caso fortuito e forza maggiore

Caso fortuito e forza maggiore Caso fortuito e forza maggiore: definizione, differenze e implicazioni giuridiche

Caso fortuito e forza maggiore

Nel linguaggio giuridico, i termini caso fortuito e forza maggiore sono spesso utilizzati in maniera intercambiabile, ma presentano distinzione concettuali e applicative rilevanti, soprattutto in ambito contrattuale e risarcitorio. Entrambi infatti pur rappresentando cause esimenti della responsabilità civile, si fondano su presupposti differenti.

Cosa si intende per caso fortuito

Il caso fortuito è un evento imprevedibile e inevitabile che si verifica per fattori interni o esterni al soggetto agente, e che interrompe il nesso causale tra un comportamento e il danno che ne deriva. Può consistere in:

  • un errore umano involontario ma non imputabile a negligenza;
  • un comportamento di terzi non controllabile;
  • una condotta anomala e imprevedibile della vittima;
  • eventi naturali improvvisi non preventivabili.

In generale, il caso fortuito si manifesta come un fattore causale estraneo alla volontà del soggetto, che non poteva essere né previsto né evitato con la normale diligenza.

Cosa si intende per forza maggiore

La forza maggiore, invece, è un evento straordinario, esterno e irresistibile, derivante da cause naturali o atti dell’autorità, che impedisce oggettivamente l’adempimento di un obbligo giuridico. Esempi tipici di forza maggiore includono:

  • le catastrofi naturali (terremoti, alluvioni, uragani);
  • i conflitti armati, sommosse, atti terroristici;
  • i provvedimenti autoritativi, come lockdown o chiusure forzate;
  • le epidemie e le pandemie (es. Covid-19).

La caratteristica essenziale della forza maggiore è che l’evento è esterno al soggetto e di tale entità da rendere impossibile l’adempimento, anche con la massima diligenza.

Differenze tra caso fortuito e forza maggiore

Riepilogando quindi, a parte la comune funzione di causa di esclusione della responsabilità, le due figure presentano differenze tecniche e giurisprudenziali:

Caso fortuito

Forza maggiore

Evento anche interno (es. errore umano, fatto del terzo)

Evento esclusivamente esterno

Può derivare da comportamenti non imputabili, ma non necessariamente straordinari

Deve essere un evento eccezionale e irresistibile

Rileva anche in ambito extracontrattuale (es. responsabilità da cose in custodia)

Rileva soprattutto in ambito contrattuale (es. inadempimento)

Focus sull’imprevedibilità e sull’interruzione del nesso causale

Focus sull’impossibilità oggettiva della prestazione

Dal punto di vista pratico, la giurisprudenza tende a valutarli congiuntamente come eventi che rendono l’inadempimento non imputabile, purché provati con rigore.

Rilevanza giuridica di caso fortuito e forza maggiore

Le due figure giuridiche assumono rilievo:

  • Nella responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., quale causa di esclusione dell’inadempimento imputabile;
  • Nella responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., e in ambiti specifici come la responsabilità per cose in custodia (art. 2051 c.c.);
  • Nel diritto del lavoro e negli appalti, per giustificare ritardi o sospensioni;
  • Nelle clausole contrattuali (force majeure clause), frequentemente inserite per disciplinare gli effetti di eventi eccezionali.

Prova del caso fortuito e della forza maggiore

La prova di queste esimenti è a carico del soggetto che le invoca , il quale deve dimostrare:

  • l’effettiva sussistenza dell’evento imprevedibile e inevitabile;
  • l’impossibilità oggettiva o l’interruzione del nesso causale;
  • l’adozione di tutte le misure idonee a evitare o limitare le conseguenze.

Nel caso della forza maggiore, è particolarmente rilevante la documentazione ufficiale (ordinanze, decreti, bollettini meteo, ecc.) che attesti l’evento straordinario.

Clausole contrattuali e pandemia

La recente esperienza della pandemia da Covid-19 ha posto al centro dell’attenzione il concetto di forza maggiore contrattuale, spesso invocata per giustificare la mancata esecuzione di obblighi pattuiti. Tuttavia, in assenza di una clausola espressa, l’applicazione delle esimenti si basa su una rigorosa valutazione casistica, e non è automatica.

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messa in mora

Messa in mora del creditore Messa in mora del creditore ex art. 1206 c.c.: normativa, funzionamento ed effetti

Cos’è la mora del creditore?

La messa in mora del creditore, disciplinata dall’articolo 1206 del Codice Civile, è una situazione giuridica che si verifica quando il creditore rifiuta senza giustificato motivo di ricevere la prestazione dovuta dal debitore o di compiere gli atti necessari affinché l’obbligazione possa essere adempiuta.

La mora del creditore si verifica quando quest’ultimo non collabora all’adempimento dell’obbligazione, rendendo impossibile al debitore l’esecuzione della prestazione. Questo principio tutela il debitore, impedendo che sia considerato inadempiente per cause a lui non imputabili.

L’art. 1206 c.c. stabilisce che il creditore è in mora quando:

  • rifiuta ingiustificatamente di ricevere la prestazione offerta dal debitore;
  • non compie gli atti necessari affinché il debitore possa adempiere all’obbligazione.

Esempi pratici:

  • il creditore non si presenta nel luogo concordato per il pagamento di una somma dovuta;
  • il locatore rifiuta di ricevere il pagamento del canone d’affitto dall’inquilino;
  • un venditore tenta di consegnare la merce, ma l’acquirente rifiuta di accettarla senza motivo valido.

Normativa e funzionamento della mora del creditore

Il Codice Civile disciplina la messa in mora del creditore attraverso una serie di articoli:

  • Art. 1206 c.c. – Definizione della mora del creditore;
  • Art. 1207 c.c. – Effetti della mora del creditore;
  • Art. 1208 c.c. – Offerta formale della prestazione;
  • Art. 1210 c.c. – Deposito liberatorio.

Per far valere la mora del creditore, il debitore deve provare di aver eseguito una offerta reale o formale della prestazione (art. 1208 -1209 c.c.), oppure di aver depositato la somma o il bene presso un istituto bancario o presso un notaio (art. 1210 c.c.).

Effetti della mora del creditore

La mora del creditore produce effetti giuridici rilevanti, così come sancisce l’articolo 1207 c.c.

