diritto soggettivo

Diritto soggettivo: cos’è e la differenza con l’interesse legittimo Diritto soggettivo: situazione giuridica soggetti a cui l’ordinamento riconosce piena tutela, che si distingue dall’interesse legittimo

Cos’è il diritto soggettivo?

Il diritto soggettivo è il potere riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico, che permette a un soggetto di agire per soddisfare un proprio interesse, senza necessità di ulteriori approvazioni o autorizzazioni. Questo diritto attribuisce al titolare una posizione giuridica di supremazia rispetto a terzi, i quali sono obbligati a rispettarlo. Esempi comuni sono il diritto di proprietà, il diritto alla salute o il diritto alla libertà personale.

Normativa di riferimento

Il diritto soggettivo trova fondamento nella Costituzione italiana e nei principi generali del diritto civile. Alcuni riferimenti normativi sono:

  • Articolo 2 della Costituzione: riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come individuo che nelle formazioni sociali.
  • Articolo 832 del Codice Civile: disciplina il diritto di proprietà, uno dei diritti soggettivi patrimoniali più significativi.
  • Articolo 2043 del Codice Civile: tutela i diritti soggettivi contro i danni ingiusti, stabilendo l’obbligo di risarcimento.

Giurisprudenza sul diritto soggettivo

La giurisprudenza ha spesso contribuito a definire i confini e le caratteristiche del diritto soggettivo. La Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato hanno chiarito che il diritto soggettivo si distingue per la sua piena ed esclusiva tutela giuridica, che può essere fatta valere sia in sede civile che amministrativa.

Un esempio significativo è rappresentato dalle controversie sul diritto alla salute (art. 32 Cost.), in cui i giudici hanno ribadito che tale diritto non può essere compresso da vincoli amministrativi se non nei limiti previsti dalla legge.

Differenza tra diritto soggettivo e interesse legittimo

Una distinzione fondamentale in diritto pubblico è quella tra diritto soggettivo e interesse legittimo.

Diritto soggettivo: rappresenta una posizione di vantaggio pienamente tutelata, che non dipende dall’intervento della Pubblica Amministrazione. Ad esempio, il diritto di proprietà consente al titolare di disporre del bene senza subordinare il suo esercizio ad alcun permesso.

Interesse legittimo: riguarda la posizione di chi, pur avendo un interesse concreto e attuale, deve fare affidamento sull’azione o sull’omissione della Pubblica Amministrazione per realizzarlo. Ad esempio, il richiedente di una concessione edilizia ha un interesse legittimo che si realizza solo con l’emanazione di un preciso provvedimento amministrativo.

Tipologie di interessi legittimi

Gli interessi legittimi sono pretensivi quando il titolare può pretendere che la Pubblica Amministrazione adotti un certo provvedimento per soddisfare il suo interesse. Sono invece oppositivi quando il titolare dell’interesse può opporsi all’adozione di un certo provvedimento da parte della pubblica Amministrazione che risulti pregiudizievole per la sua sfera giuridica.

Tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi

La tutela dei diritti soggettivi è di competenza del giudice ordinario, mentre quella degli interessi legittimi spetta generalmente al giudice amministrativo. Tuttavia, esistono situazioni, come nei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in cui questa autorità giudiziaria si occupa anche di controversie che riguardano i diritti soggettivi.

 

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decreto flussi 2025

Decreto flussi 2025: integrazione della domanda Decreto flussi 2025. Scade il 19 gennaio 2025 il termine per integrare le domande precompilate dei datori di lavoro 

Decreto Flussi 2025: domande entro il 19 gennaio

Entro il 19 gennaio 2025, i datori di lavoro possono completare le domande già precompilate per il Decreto Flussi 2025. Lo ha comunicato il Ministero del Lavoro sul portale Integrazione Migranti. Questa finestra temporale consente di prepararsi ai click day di febbraio, in cui sarà possibile inviare formalmente le richieste.

Integrazione delle domande dal 13 al 19 gennaio

Dal 13 al 19 gennaio 2025, dalle ore 8 alle ore 20, anche nei giorni festivi, è possibile integrare le domande tramite il Portale Servizi del Ministero dell’Interno, sezione Sportello Unico Immigrazione. Si possono modificare solo le richieste già inserite nel sistema a novembre 2024. Non è consentito presentare nuove domande.

Il completamento richiede il salvataggio definitivo tramite il tasto “Salva”. Solo così le domande passano dallo stato “da completare” a “da inviare”, rendendole pronte per i click day.

Come completare le domande

Per completare le domande i datori di lavoro che hanno intenzione di assumere lavoratori stranieri devono accedere alla sezione dedicata sul portale, selezionare la domanda in stato “da completare” e correggere o integrare i dati mancanti.

È essenziale però verificare l’esattezza delle informazioni prima di salvare.

Date dei click day

Le date stabilite per i click day sono le seguenti:

  • 5 febbraio: lavoro subordinato non stagionale;
  • 7 febbraio: lavoro subordinato per lavoratori di origine italiana residenti in Venezuela e assistenza familiare;
  • 12 febbraio: lavoro subordinato stagionale nei settori agricolo e turistico.

Queste scadenze sono decisive. I datori di lavoro devono assicurarsi che le domande siano già pronte e salvate per essere accettate.

Linee guida e assistenza Decreto Flussi 2025

Il Ministero dell’Interno fornisce supporto ai datori di lavoro con le “Linee Guida Tecniche”, disponibili sul Portale Servizi alla voce “MANUALE”. Il documento offre istruzioni dettagliate per compilare le domande, utilizzare la piattaforma e risolvere problemi tecnici.

In caso di difficoltà, il servizio di Help Desk è attivo durante l’intero periodo di integrazione e nei click day, offrendo assistenza tecnica e rispondendo a domande sulla procedura.

 

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Parità di genere nelle società quotate: la direttiva UE Parità di genere: da dicembre 2024 in vigore la Direttiva UE 2022/2381 sull'equilibrio di genere nei CdA delle società quotate

La direttiva UE sulla parità di genere

Da dicembre 2024 è in vigore nell’Unione Europea la direttiva 2381/2022 sulla parità di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate. L’obiettivo è garantire una maggiore rappresentanza del sesso sottorappresentato e promuovere la parità di genere in tutta l’UE.

Obiettivi della direttiva

La direttiva stabilisce che entro il 30 giugno 2026 le grandi società quotate debbano raggiungere i seguenti risultati:

  • almeno il 40% di rappresentanza del sesso sottorappresentato tra gli amministratori senza incarichi esecutivi;
  • almeno il 33% di rappresentanza in tutti i ruoli di amministratore, includendo sia quelli con che senza incarichi esecutivi.

Questi obiettivi mirano a superare le attuali disuguaglianze di genere e promuovere un processo decisionale più inclusivo e bilanciato.

La situazione attuale in Europa sulla parità di genere dei CdA

Secondo i dati del 2024, la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in Europa si attesta al 34% in media. Tuttavia, esistono significative differenze tra gli Stati membri:

  • nei paesi con quote di genere vincolanti, la rappresentanza femminile è pari al 39,6%.
  • nei paesi con misure non vincolanti, la percentuale scende al 33,8%;
  • nei paesi senza misure specifiche, le donne occupano appena il 17% dei posti nei consigli di amministrazione.

Questi dati dimostrano l’efficacia delle normative vincolanti nel migliorare la parità di genere.

Criteri di selezione trasparenti

Le società quotate che non raggiungono gli obiettivi fissati dovranno adeguare le proprie procedure di selezione e nomina. I nuovi processi dovranno essere basati su:

  • criteri chiari, neutrali e trasparenti.
  • valutazioni comparative dei candidati, focalizzandosi sulle loro qualifiche e sul merito.
  • preferenza per il candidato del sesso sottorappresentato in caso di pari qualifiche, salvo obiettive ragioni contrarie.

Queste disposizioni mirano a garantire che le nomine nei consigli di amministrazione siano eque e inclusive.

Benefici della parità di genere

L’UE riconosce che un maggiore equilibrio di genere nei consigli di amministrazione contribuisce a rafforzare la crescita economica, migliorare la competitività delle imprese e affrontare le sfide demografiche.

Inoltre, una maggiore partecipazione femminile ai processi decisionali in ambito economico può generare effetti positivi sull’occupazione femminile e sull’intera economia.

Obblighi degli Stati membri

Gli Stati membri dovevano recepire la direttiva entro il 28 dicembre 2024. Le norme prevedono:

  • misure vincolanti per garantire una selezione trasparente e neutrale dal punto di vista del genere;
  • obblighi di comunicazione per le società quotate, che dovranno fornire informazioni annuali sulla rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione;
  • sanzioni proporzionate per le società non conformi, incluse ammende e possibili annullamenti delle nomine irregolari.

Gli Stati membri dovranno inoltre pubblicare un elenco delle società che raggiungono gli obiettivi della direttiva e designare organismi per monitorare e promuovere l’equilibrio di genere.

