edilizia pubblica residenza

Edilizia pubblica: vietato subordinarne l’accesso alla residenza prolungata Per la Corte Costituzionale il requisito della prolungata residenza impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all'abitazione

Edilizia residenziale pubblica e residenza

È incostituzionale negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente nel territorio della Regione da almeno cinque anni, pur se calcolati nell’arco degli ultimi dieci e maturati eventualmente anche in forma non continuativa.  Il requisito della prolungata residenza, infatti, impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all’abitazione, funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta
ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana». Questo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 67/2024 che ha ritenuto contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, previsti dall’art. 3 della Costituzione, l’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39.

Requisito della residenza prolungata

La Consulta ha precisato che il requisito della residenza prolungata nella Regione non presenta alcuna ragionevole correlazione con il soddisfacimento dell’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di
bisogno. Anzi, tale criterio contrasta con la circostanza per cui «proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro».
Del resto, secondo il giudice delle leggi, “la permanenza per almeno cinque anni nella regione, accertata nell’arco di un decennio, non induce a ritenere che vi sarà un futuro radicamento nel territorio, né serve a valorizzare il tempo dell’attesa nell’accesso al beneficio, esigenza che si può semmai riflettere nell’anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione”.
Ravvisata, pertanto, l’adozione di un “criterio irragionevole che si traduce nella violazione del principio di eguaglianza formale fra chi può e chi non può vantare una condizione – quella della prolungata residenza nel
territorio regionale – del tutto dissociata dal suo stato di bisogno”.
Secondo la Corte, il requisito contrasta anche con il “principio di eguaglianza sostanziale, perché tradisce la naturale «destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all’abitazione della proprietà pubblica
degli immobili» dell’edilizia residenziale pubblica”.

Allegati

osservatorio sinteticità atti giudiziari

Atti giudiziari sintetici: al via l’Osservatorio Il ministero della Giustizia ha costituito un Osservatorio permanente per il monitoraggio sulla chiarezza e sinteticità degli atti giudiziari

Osservatorio sinteticità atti giudiziari

Con la firma del decreto del 29 marzo 2024 da parte del ministro della giustizia, Carlo Nordio, è nato l’Osservatorio sulla chiarezza e sinteticità degli atti.

L’istituzione dell’organismo, si legge nella nota ufficiale, era stata inserita nel dm del 7 agosto 2023 relativo al regolamento sui criteri di redazione, limiti e schemi informatici degli atti giudiziari: all’art. 10 è prevista la costituzione di un “osservatorio permanente sulla funzionalità dei criteri redazionali e dei limiti dimensionali stabiliti dal presente decreto al rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo. L’osservatorio ha anche il compito di raccogliere elementi di valutazione ai fini dell’aggiornamento del presente decreto con cadenza almeno biennale”.

I compiti dell’Osservatorio

L’Osservatorio, costituito presso l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, avrà il compito di raccogliere e verificare i dati forniti da ciascun distretto di Corte d’Appello e suddivisi per tipologia di ufficio giudiziario, avvalendosi della collaborazione della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa e della Direzione generale per i servizi informativi automatizzati.

A far parte dell’Osservatorio, presieduto dal Capo Ufficio Legislativo, Antonio Mura, anche esperti della linguistica giudiziaria e avvocati indicati dal consiglio nazionale forense, insieme a magistrati.

daspo urbano

Daspo urbano: legittimo il divieto di accesso a determinate aree La Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le qlc sul divieto di accesso a determinate aree se sussiste il concreto pericolo di commissione di reati

Daspo urbano esteso

La Consulta, con la sentenza n. 47-2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di Firenze, sul divieto di accesso ad aree delle infrastrutture dei servizi di trasporto e ad altre aree urbane specificamente individuate dai regolamenti comunali che, in base al cosiddetto decreto Minniti del 2017, il questore può disporre nei confronti di chi, nelle stesse aree, abbia reiteratamente commesso le violazioni di cui all’art. 9, commi 1 e 2 (impedimento della loro
accessibilità e fruibilità in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi e altri illeciti specificamente indicati).