  • Esclusione della responsabilità del debitore
    • Il debitore non può essere considerato inadempiente se l’obbligazione non viene eseguita a causa della condotta del creditore.
  • Cessazione dell’obbligo di risarcimento danni per ritardo
    • Il debitore non è tenuto a pagare interessi e frutti della cosa se il debitore non li ha percepiti
  • Risarcimento del danno
    • Il creditore deve risarcire i danni che derivano dalla sua mora al debitore.
  • Diritto al rimborso delle spese per custodia e conservazione del bene
    • Se il debitore è costretto a sostenere spese per la custodia e la conservazione del bene non accettato, può richiederne il rimborso al creditore

Come si fa valere la mora del creditore?

Per la messa in mora del creditore, il debitore deve compiere le seguenti azioni:

 Offerta formale della prestazione

L’offerta che il debitore presenta al creditore deve possedere i requisiti indicati dall’articolo 1206 c.c. (creditore o terzo capace di ricevere; persona che può adempiere; totalità della somma o cose dovute, termine scaduto; condizione verificata; aal creditore o al domicilio; dia un pubblico ufficiale autorizzato, consenso del debitore se occorre liberare i beni dalle garanzie)

 Deposito Liberatorio (Art. 1210 c.c.)

  • Se il creditore continua a rifiutare, il debitore può depositare la somma dovuta presso un notaio o un istituto di credito, come previsto dall’articolo 1210 c.c.
  • Se l’oggetto dell’obbligazione è una somma di denaro, il debitore può depositarla presso la Cassa Depositi e Prestiti o un altro ente autorizzato.
  • Se si tratta di un bene mobile, può essere affidato a un custode.

 Ricorso Giudiziale

Se il creditore continua a non collaborare, il debitore può agire in giudizio per ottenere una pronuncia che accerti la mora del creditore e lo obblighi a ricevere la prestazione.

 Giurisprudenza in materia

Ecco alcune sentenze fondamentali in materia di mora del creditore.

Cassazione n. 10605/2016: Nelle obbligazioni pecuniarie con termine di pagamento, è sufficiente che l’offerta reale della somma avvenga entro la scadenza. Non è invece necessario che entro tale termine siano completate anche le formalità successive al deposito, come la notifica al creditore del giorno del deposito o del verbale di deposito in caso di sua assenza. Queste formalità sono infatti solo eventuali e si rendono necessarie solo se il creditore non accetta l’offerta. Pertanto, il debitore può effettuare l’offerta reale anche l’ultimo giorno utile per il pagamento.

Cassazione n. 302/2015: Quando un creditore è in mora, il deposito della prestazione effettuato dal debitore ai sensi degli articoli 1210 e 1212 del Codice Civile (ad esempio, il deposito di una somma di denaro), se non viene accettato dal creditore, non estingue immediatamente l’obbligazione. Per liberare il debitore, è necessaria la convalida del deposito. Questa convalida può essere richiesta dal debitore anche in un momento successivo, ad esempio opponendosi a un precetto (atto di intimazione a pagare) che il creditore gli abbia notificato per ottenere l’adempimento dell’obbligazione. In tal caso, il debitore deve presentare una specifica domanda di convalida del deposito all’interno del giudizio di opposizione all’esecuzione. Spetta al debitore, in qualità di attore in questo giudizio, l’onere di allegare e provare che il deposito è stato eseguito correttamente e che sussistono i presupposti per la sua convalida.

Cassazione n. 20889/2012: La mora del creditore (o mora credendi) si verifica quando il creditore, senza un motivo legittimo, non accetta la prestazione offertagli dal debitore o non compie gli atti necessari per rendere possibile l’adempimento. Questo è quanto stabilito dall’articolo 1206 del Codice Civile. Di conseguenza, se il creditore non coopera, il debitore può subire dei danni. Questi danni, di cui all’articolo 1207, comma 3, del Codice Civile, possono includere, ad esempio, le spese sostenute per la conservazione della cosa dovuta o il lucro cessante per la mancata liberazione dall’obbligazione. Per far sì che si configuri la mora del creditore e per poter poi chiedere il risarcimento di tali danni, è fondamentale che il debitore abbia preventivamente eseguito un’offerta solenne della prestazione, ovvero un’offerta fatta secondo le formalità previste dalla legge.

 

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sostituzione fedecommissaria

Sostituzione fedecommissaria  Sostituzione fedecommissaria o fedecommesso: definizione, normativa, presupposti, effetti, disciplina e giurisprudenza

Sostituzione fedecommissaria

La sostituzione fedecommissaria, conosciuta anche come fedecommesso, è un istituto giuridico previsto dall’ordinamento italiano in materia successoria. Nella pratica si tratta di una particolare disposizione testamentaria con la quale il testatore vincola il primo beneficiario (detto fedecommissario) a conservare i beni ricevuti, affinché alla sua morte passino direttamente a un secondo beneficiario già individuato dal testatore. Si tratta, nella pratica, di una sostituzione obbligatoria che prevede l’automatico trasferimento del bene ereditato, senza la necessità di aprire una nuova successione.

Disciplina normativa

Il fedecommesso è disciplinata dal Codice Civile agli articoli 692 e seguenti. In passato l’istituto veniva impiegato per tutelare patrimoni ingenti dalla cattiva gestione dell’eredita nel caso in cui l’erede fosse troppo giovane di età. Oggi invece trova applicazione solamente in casi specifici, a seguito di un’importante limitazione legislativa.

Attualmente la sostituzione fedecommissaria è ammessa infatti soltanto in favore di figli o discendenti del testatore, che siano interdetti per infermità mentale, come previsto dall’articolo 692 c.c.

Presupposti della sostituzione fedecommissaria

Affinché possa operare validamente la sostituzione fedecommissaria occorrono determinati presupposti:

  • l’esistenza di un atto di disposizione a causa di morte (testamento);
  • la nomina di un primo successore (il fiduciario) obbligato a conservare il bene;
  • la designazione di un successore ulteriore, che subentrerà nel possesso del bene alla morte del primo;
  • la presenza di condizioni soggettive particolari, come l’interdizione per infermità mentale del primo beneficiario.

Se uno di questi presupposti manca, la sostituzione fedecommissaria non può produrre i suoi effetti.

Effetti giuridici

L’effetto principale della sostituzione fedecommissaria è che il primo successore non può disporre liberamente dei beni ricevuti: egli è obbligato infatti a conservarli e a trasmetterli al sostituito.  Il secondo beneficiario, infatti, acquista i beni direttamente, senza che si apra una nuova successione in suo favore, attraverso un meccanismo di acquisto immediato e diretto alla morte del primo successore.

L’alienazione o l’atto di disposizione dei beni gravati dal fedecommesso può essere autorizzata dal giudice solo se l’utilità è evidente e disponendo comunque il reimpiego delle somme.

Ambito di applicazione attuale

Come già accennato, la sostituzione fedecommissaria oggi può essere istituita da ciascuno dei genitori, dagli altri ascendenti in linea retta e dal coniuge dell’interdetto, nei confronti del figlio, del discendente e del coniuge, che vengono gravati dell’obbligo di conservare e di restituire alla sua morte i beni in favore della persona o degli enti che si sono occupati dell’interdetto, sotto la vigilanza del tutore. La stessa disposizione si può applicare anche al minore di età in condizioni di infermità mentale tale da far presumere che nei suoi confronti interverrà una pronuncia di interdizione.

In tutti gli altri casi, il fedecommesso è nullo per violazione della normativa vigente.

Giurisprudenza sulla sostituzione fedecommissaria

La Cassazione è intervenuta in diverse occasioni per chiarire i profili più rilevanti dell’istituto.

Cassazione n. 10612/2016: Al fine di qualificare correttamente una disposizione testamentaria come sostituzione fedecommissaria o lascito sottoposto a condizione, il giudice è chiamato ad indagare la reale intenzione del testatore, analizzando l’insieme delle sue espressioni.

Cassazione 25698/2018: Per distinguere tra sostituzione fedecommissaria e costituzione testamentaria di usufrutto, l’interpretazione deve mirare alla reale volontà del testatore, analizzando sia le finalità perseguite che il testo del testamento; di conseguenza, la disposizione che attribuisce simultaneamente a diverse persone usufrutto e nuda proprietà non configura una sostituzione fedecommissaria, bensì una formale istituzione di erede, poiché i chiamati succedono direttamente al testatore e la riunione di usufrutto e nuda proprietà deriva dalla naturale espansione della proprietà, non da una successione in ordine successivo.

Considerazioni conclusive

La sostituzione fedecommissaria rappresenta un’eccezione al principio di libera disponibilità dei beni ereditari, finalizzata a tutelare soggetti deboli, come gli interdetti per infermità mentale. La sua operatività è subordinata a rigidi presupposti di legge e a un’autorizzazione giudiziale. In mancanza di tali condizioni, la sostituzione è considerata nulla.

Alla luce della complessità dell’istituto e della rilevanza degli interessi coinvolti, è opportuno rivolgersi sempre a un avvocato per la corretta predisposizione delle clausole testamentarie che intendano prevedere una sostituzione fedecommissaria.

 

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pro soluto e pro solvendo

Cessione pro solvendo e pro soluto Cessione pro solvendo e pro soluto: definizioni, differenze e giurisprudenza rilevante

Cos’è la cessione del credito?

La cessione del credito è un istituto giuridico contemplato dal codice civile (artt. 1260-1267) e può avvenire nelle forme pro soluto e pro solvendo. Essa si caratterizza per la presenza di tre soggetti: un creditore (cedente), che trasferisce a un terzo (cessionario) il proprio diritto di credito nei confronti di un debitore (debitor debitoris). Il cessionario acquisisce così il diritto di riscuotere il credito, che può essere relativo a una somma di denaro o a un’altra prestazione, al posto del cedente.

La cessione del credito può avvenire pro solvendo o pro soluto, a seconda delle condizioni stabilite tra le parti.

Cessione pro solvendo

La cessione pro solvendo è una forma di cessione del credito mediante la quale il cedente si impegna a garantire il pagamento del credito da parte del debitore originario nel caso in cui il cessionario non riesca a incassare il credito ceduto. In altre parole, se il debitore non paga, il cedente sarà responsabile del pagamento del credito nei confronti del cessionario.

Questo tipo di cessione prevede che il rischio di insolvenza del debitore venga trasferito al cedente, anche se come ultima risorsa. Il cessionario, infatti, dovrà tentare di recuperare il credito direttamente dal debitore, se poi il recupero non avviene, potrà chiedere il risarcimento al cedente.

Normativa sulla cessione pro solvendo

Il riferimento normativo del Codice Civile italiano per la cessione pro solvendo è rinvenibile nella disciplina della cessione del credito. Essa si basa sul contratto di cessione, che regola in modo convenzionale le responsabilità tra cedente e cessionario. La cessione del credito è regolata dagli articoli 1260 e seguenti del Codice Civile. La forma pro-solvendo è un accordo negoziale, che deve essere espressamente previsto nel contratto di cessione.

Cessione pro soluto

La cessione pro soluto, al contrario, è una forma di cessione del credito in cui il cessionario acquista il credito senza che il cedente abbia alcuna responsabilità se il credito non viene pagato dal debitore. In questo caso, il rischio di insolvenza viene completamente trasferito al cessionario. Se il debitore non paga, è il cessionario che subisce la perdita, senza poter rivalersi sul cedente.

La cessione pro soluto è più vantaggiosa per il cessionario, poiché elimina il rischio di mancato pagamento da parte del debitore. D’altra parte, però, il cessionario potrebbe richiedere una valutazione più accurata del credito prima di accettare una cessione pro soluto, dato che dovrà farsi carico del rischio d’insolvenza.

Normativa sulla cessione pro soluto

Analogamente alla cessione pro solvendo, la cessione pro soluto si fonda sul contratto di cessione del credito, ma l’accordo esplicito tra le parti stabilisce che il rischio di insolvenza viene trasferito al cessionario. La normativa di riferimento è quella relativa alla cessione del credito.

Differenze tra cessione pro solvendo e pro soluto

La differenza fondamentale tra le due forme di cessione del credito risiede nella responsabilità per il pagamento del credito. Mentre nella cessione pro solvendo il cedente è responsabile del pagamento nel caso in cui il debitore non adempia, nella cessione pro soluto il rischio di insolvenza è completamente a carico del cessionario.

Caratteristica

Cessione pro solvendo

Cessione pro soluto

Responsabilità in caso di insolvenza

Il cedente è responsabile se il debitore non paga

Il cessionario assume il rischio di insolvenza

Rischio d’insolvenza

A carico del cedente in caso di mancato pagamento

A carico del cessionario

Garanzia di incasso

Il cessionario ha una garanzia implicita dalla responsabilità del cedente

Il cessionario non ha garanzie dal cedente

Utilizzo comune

Usato quando il cedente vuole mantenere una certa protezione

Usato quando il cessionario è disposto a prendere un rischio maggiore

Vantaggi e svantaggi

Ecco un riepilogo dei vantaggi e degli svantaggi delle due tipologie di cessione:

Vantaggi della cessione pro solvendo

  • Protezione per il cessionario: il rischio di insolvenza del debitore è mitigato dalla garanzia del cedente.
  • Maggiore sicurezza per il cessionario: poiché il cedente si fa carico del rischio, il cessionario può essere più incline ad accettare la cessione.

Svantaggi della cessione pro solvendo

  • Maggiore onere per il cedente: il cedente si assume una maggiore responsabilità, che può portare a complicazioni in caso di mancato pagamento da parte del debitore.

Vantaggi della cessione pro soluto

  • Rischio completamente a carico del cessionario: il cedente non è responsabile del mancato pagamento del debitore.
  • Possibile maggior margine di guadagno per il cessionario: il cessionario può acquistare il credito a un prezzo inferiore rispetto alla cessione pro solvendo.

Svantaggi della cessione pro soluto

  • Maggiore rischio per il cessionario: il cessionario non può rivalersi sul cedente in caso di insolvenza del debitore, ed è quindi esposto a un rischio maggiore.

Giurisprudenza sulla cessione del credito

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti importanti relativi alla cessione pro solvendo e pro soluto. Ecco alcune sentenze rilevanti:

Cassazione n. 8803/2024: la cessione del credito, quale negozio a causa variabile, può essere stipulata anche a fine di garanzia e senza che venga meno l’immediato effetto traslativo della titolarità del credito tipico di ogni cessione, in quanto è proprio mediante tale effetto traslativo che si attua la garanzia, pure quando la cessione sia pro solvendo e non già pro soluto, con mancato trasferimento al cessionario, pertanto, del rischio d’insolvenza del debitore ceduto; diversamente, qualora la cessione abbia ad oggetto crediti futuri, l’effetto traslativo si produce solamente quando il credito viene ad esistenza, mentre tale effetto non si produce affatto nell’ipotesi in cui sia desumibile dal contratto la volontà del cedente di non privarsi della titolarità del credito e di realizzare solamente effetti minori, quali l’attribuzione al cessionario della mera legittimazione alla riscossione del credito.

Tribunale di Viterbo sentenza 21/08/2019: Nella cessione pro soluto, l’esistenza del credito in capo al cedente è un presupposto fondamentale per il trasferimento della titolarità al cessionario. Un credito è considerato inesistente quando non appartiene al cedente ma a un terzo, oppure quando il titolo su cui si fonda è inesistente o affetto da nullità, o ancora se, pur essendo esistito, si è estinto prima del perfezionamento della cessione.

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convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

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Allegati

intelligenza artificiale

Dalla fantascienza alla realtà: l’intelligenza artificiale che cambia il mondo Un saggio sul rapporto tra uomo e macchina: il ruolo dell'IA tra etica, diritto e società con focus sulle normative italiana ed europea

L’Intelligenza Artificiale, un tempo relegata alle pagine della fantascienza, è oggi una realtà tangibile che permea numerosi aspetti della nostra vita quotidiana.

Se ci pensiamo, l’idea di creare esseri artificiali dotati di intelligenza affonda le sue radici in miti antichissimi.

Già nella mitologia greca si narra la storia di Pigmalione, un talentuoso scultore di Cipro che scolpì una statua d’avorio rappresentante la donna ideale. Tanto era perfetta la sua creazione che Pigmalione se ne innamorò perdutamente. Commossa dalla sincerità del suo amore, la dea Afrodite esaudì il suo desiderio, infondendo vita alla statua, che prese il nome di Galatea.

Questo antico mito riflette il persistente desiderio umano di infondere vita nell’inanimato, di dare forma concreta alle proprie fantasie, creando esseri che incarnino l’ideale di perfezione spesso percepito come irraggiungibile per l’uomo.

L’essere umano è da sempre spinto da un impulso innato a superare i propri limiti, a esplorare l’ignoto e a trascendere le barriere imposte dalla natura. Questo desiderio si manifesta oggi nella creazione di intelligenze artificiali avanzate, strumenti progettati per ampliare le nostre capacità cognitive e operative.

Di fronte a questa svolta, emerge una domanda cruciale: quali sono i confini tra l’uomo e la macchina[1]?

La riflessione non può che prendere le mosse dalla formazione di cui siamo figli: una cultura umanista, che pone l’uomo al centro dell’Universo. Siamo gli eredi di una visione che si sviluppa lungo le linee della cultura greca, giudaica e cristiana, convergenti nell’idea che l’uomo sia mensura rerum[2].

Tuttavia, declinare l’umanesimo in epoca moderna, significa fare i conti con le nuove discipline scientifiche e riflettere sul nuovo ruolo dell’uomo in una società dove la tecnologia prende il sopravvento.

D’altra parte, l’umanesimo contemporaneo appare segnato da una contraddizione di fondo: come può l’uomo mantenere un ruolo centrale se lo sviluppo tecnologico è spesso concepito in sua  sostituzione?

Tecnologie emergenti come le interfacce cervello-computer e i dispositivi in grado di interagire direttamente con il sistema nervoso – le cosiddette tecnologie neuro-digitali[3] – aprono scenari di straordinaria portata, con applicazioni che vanno dal recupero di funzioni motorie e sensoriali fino al potenziamento cognitivo. Ma sollevano, al tempo stesso, domande radicali sull’identità personale, sulla libertà interiore e sulla tutela dei dati neurali, ponendo con forza il tema del limite tra l’uomo e la macchina.

Resta aperto l’interrogativo su come garantire che lo sviluppo tecnologico continui a ispirarsi a principi etici, evitando derive che possano tradursi in un “impossessamento” dell’uomo.

L’Intelligenza Artificiale è spesso presentata (rectius giustificata) come uno strumento di potenziamento umano; ma quando le affidiamo persino le mansioni più semplici ci si dovrebbe domandare se stiamo davvero ampliando le nostre capacità o se stiamo, in realtà, rinunciando a esercitarle.

Una delega indiscriminata può, tra l’altro, portare a distorsioni significative.

Un caso emblematico è avvenuto recentemente a Firenze, dove un avvocato ha presentato in tribunale una memoria difensiva redatta con l’ausilio di chatGPT: le sentenze citate a supporto erano completamente inventate dall’IA[4]. Questo episodio ha sollevato seri interrogativi sull’affidabilità delle informazioni generate artificialmente e sull’importanza del controllo umano.