Progressi e sfide sulla parità di genere

Dal 2010, la presenza femminile nei consigli di amministrazione è migliorata, ma i progressi restano disomogenei. Nei paesi con misure vincolanti, i risultati sono decisamente più evidenti. L’indice 2024 dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere assegna un punteggio di 57,6 su 100 per l’emancipazione femminile nei processi decisionali economici, con un incremento di 2,9 punti rispetto all’anno precedente.

La Commissione Europea monitorerà l’attuazione della direttiva da parte degli Stati membri. Saranno inoltre avviate procedure di infrazione per coloro che non recepiranno correttamente le disposizioni. La Commissione supporterà gli Stati membri con seminari e consulenze bilaterali per garantire un recepimento efficace.

La direttiva UE sull’equilibrio di genere rappresenta un passo importante verso la parità di genere nelle società quotate. Grazie a obiettivi chiari e a criteri di selezione trasparenti, l’UE punta a superare le attuali disparità, promuovendo una governance aziendale più inclusiva. Tuttavia, il successo dipenderà dall’impegno degli Stati membri e delle società nel rispettare e attuare le nuove disposizioni.

 

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Allegati

danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance: basta la revisione della decisione  Danno da perdita di chance: per il risarcimento non basta la lesione di una mera aspettativa, per riparare basta la revisione della decisione

Risarcimento danno da perdita di chance

Il risarcimento del danno da perdita di chance è il focus della sentenza del Consiglio di Stato n. 10324/2024, che affronta così un tema cruciale per il diritto amministrativo. Dalla decisione emerge chiaramente che questo tipo di risarcimento non si limita a una compensazione economica. Esso può anche consistere nella revisione della decisione amministrativa contestata. Analizziamo i punti chiave della pronuncia.

Procedura selettiva annullata: danno da perdita di chance

Un candidato aveva partecipato a una procedura selettiva per incarichi dirigenziali bandita dal Ministero dell’Istruzione. Non risultando vincitore, aveva contestato la valutazione dei punteggi, ritenendoli irragionevoli. Dopo un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il Consiglio di Stato aveva annullato gli atti della procedura per manifesta illogicità nei criteri di valutazione.

Il candidato, ritenendo di aver perso l’opportunità di vincere, aveva richiesto al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio il risarcimento del danno patrimoniale, curriculare e non patrimoniale. Il TAR aveva respinto la domanda, decisione confermata successivamente dal Consiglio di Stato.

Il risarcimento non è automatico

Il Consiglio di Stato ha chiarito  infatti che il risarcimento del danno non segue automaticamente all’annullamento di un provvedimento amministrativo. Per ottenere il risarcimento, è necessario dimostrare:

  • la condotta illegittima dell’amministrazione;
  • il nesso causale tra la condotta e il danno;
  • la perdita concreta e ingiusta subita dal ricorrente.

L’onere della prova spetta al ricorrente, il quale deve fornire elementi certi o almeno altamente probabili per dimostrare il danno subito.

Perdita di chance: bene giuridico autonomo

La perdita di chance si deve tradurre in una possibilità concreta di conseguire un risultato favorevole, non un danno ipotetico o remoto. La giurisprudenza distingue la perdita di chance da una semplice aspettativa, richiedendo una probabilità vicina alla certezza del risultato perduto.

In questo caso, il Consiglio di Stato ha rilevato che il ricorrente non aveva dimostrato che, con una valutazione diversa dei punteggi, avrebbe certamente o probabilmente ottenuto l’incarico. La procedura coinvolgeva 97 candidati, di cui 74 ammessi alla fase finale. La possibilità del ricorrente di vincere, anche con una diversa valutazione dei titoli, è risultata priva di una base probatoria sufficiente.

La perdita di chance non richiede una probabilità matematica superiore al 50%, come suggerito da alcune sentenze. Tuttavia, la mera possibilità statistica, senza una base concreta, non è sufficiente per ottenere il risarcimento. In altre parole, la chance deve essere valutata in termini di un valore economico reale, non di un’aspettativa generica. Questo approccio evita di equiparare la chance alla certezza del risultato.

La revisione della decisione può bastare

L’aspetto interessante della sentenza da sottolineare però è il richiamo alla possibilità che il risarcimento consista nella revisione della decisione amministrativa. In alcuni casi, pertanto, l’annullamento degli atti impugnati e la corretta valutazione del candidato possono costituire una forma di riparazione sufficiente, rendendo superflua una compensazione economica. Tuttavia, ciò presuppone che il ricorrente dimostri un legame causale tra l’errore dell’amministrazione e la perdita subita.

 

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pintopaga

PintoPaga: due anni per azzerare l’arretrato PintoPaga: la manovra 2025 interviene sulla legge Pinto per azzerare in due anni l’arretrato nel pagamento degli indennizzi

Legge di Bilancio 2025 e il progetto “PintoPaga”

Avviato il progetto “PintoPaga”. La Legge di Bilancio 2025 (n. 207/2024) ha introdotto una riforma incisiva per accelerare i pagamenti previsti dalla Legge Pinto. L’obiettivo consiste nel ridurre l’arretrato in due anni e migliorare l’efficienza della gestione amministrativa, garantendo risparmi significativi per la finanza pubblica. Con la Legge di Bilancio 2025, il sistema di equa riparazione fa un passo avanti verso una maggiore efficienza e trasparenza. L’implementazione di risorse, tecnologia e regole rigorose consentirà di affrontare le criticità del passato e garantire un servizio migliore ai cittadini.

Digitalizzazione obbligatoria delle istanze

Le nuove norme impongono ai creditori di presentare richieste e documentazione esclusivamente in formato digitale. I modelli, disponibili sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, permetteranno una gestione più rapida e trasparente. I creditori dovranno inviare una dichiarazione sostitutiva entro un anno dalla pubblicazione del decreto che accoglie la domanda. Ritardi nella presentazione sospenderanno il calcolo degli interessi fino alla regolarizzazione.

Le dichiarazioni, in virtù della riforma, saranno valide per due anni. Tuttavia, l’amministrazione potrà richiederne il rinnovo, sempre in formato telematico. Eventuali trasmissioni incomplete sospenderanno gli interessi fino alla correzione dei dati.

Pagamenti semplificati e nuovi strumenti

I pagamenti avverranno solo tramite accredito su conto corrente. Non si potrà più procedere ai pagamenti in contanti o per mezzo di vaglia cambiari. I creditori potranno inoltre delegare un rappresentante legale con procura speciale per ricevere le somme dovute. Questa misura aumenta la sicurezza e riduce eventuali errori nella liquidazione.

Commissari ad acta per velocizzare le pratiche

Verranno nominati poi commissari ad acta, selezionati anche tra i funzionari pubblici, che svolgeranno l’incarico su base volontaria e fuori dall’orario di lavoro. Per loro è previsto un compenso massimo di 150 euro lordi per ogni incarico.

Per azzerare l’arretrato in due anni nuovo personale

Il progetto “PintoPaga”, lanciato dal Ministero della Giustizia per dare attuazione alle novità della legge di bilancio, si basa sulle risorse stanziate dalla Legge di Bilancio e sulla convenzione con Formez PA, società pubblica legata alla Presidenza del Consiglio. L’accordo prevede l’assunzione di nuovi dipendenti a tempo determinato, che affiancheranno quelli già operativi presso l’Ufficio I della Direzione Generale Affari Giuridici e Legali. Le nuove risorse umane saranno operative entro gennaio 2025 e gestiranno le pratiche relative ai decreti emessi tra il 2015 e il 2022. L’implementazione di personale e di strumenti tecnologici persegue la finalità di migliorare la gestione delle pratiche e di ridurre i tempi di lavorazione.

Risparmi stimati e obiettivi del progetto “PintoPaga”

Il costo complessivo della convenzione con Formez PA è stimato in 5 milioni di euro, ma il progetto punta a risparmiare fino a 60 milioni di euro, importo derivante dalla riduzione degli interessi di mora e delle spese legali legate ai ritardi nei pagamenti.

 

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giurista risponde

Differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela È consentito il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esaminare gli atti del procedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2024, n. 6636).

Preliminarmente è opportuno ricordare che il differimento del termine iniziale per l’esercizio del potere di autotutela, ai sensi dell’art. 21nonies della L. 241/1990, deve essere determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado. Viceversa, nel caso in cui l’amministrazione sia nelle condizioni di conoscere lo stato dei luoghi e la conformità documentale, l’inerzia nell’esaminare gli atti, come nella DIA, si rivela del tutto ingiustificata.

Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è, dunque, consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non potendo la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa. Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha riscontrato l’esercizio del potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività e pertanto tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla disciplina dell’autotutela e rispetto alla posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della DIA annullata.