Sicurezza urbana

La Corte ha ritenuto che la norma censurata (l’art.10, comma 2, del dl n. 14 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n. 48 del 2017) debba essere interpretata in senso diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo e tale da escludere il prospettato contrasto con gli artt. 3, 16 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU).
In particolare va escluso, secondo la Consulta, che la norma in questione, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, faccia riferimento alla «sicurezza urbana» quale definita dall’art. 4 del decreto Minniti: concetto più ampio di quello contemplato dall’art. 16 Cost. quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione, in quanto comprensivo anche del mero «decoro urbano». Il termine «sicurezza» deve essere inteso invece nel senso – coerente con la natura di misura di
prevenzione atipica dell’istituto e in linea, altresì, con il dettato costituzionale – di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose.

Divieto di accesso legittimo

Affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto occorre, ha specificato la Corte, che vi sia un concreto pericolo di commissione di reati: pericolo che, in base alla lettera della norma, deve essere rivelato «dalla condotta tenuta» dal destinatario. Ciò esclude anche l’asserita violazione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.), nonché quella della garanzia convenzionale della libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU), sotto il profilo della carenza di precisione della norma
nell’individuazione dei presupposti della misura: carenza non riscontrabile neanche in rapporto alla descrizione delle condotte alla cui reiterazione quest’ultima è annessa.

Condotte illecite Daspo

La Corte ha dichiarato, altresì, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto Minniti, sollevata dal Tribunale di Firenze in riferimento all’art. 3 Cost. con riguardo all’individuazione delle condotte illecite, sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con il DASPO urbano chi, violando divieti di stazionamento e occupazioni di spazi, impedisca l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotta normalmente priva di rilievo penale – e non invece
chi, nelle stesse aree, tenga condotte penalmente rilevanti e ben più pericolose per la sicurezza (minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche, ecc.).
Per il giudice delle leggi, “si è di fronte a una scelta espressiva dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia e non manifestamente irragionevole. La selezione delle condotte cui può conseguire la misura riflette l’intento legislativo di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza, contribuiscono maggiormente a creare un clima di insicurezza nelle aree considerate e che implicano una prolungata e indebita occupazione di spazi nevralgici per la mobilità o comunque interessati da rilevanti flussi di persone”.

Peraltro, il legislatore non ha mancato di prendere in considerazione condotte di diverso ordine e di rilievo penale (comprese quelle richiamate dal giudice a quo) ai fini dell’applicazione di altre figure di
DASPO urbano, quali quelle previste dagli artt. 13 e 13-bis del decreto Minniti.

Allegati

giurista risponde

Legittimazione impugnazione annullamento lottizzazione Il promissario acquirente di un terreno interessato da un piano di lottizzazione può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento di annullamento in autotutela del piano di lottizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso. – Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768.

Il Consiglio di Stato ha ribadito il principio per cui non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, circostanza che generalmente si verifica in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell’immobile.

Nel caso in cui sia mancata l’acquisizione del possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, infatti, non si è radicata alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto.

Al fine di chiarire in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente si richiama, inoltre, un passaggio di una precedente pronuncia in cui si afferma che: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere”.

Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, il promissario acquirente è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicare la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) e non l’esercizio di un potere.

In conclusione, la posizione di promissario acquirente è estranea alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare, potendosi, al più, in sede civile, far valere quelle vicende al solo scopo di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti contrattuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 14 ottobre 2019, n. 6961; Id., 12 aprile 2011, n. 2275
giurista risponde

Mancata impugnazione graduatoria finale La mancata impugnazione della graduatoria finale determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso il precedente atto immediatamente lesivo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

In tema di concorsi pubblici, è improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, il ricorso proposto contro un atto immediatamente lesivo (nella specie, l’elenco dei candidati ammessi alla prova orale), ove l’impugnazione non sia poi estesa alla graduatoria finale. – Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2022, n. 2119.

Il TAR ha ricordato che in tema di illegittimità derivata in seguito ad annullamento di un atto presupposto, occorre operare una distinzione fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto meramente viziante.

Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5188). Per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi: a) il primo, dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; b) il secondo, individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi; pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo (Consi. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168)”.

Con specifico riferimento alle procedure concorsuali, è stato – ulteriormente – affermato che: “l’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del giudizio, poiché l’eventuale accoglimento della domanda di annullamento dell’esclusione dalla prova orale non può incidere sulla citata graduatoria, una volta che questa sia divenuta inoppugnabile (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 12 novembre 2020, n. 6959; sez. V, 11 agosto 2010, n. 5618, e 10 maggio 2010, n. 2766)”.

