vincolo archeologico

Vincolo archeologico: definizione, normativa e ratio Il vincolo archeologico, che può essere diretto o indiretto, viene apposto su beni di interesse archeologico per finalità di tutela culturale

Vincolo archeologico: definizione

La definizione di vincolo archeologico è contenuta in modo chiaro all’interno della sentenza del Consiglio di Stato n. 399 del 2016.  Essa definisce il vincolo archeologico come quello che è “finalizzato a realizzare la tutela dei beni riconosciuti di interesse archeologico”.  

Esso non deve pertanto essere confuso con il vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico (art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Quest’ultimo infatti non mira a tutelare i beni, quanto piuttosto il territorio che li conserva. Il vincolo paesaggistico tutela quindi il paesaggio archeologico, da non confondere con il sito archeologico. Il paesaggio archeologico non si identifica pertanto con il solo sito archeologico, bensì con tutta la forma del paesaggio, ossia anche le aree circostanti al reperto e senza reperti, al cui interno è compreso il sito archeologico.

Il vincolo archeologico diretto e indiretto

Definito il vincolo archeologico in generale e compresi gli elementi distintivi rispetto al vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico, occorre chiarire che lo stesso può essere diretto e indiretto. Anche in questo caso la definizione di questi due termini è contenuta in una sentenza del Consiglio di Stato e precisamente la n. 1658 del 2023.

Nello specifico, detta pronuncia definisce:

il vincolo archeologico diretto come quello che “viene imposto sui beni o sulle aree nei quali sono stati rinvenuti reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è la certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico”;

il vincolo archeologico indiretto invece è quello che “viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro”. 

Riferimenti normativi

Premessa l’esistenza di due tipologie di vincolo archeologico vediamo quali sono le norme che li contemplano.

Il vincolo archeologico diretto è previsto dagli articoli 1 e 3 della legge n. 1089/1939. L’articolo 1 dispone che sono assoggettate alle regole della legge anche le cose mobili e immobili di interesse archeologico. L’articolo 3 invece dispone che il Ministero notifichi in forma amministrativa ai possessori, proprietari o detentori dei beni di interesse archeologico indicati nell’articolo 1, che gli stessi presentano un interesse particolarmente importante. L’elenco delle cose mobili è conservato presso il Ministero.

Il vincolo archeologico indiretto è invece contenuto nell’articolo 21 della legge n. 1089/1939 e consiste nella prescrizione, da parte del Ministero competente, di misure, distanze e altre norme per evitare che venga messa in pericolo l’integrità delle cose immobili, che ne vanga danneggiata la prospettiva, la luce o che ne vengano alterate le condizioni ambientali e di decoro.

Le ragioni del vincolo archeologico

La ragione primaria dell’imposizione del vincolo archeologico è pertanto la tutela dei beni che presentano un evidente interesse culturale.

Ad affermarlo è anche l’articolo 2 del decreto legislativo n. 42/2004, che contiene il codice dei beni e del paesaggio culturale (ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002).

Fanno parte infatti del patrimonio culturale le cose mobili e immobili che presentano un interesse archeologico ai sensi degli articoli 10 e 11.

Nello specifico l’articolo 10 definisce i beni culturali anche le cose mobili e immobili che appartengono allo Stato e altri enti pubblici territoriali o agli enti e istituti, persone giuridiche pubbliche o private senza fini di lucro, compresi gli enti ecclesiastici riconosciuti che presentano un interesse archeologico. Sono beni culturali inoltre, sempre in base a questa norma, anche quelle cose mobili e immobili di interesse archeologico che appartengono a soggetti diversi da quelli appena elencati e a chiunque appartenenti, ma che rivestono un particolare interesse archeologico per la completezza del patrimonio culturale della nazione.

Vincolo archeologico ed edificabilità

Dal punto di vista pratico il vincolo archeologico pone problemi soprattutto quando nell’area su cui lo stesso grava si deve realizzare un’opera.

Giurisprudenza oramai consolidata afferma che il vincolo apposto su un’area di interesse archeologico non esclude in assoluto l’attività di edificazione. La stessa può essere consentita infatti qualora non comprometta la conservazione dei beni e non alteri l’integrità dei reperti.

L’unico modo per scongiurare la violazione della legge in materia è tuttavia quello di chiedere informazioni presso gli uffici competenti della Soprintendenza distribuiti sul territorio nazionale per verificare la presenza di vincoli e tutele che possano impedire i lavori programmati.

 

tempus regit actum

Il principio “tempus regit actum” nel procedimento amministrativo In ambito amministrativo, si discute se debba rispettarsi sempre la regola tempus regit actum o se occorra considerare il procedimento nel suo complesso

Che significa la regola tempus regit actum

Con la locuzione latina tempus regit actum si suole indicare la circostanza per cui, in diritto, un atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui è compiuto.

Questo principio trova applicazione in vari ambiti, e principalmente in campo processuale. Ma è nel diritto amministrativo che la regola tempus regit actum si trova al centro di un vivace dibattito, poiché una parte della dottrina e molte recenti pronunce giurisprudenziali ritengono che, in tale settore, debba valere il diverso principio del tempus regit actionem, specialmente con riferimento alle regole che disciplinano il procedimento amministrativo.

Tempus regit actum e procedimento amministrativo

Per comprendere appieno le differenze tra le due regole sopra citate, è opportuno ricordare brevemente in cosa consiste il procedimento amministrativo.

Esso rappresenta il normale strumento attraverso cui la pubblica amministrazione addiviene ad una decisione in cui si sostanzia la sua azione. In concreto, il procedimento amministrativo si sostanzia in una serie concatenata di atti amministrativi che sfociano in un atto conclusivo, chiamato provvedimento amministrativo.

Ebbene, i fautori della tesi secondo cui anche in ambito amministrativo procedimentale vige la regola tempus regit actum, sostengono che ogni singolo atto del procedimento amministrativo rimane regolato dalla disciplina normativa vigente al momento in cui esso è stato adottato.

Ciò significa che, se sopravviene una nuova normativa astrattamente applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento amministrativo, quest’ultima dovrà essere osservata solo in relazione agli atti di quel procedimento ancora da compiere, mentre la regolarità degli atti endoprocedimentali già compiuti in quel medesimo procedimento continuerebbe a dover essere valutata in base alle norme della previgente disciplina.

In realtà, tale principio è stato per lungo tempo pacificamente osservato anche in tale ambito, ma di recente numerose pronunce degli organi giurisdizionali amministrativi hanno abbracciato la tesi di quella parte della dottrina che ritiene applicabile al procedimento amministrativo il principio tempus regit actionem.

Bandi di gara e principio tempus regit actionem

In buona sostanza, tale tesi sposta l’attenzione dall’atto singolarmente considerato all’azione amministrativa complessivamente identificata dal singolo procedimento.

Per fare un esempio, quando un ente pubblico bandisce una gara di appalto, fissa una serie di requisiti per la partecipazione e una serie di regole che garantiscono la parità tra i concorrenti e la trasparenza delle condizioni.

Se la normativa di riferimento mutasse in pendenza della scadenza dei termini per la partecipazione a quella gara, si rischierebbe di pregiudicare il rispetto di tali canoni di parità e trasparenza, finendo per inquinare la correttezza e la regolarità della gara.

Per questo motivo, in ambito di aggiudicazioni e, più in generale di procedure selettive in ambito amministrativo, si ritiene che debba rispettarsi la regola “tempus regit actionem”, e che, pertanto, l’intera gara debba rimanere disciplinata dalla normativa vigente al momento della pubblicazione del bando.

Al riguardo, cfr. tra tante, la sentenza del Consiglio di Stato n. 2521/2021, secondo cui “occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (…); pertanto, anche per ragioni di tutela dell’affidamento (…), deve escludersi che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara, altrimenti venendo sacrificati i principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse ed assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle amministrazioni di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente all’adozione del bando (tra le tante, Cons. Stato, V, 7 giugno 2016, n. 2433; V, 12 maggio 2017, n. 2222). Si può forse sostenere che nei procedimenti di gara il criterio informatore sia quello del tempus regit actionem”.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti del diritto amministrativo si fa largo l’idea che debba osservarsi la legge vigente al momento in cui l’amministrazione procedente avvia la fase istruttoria del procedimento amministrativo. In tal modo, da un lato viene valorizzata l’idea che il procedimento amministrativo sia un unicum in cui si sostanzia l’azione amministrativa e in cui confluiscono i vari atti che hanno rilevanza esclusivamente endoprocedimentale. Dall’altro, si valorizza l’esigenza di rispetto degli interessi legittimi esistenti in capo ai soggetti interessati dal procedimento, che possono ritenersi davvero tutelati solo se valutati in relazione alla legge vigente all’inizio del procedimento che li coinvolge.

In altri ambiti, come ad esempio quello delle concessioni edilizie, rimane invece ancora pacificamente osservata la regola del tempus regit actum: il provvedimento finale, cioè, deve rispondere alla normativa sopravvenuta nel corso del procedimento e non a quella vigente all’inizio dello stesso.

targa contraffatta

Targa contraffatta: niente multa per chi circola con quella polacca Per la Cassazione non è integrata la violazione dell’art. 100, comma 12, Cds, che sanziona la circolazione del veicolo munito di targa non propria o contraffatta

Targa straniera e violazione Codice della Strada

Niente multa per chi circola con veicolo con targa polacca e non italiana. Non si verte infatti nell’ipotesi della violazione di cui all’art. 100, comma 2, Codice della Strada, il quale sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”. Così la seconda sezione civile della Cassazione, la quale, con sentenza n. 4811-2024 ha accolto il ricorso di una società di trasporti avverso il verbale di accertamento elevato a suo carico dalla Polstrada.

Per approfondimenti vai alla nostra guida Targa contraffatta o falsa

La vicenda

Nella vicenda, la società impugnava innanzi al Gdp di Pordenone il verbale di accertamento e violazione dell’art.100, comma 12, Cds, elevato a suo carico dalla Polizia stradale per avere messo in circolazione un complesso veicolare formato da motrice e rimorchio risultante iscritto al P.R.A. con targa e documenti intestati alla società ricorrente, ma munito, al momento dell’accertamento, di targa polacca facente capo ad altra società.

A fondamento della contestazione l’autorità ritenne che il fatto integrasse l’ipotesi di circolazione di autoveicolo con targa non propria, in quanto diversa da quella che, ai sensi delle risultanze del P.R.A. nazionale, identificava il veicolo.

A sostegno dell’opposizione la società dedusse che il fatto accertato non integrava la violazione contestata, atteso che le targhe erano state regolarmente rilasciate dalla motorizzazione civile polacca, a seguito di contratto di noleggio temporaneo, con la conseguenza che il solo rimprovero che le poteva essere mosso era di non avere provveduto a comunicare al PRA la definitiva esportazione all’estero dei mezzi, al fine della radiazione delle targhe originarie.

Il Giudice di Pace rigettò l’opposizione e la pronuncia venne confermata dal Tribunale di Pordenone.

Il ricorso in Cassazione

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100, comma 12, codice della strada, censurando la decisione impugnata per avere ritenuto applicabile la disposizione menzionata in assenza dei suoi presupposti fattuali.

Le targhe rinvenute, sosteneva la società, erano infatti state rilasciate dalle competenti autorità polacche, previa consegna delle relative carte di circolazione e delle targhe originarie, proprio per i veicoli oggetto di accertamento. Per cui, trattandosi di targhe appartenenti ai suddetti veicoli, la violazione contestata, a dire della ricorrente, non era nella specie configurabile, risultando essa applicabile, oltre che al caso di targhe contraffatte, solo all’ipotesi in cui il mezzo usi targhe altrui, cioè corrispondenti ad altro veicolo. Al massimo la fattispecie poteva rientrare nella diversa ipotesi sanzionatoria dell’art. 103 codice della strada, che sanziona l’omessa comunicazione al PRA dell’esportazione del veicolo, trovando il fatto contestato la sua causa proprio in tale omissione.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., il ricorso è fondato.

L’art. 100, comma 12, codice della strada, ricordano innanzitutto i giudici, sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”.

La formula normativa, quindi, “va intesa nel senso che la violazione sussiste quando la targa di cui il veicolo è provvisto appartiene ad un altro mezzo o risulta comunque oggetto di contraffazione”.

Nel caso di specie, invece, si trattava di targhe regolarmente rilasciate dalla motorizzazione polacca. Pertanto, spiegano gli Ermellini, è evidente “che si è al di fuori dell’ipotesi in cui il veicolo circoli non targa non propria, coincidendo le targhe presenti al momento dell’accertamento con quelle assegnate”.

Né la sussistenza della condotta sanzionata, concludono accogliendo il ricorso e cassando la sentenza impugnata, “può affermarsi per il solo fatto che nel P.R.A. risultassero ancora registrate le targhe originarie, precedenti alla nuova immatricolazione, atteso che tale circostanza è addebitabile alla mancata attivazione, da parte del proprietario, del procedimento di radiazione delle targhe precedenti, previsto dall’art. 103 codice della strada e la cui omissione ha una sanzione autonoma, ma non trasforma di per sé l’uso delle targhe nuove nella violazione contestata, non porta cioè a ritenere che quelle presenti non fossero quelle ‘proprie’ dell’automezzo”.

Allegati

lottizzazione abusiva

Lottizzazione abusiva sanatoria Per la lottizzazione abusiva la sanatoria non è prevista, come ha chiarito il Consiglio di Stato, anche quando venga richiesta per le singole opere edilizie

Cos’è la lottizzazione abusiva

La lottizzazione abusiva è il reato che compie chi, a scopo edificatorio, inizia opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia di terreni, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o senza la prescritta autorizzazione (v. art. 30 del T.U. Edilizia, D.P.R. 380/2001).

Parimenti, si ha lottizzazione abusiva quando tale trasformazione urbanistica o edilizia viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.

Come vedremo, a differenza di quanto può accadere per le singole opere edilizie, la lottizzazione abusiva non è suscettibile di sanatoria.

Il reato di lottizzazione abusiva e le sanzioni

Il reato di lottizzazione abusiva è punito dall’art. 44 dello stesso Testo Unico, che prevede come pena l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro.

Inoltre, con la sentenza definitiva del giudice penale che accerta il reato, viene disposta anche la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite.

La principale ragione per cui la lottizzazione abusiva è considerata un illecito penale è stata individuata dalla giurisprudenza amministrativa nel fatto che tale attività “sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessarie al vivere civile, causa di degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano” (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 5403/2021).

Lottizzazione abusiva e sanatoria, la giurisprudenza

Come abbiamo anticipato, diversamente da quanto può accadere per singoli interventi realizzati in assenza di costruire, suscettibili di sanatoria, “la lottizzazione abusiva rappresenta un illecito urbanistico che non è suscettibile della sanatoria prevista per gli abusi edilizi, anche qualora sia stata rilasciata una concessione edilizia in sanatoria per le singole opere facenti parte della lottizzazione” (Consiglio di Stato, sez. II, n. 1271/2021, pronuncia richiamata anche da Cons. St., sez. VI, sent. n. 2567/2023).

Per inciso, la sanatoria per i singoli interventi (opere) realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, si può richiedere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda, pagando una somma pari al contributo di costruzione in misura doppia, sempre che la richiesta venga accolta (cfr. l’art. 36 del citato T.U. Edilizia, che disciplina il c.d. “Accertamento di conformità”).

Ipotesi ancora diversa è il condono delle singole opere abusive, che avviene solo in occasione di apposito provvedimento legislativo (adottato in passato in Italia negli anni ’80, ’90 e all’inizio degli anni Duemila).

Consiglio di Stato, le sentenze sulla sanatoria edilizia

Proprio perché si tratta di due ipotesi ben distinte, la giurisprudenza ha anche chiarito che non è possibile sanare la lottizzazione abusiva tramite la sanatoria delle singole unità immobiliari, terreni o costruzioni che siano, i quali non possono essere considerati in modo isolato (cfr. Cons. St., sent. n. 883/2022).

Inoltre, il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 2567/2023, ha anche chiarito che nell’ambito della lottizzazione abusiva la sanatoria richiesta per una singola opera ha solo un effetto sospensivo dell’efficacia dei provvedimenti adottati in precedenza.

Infatti, la richiesta di un accertamento di conformità ex art. 36 T.U. Edilizia, in relazione ad un’opera realizzata in un terreno per cui è stata già accertata la lottizzazione abusiva, non toglie efficacia alla precedente ordinanza di demolizione, ma ne comporta la mera sospensione dell’efficacia fino alla definizione del procedimento conseguente alla richiesta stessa (sul punto, viene richiamata anche la precedente sentenza Cons. St., sez. II, n.3545/2021).

art. 39 TULPS

Art. 39 Tulps: divieto di detenzione armi In base all’art. 39 Tulps, il prefetto può vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi a soggetti che siano ritenuti capaci di abusarne

Divieto di detenere armi: i poteri del prefetto

L’art. 39 Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede la facoltà, per il prefetto, di vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi alle persone che in precedenza avevano ottenuto il relativo permesso, ma che, secondo una valutazione attuale, siano ritenute capaci di abusarne.

Per comprendere appieno la portata della norma, è opportuno comprendere quali siano le condizioni alle quali un cittadino possa essere autorizzato alla detenzione di armi. A questo scopo, nella presente guida analizzeremo brevemente la normativa di settore e i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza.

Detenzione armi e munizioni, cosa dice la legge

Si è detto che il prefetto può negare la detenzione di armi a soggetti che erano in precedenza stati autorizzati a tanto. Il riferimento principale è a quanto previsto dall’art. 38 Tulps, che espressamente dispone che chiunque detiene armi, munizioni od esplosivi, deve farne denuncia alle autorità di pubblica sicurezza entro 72 ore dall’acquisizione della loro materiale disponibilità.

Tale denuncia, inoltre, deve essere ripetuta ogni qual volta il possessore dell’arma ne cambi il luogo di custodia. Tutto questo trova giustificazione nel fatto che le autorità di pubblica sicurezza devono essere sempre messe in condizione di conoscere l’esistenza di un’arma e il luogo esatto in cui la stessa si trovi, con la dovuta tempestività.

Ebbene, in questo quadro si staglia il potere del prefetto di cui all’art. 39 Tulps. In base a tale valutazione, il prefetto esprime un giudizio prognostico, cioè una mera previsione, in base al quale egli ritiene che il soggetto che detiene l’arma possa essere capace di abusarne e pertanto gli vieta di detenere l’arma (o le munizioni, o il materiale esplodente).

Divieto generale di detenere un’arma

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ci consente di delineare meglio i presupposti e i contorni del divieto in parola (Cons. St., sent. n. 7404/2022).

Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare. (…) La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire”.

In altre parole, la sentenza in oggetto ci fa capire che l’art. 38 Tulps, in realtà, rappresenta le condizioni che permettono di fare un’eccezione alla regola (concedendo la detenzione dell’arma al cittadino), laddove l’art. 39 Tulps e il potere prefettizio da esso previsto non fanno altro che ripristinare l’operatività della regola generale del divieto di detenzione delle armi, in presenza di condizioni che facciano suppore il pericolo di abuso delle armi da parte del detentore.

Il porto d’armi, come anche chiarito dalla risalente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 440/1993) “non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse”.

In tutto questo, il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi ed è da considerarsi “di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi” (v. sent. cit.).

Art. 39 Tulps: confisca dell’arma

La disciplina del divieto prefettizio di detenzione dell’arma si completa con la previsione in base alla quale, con il provvedimento di divieto, il prefetto assegna all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi dei materiali di cui al medesimo comma. In altre parole, l’ordinamento concede al detentore destinatario del provvedimento di divieto da parte del prefetto di decidere in ordine alla destinazione dell’arma. In mancanza di cessione entro il termine indicato, si procede alla confisca dell’arma.

Va segnalato, infine, che, nei casi di urgenza, l’art. 39 Tulps dispone che gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza devono provvedere all’immediato ritiro cautelare dell’arma, dandone immediata comunicazione al prefetto.

garante disabili

Garante delle persone con disabilità Pubblicato in Gazzetta ilo decreto legislativo n. 20/2024 che istituisce il Garante delle persone con disabilità, operativo dal 1° gennaio 2025

Garante disabili: chi è e cosa fa

In data 5 marzo 2024, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D-lgs-20-2024 che istituisce il Garante nazionale delle persone con disabilità, in attuazione della delega conferita al governo e dopo l’approvazione in via definitiva del provvedimento da parte del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2024.

L’autorità “Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità” sarà operativa a decorr4ere dal 1° gennaio 2025 ed eserciterà “le funzioni e i compiti ad essa assegnati dal decreto con poteri autonomi di organizzazione, con indipendenza amministrativa e senza vincoli di subordinazione gerarchica.

Il Garante costituisce un’articolazione del sistema nazionale per la promozione e la protezione dei diritti delle persone con disabilita’, in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18.

Composizione Autorità Garante

Il Garante avrà sede in Roma e sarà un organo collegiale, composto dal presidente e da due componenti, “scelti tra persone di notoria indipendenza e di specifiche e comprovate professionalità, competenze o esperienze nel campo della tutela e della promozione dei diritti umani e in materia di contrasto delle forme di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità”.

Il presidente e i componenti del collegio non possono essere scelti tra persone che rivestono incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano rivestito tali incarichi e cariche nell’anno precedente la nomina e, in ogni caso, non devono essere portatori di interessi in conflitto con le funzioni del Garante.

Per tutta la durata dell’incarico, inoltre, il presidente e i componenti del collegio non possono esercitare, a pena di decadenza, attività professionale, imprenditoriale o di consulenza, non possono svolgere le funzioni di amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, ricoprire uffici pubblici di qualsiasi natura o rivestire cariche elettive, assumere cariche di governo o incarichi all’interno di partiti politici o movimenti politici o in associazioni, organizzazioni, anche sindacali, ordini professionali o comunque organismi che svolgono attività nel campo della disabilità.

Il presidente e i componenti del collegio durano in carica di quattro anni e il loro mandato e’ rinnovabile una sola volta.

Ufficio del Garante

Per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali è istituito l’Ufficio del Garante, il cui funzionamento sarà affidato ad un regolamento adottato dal garante stesso, con una dotazione organica costituita da due unità dirigenziali e 20 unità di persone non dirigenziale, in possesso delle competenze e dei requisiti di professionalità necessari in relazione alle funzioni e alle caratteristiche di indipendenza e imparzialità del Garante.

L’assunzione del personale avviene per pubblico concorso.

L’Ufficio del Garante può avvalersi di esperti, fino ad un massimo di otto, di elevata competenza in ambito giuridico, amministrativo, contabile o di comprovata esperienza in materia di disabilità. Gli esperti possono prestare la propria opera professionale a titolo gratuito.

Funzioni e prerogative del Garante

Il Garante esercita moltissime funzioni, tra cui:

  • vigila sul rispetto dei diritti e sulla conformità ai principi stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e dagli altri trattati internazionali dei quali l’Italia è parte in materia di protezione dei diritti delle persone con disabilita’, dalla Costituzione, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti nella medesima materia;
  • contrasta i fenomeni di discriminazione diretta, indiretta o di molestie in ragione della condizione di disabilita’ e del rifiuto dell’accomodamento ragionevole di cui all’articolo 5, comma 2;
  • promuove l’effettivo godimento dei diritti e delle liberta’ fondamentali delle persone con disabilita’, in condizione di eguaglianza con gli altri cittadini, anche impedendo che esse siano vittime di segregazione;
  • riceve le segnalazioni presentate da persone con disabilita’, dai loro familiari, da chi le rappresenta, dalle associazioni e dagli enti legittimati ad agire in difesa delle persone con disabilita’, da singoli cittadini, da pubbliche amministrazioni, nonché dall’Autorità politica delegata in materia di disabilità. Il Garante stabilisce, nei limiti della propria autonomia organizzativa, le procedure e le modalita’ di presentazione delle segnalazioni, anche tramite l’attivazione di un centro di contatto dedicato, assicurandone l’accessibilita’. Il Garante all’esito della valutazione e verifica delle segnalazioni pervenute, previa audizione delle persone con disabilita’ legittimate, esprime con delibera collegiale pareri motivati;
  • svolge verifiche, d’ufficio o a seguito di segnalazione, sull’esistenza di fenomeni discriminatori;
  • formula raccomandazioni e pareri inerenti alle segnalazioni raccolte alle amministrazioni e ai concessionari pubblici interessati, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti, proponendo o sollecitando, anche attraverso l’autorita’ di settore o di vigilanza, interventi, misure o accomodamenti ragionevoli idonei a superare le criticita’ riscontrate;
  • promuove la cultura del rispetto dei diritti delle persone con disabilita’ attraverso campagne di sensibilizzazione, comunicazione e progetti, iniziative ed azioni positive, in particolare nelle istituzioni scolastiche, in collaborazione con le amministrazioni competenti per materia;
  • agisce e resiste in giudizio a difesa delle proprie prerogative;
  • definisce e diffonde codici e raccolte delle buone pratiche in materia di tutela dei diritti delle persone con disabilita’ nonche’ di modelli di accomodamento ragionevole.

Pareri del Garante

Come dispone l’art. 5 del decreto, il Garante valuta le segnalazioni ricevute e verifica l’esistenza di discriminazioni comportanti lesioni di diritti soggettivi o di interessi legittimi negli ambiti di competenza. All’esito della valutazione e verifica, previa audizione dei soggetti destinatari delle proposte nel rispetto del principio di leale collaborazione, ad eccezione dei casi di urgenza di cui al comma 4, esprime con delibera collegiale pareri motivati.

Nel caso in cui un’amministrazione o un concessionario di pubblico servizio adotti un provvedimento o un atto amministrativo generale in relazione al quale la parte lamenta una violazione dei diritti della persona con disabilita’, una discriminazione o lesione di interessi legittimi, il Garante emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate nonche’ una proposta di accomodamento ragionevole, come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’ e dalla disciplina nazionale, nel rispetto del principio di proporzionalita’ e adeguatezza.

Quando le verifiche hanno ad oggetto il mancato adeguamento a quanto previsto dai piani per l’eliminazione di barriere architettoniche dagli edifici pubblici e aperti al pubblico e da quelli privati che forniscono strutture e servizi aperti o forniti al pubblico, nonche’ l’eliminazione delle barriere sensopercettive e di ogni altra barriera che impedisce alle persone con disabilita’ di potervi accedere in condizione di pari opportunita’ con gli altri cittadini o ne limiti la loro fruizione in modo significativo, il Garante puo’ proporre all’amministrazione competente un cronoprogramma per rimuovere le barriere e vigilare sugli stati di avanzamento.

Nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per i diritti delle persone con disabilita’, ove non sia stata promossa azione giudiziaria, il Garante puo’, anche d’ufficio, a seguito di un sommario esame circa la sussistenza di una grave violazione del principio di non discriminazione in danno di una o piu’ persone con disabilita’, proporre l’adozione di misure provvisorie. La proposta e’ trasmessa senza indugio alle pubbliche amministrazioni procedenti.

Trascorsi novanta giorni dal parere motivato, constatata l’inerzia da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, il Garante puo’ proporre azione ai sensi dell’articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Entro centottanta giorni dall’adozione del provvedimento da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, sulla base delle proposte o del parere motivato, il Garante puo’ agire per il solo accertamento delle nullita’ previste dalla legge.

giurista risponde

Escussione cauzione provvisoria Vi è l’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara anche nel caso in cui quest’ultima non è imputabile all’operatore economico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Corte di giustizia dell’UE. – Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 2023, n. 3571.

Il caso in esame vede la contestazione della legittimità dell’escussione della cauzione provvisoria in seguito all’esclusione dalla procedura di gara, come previsto dall’art. 75 del D.Lgs. 163/2006 (applicabile ratione temporis).

L’appellante rivendica che, l’incameramento della cauzione quale conseguenza automatica dell’esclusione, anche nel caso in cui non risulti imputabile all’operatore economico la condotta che ha costituito le cause dell’esclusione, costituirebbe una forma di responsabilità oggettiva che si tradurrebbe in un provvedimento a contenuto fortemente sanzionatorio e di natura penale, consistente nell’incameramento di una somma rilevante, e realizzerebbe una notevole deviazione dal principio secondo il quale le sanzioni vengono applicate, di regola, secondo il criterio dell’imputabilità soggettiva.

Alla luce di ciò, i Giudici di Palazzo Spada – in considerazione della rilevanza della questione di compatibilità della normativa con le disposizioni eurounitarie – chiedono alla Corte di giustizia dell’UE di pronunciarsi sulla seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU, l’art.6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli gli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a una norma interna (quale contenuta nell’art. 75 del D.Lgs. 163/2006) che preveda l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di lavori, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario della gara”.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE al fine di verificare la compatibilità della disciplina interna della automatica escussione della garanzia provvisoria – a seguito, nel caso di specie, di esclusione dalla gara per produzione di un preventivo falso fornito da un consulente esterno– con l’ordinamento eurounitario e, segnatamente, con i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, nell’ipotesi che l’operatore economico attinto non sia risultato aggiudicatario.

 

giurista risponde

Requisiti per sollevare questione di legittimità costituzionale Quali requisiti devono sussistere per sollevare una questione di legittimità costituzionale nel giudizio impugnatorio di legittimità?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato riepiloga i principi elaborati dalle plenarie n. 7, 19 e 21/2021 in tema di risarcimento del danno da responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi.  – Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 4523.

Preliminarmente, nel giudizio impugnatorio di legittimità per superare il vaglio della rilevanza, la questione di legittimità costituzionale deve non solo fare riferimento ai vizi denunciati con il ricorso, ma anche alla domanda in concreto proposta, che rispettando il principio del divieto dei nova in appello recepito dall’art. 104, comma 1, c.p.a., non può che essere quella descritta nel ricorso proposto in primo grado.

Pertanto, la necessaria corrispondenza tra petitum e decisum fissa i limiti invalicabili, nel cui rispetto deve essere esaminata la rilevanza della questione proposta dalla parte. Dunque, se è vero che non vi è un limite temporale anche nel giudizio amministrativo di secondo grado per sollevare la questione di legittimità costituzionale, non possono essere ritenute rilevanti questioni che riguardino norme la cui violazione il proponente non abbia ritualmente evidenziato in primo grado e nei limiti imposti all’effetto devolutivo dai principi di specificità e tempestività dei motivi di appello.

La funzione legislativa – salvi i limiti costituzionali – è per definizione “libera nei fini”, da ciò ne segue la naturale insussistenza di una possibile qualificazione del danno come “ingiusto”, perché – diversamente che di fronte all’azione amministrativa – davanti all’attività legislativa non vi sono situazioni soggettive dei singoli protette dall’ordinamento. Va perciò rimarcata la diversità della fattispecie della responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi comunitari. Solo nel caso di ritardata o mancata attuazione di obblighi comunitari è possibile, invero, rinvenire un’adeguata base legale alla responsabilità dello Stato-legislatore, con correlato diritto del singolo attivabile direttamente dinanzi all’autorità giudiziaria. La diversità di trattamento tra legge incostituzionale e legge anti-europea ha la propria ratio nella necessità di contrastare condotte violative del diritto eurounitario perpetrate dagli Stati membri, prescindendo dalle articolazioni interne allo Stato-apparato (potere legislativo, amministrativo e giudiziario); si tratta, evidentemente, di una ragione non replicabile nel contesto della legge incostituzionale.

Dunque, i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento sono i seguenti: l’affidamento tutelabile deve essere ragionevole e, quindi, incolpevole; esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato; il grado della colpa dell’amministrazione rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento; l’aspettativa sul risultato utile o sulla conservazione dell’utilità deve essere ottenuta in circostanze che obiettivamente la giustifichino; la buona fede «non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave». L’affidamento deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa confidato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2023, n. 4390;
Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2023, n. 4288;
Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2022, n. 9680;
Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2022, n. 7673; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. I, 26 novembre 2015, n. 5373
giurista risponde

Sindacato giurisdizionale e legittimità procedimento In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale pur essendo “debole” deve potersi sempre estendere alla verifica della legittimità del procedimento e della sanzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il sindacato giurisdizionale seppur “debole” non per questo è da considerarsi nullo. – Cons. Stato, sez. IV, 5 maggio 2023, n. 4554.

I Giudici della IV Sezione evidenziano che pur dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato sui margini di discrezionalità insiti nell’apprezzamento dei fatti rilevanti sul versante disciplinare, della loro gravità e del rigore della risposta sanzionatoria che debba scaturirvi va altresì ribadito l’orientamento di questo Consiglio (pur non condividendosi l’uso dell’aggettivo “debole”, trattandosi semplicemente di operare il sindacato consentaneo al giudizio di legittimità), secondo cui:In materia di procedimento disciplinare il sindacato giurisdizionale è sì ‘debole’ ma non per questo nullo. Nei limiti della sua tenuità, tale sindacato deve potersi pur sempre estendere alla verifica della legittimità dell’esercizio del pubblico potere, specie sanzionatorio, quanto meno dal punto di vista dell’adeguatezza dell’iter procedimentale seguito, segnatamente per quanto attiene alla istruttoria procedimentale, e del rispetto del principio di proporzionalità tra accadimenti come effettivamente accertati e punizione comminata.” o in caso di “manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità e travisamento dei fatti”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 12 dicembre 2022, n. 10852;
Cons. Stato, sez. II, 7 novembre 2022, n. 9756;
Cons. Stato, sez. III, 4 novembre 2022, n. 9680; Id., 17 agosto 2022, n. 7157;
Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1787
giurista risponde

Cessione standard urbanistici e contributo costruzione Qual è la differenza tra la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici e il contributo di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato lo ha chiarito richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di monetizzazione di standard urbanistici. – Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4908.

I Giudici enunciano che, “la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, atteso che non è una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost.; inoltre, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento. Pertanto, l’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione non esclude che sia dovuta anche la cessione di aree a standard”.

È opportuno ricordare che, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici è un beneficio di carattere eccezionale, concepito come misura di favore per il richiedente un titolo edilizio che, in base allo strumento urbanistico, deve, per l’appunto, cedere o reperire nella zona in cui intende realizzare l’intervento costruttivo aree per la realizzazione di opere pubbliche, nel rispetto delle misure e secondo i criteri dettati dal D.M. 1444/1968.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2023, n. 659; Id., 10 gennaio 2022, n. 148;
Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2016, n. 4417;
Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2014, n. 1820; Id., 23 dicembre 2013, n. 6211;
Id., 4 febbraio 2013, n. 644