(*Contributo in tema di “Differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

codice appalti

Codice appalti: il correttivo 2024 Codice appalti: il correttivo 2024 in vigore dal 31 dicembre 2024 interviene su equo compenso e revisione dei prezzi

Codice appalti: in vigore il correttivo 2024

Il Consiglio dei Ministri nella giornata del 23 dicembre 2024 ha approvato in via definitiva il correttivo 2024 del Codice degli appalti. Il testo, recante disposizioni integrative e correttive al Codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, era stato approvato in via preliminare il 21 ottobre 2024, e tiene conto dei pareri di Consiglio di Stato, Conferenza unificata e competenti Commissioni parlamentari.

Il provvedimento, decreto legislativo n. 209/2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore il 31 dicembre 2024. 

Le modifiche del correttivo al Codice appalti

Le modifiche riguardano moltissime disposizioni del Codice. Ce ne sono alcune però di maggiore interesse e importanza, che meritano di essere segnalate perché perseguono gli obiettivi di semplificazione e di razionalizzazione segnalati dagli stakeholder e in sede europea.

Fasi dell’affidamento

Il nuovo comma 3 bis dell’articolo 17, dedicato alle fasi delle procedure di affidamento prevede che l’allegato 1.3 indichi il termine massimo intercorrente tra l’approvazione del progetto  la pubblicazione del bando o l’invito a offrire.

Fascicolo virtuale

Le modifiche in materia di digitalizzazione sono finalizzate anche a favorire e snellire la formazione del fascicolo virtuale dell’operatore economico disciplinato dall’art. 24 del dlgs n. 36/2023.

Regole tecniche: cambia l’art. 26

L’AGID di intesa con l’ANAC stabiliscono le “modalità di certificazione dei requisiti tecnici delle piattaforme di approvvigionamento digitale”. Con lo stesso provvedimento vengono individuati anche i requisiti e i titoli necessari alle piattaforme per dimostrare l’adeguatezza dei sistemi di gestione e della sicurezza delle informazioni.

Equo compenso: nuovi meccanismi di garanzia

Si vuole garantire il rispetto dell’equo compenso nei contratti pubblici attraverso due meccanismi:

  • garantire l’80% del corrispettivo nei casi di affidamento diretto;
  • meccanismi di calmierazione del peso dei ribassi per l’equo compenso in presenza di procedure di gara, che possono essere calcolati nella misura del 35% del corrispettivo. Il risultato che si ottiene è simile a quello degli affidamenti diretti.

Gestione informativa digitale delle costruzioni

Il nuovo comma 1 dell’art. 43 stabilisce che dal 1° gennaio 2025 le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottino metodi e strumenti di gestione informativa digitale delle costruzioni per la progettazione e la realizzazione di opere nuove e su costruzioni esistenti con stima parametrica del valore del progetto di importo superiore a 2 milioni di euro e non più per importo a base di gara superiore a 1 milione di euro.

Codice appalti: le tutele per il lavoro

Nel bando di gara è prevista l’applicazione di un unico CCNL. Nuove linee guida per permettere alle stazioni appaltanti di individuare il CCNL applicabile e per calcolare l’equipollenza delle tutele nell’ipotesi in cui si dovesse applicare un contratto diverso.

Codice Appalti: regole nuove per la revisione dei prezzi

Il nuovo articolo 60 al comma 1 dispone che nei documenti di gara delle procedure di affidamento sia obbligatorio indicare le clausole di revisione dei prezzi riferite alle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto.

Queste clausole non alterano la natura del contratto o dell’accordo quadro. Essi si attivano in aumento o diminuzione del 5% dell’importo complessivo “del contratto e si applicano nella misura dell’80% del valore eccedente la variazione del 5% applicata alle  prestazioni da eseguire.”

Stazioni appaltanti: sistema di qualificazione

Si prevede l’avvio del sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti. Ai sensi del nuovo comma 6 dell’art. 63 le stazioni appaltanti e le centrali di committente possono essere qualificate anche per le sole fasi di progettazione, affidamento lavori o affidamento di servizi e forniture. I requisiti di qualificazione per l’esecuzione sono indicati nel separato allegato II.4.

Collegio consultivo tecnico per prevenire le controversie

Il collegio consultivo tecnico avrà la funzione di prevenire le controversie. Previsti nuovi limiti per costi e facoltà di ricorso ai lodi contrattuali.

 

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spese sanità

Spese sanità: prima vanno sacrificate le altre spese Prima di sacrificare le spese per la sanità, afferma la Consulta vanno prioritariamente ridotte le altre spese indistinte

Spese sanità: l’intervento della Consulta

Spese sanità: prima di sacrificarle devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte. In un contesto di risorse scarse, «per fare fronte a esigenze di contenimento della spesa pubblica dettate anche da vincoli euro unitari, devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte, rispetto a quella che si connota come funzionale a garantire il “fondamentale” diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che chiama in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket». È quanto si legge nella sentenza n. 195/2024, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso della Regione Campania avverso l’art. 1, commi 527 e 557, della legge 30 dicembre 2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026).

Spese sanità: le questioni

La Corte ha dichiarato non fondate diverse questioni, che riguardavano la legittimità della misura, le modalità e la durata del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica, stabilite dalla legge di bilancio 2024 nelle more della nuova governance economica europea, che, peraltro, mostrano la volontà del legislatore statale di non far gravare il suddetto contributo sulle spese relative alla missione 12, Diritti sociali, politiche sociali e famiglia, e alla missione 13, Tutela della salute.

La sentenza ha però sollecitato il legislatore, al fine di «scongiurare l’adozione di “tagli al buio”», ad «acquisire adeguati elementi istruttori sulla sostenibilità dell’importo del contributo da parte degli enti ai quali viene richiesto» e a non trascurare, per garantire maggiore effettività al principio di leale collaborazione, il coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, di cui l’art. 5 della legge 5 maggio 2009, n. 42.

Illegittimità costituzionale art. 1, co. 527, legge bilancio 2024

La sentenza ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 527, quinto periodo, della legge di bilancio per il 2024, ma solo nella parte in cui non esclude dalle risorse che è possibile ridurre, a seguito del mancato versamento del contributo dovuto da parte delle regioni, quelle spettanti per il finanziamento dei diritti sociali, delle politiche sociali e della famiglia e, in particolare, della tutela della salute.

Ciò in quanto, «nemmeno nel caso in cui la regione non abbia versato la propria quota del contributo alla finanza pubblica, lo Stato può “rispondere” tagliando risorse destinate alla spesa costituzionalmente necessaria, tra cui quella sanitaria – già, peraltro, in grave sofferenza per l’effetto, come si è visto, delle precedenti stagioni di arditi tagli lineari – dovendo quindi agire su altri versanti che non rivestono il medesimo carattere»: il diritto alla salute, infatti, «coinvolgendo primarie esigenze della persona umana», non può essere sacrificato «fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità».

Illegittimità costituzionale art. 1 comma 557 l. 213/2023

Da ultimo, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 557 dell’art. 1 della legge n. 213 del 2023, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, diretto a individuare i criteri e le modalità di riparto, nonché il sistema di monitoraggio dell’impiego delle somme, del «Fondo per i test di Next-Generation Sequencing per la diagnosi delle malattie rare», sia adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

perenzione

Perenzione: la guida Perenzione: istituto che determina l’estinzione del processo amministrativo se le parti restano inattive per un periodo determinato

Perenzione nel processo amministrativo

La perenzione è un istituto giuridico che regola la scadenza di certi termini processuali. Essa determina infatti la cessazione automatica di un’azione legale se la stessa non viene svolta entro il periodo previsto dalla legge. Questo concetto ha un’importanza fondamentale per garantire l’efficienza e la certezza dei processi amministrativi. In Italia, la perenzione è disciplinata dal DLgs n. 104/2010, noto come Codice del Processo Amministrativo, che ha introdotto diverse norme in materia di scadenze processuali e decadenze dei ricorsi.

In questo articolo, esamineremo gli articoli 81-85 del DLgs n. 104/2010, che regolano la perenzione nel processo amministrativo, approfondendo la sua applicazione pratica e le principali pronunce giuridiche che hanno contribuito a chiarire l’ambito di operatività di questo istituto.

Cos’è la perenzione?

La perenzione si verifica quando un’azione legale, che non venga portata avanti nel tempo previsto dalla legge, perde efficacia, determinando la decadenza del ricorso.

Nel contesto del processo amministrativo, la perenzione si applica principalmente ai ricorsi giurisdizionali amministrativi, che, se non attivati o non seguiti con le necessarie attività procedurali (come il deposito di documenti o l’avanzamento della causa), cadono in perenzione, estinguendosi automaticamente.

La perenzione ha quindi lo scopo di velocizzare i processi ed evitare l’accumulo di cause non attuali, ottimizzando il lavoro dei tribunali amministrativi e delle autorità competenti.

Codice del processo amministrativo: artt. 81-85

Come anticipato, la perenzione trova la sua disciplina negli articoli 81, 82. 83, 84 e 85 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha disposto il riordino del processo amministrativo. Analizziamo singolarmente queste norme.