A tale riguardo, il 19 marzo 2025, con 85 voti favorevoli e 42 contrari, è stato approvato dal Senato il disegno di legge sull’Intelligenza Artificiale (Ddl AI) con cui il legislatore si propone di disciplinare l’uso dell’intelligenza artificiale in ambito professionale e giuridico.

L’art. 12 del Ddl prevede che:

L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è consentito esclusivamente per esercitare attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera.

Per assicurare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”.

Il legislatore, dunque, mette nero su bianco la risposta all’interrogativo nato insieme all’IA: la macchina non può e non deve sostituire l’uomo.

Diventa dunque imprescindibile governare il cambiamento che ci attende. Governarlo, però, non significa semplicemente accogliere le innovazioni, bensì guidarne l’impatto sulla società, affinché la tecnologia, pur nella sua forza propulsiva, continui a essere uno strumento al servizio della persona, e non il contrario[5].

Gli aspetti positivi dell’intelligenza artificiale sono ormai ben noti: la capacità di automatizzare i processi con conseguente aumento della produttività e una riduzione dei tempi; la diminuzione degli errori umani; la semplificazione nell’accesso ai dati; la personalizzazione dell’esperienza in rete dell’utente; la rivoluzione dell’assistenza alle persone con disabilità con tecnologie come la domotica.

D’altro canto, però, l’avanzata dell’intelligenza artificiale non è priva di criticità. L’automazione crescente, ad esempio, solleva interrogativi concreti sul futuro del lavoro e impone un impegno sistematico nella formazione continua e nella riqualificazione professionale.

Ci sono poi i  c.d. bias di incertezza, cioè i pregiudizi che possono influenzare in modo distorto il comportamento dell’IA, derivante da dati imparziali, da errori nei modelli di apprendimento o dalle scelte fatte dagli sviluppatori durante la progettazione dell’algoritmo.

A ciò si aggiunge una questione cruciale: la gestione dei dati personali. L’estensione capillare delle tecnologie di raccolta e analisi solleva nuove urgenze in materia di privacy, esponendo cittadini e istituzioni a vulnerabilità non trascurabili. I recenti casi di violazioni informatiche hanno infatti riportato al centro dell’attenzione il tema della protezione delle informazioni sensibili, con un impatto diretto sulla fiducia nei confronti dell’innovazione digitale.

Non solo. Gli episodi di black box dimostrano che chi utilizza una macchina intelligente non ne ha sempre il pieno controllo, poichè le tecnologie spesso operano come un misterioso sistema chiuso, con meccanismi interni sconosciuti che rendono difficile identificare e correggere errori o bias [6].

Diviene poi fondamentale riflettere anche sull’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito medico, soprattutto per quanto riguarda la responsabilità legata agli errori nelle diagnosi e nelle terapie. La necessità di individuare chi debba rispondere degli sbagli causati dall’IA diventa cruciale, soprattutto quando non è chiaro chi detenga effettivamente il controllo delle macchine e dei sistemi che le alimentano.

Anche le strategie imprenditoriali stanno subendo una profonda evoluzione grazie all’apporto dell’Intelligenza Artificiale: le aziende ne sfruttano la potenzialità per migliorare l’efficienza operativa, personalizzare l’offerta in base alle esigenze dei clienti e adottare decisioni fondate su analisi più rapide e accurate.

Nel marketing, ad esempio, l’IA rende possibile anticipare i comportamenti dei clienti, proporre contenuti su misura e costruire campagne pubblicitarie mirate con una precisione mai vista prima.

Sul fronte del servizio clienti, trasforma l’esperienza dell’utente grazie a chatbot capaci di rispondere in tempo reale, 24 ore su 24, alleggerendo al contempo il carico del personale.

Infine, uno dei contributi più rilevanti riguarda l’analisi dei dati: l’IA è in grado di elaborare grandi quantità di informazioni, restituendo indicazioni strategiche che supportano scelte più consapevoli e mirate da parte delle imprese.

Secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano, nel 2024 il mercato italiano delle soluzioni e dei servizi di IA ha raggiunto un valore di 1,2 miliardi di euro, registrando una crescita del 58% rispetto all’anno precedente. Questo incremento è stato trainato principalmente dalle sperimentazioni che utilizzano la Generative AI, che rappresentano il 43% del valore totale.

Per quanto riguarda l’adozione dell’IA nelle imprese italiane, il 59% delle grandi aziende ha già un progetto attivo in questo ambito, posizionando l’Italia all’ultimo posto tra otto Paesi europei analizzati, dove la media è del 69%. Tra le PMI, solo il 7% delle piccole e il 15% delle medie imprese hanno avviato progetti di IA, evidenziando un ritardo significativo rispetto alle grandi aziende [7].

Quindi, l’Intelligenza Artificiale sta progressivamente attraversando l’intero tessuto sociale, incidendo su tutti i livelli e permeando ogni ambito lavorativo, senza che alcun settore possa dirsi estraneo a questa trasformazione.

In questo contesto, il diritto assume un ruolo centrale. È essenziale adottare leggi che  stabiliscano limiti all’IA, assicurando trasparenza, sicurezza ed equità.

A livello europeo, già nel dicembre 2018, la Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa ha adottato la Carta Etica Europea sull’uso dell’Intelligenza Artificiale nei sistemi giudiziari e in ambiti connessi, stabilendo principi fondamentali per garantire che l’uso dell’IA rispetti i diritti fondamentali.

Nel 2024 è stato inoltre adottato il Regolamento (UE) 2024/1689, noto come Artificial Intelligence Act (AI Act), volto a stabilire norme armonizzate per l’Intelligenza Artificiale, con l’obiettivo di assicurare che i sistemi di IA siano sicuri e rispettino i diritti fondamentali e i valori dell’UE.

Ancor più recentemente, il 4 febbraio 2025, la Commissione Europea ha pubblicato le Linee Guida sulle Pratiche di IA vietate, che forniscono una panoramica delle pratiche di IA considerate inaccettabili a causa dei potenziali rischi per i valori europei e i diritti fondamentali. Queste linee guida affrontano specificamente pratiche come la manipolazione dannosa, il punteggio sociale e l’identificazione biometrica remota in tempo reale.

A livello nazionale, il quadro normativo sull’intelligenza artificiale si è recentemente consolidato con l’approvazione del già citato Disegno di legge n. 1146/24 da parte del Senato il 20 marzo 2025. Questo provvedimento, intitolato “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”, mira a stabilire un quadro normativo nazionale coerente con il Regolamento (UE) 2024/1689 (AI Act).

Dal quadro sin qui delineato, seppur in forma sintetica, emerge chiaramente come l’Intelligenza Artificiale non rappresenti soltanto una questione tecnologica, ma, paradossalmente, una tematica profondamente umana. Essa coinvolge l’etica, le scelte politiche, l’economia e il diritto e coinvolge i valori collettivi e la responsabilità individuale.

Rappresenta una sfida che trascende l’ambito tecnico, incidendo le fondamenta della nostra società. Affrontarla richiede un impegno condiviso per sviluppare e implementare principi etici, regolamentazioni adeguate e una governance responsabile, affinchè l’Intelligenza Artificiale sia guidata dall’uomo e non diventi essa stessa guida dell’umanità.

 

[1] Secondo A. BARBANO “non ci sono un umano e un tecnologico separati, perché la tecnica è parte dell’umano, l’abbiamo inventata noi.(…) L’umano si qualifica nel rapporto con la tecnica, tramite questo si allena, cresce. (…) Se la macchina serve come strumento che aumenta la conoscenza dell’umano per decidere nella libertà, allora è uno strumento grandioso, che aiuta l’umano. Quindi il problema è sempre l’uso. Quando le tecnologie sviluppano queste accelerazioni, in una prima fase ti danno la sensazione che la libertà dell’umano sia vincolata. Poi però per fortuna l’umano si riappropria dei suoi spazi, e io sono fiducioso che anche nel governo di questa tecnologia noi riusciremo a difendere, anzi ad aumentare, gli spazi di differenziazione e di libertà”, su https://www.nagora.org/barbano-dallia-piu-promesse-che-minacce

[2] Pico della Mirandola, nel suo celebre Discorso sulla dignità dell’uomo, sosteneva che l’uomo ha la libertà di plasmare se stesso e di elevarsi quasi a livello divino grazie alla propria volontà e intelligenza: «Già il Sommo Padre, Dio creatore […] accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”», Oratio de hominis dignitate.

[3] Le tecnologie neuro-digitali, o neurotecnologie, comprendono strumenti e dispositivi in grado di interagire direttamente con il sistema nervoso, monitorando o modulando l’attività cerebrale. Tra queste rientrano le interfacce cervello-computer (BCI), che permettono al cervello di comunicare con dispositivi esterni, e le tecniche di stimolazione neurale per scopi medici o riabilitativi. Sebbene promettano importanti applicazioni terapeutiche e cognitive, sollevano interrogativi etici su identità, libertà e tutela dei dati neurali.

[4] “Firenze, 30 marzo 2025 – Un processo su plagio e riproduzione di marchio industriale, si è trasformato in un caso-scuola su giustizia e intelligenza artificiale. Tutto inizia durante la discussione in aula: l’avvocato della parte reclamante presenta nella memoria difensiva delle sentenze di Cassazione in tema di acquisto di merce contraffatta. Le sentenze, però, non esistono, non sono mai state pubblicate. E il legale si difende spiegando che “i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto erano il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale ChatGpt, del cui utilizzo lui non era a conoscenza”. Il cervellone artificiale, capace di fornire risposte alle domande più disparate, ha fatto quindi cilecca. Inventandosi dispositivi giuridici che mai sono stati emessi dalla Cassazione. (…) I giudici del tribunale di Firenze, sezione imprese, nelle motivazione della sentenza parlano di “allucinazioni giurisprudenzialiprovocate dall’intelligenza artificiale. Ovvero quando “l’IA genera risultati errati che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri”. P. Mecarozzi, L’intelligenza artificiale in tribunale: avvocato cita sentenze di ChatGpt, ma non esistono, La Nazione

[5] A. BARBANO ritiene che: “(…) questa accelerazione che si è prodotta, che ci dà a volte la sensazione di un non governo e che effettivamente si è prodotta in maniera anarcoide, determinando delle rotture di equilibri preesistenti, si riposizionerà dentro un equilibrio di valore capace di restituire all’umano la sua signoria, come è giusto che sia. Su questo, però, è chiaro che ci dobbiamo applicare con consapevolezza e maturità. Per esempio, dobbiamo capire che il diritto d’autore non è un orpello del capitalismo da debellare, ma è una garanzia dei diritti individuali da proteggere. (…) Siccome il futuro è aperto, io da liberale vedo un futuro aperto, non dico che vinceremo certamente questa sfida, però dico che questa sfida la possiamo vincere. Dipende sempre dall’uomo”, intervista cit.

[6] Questo accade soprattutto con le tecnologie basate sul deep learning. Per tecnologie basate sul deep learning si intendono sistemi di intelligenza artificiale che utilizzano reti neurali artificiali multilivello per elaborare grandi quantità di dati e apprendere in modo autonomo. Questi modelli non seguono istruzioni predefinite, ma sviluppano schemi decisionali complessi attraverso l’esperienza.

[7] Osservatorio Artificial Intelligence, Politecnico di Milano- Osservatori Digital Innovation, 2024, disponibile su: https://www.osservatori.net/comunicato/artificial-intelligence/intelligenza-artificiale-italia

danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance Danno da perdita di chance: cos’è, normativa, prova, calcolo, differenze con il lucro cessante e giurisprudenza della Cassazione

Cos’è la perdita di chance

Il danno da perdita di chance è una particolare  voce di danno risarcibile nel nostro ordinamento, che riguarda la perdita di una concreta possibilità di ottenere un vantaggio futuro, sia esso economico, lavorativo o esistenziale. Non si tratta del mancato conseguimento del risultato, ma della frustrazione della probabilità seria e concreta di conseguirlo. Nel tempo, la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto la risarcibilità di questo danno, delineandone i presupposti, i criteri di prova e le modalità di liquidazione.

Definizione giuridica

La perdita di chance è intesa come il pregiudizio attuale e autonomo derivante dalla perdita della possibilità, seria e fondata, di conseguire un risultato favorevole. Non è, quindi, il danno futuro legato al mancato guadagno (lucro cessante), ma un danno attuale, rappresentato dalla scomparsa di un’opportunità concreta, con un valore patrimoniale o non patrimoniale proprio.

Normativa di riferimento

La perdita di chance non è regolata da una norma specifica, ma viene riconosciuta in base ai principi generali della responsabilità civile:

  • Art. 2043 c.c. (danno extracontrattuale): “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”
  • Art. 1223 c.c. (danno da inadempimento contrattuale): prevede il risarcimento per la perdita subita e il mancato guadagno, includendo anche il valore della chance.

Come si prova il danno da perdita di chance

La prova della perdita di chance è uno degli aspetti più complessi, poiché si tratta di un evento non realizzatosi, ma che avrebbe potuto realizzarsi in base a una certa probabilità. Secondo la giurisprudenza, la chance, per essere risarcibile, deve essere:

  • seria: non meramente ipotetica o astratta;
  • concreta: basata su elementi oggettivi e verificabili;
  • attuale: riferita a una perdita già maturata.

La recente pronuncia della Cassazione n. 18568/2024 ha infatti chiarito che il risarcimento del danno da chance si configura come il ristoro per la perdita della concreta possibilità di ottenere un determinato risultato, possibilità che ha un valore giuridico ed economico autonomo rispetto al mancato raggiungimento del risultato stesso.

La prova può essere fornita tramite:

  • documentazione (es. bandi, graduatorie, offerte di lavoro);
  • testimonianze;
  • elementi statistici o peritali;
  • ricostruzioni logiche e presuntive, purché fondate.

Come si calcola la perdita di chance

Il giudice può procedere con liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., valutando:

  1. il valore del risultato perduto (es. stipendio, premio, incarico);
  2. la probabilità di conseguirlo, espressa anche in termini percentuali;
  3. il nesso causale tra condotta illecita e perdita dell’opportunità.

La Cassazione ha più volte ribadito che la liquidazione del danno da perdita di chance debba avvenire sulla base di una valutazione probabilistica del vantaggio perso, la quale deve essere fondata su elementi oggettivi e attendibili.

Differenza tra perdita di chance e lucro cessante

La perdita di chance e il lucro cessante rappresentano due concetti distinti:

Elemento

Perdita di chance

Lucro cessante

Oggetto

Perdita di una possibilità

Perdita di un guadagno certo o altamente probabile

Natura

Danno attuale e autonomo

Danno futuro e conseguente

Prova richiesta

Probabilità seria e concreta

Prova rigorosa della certezza del guadagno

Liquidazione

Equitativa e proporzionale alla probabilità

Quantificazione precisa o fondata su proiezioni

Ambiti applicativi danno da perdita di chance

Il danno da perdita di chance è riconosciuto in numerosi contesti:

  • Diritto del lavoro: mancata assunzione, esclusione illegittima da un concorso pubblico;
  • Responsabilità medica: perdita della possibilità di guarigione o sopravvivenza;
  • Procedimenti amministrativi: mancata aggiudicazione di un appalto pubblico;
  • Responsabilità contrattuale: ritardo o inadempimento che esclude opportunità economiche.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 5641/2018: il concetto di chance, originariamente sviluppato per danni patrimoniali, mal si adatta alla sfera del danno non patrimoniale, richiamando l’attenzione sulla distinzione cruciale tra il danno inteso come evento lesivo e l’accertamento del nesso di causalità.

Cassazione n. 31136/2022: nel valutare una richiesta di risarcimento per danno alla persona, il giudice deve innanzitutto stabilire se la domanda mira al risarcimento totale per l’evento dannoso o per la perdita di chance, trattandosi di danni concettualmente differenti che richiedono una diversa valutazione del nesso causale. Se si lamenta la perdita di un bene della vita, il giudice deve verificare, attraverso un ragionamento ipotetico, se un comportamento alternativo avrebbe con maggiore probabilità evitato il danno. Diversamente, nel caso di perdita di chance, l’accertamento riguarda se la condotta abbia causato la perdita di una concreta possibilità di ottenere un risultato sperato, e non il mancato ottenimento del risultato in sé, poiché l’oggetto del risarcimento è proprio la perdita di tale opportunità.

Cassazione n. 25910/2023: Chi chiede il risarcimento per perdita di chance deve dimostrare l’esistenza concreta e significativa dell’opportunità perduta, il potenziale beneficio che ne sarebbe derivato e il legame causale tra la condotta dannosa o l’inadempimento e la perdita di tale opportunità.

 

Leggi anche: Danno da perdita di chance: basta la revisione della decisione 

divieto di nova

Divieto di nova Divieto di nova nel giudizio di appello: definizione, normativa, giurisprudenza ed eccezioni al principio

Cos’è il divieto di nova

Il divieto di nova rappresenta uno dei principi fondamentali del processo civile in sede di appello. Esso vieta alle parti di introdurre nuove domande, eccezioni o prove rispetto a quelle formulate nel primo grado di giudizio. L’obiettivo principale di tale limite è quello di preservare la natura revisoria dell’appello, evitando che si trasformi in un nuovo giudizio di merito.

Il divieto di nova in appello costituisce un presidio di legalità processuale, volto a evitare che il giudizio di secondo grado si trasformi in un processo ex novo. L’art. 345 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza, ammette modificazioni compatibili con il principio del contraddittorio e impone un uso responsabile del diritto di difesa.

Normativa divieto di nova: l’art. 345 c.p.c.

Il divieto di nova trova la sua base normativa nell’art. 345 del codice di procedura civile, che così dispone: “1. Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti  e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. 2. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. 3. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. “

La norma, pertanto, opera una chiara distinzione tra il divieto assoluto di nova (domande ed eccezioni) e un divieto relativo per quanto concerne le prove.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta ripetutamente a chiarire l’ambito di applicazione del divieto di nova.

Cassazione n. 34/2025: nel procedimento d’appello, la preclusione all’introduzione di nuove prove documentali non si applica quando si tratta di fatti sopravvenuti, ovvero eventi accaduti successivamente alla scadenza del termine utile per presentarli nel giudizio di primo grado. Questa eccezione si giustifica perché l’impossibilità di sollevare una specifica eccezione nel primo grado a causa della sua inesistenza temporale non pregiudica il principio del doppio grado di giudizio nel merito. In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 345, comma 3, del codice di procedura civile consente, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, la produzione di documenti qualora la parte dimostri di non aver avuto la possibilità di proporli o produrli nel corso del primo giudizio.