In base alle comuni regole di diligenza, anche processuale, occorre quindi accertarsi della eventuale conclusione del concorso e dell’approvazione della relativa graduatoria.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 112;
Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168; Id., 13 novembre 2015, n. 5188
giurista risponde

Azione di ripetizione in sede di ottemperanza È esperibile l’azione di ripetizione in sede di ottemperanza di una sentenza di rigetto di annullamento di provvedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Sebbene dall’accertata legittimità del provvedimento discenda l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in tale sede, una modifica o estensione del comando giudiziale. – Cons. Stato, sez. II, 25 marzo 2022, n. 2219.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la riconosciuta legittimità del provvedimento di decadenza dagli incentivi corrisposti dal G.S.E. – Gestore dei Servizi Energetici S.p.A, ai sensi del D.M. 28 luglio 2005 (“Criteri per l’incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare”), pur giustificando l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, non consente di agire a tal fine con l’azione di ottemperanza.

Nel caso di specie, il G.S.E. aveva proposto ricorso avverso la decisione che aveva ritenuto inammissibile l’ottemperanza della sentenza con cui era stato respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento di decadenza dalle tariffe incentivanti.

Tale decisione viene confermata dal Consiglio di Stato in considerazione della circostanza che nella sentenza di cui si chiedeva l’ottemperanza non vi era stata alcuna statuizione sull’obbligo di restituzione degli incentivi corrisposti. Il dispositivo della sentenza, infatti, stabiliva la mera reiezione del ricorso per l’annullamento, in coerenza con la motivazione esaminata, alla luce del petitum e dei motivi di ricorso, sulla base della riconosciuta legittimità delle ragioni poste alla base del provvedimento.

Né nel dispositivo né nella motivazione il giudice ha esaminato il diverso, anche se connesso, profilo dell’obbligo di restituzione delle tariffe, profilo che, di conseguenza, è estraneo al contenuto precettivo e di mera reiezione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

I Giuridici ribadiscono, inoltre, che secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale, sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l’Amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente satisfattivi rispetto a quelle statuizioni. Viceversa, le pronunce di rigetto lasciano invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, rimanendo indifferente che la sentenza di rigetto sia stata pronunciata in primo grado ovvero in appello, con una sentenza di riforma della pronuncia di accoglimento emessa dal primo giudice.

Il principio giurisprudenziale sopra richiamato è stato quindi ritenuto applicabile anche al caso di specie in quanto la reiezione del ricorso di annullamento non ha mutato il quadro giuridico preesistente, contrassegnato dalla validità e dall’efficacia dei provvedimenti di decadenza.

Se è vero che dall’accertata legittimità del provvedimento discende, in capo al G.S.E., l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, si deve, tuttavia, osservare che ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in quella sede, una modifica o estensione del comando giudiziale.

La fonte costitutiva dell’obbligo per le società di restituire le somme ricevute non è la sentenza, ma il provvedimento di decadenza che, peraltro, non reca la determinazione del quantum da restituire, limitandosi a dichiarare la decadenza dal diritto e a rinviare ulteriori atti per le modalità di esecuzione.

Le richieste di restituzione con l’indicazione degli importi dovuti sono state comunicate solo successivamente, in parte prima e in parte dopo la pubblicazione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

Quanto sopra conferma che il credito (e il correlativo debito) restitutorio, pur trovando fondamento nel provvedimento impugnato, è rimasto estraneo al perimetro del giudizio di cognizione.

Non è stata, infine, ritenuta applicabile al caso di specie la giurisprudenza richiamata a sostegno della tesi dell’esperibilità dell’azione di ripetizione per la prima volta in sede di ottemperanza (segnatamente, la sentenza della V sezione del 20 marzo 2012, n. 1570).

Nel precedente richiamato, infatti, la ripetizione è stata disposta in sede di ottemperanza in quanto rinveniva il proprio fondamento nella sentenza da ottemperare che imponeva al Comune la presa d’atto della nullità degli atti negoziali compiuti e il ripristino dello stato della procedura nella fase antecedente la violazione con il recupero del pacchetto azionario ceduto.