Articolo 81 – Perenzione: un ricorso è considerato perento se non viene compiuto alcun atto di procedura per un anno. Il termine di un anno non decorre dal momento della presentazione di un’istanza per la fissazione dell’udienza, fino a quando non vi sia una decisione su di essa, salvo eccezioni.

Articolo 82 – Perenzione dei ricorsi ultraquinquennali: se un ricorso rimane pendente per più di cinque anni dalla sua presentazione, la segreteria notifica alle parti l’obbligo per il ricorrente di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza entro 120 giorni. Tale istanza deve essere firmata dal ricorrente e dal suo avvocato. In mancanza di questa istanza, il ricorso è dichiarato perento. Se invece viene comunicata la fissazione dell’udienza senza la notifica precedente, il ricorso può essere deciso solo se il ricorrente dichiara interesse alla decisione, altrimenti è dichiarato perento con decreto.

Articolo 83 – Effetti della perenzione: La perenzione si applica automaticamente (di diritto) e può essere rilevata anche d’ufficio. Ogni parte sopporta le proprie spese processuali.

Articolo 84 – Rinuncia: Una parte può rinunciare al ricorso in qualsiasi fase del processo attraverso: 1. una dichiarazione scritta firmata dalla parte stessa o dall’avvocato con mandato speciale, da depositare presso la segreteria; 2. una dichiarazione resa in udienza e registrata nel verbale. Il rinunciante deve sostenere le spese degli atti compiuti, salvo diversa decisione del collegio. La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno 10 giorni prima dell’udienza. Se non vi è opposizione, il processo si estingue. Il giudice può comunque dedurre la perdita di interesse alla causa da fatti o comportamenti delle parti.

Articolo 85 – Procedura per lestinzione e limprocedibilità: l’estinzione e l’improcedibilità possono essere dichiarate con un decreto del presidente o di un magistrato delegato. Il decreto è comunicato alle parti dalla segreteria. Le parti hanno 60 giorni dalla comunicazione per opporsi al collegio mediante atto notificato a tutte le altre parti. Il giudizio di opposizione è deciso con un’ordinanza che, se accoglie l’opposizione, fissa una nuova udienza. In caso di rigetto, le spese sono a carico dell’opponente senza possibilità di compensazione. L’ordinanza è comunicata alle parti e può essere impugnata in appello. Se l’estinzione o l’improcedibilità si verificano durante l’udienza di discussione, vengono dichiarate con sentenza.

Giurisprudenza sulla perenzione

La giurisprudenza ha avuto un ruolo cruciale nell’interpretare e applicare i principi della perenzione, cercando di chiarire i contorni di questa disciplina e di bilanciare le esigenze di celerità dei processi con la tutela dei diritti degli utenti del processo amministrativo.

Consiglio di Stato sentenza n. 4318/2017

Nel processo amministrativo, il termine di perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo) non decorre se la mancata fissazione dell’udienza da parte della Segreteria dipende da un’omissione di quest’ultima. In tali circostanze, l’inerzia del procedimento non può essere attribuita alle parti, che non hanno la possibilità di intervenire in un’attività procedurale demandata esclusivamente all’ufficio. Le parti hanno quindi il diritto di fare affidamento sull’obbligo della Segreteria di fissare l’udienza d’ufficio.

Consiglio di  Stato sentenza n. 3017/2018

La perenzione nel processo amministrativo ha una duplice natura: privatistica, perché presuppone una tacita rinuncia delle parti alla prosecuzione del giudizio; pubblicistica, in quanto mira a soddisfare l’interesse pubblico a una rapida definizione delle controversie relative all’esercizio del potere amministrativo. Questo istituto risponde quindi all’esigenza di garantire la chiusura delle situazioni giuridiche coinvolgenti la Pubblica Amministrazione entro un termine ragionevole. 

Consiglio di Stato sentenza n. 3426/2019

Nel giudizio amministrativo, il giudice può rilevare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa anche in assenza delle formalità previste dall’art. 84 del D.Lgs. n. 104/2010. Tale valutazione può basarsi su fatti o atti univoci intervenuti successivamente alla proposizione del ricorso, nonché sul comportamento delle parti, che possono fornire elementi utili a dimostrare la perdita di interesse alla prosecuzione del giudizio.

