto decorso il termine ordinatorio di quindici giorni indicato da tale articolo, e in particolare se tale decreto sopraggiunga dopo l’avvenuto deposito di note ex art. 171-ter da parte degli avvocati?

E ancora: il decreto del giudice vale ad autorizzare il deposito delle memorie integrative, o queste possono essere presentate anche senza alcuna concessione da parte del giudice?

Incertezze in giurisprudenza sulle memorie integrative ex art. 171-ter

Come si vede, il proposito di semplificare e velocizzare la procedura, proprio della Riforma Cartabia, è stato frustrato, in questo caso, dalla mancanza di chiarezza riguardo alla necessità, o meno, dell’adozione del decreto di conferma, differimento o fissazione di una nuova udienza da parte del giudice, ex art. 171-bis.

E così, si sono verificati casi in cui il Tribunale ha ritenuto erroneo il deposito di memorie integrative ex art. 171-ter in assenza di decreto del giudice (Trib. Treviso 25.01.2024 o anche il provvedimento del Trib. Pistoia, 22.09.2023, con cui, in sostanza, si riteneva che la decorrenza dei termini per il deposito delle note non potesse considerarsi ancora iniziata, mancando il provvedimento giudiziale); e casi in cui il Tribunale ha espressamente fatto salvi i termini ex art. 171-ter, facendoli decorrere dalla data di udienza fissata dall’attore, in un caso in cui il decreto di fissazione dell’udienza era stato adottato oltre il termine di quindici giorni previsto dall’art. 171-bis (Trib. Firenze, 19.01.2024).

Il Tribunale di Piacenza è andato ancora oltre, con un provvedimento del 01.05.2023, sostenendo espressamente che il deposito delle note ex art. 171-ter debba essere autorizzato dal giudice, sul modello del previgente rito in cui il codice prevedeva una formale concessione dei termini per le note ex art. 183 sesto comma, possibile peraltro solo su apposita richiesta di parte.

Correttivo sulla necessità del decreto all’esito delle verifiche preliminari

Insomma, un po’ di confusione si è fatta, e forse la colpa non è nemmeno di una Riforma tutto sommato ben scritta sul punto, ma piuttosto di un certo eccesso nello sforzo interpretativo da parte degli operatori: non appare, in fin dei conti, così scontato ritenere che l’intenzione del legislatore fosse quella di rendere necessario in tutti i casi un decreto relativo alla data di prima udienza, e tanto meno che dall’adozione di questo dipendesse, addirittura, la possibilità o meno di depositare le memorie integrative.

Lo schema di decreto legislativo presentato a marzo

Ma tant’è, i dubbi e le interpretazioni discordanti ci sono stati, e così siamo arrivati alla situazione attuale: la necessità di un correttivo alla Riforma Cartabia, che è in effetti ai lavori, sotto forma di Schema di decreto legislativo, presentato in data 18 marzo 2024 e concernente disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149.

Nel dettaglio, a dirimere d’ora in poi ogni dubbio sul tema sopra affrontato, il documento prevede all’art. 3 (Modifiche al codice di procedura civile) la riformulazione dell’art. 171-bis nel senso di prevedere “che la fase delle verifiche preliminari debba comunque concludersi con un decreto del giudice istruttore” e di precisare che “i termini di cui all’art. 171-ter per il deposito di memorie integrative iniziano a decorrere dalla data del decreto”, computandosi gli stessi rispetto all’udienza fissata nell’atto di citazione o dal giudice istruttore.

Tale modifica, viene precisato nell’atto di delega al Governo, “ha anche lo scopo di eliminare ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento dell’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.

giurista risponde

Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata Chi materialmente paga un assegno non trasferibile a persona diversa dall’intestatario, ha comunque la possibilità di provare la propria estraneità?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

La responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno non trasferibile in favore di persona non legittimata ha natura contrattuale. La banca negoziatrice, ai sensi dell’art. 43, comma 2, legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), è chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento di assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario; è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c. – Cass., sez. I, ord. 22 aprile 2024, n. 10711.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se, oltre l’ onere probatorio gravante su Poste italiane s.p.a. di dimostrare di aver agito con diligenza, vi fosse l’onere di Unipol di dimostrare il contrario, evidenziando la presenza di contraffazioni visibili ictu oculi sul titolo o sui documenti.

Nella sentenza di primo grado, il Tribunale adito riconosceva la responsabilità di Poste, condannandola al risarcimento dei danni. In secondo grado, la Corte territoriale ha respinto le istanze dell’appellante, osservando che «La regola della cd. responsabilità da “contatto sociale” prevede una presunzione di colpa a carico del debitore inadempiente perché utilizza i criteri della responsabilità contrattuale. L’appellante avrebbe dunque dovuto specificare quali circostanze di fatto emerse nel giudizio di primo grado dimostrassero che il controllo dei documenti fosse avvenuto con la diligenza richiedibile a un operatore professionale. L’onere della prova dell’assenza di colpa era a carico di Poste Italiane s.p.a. e non era stato assolto per il solo fatto che i documenti d’identificazione esibiti fossero falsi. Esistono falsi grossolani ed esistono regole cautelari – ricordate dalla difesa dell’appellato – volte a ridurre il rischio di raggiri attraverso una tecnica truffaldina già nota, anche all’epoca di fatti oggetto del presente processo, a Poste Italiane s.p.a. L’appellante avrebbe dovuto provare di aver assunto una condotta conforme alla diligenza media di un “accorto banchiere”, riferibile alla natura dell’attività esercitata e all’obbligo di verifica visiva e tattile del documento cartaceo esibito per l’incasso dell’assegno» (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477).

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando le argomentazioni utilizzate dalla corte per giustificare la ivi ritenuta sussistenza della responsabilità di Poste Italiane s.p.a.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando il ricorso inammissibile, ha ricordato quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477, secondo cui, al fine di sottrarsi alla responsabilità, la banca è tenuta a provare di aver assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere anche in ipotesi di colpa lieve. È stato chiarito, inoltre, che lo scopo della clausola di intrasferibilità consiste non solo nell’assicurare all’effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma anche e soprattutto nell’impedire la circolazione del titolo: a conferma di tale assunto è stato richiamato l’art. 73 del R.D. 1736/1933, il quale esclude l’ammortamento dell’assegno non trasferibile proprio perché lo stesso non può essere azionato da un portatore di buona fede, conferendo nel contempo al prenditore, ma solo come conseguenza indiretta, la maggior sicurezza di poterne ottenere un duplicato denunciandone lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario o al traente.

Nel caso di specie, non resta che prendere atto dell’accertamento di merito effettuato dalla Corte suddetta, rispetto al quale le argomentazioni della censura, sul punto, si rivelano erronee.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

*Contributo in tema di “Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica