procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo Il procedimento amministrativo e le sue fasi. I principi introdotti dalla legge n. 241 del 1990 che regolano l’attività amministrativa

La legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo è il mezzo attraverso il quale la pubblica amministrazione addiviene alle proprie decisioni, contenute nel provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.

La materia è regolata principalmente dalla legge n. 241 del 1990, una vera e propria pietra miliare normativa, che ha introdotto alcune importanti novità nella disciplina dell’azione amministrativa ed ha, soprattutto, avuto il merito di favorire la trasparenza dell’agire pubblico e il dialogo con il cittadino.

I principi del procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo deve, innanzitutto, riportarsi ai principi sacralizzati dall’art. 1 della citata legge, secondo cui l’attività amministrativa risponde a criteri di economicità ed efficacia: ciò impone agli enti pubblici di ottimizzare i tempi e le risorse utilizzate.

Altri importanti principi individuati da tale norma sono quello dell’imparzialità, che mira a garantire l’obiettività della p.a. nella valutazione e nel confronto dei vari interessi coinvolti in un procedimento.

Infine, l’attività amministrativa deve essere caratterizzata anche da pubblicità e trasparenza, in modo da poter essere costantemente conoscibile dai cittadini.

Come vedremo, i suddetti principi si riflettono nei vari istituti previsti dalla legge 241/90, che andiamo subito ad analizzare.

La motivazione del provvedimento

Il procedimento amministrativo può cominciare su istanza di parte o d’ufficio e deve, di regola, concludersi con un provvedimento espresso (art. 2) ed entro un determinato termine, che, in mancanza di diversa previsione, è pari a 30 giorni dal ricevimento dell’istanza.

Il provvedimento, inoltre, deve essere adeguatamente motivato (art. 3) e nella motivazione devono essere riportati i presupposti di fatto e di diritto che hanno indotto l’amministrazione ad adottare la propria decisione.

L’art. 20 della legge in oggetto prevede anche il particolare meccanismo del silenzio-assenso, in base al quale, nei procedimenti avviati su istanza di parte, il silenzio della p.a. equivale all’accoglimento dell’istanza.

Le fasi del procedimento amministrativo e il dialogo con i cittadini

La fase dell’iniziativa prende avvio con il ricevimento dell’istanza e comprende alcune importanti attività da parte dell’amministrazione, come l’individuazione del responsabile del procedimento (art. 5) e la comunicazione dell’avvio del procedimento a tutti quei soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti e a quelli che devono intervenirvi (art. 7).

Come si vede, si tratta di norme che attuano il principio di trasparenza dell’azione amministrativa e garantiscono il dialogo e la partecipazione dei cittadini.

La fase istruttoria del procedimento amministrativo è quella, invece, evidentemente più complessa, nella quale si verifica l’acquisizione delle informazioni necessarie all’esame dell’istanza e in cui vengono effettuate le valutazioni e le comparazioni degli interessi coinvolti.

Istituti peculiari di tale fase sono l’intervento nel procedimento (art. 9, secondo cui qualunque soggetto a cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento può intervenirvi), e le conferenze di servizi (art. 14).

Queste ultime possono essere indette dall’amministrazione procedente quando sia opportuno effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti (conferenza di servizi istruttoria, art. 14 comma 1) e devono essere indette quando per la conclusione positiva del procedimento sia necessario acquisire pareri e nulla osta da altre amministrazioni (conferenza di servizi decisoria, art. 14 comma 2).

Il procedimento amministrativo si chiude, poi, con la fase decisoria, che corrisponde all’adozione del provvedimento conclusivo, e con l’eventuale fase integrativa dell’efficacia (ad esempio, quando sia necessaria la pubblicazione di tale provvedimento).

ricorso copia incolla

Inammissibile il ricorso “copia incolla” Il Consiglio di Stato "boccia" la tecnica del copia incolla nella redazione del ricorso straordinario e ne dichiara l'inammissibilità

Ricorso copia incolla inammissibile

“E’ inammissibile – per violazione degli artt. 40, commi 1, lett. d), e 2, e 44, comma 1, lettera b), c.p.a. – il ricorso che, per la sua tecnica di redazione, come quella del copia incolla, non sia fondato su motivi specifici”. Lo ha affermato il Consiglio di Stato nel parere n. 592-2024, dichiarando inammissibile un ricorso straordinario al presidente della Repubblica redatto con la tecnica del copia incolla di provvedimenti amministrativi, alternati a spazi bianchi e argomentazioni confuse riprodotte con caratteri a tratti illeggibili.

Eccezione di inammissibilità

La vicenda ha ad oggetto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto da un militare contro il ministero della difesa per l’annullamento della determinazione ministeriale di rigetto dell’istanza di transito all’impiego civile presso l’ente di appartenenza.

Il dicastero riferente chiedeva il parere del Cds sull’affare consultivo.

Nel corso del procedimento, il ministero trasmetteva il ricorso straordinario unitamente alla relazione con cui eccepiva l’assoluta genericità delle esposizioni in fatto e dei motivi, peraltro realizzata con la tecnica del “copia e incolla” di parte di provvedimenti amministrativi e con caratteri grafici a tratti illeggibili, tale da non consentire l’esatta individuazione della causa petendi e del petitum. 

Il ricorrente non replicava alla sollevata eccezione di inammissibilità e il CDS all’adunanza del 24 aprile 2024 decideva l’affare accogliendo la tesi ministeriale e ritenendo il ricorso inammissibile in quanto “le censure prospettate sono state articolate senza sviluppo critico, in termini di mera prospettazione, anche sotto il profilo puramente grafico, delle ragioni di illegittimità e delle norme asseritamente violate”.

I motivi specifici del ricorso

In particolare, richiamando un proprio recente parere (n. 221/2024), il giudice amministrativo ribadiva che “l’articolo 40 c.p.a., relativamente al ‘contenuto del ricorso’ introduttivo della lite dinanzi al giudice amministrativo (con disposizione che deve ritenersi senz’altro estesa anche al rimedio del ricorso straordinario, avuto riguardo alla sua attitudine di rimedio alternativo a quello giurisdizionale e con esso concorrente), impone che l’atto contenga, a pena di inammissibilità, i ‘motivi specifici’ su cui lo stesso si fonda (art. 40, comma 2, in relazione al comma 1, lettera d), per i quali è prescritta altresì – ad evitare, per ragioni di chiarezza, di univocità e di precisione, l’inclusione delle puntuali ragioni di doglianza in una parte dell’atto non dedicata alla individuazione delle ragioni giuridiche (c.d. motivi intrusi) – l’evidenziazione ‘distinta’ (art. 40, comma 1)”.  Invero, ricorda ancora il Cds, “i motivi di ricorso sono preordinati a rappresentare – in un sistema di diritto amministrativo fondato sul principio di legalità dell’azione amministrativa – le deviazioni o difformità del provvedimento impugnato rispetto al paradigma legale di riferimento, di tal che, insieme ai pertinenti elementi di fatto, strutturano la causa petendi del ricorso”. 

“Il canone di specificità e distinzione esclude – dunque – che il ricorso possa essere strutturato come generica critica del provvedimento impugnato, con conseguente traslazione sull’organo giurisdizionale dell’attività di ricerca e individuazione dei puntuali (o più puntuali) tratti e profili di illegittimità”.

D’altra parte, ricorda ancora il Consiglio, si tratta di una regola che “obbedisce anche ad una esigenza di effettività del contraddittorio processuale, posto che la vaghezza dell’apparato censorio potrebbe inibire una congrua ed appropriata difesa delle altre parti processuali. Inoltre, il requisito trae alimento dal principio della domanda, che regge complessivamente il sistema di diritto processuale amministrativo, e, con esso, del suo corollario del canone di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato, il quale impone che la domanda di annullamento sia formulata in termini idonei ed adeguati ad una puntuale rappresentazione degli elementi, di fatto e di diritto, sui quali si ritengono fondati i prospettati vizi di legittimità (cfr. Cons. Stato, n. 3809/2017; sn. 475/2012)”.

Il parere del Consiglio di Stato

In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile e ad ogni modo, nel merito, alla luce della documentazione in atti, l’appello, per il CdS risulta manifestamente infondato, essendo assodata la tardività della richiesta di transito nei ruoli civili.

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test Invalsi

Invalsi nel cv dello studente: interviene il Garante Il Garante Privacy ha inviato una richiesta di informazioni all'Istituto in merito alla possibile integrazione dei testi nel curriculum digitale degli studenti

Garante Privacy e test Invalsi nel cv dello studente

In base a numerose notizie stampa, i risultati delle prove Invalsi entreranno a far parte del curriculum dello studente allegato al diploma di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio presente sulla piattaforma ministeriale Unica. Sulla scorta di questi rumors, il Garante Privacy ha deciso di intervenire inviando una richiesta di informazioni all’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) in merito a tale possibile integrazione nei curricula dei ragazzi.

Vulnerabilità dei dati dei minori

Nella richiesta di informazioni, l’Authority evidenzia innanzitutto come la normativa sulla privacy, in considerazione della loro particolare “vulnerabilità”, assicuri “ai dati personali dei minori una specifica protezione, anche quando i trattamenti riguardano la valutazione del rendimento scolastico”.

Per cui entro 20 giorni, Invalsi dovrà fornire riscontro al Garante, ci sono i presupposti normativi per inserire i risultati dei test delle prove (che peraltro saranno effettuate nei prossimi giorni negli istituti scolastici di tutta Italia) nei curricula degli studenti e quali tipologie di prove, oltre alle finalità e alla logica del trattamento.

Quanto all’eventuale effettuazione di trattamenti automatizzati ai fini di “profilazione e classificazione” degli studenti, l’Autorità ha chiesto, infine, “di conoscere le misure adottate per assicurare la qualità dei dati e l’intervento umano nel processo decisionale”.

superamento prezzo medicinali

Medicinali e superamento prezzo medio europeo L'intervento della Corte Costituzionale sul regime di sorveglianza sul superamento del prezzo medio europeo

Regime sorveglianza prezzi medicinali

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993 (che ha introdotto un regime di sorveglianza dei prezzi dei medicinali) e volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Superamento media europea prezzi medicinali

Il predetto comma 12 prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta in caso di superamento della cosiddetta «media europea» dei prezzi dei medicinali, assumendo come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo», la cui determinazione era rimessa al CIPE. Quest’ultimo, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 disponeva che il prezzo medio europeo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da soli 4 paesi europei e che la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE.

La suddetta deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, ritenendo illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale. Prima del passaggio in giudicato di tale decisione, con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, rimettendo al CIPE di provvedere alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo.

Con i primi due commi dello stesso articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina prevista dal citato comma 12.

Efficacia retroattiva

La Consulta ha affermato che i suddetti primi due commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993, erano invece volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione, al fine di condizionarne l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Nell’accogliere le questioni sollevate, il giudice delle leggi ha richiamato la propria precedente giurisprudenza sulla centralità del principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, con la conseguente necessità che una norma avente comunque efficacia retroattiva sia sottoposta ad uno scrutinio particolarmente rigoroso; e ciò tanto più se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, in cui per giunta sia coinvolta un’amministrazione pubblica.

Nel caso esaminato dalla Corte, l’uso improprio della funzione legislativa – tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti sfavorevoli – “è affermato sulla base di due significative circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento. Sul piano della vicenda processuale, è stata ritenuta significativa la tempistica dell’intervento legislativo, collocato a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo all’annullamento, con sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato, della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994”.

Il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. proposto dall’Avvocatura generale dello Stato aveva impedito il passaggio in giudicato della predetta sentenza posta dalla parte privata a fondamento della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo e dai lavori preparatori non era possibile evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza del Consiglio di Stato allo scopo di evitare future azioni di risarcimento dei danni. Sul piano sostanziale, infine, è stato sottolineato che il legislatore, nel disciplinare pro futuro la determinazione dei prezzi dei farmaci, con il comma 3 del medesimo art. 36 della legge n. 449 del 1997 ha delineato un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997.

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edilizia pubblica residenza

Edilizia pubblica: vietato subordinarne l’accesso alla residenza prolungata Per la Corte Costituzionale il requisito della prolungata residenza impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all'abitazione

Edilizia residenziale pubblica e residenza

È incostituzionale negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente nel territorio della Regione da almeno cinque anni, pur se calcolati nell’arco degli ultimi dieci e maturati eventualmente anche in forma non continuativa.  Il requisito della prolungata residenza, infatti, impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all’abitazione, funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta
ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana». Questo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 67/2024 che ha ritenuto contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, previsti dall’art. 3 della Costituzione, l’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39.

Requisito della residenza prolungata

La Consulta ha precisato che il requisito della residenza prolungata nella Regione non presenta alcuna ragionevole correlazione con il soddisfacimento dell’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di
bisogno. Anzi, tale criterio contrasta con la circostanza per cui «proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro».
Del resto, secondo il giudice delle leggi, “la permanenza per almeno cinque anni nella regione, accertata nell’arco di un decennio, non induce a ritenere che vi sarà un futuro radicamento nel territorio, né serve a valorizzare il tempo dell’attesa nell’accesso al beneficio, esigenza che si può semmai riflettere nell’anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione”.
Ravvisata, pertanto, l’adozione di un “criterio irragionevole che si traduce nella violazione del principio di eguaglianza formale fra chi può e chi non può vantare una condizione – quella della prolungata residenza nel
territorio regionale – del tutto dissociata dal suo stato di bisogno”.
Secondo la Corte, il requisito contrasta anche con il “principio di eguaglianza sostanziale, perché tradisce la naturale «destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all’abitazione della proprietà pubblica
degli immobili» dell’edilizia residenziale pubblica”.

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osservatorio sinteticità atti giudiziari

Atti giudiziari sintetici: al via l’Osservatorio Il ministero della Giustizia ha costituito un Osservatorio permanente per il monitoraggio sulla chiarezza e sinteticità degli atti giudiziari

Osservatorio sinteticità atti giudiziari

Con la firma del decreto del 29 marzo 2024 da parte del ministro della giustizia, Carlo Nordio, è nato l’Osservatorio sulla chiarezza e sinteticità degli atti.

L’istituzione dell’organismo, si legge nella nota ufficiale, era stata inserita nel dm del 7 agosto 2023 relativo al regolamento sui criteri di redazione, limiti e schemi informatici degli atti giudiziari: all’art. 10 è prevista la costituzione di un “osservatorio permanente sulla funzionalità dei criteri redazionali e dei limiti dimensionali stabiliti dal presente decreto al rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo. L’osservatorio ha anche il compito di raccogliere elementi di valutazione ai fini dell’aggiornamento del presente decreto con cadenza almeno biennale”.

I compiti dell’Osservatorio

L’Osservatorio, costituito presso l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, avrà il compito di raccogliere e verificare i dati forniti da ciascun distretto di Corte d’Appello e suddivisi per tipologia di ufficio giudiziario, avvalendosi della collaborazione della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa e della Direzione generale per i servizi informativi automatizzati.

A far parte dell’Osservatorio, presieduto dal Capo Ufficio Legislativo, Antonio Mura, anche esperti della linguistica giudiziaria e avvocati indicati dal consiglio nazionale forense, insieme a magistrati.

daspo urbano

Daspo urbano: legittimo il divieto di accesso a determinate aree La Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le qlc sul divieto di accesso a determinate aree se sussiste il concreto pericolo di commissione di reati

Daspo urbano esteso

La Consulta, con la sentenza n. 47-2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di Firenze, sul divieto di accesso ad aree delle infrastrutture dei servizi di trasporto e ad altre aree urbane specificamente individuate dai regolamenti comunali che, in base al cosiddetto decreto Minniti del 2017, il questore può disporre nei confronti di chi, nelle stesse aree, abbia reiteratamente commesso le violazioni di cui all’art. 9, commi 1 e 2 (impedimento della loro
accessibilità e fruibilità in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi e altri illeciti specificamente indicati).

Sicurezza urbana

La Corte ha ritenuto che la norma censurata (l’art.10, comma 2, del dl n. 14 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n. 48 del 2017) debba essere interpretata in senso diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo e tale da escludere il prospettato contrasto con gli artt. 3, 16 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU).
In particolare va escluso, secondo la Consulta, che la norma in questione, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, faccia riferimento alla «sicurezza urbana» quale definita dall’art. 4 del decreto Minniti: concetto più ampio di quello contemplato dall’art. 16 Cost. quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione, in quanto comprensivo anche del mero «decoro urbano». Il termine «sicurezza» deve essere inteso invece nel senso – coerente con la natura di misura di
prevenzione atipica dell’istituto e in linea, altresì, con il dettato costituzionale – di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose.