Cassazione n. 6614/2023: la richiesta di restituzione delle somme versate in ottemperanza alla sentenza di primo grado o al decreto ingiuntivo può essere legittimamente avanzata nel giudizio d’appello, senza che ciò configuri una violazione del divieto di nuove domande stabilito dall’articolo 345 del codice di procedura civile. Questa ammissibilità si fonda sull’applicazione analogica del principio generale che, in un’ottica di economia processuale, consente di proporre in appello domande accessorie e consequenziali. La domanda di restituzione rappresenta un corollario diretto della riforma o dell’annullamento della decisione di primo grado, mirando a ripristinare la situazione patrimoniale antecedente all’esecuzione.

Cassazione n. 1244/2019: non si configura una violazione del divieto di introdurre nuove questioni in appello, sancito dall’articolo 345 del codice di procedura civile, qualora il giudice di secondo grado, pur mantenendosi entro i limiti della controversia definiti nel giudizio di primo grado, accolga la domanda applicando una diversa interpretazione giuridica dei fatti, che siano già stati acquisiti al processo, sia in modo implicito che esplicito. In sostanza, la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del giudice d’appello non costituisce una novità vietata, purché non alteri i termini sostanziali della disputa originaria.

Eccezioni al divieto

Fanno eccezione al divieto:

  • le eccezioni rilevabili d’ufficio (es. nullità, decadenze legali);
  • I mezzi di prova nuovi, purché la parte dimostri la non imputabilità della loro mancata produzione in primo grado o la loro indispensabilità.

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esportazione contanti in Russia

Esportazione contanti in Russia: divieto anche per cure mediche La Corte UE ribadisce che il divieto europeo di esportazione di contanti in Russia vale anche per le cure mediche

Divieto UE di esportazione contanti in Russia

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza resa nella causa C-246/24, ha stabilito che il divieto di esportazione di banconote in euro o in valuta ufficiale di uno Stato membro verso la Russia si applica anche quando il denaro è destinato al pagamento di trattamenti sanitari. La deroga al divieto è limitata esclusivamente alle spese strettamente necessarie per il viaggio e il soggiorno personale.

Il caso: passeggera diretta in Russia con 15.000 euro

Durante un controllo doganale all’aeroporto di Francoforte sul Meno, una passeggera in partenza per la Russia è stata trovata in possesso di circa 15.000 euro in contanti. L’interessata ha dichiarato che il denaro serviva sia a coprire le spese del viaggio, sia a finanziare cure mediche in Russia, tra cui:

  • trattamenti odontoiatrici,

  • terapia ormonale presso una clinica per la procreazione assistita,

  • follow-up chirurgico a seguito di un’operazione estetica.

I funzionari doganali hanno proceduto al sequestro dell’importo, trattenendo solo una somma minima (circa 1.000 euro) per garantire le esigenze basilari del viaggio.

Misure restrittive dell’UE contro la Russia

Esportazione contanti in Russia: a seguito dell’aggressione militare della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina, l’Unione europea ha adottato misure restrittive volte a limitare il supporto economico al regime russo. Tra queste, figura il divieto di esportazione verso la Russia di banconote denominate in euro o in valute ufficiali degli Stati membri.

Questa misura intende ostacolare l’accesso della Russia al denaro contante in valuta forte, con l’obiettivo di incrementare il costo economico delle sue azioni militari.

Tuttavia, la normativa prevede un’eccezione: è consentito esportare denaro limitatamente alle somme necessarie per l’uso personale del viaggiatore o dei familiari stretti che lo accompagnano.

Il chiarimento della Corte UE

Il tribunale tedesco investito del caso ha sollevato una questione pregiudiziale chiedendo se le spese mediche potessero rientrare nell’ambito delle deroghe previste dal regolamento europeo.

La Corte di giustizia UE ha escluso questa possibilità, precisando che:

  • i trattamenti medici programmati in Russia non costituiscono una spesa necessaria per l’uso personale del viaggiatore, ai sensi delle deroghe previste;

  • l’eccezione riguarda unicamente le somme utili a garantire il viaggio e la permanenza, non altre finalità, pur se personali.

La Corte ha inoltre ricordato che l’UE non vieta il diritto di recarsi in Russia, ma mira a evitare che risorse finanziarie in valuta europea sostengano direttamente o indirettamente l’economia russa.

integratori alimentari

Integratori alimentari: vietata la pubblicità sui benefici alla salute Integratori alimentari e pubblicità: la Corte UE vieta le indicazioni sulla salute per le sostanze botaniche senza autorizzazione europea

Integratori alimentari e pubblicità

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza nella causa C-386/23, ha confermato il divieto di utilizzare indicazioni sulla salute riferite a sostanze botaniche nella pubblicità di integratori alimentari, fino a quando tali claim non siano espressamente autorizzati dalla Commissione europea.

Cosa prevede il diritto Ue in materia di health claims

Secondo il Regolamento CE n. 1924/2006, le indicazioni sulla salute (health claims) possono essere impiegate nel marketing di alimenti e integratori solo se autorizzate a livello europeo e inserite in appositi elenchi ufficiali. L’obiettivo è garantire che ogni affermazione sia scientificamente fondata, tutelando così la salute pubblica e i diritti dei consumatori.

Attualmente, però, l’esame delle indicazioni sulla salute relative alle sostanze di origine botanica non è ancora concluso. Pertanto, tali affermazioni non sono presenti negli elenchi delle indicazioni autorizzate e, salvo eccezioni previste dal regime transitorio, non possono essere utilizzate nella promozione commerciale.

Il caso

La controversia ha coinvolto la società tedesca Novel Nutriology, che pubblicizzava un integratore alimentare a base di zafferano e succo di melone, sostenendo che tali componenti fossero in grado di migliorare l’umore e ridurre stress e stanchezza.

Una associazione professionale tedesca ha impugnato tali affermazioni, ritenendole illegittime in base al diritto UE. La questione è quindi giunta davanti alla Corte federale di giustizia tedesca, che ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia europea.

La decisione della Corte UE

La Corte ha ribadito che:

  • le indicazioni sulla salute non ancora esaminate e approvate dalla Commissione non possono essere utilizzate nella pubblicità di alimenti e integratori;

  • le indicazioni botaniche sono soggette alle stesse regole e richiedono autorizzazione esplicita;

  • una deroga è ammessa solo se l’indicazione rientra nel regime transitorio previsto dal regolamento, condizione che non ricorre nel caso in esame.

Nel caso di Novel Nutriology, le affermazioni riguardavano funzioni psicologiche non ancora valutate dalle autorità tedesche prima dell’entrata in vigore del regolamento. Inoltre, l’impresa non ha presentato la necessaria domanda di autorizzazione entro il termine previsto (19 gennaio 2008).