Effetti della perenzione

La perenzione ha effetti rilevanti sul processo amministrativo. Quando si applica la perenzione, il ricorso diventa inefficace, e il procedimento legale si estingue senza che sia necessaria una pronuncia di merito. Ciò significa che il ricorrente perde la possibilità di far valere i propri diritti in quel determinato processo, e il ricorso non potrà più essere ripreso nemmeno su richiesta della parte. I termini di perenzione sono dunque strumenti utilizzati per accelerare i procedimenti amministrativi e per evitare l’accumulo di ricorsi inerti. Tuttavia, la legge consente alcune deroghe, soprattutto nei casi in cui vi siano impedimenti giustificati che impediscono al ricorrente di proseguire l’azione.

 

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Festival di Sanremo: addio alla Rai? Festival di Sanremo: dal 2026 gara pubblica, l’affidamento alla RAI è illegittimo, non rispetta le norme sui contratti pubblici

Festival di Sanremo: affidamento illegittimo alla RAI

Illegittimo l’affidamento diretto del Festival di Sanremo alla RAI da parte del Comune di Sanremo.  Dal 2026, l’organizzazione del Festival dovrà passare attraverso una gara pubblica. La decisione, contenuta nella sentenza del TAR Liguria n. 843/2024, nasce dal ricorso presentato dai discografici italiani, rappresentati dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani.

Festival della canzone italiana: concessione marchio

Nel 2023, il presidente dell’Associazione Fonografici Italiani la sua etichetta discografica  contestano la concessione diretta del Marchio “Festival della Canzone Italiana” alla RAI, senza una procedura di evidenza pubblica.

La convenzione, infatti, garantiva alla RAI l’uso esclusivo del marchio e l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025. Il Comune avrebbe dovuto invece rispettare le norme europee e nazionali sui contratti pubblici, aprendo il bando a operatori del settore.

Festival di Sanremo:  la convenzione tra Comune e RAI

La convenzione per il Festival di Sanremo prevede che la RAI organizzi l’evento a sue spese, presentando un progetto-programma al Comune per l’approvazione. In cambio, ottiene i diritti di sfruttamento economico del marchio e del Festival. Il Comune fornisce supporto logistico e floreale e riceve un corrispettivo, oltre a una percentuale sui ricavi generati dalla RAI.

Il TAR ha evidenziato che questa convenzione è un “contratto attivo”, poiché la RAI trae un’opportunità di guadagno. Pertanto, la concessione dovrebbe seguire i principi di trasparenza, concorrenza e imparzialità, previsti dalla normativa vigente.

Marchio e format: entità distinte

Un punto centrale della sentenza riguarda la distinzione tra il marchio e il format. Il TAR ha stabilito che il marchio “Festival della Canzone Italiana” non è inscindibilmente legato al format ideato dalla RAI. Dal 1951 al 1991, infatti, il Comune ha gestito il Festival autonomamente. La RAI si è infatti limitata trasmettere la manifestazione canora in televisione.

Negli ultimi anni poi, il format del Festival è stato modificato più volte, dimostrando l’assenza di un legame indissolubile tra marchio e organizzazione. Nel 2021, ad esempio, il Festival si è svolto senza pubblico per via della pandemia e in altre edizioni sono stati introdotti cambiamenti significativi nelle modalità di gara e conduzione.

Le difese della RAI e del Comune di Sanremo

La RAI ha sostenuto di essere titolare esclusiva del diritto d’autore sul format e di aver investito interamente nella sua creazione. Il TAR però ha respinto questa tesi, affermando che il contratto con il Comune riguarda lo sfruttamento del marchio, non del format.

Il Comune, dal canto suo, ha difeso la convenzione come immodificabile, sottolineando la necessità di un legame tra organizzazione e trasmissione televisiva. Questa posizione non ha convinto i giudici, che hanno ritenuto possibile separare i due ruoli, come avveniva prima del 1991.

Festival di Sanremo: negata la qualifica di bene culturale

Il Tar ha escluso che il Festival, il marchio o il format possano essere qualificati come beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali. Si tratta di diritti immateriali e di una manifestazione circoscritta nel tempo e nello spazio, non assimilabile a espressioni di identità culturale collettiva.

Conseguenze sul Festival di Sanremo

Le edizioni 2024 e 2025 rimangono salve, poiché l’organizzazione è già in fase avanzata. Tuttavia, dal 2026, il Comune dovrà aprire una gara pubblica per assegnare la gestione del Festival. La RAI, quindi, potrebbe non essere più l’organizzatrice principale dell’evento. La sentenza segna un cambiamento epocale per il Festival di Sanremo. Dal 2026, nuovi operatori potranno concorrere per gestire l’evento, garantendo maggiore trasparenza e concorrenza. La competizione potrebbe portare a innovazioni significative nel panorama musicale e mediatico italiano.

 

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