Divieto di accesso legittimo

Affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto occorre, ha specificato la Corte, che vi sia un concreto pericolo di commissione di reati: pericolo che, in base alla lettera della norma, deve essere rivelato «dalla condotta tenuta» dal destinatario. Ciò esclude anche l’asserita violazione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.), nonché quella della garanzia convenzionale della libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU), sotto il profilo della carenza di precisione della norma
nell’individuazione dei presupposti della misura: carenza non riscontrabile neanche in rapporto alla descrizione delle condotte alla cui reiterazione quest’ultima è annessa.

Condotte illecite Daspo

La Corte ha dichiarato, altresì, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto Minniti, sollevata dal Tribunale di Firenze in riferimento all’art. 3 Cost. con riguardo all’individuazione delle condotte illecite, sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con il DASPO urbano chi, violando divieti di stazionamento e occupazioni di spazi, impedisca l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotta normalmente priva di rilievo penale – e non invece
chi, nelle stesse aree, tenga condotte penalmente rilevanti e ben più pericolose per la sicurezza (minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche, ecc.).
Per il giudice delle leggi, “si è di fronte a una scelta espressiva dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia e non manifestamente irragionevole. La selezione delle condotte cui può conseguire la misura riflette l’intento legislativo di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza, contribuiscono maggiormente a creare un clima di insicurezza nelle aree considerate e che implicano una prolungata e indebita occupazione di spazi nevralgici per la mobilità o comunque interessati da rilevanti flussi di persone”.

Peraltro, il legislatore non ha mancato di prendere in considerazione condotte di diverso ordine e di rilievo penale (comprese quelle richiamate dal giudice a quo) ai fini dell’applicazione di altre figure di
DASPO urbano, quali quelle previste dagli artt. 13 e 13-bis del decreto Minniti.

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giurista risponde

Legittimazione impugnazione annullamento lottizzazione Il promissario acquirente di un terreno interessato da un piano di lottizzazione può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento di annullamento in autotutela del piano di lottizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso. – Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768.

Il Consiglio di Stato ha ribadito il principio per cui non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, circostanza che generalmente si verifica in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell’immobile.

Nel caso in cui sia mancata l’acquisizione del possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, infatti, non si è radicata alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto.

Al fine di chiarire in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente si richiama, inoltre, un passaggio di una precedente pronuncia in cui si afferma che: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere”.

Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, il promissario acquirente è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicare la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) e non l’esercizio di un potere.

In conclusione, la posizione di promissario acquirente è estranea alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare, potendosi, al più, in sede civile, far valere quelle vicende al solo scopo di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti contrattuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 14 ottobre 2019, n. 6961; Id., 12 aprile 2011, n. 2275
giurista risponde

Mancata impugnazione graduatoria finale La mancata impugnazione della graduatoria finale determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso il precedente atto immediatamente lesivo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

In tema di concorsi pubblici, è improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, il ricorso proposto contro un atto immediatamente lesivo (nella specie, l’elenco dei candidati ammessi alla prova orale), ove l’impugnazione non sia poi estesa alla graduatoria finale. – Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2022, n. 2119.

Il TAR ha ricordato che in tema di illegittimità derivata in seguito ad annullamento di un atto presupposto, occorre operare una distinzione fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto meramente viziante.

Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5188). Per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi: a) il primo, dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; b) il secondo, individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi; pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo (Consi. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168)”.

Con specifico riferimento alle procedure concorsuali, è stato – ulteriormente – affermato che: “l’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del giudizio, poiché l’eventuale accoglimento della domanda di annullamento dell’esclusione dalla prova orale non può incidere sulla citata graduatoria, una volta che questa sia divenuta inoppugnabile (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 12 novembre 2020, n. 6959; sez. V, 11 agosto 2010, n. 5618, e 10 maggio 2010, n. 2766)”.

In base alle comuni regole di diligenza, anche processuale, occorre quindi accertarsi della eventuale conclusione del concorso e dell’approvazione della relativa graduatoria.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 112;
Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168; Id., 13 novembre 2015, n. 5188
giurista risponde

Azione di ripetizione in sede di ottemperanza È esperibile l’azione di ripetizione in sede di ottemperanza di una sentenza di rigetto di annullamento di provvedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Sebbene dall’accertata legittimità del provvedimento discenda l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in tale sede, una modifica o estensione del comando giudiziale. – Cons. Stato, sez. II, 25 marzo 2022, n. 2219.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la riconosciuta legittimità del provvedimento di decadenza dagli incentivi corrisposti dal G.S.E. – Gestore dei Servizi Energetici S.p.A, ai sensi del D.M. 28 luglio 2005 (“Criteri per l’incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare”), pur giustificando l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, non consente di agire a tal fine con l’azione di ottemperanza.

Nel caso di specie, il G.S.E. aveva proposto ricorso avverso la decisione che aveva ritenuto inammissibile l’ottemperanza della sentenza con cui era stato respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento di decadenza dalle tariffe incentivanti.

Tale decisione viene confermata dal Consiglio di Stato in considerazione della circostanza che nella sentenza di cui si chiedeva l’ottemperanza non vi era stata alcuna statuizione sull’obbligo di restituzione degli incentivi corrisposti. Il dispositivo della sentenza, infatti, stabiliva la mera reiezione del ricorso per l’annullamento, in coerenza con la motivazione esaminata, alla luce del petitum e dei motivi di ricorso, sulla base della riconosciuta legittimità delle ragioni poste alla base del provvedimento.

Né nel dispositivo né nella motivazione il giudice ha esaminato il diverso, anche se connesso, profilo dell’obbligo di restituzione delle tariffe, profilo che, di conseguenza, è estraneo al contenuto precettivo e di mera reiezione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

I Giuridici ribadiscono, inoltre, che secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale, sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l’Amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente satisfattivi rispetto a quelle statuizioni. Viceversa, le pronunce di rigetto lasciano invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, rimanendo indifferente che la sentenza di rigetto sia stata pronunciata in primo grado ovvero in appello, con una sentenza di riforma della pronuncia di accoglimento emessa dal primo giudice.

Il principio giurisprudenziale sopra richiamato è stato quindi ritenuto applicabile anche al caso di specie in quanto la reiezione del ricorso di annullamento non ha mutato il quadro giuridico preesistente, contrassegnato dalla validità e dall’efficacia dei provvedimenti di decadenza.

Se è vero che dall’accertata legittimità del provvedimento discende, in capo al G.S.E., l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, si deve, tuttavia, osservare che ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in quella sede, una modifica o estensione del comando giudiziale.

La fonte costitutiva dell’obbligo per le società di restituire le somme ricevute non è la sentenza, ma il provvedimento di decadenza che, peraltro, non reca la determinazione del quantum da restituire, limitandosi a dichiarare la decadenza dal diritto e a rinviare ulteriori atti per le modalità di esecuzione.

Le richieste di restituzione con l’indicazione degli importi dovuti sono state comunicate solo successivamente, in parte prima e in parte dopo la pubblicazione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

Quanto sopra conferma che il credito (e il correlativo debito) restitutorio, pur trovando fondamento nel provvedimento impugnato, è rimasto estraneo al perimetro del giudizio di cognizione.

Non è stata, infine, ritenuta applicabile al caso di specie la giurisprudenza richiamata a sostegno della tesi dell’esperibilità dell’azione di ripetizione per la prima volta in sede di ottemperanza (segnatamente, la sentenza della V sezione del 20 marzo 2012, n. 1570).

Nel precedente richiamato, infatti, la ripetizione è stata disposta in sede di ottemperanza in quanto rinveniva il proprio fondamento nella sentenza da ottemperare che imponeva al Comune la presa d’atto della nullità degli atti negoziali compiuti e il ripristino dello stato della procedura nella fase antecedente la violazione con il recupero del pacchetto azionario ceduto.

L’esame per la prima volta in sede di ottemperanza del rapporto obbligatorio scaturente dal provvedimento oggetto del giudizio di cognizione non si giustifica nemmeno richiamando la struttura a formazione progressiva del giudicato amministrativo.

La formazione progressiva del giudicato rende possibile statuizioni di carattere integrativo, volte a delineare la portata dispositiva e conformativa della sentenza da eseguire (così Cons. Stato, Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11; Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7378), ma non consente di ampliare con la condanna della parte privata una pronuncia di mero accertamento della legittimità del provvedimento impugnato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2013, n. 2724;
26 marzo 2013, n. 1675; 8 febbraio 2013, n. 719