L’esame per la prima volta in sede di ottemperanza del rapporto obbligatorio scaturente dal provvedimento oggetto del giudizio di cognizione non si giustifica nemmeno richiamando la struttura a formazione progressiva del giudicato amministrativo.

La formazione progressiva del giudicato rende possibile statuizioni di carattere integrativo, volte a delineare la portata dispositiva e conformativa della sentenza da eseguire (così Cons. Stato, Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11; Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7378), ma non consente di ampliare con la condanna della parte privata una pronuncia di mero accertamento della legittimità del provvedimento impugnato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2013, n. 2724;
26 marzo 2013, n. 1675; 8 febbraio 2013, n. 719
giurista risponde

Cessazione del contendere e carenza di interesse Qual è la differenza tra cessazione della materia del contendere e sopravvenuta carenza di interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La cessazione della materia del contendere definisce il giudizio nel merito e consegue alla integrale soddisfazione dell’interesse sostanziale, fatto valere in giudizio, da parte dell’Amministrazione con un provvedimento posto in essere spontaneamente.

La dichiarazione di improcedibilità della domanda per sopravvenuta carenza di interesse presuppone, invece, il verificarsi di una situazione di fatto o di diritto, del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della pronuncia del giudice. – Cons. Stato, sez. III, 28 marzo 2022, n. 2247.

I Giudici del Consiglio di Stato si sono soffermati sulla distinzione tra i due tipi di decisione che sottendono distinte valutazioni da parte del giudice.

Si afferma al riguardo che la pronuncia di cessazione della materia del contendere definisce il giudizio nel merito e consegue alla integrale soddisfazione dell’interesse sostanziale, fatto valere in giudizio, da parte dell’Amministrazione con un provvedimento posto in essere spontaneamente e non in esecuzione di un ordine giudiziale.

La cessazione della materia del contendere opera, infatti, quando si determina una successiva attività amministrativa integralmente satisfattiva dell’interesse azionato.

È, quindi, decisivo che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno ed irretrattabile il diritto o l’interesse legittimo esercitato, così da non residuare alcuna utilità alla pronuncia di merito.

Dalla dichiarazione di cessazione della materia del contendere, inoltre, deriva una condanna alle spese nei confronti dell’Amministrazione, in applicazione del principio della soccombenza virtuale.

Da quanto detto ne deriva che la decisione che dichiara la cessazione della materia del contendere nel giudizio amministrativo è caratterizzata dal contenuto di accertamento nel merito della pretesa avanzata e dalla piena soddisfazione eventualmente arrecata ad opera delle successive determinazioni assunte dalla Pubblica amministrazione; tale decisione non ha pertanto valenza meramente processuale, ma contiene l’accertamento relativo al rapporto amministrativo controverso e alla pretesa sostanziale vantata dall’interessato.

La dichiarazione di improcedibilità della domanda per sopravvenuta carenza di interesse presuppone, invece, il verificarsi di una situazione di fatto o di diritto, del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della pronuncia del giudice.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3767; Id., 20 novembre 2017, n. 5343; Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2016, n. 1332
giurista risponde

Art. 83 comma 8 Codice contratti e contrasto con direttiva 2014/24 L’art. 83, comma 8 del codice dei contratti pubblici nel prevedere che “la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria” è in contrasto con l’art. 63 della direttiva 2014/24?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 63 della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria. – Corte di giustizia UE, quarta sezione, 28 aprile 2022, causa C-642-20. 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, adita in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (Italia), con ordinanza del 14 ottobre 2020, ha chiarito che l’art. 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con gli artt. 49 e 56 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.

L’art. 63 di tale direttiva enuncia, al par. 1, che un operatore economico può, per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria nonché i criteri relativi alle capacità tecniche e professionali, e che, alle stesse condizioni, un raggruppamento di operatori economici può fare affidamento sulle capacità di partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. Esso precisa, peraltro, al suo par. 2, che, per taluni tipi di appalto, tra cui gli appalti di servizi, «le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente stesso o, nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici […], da un partecipante al raggruppamento».

Orbene, imponendo all’impresa mandataria del raggruppamento di operatori economici di eseguire le prestazioni «in misura maggioritaria» rispetto a tutti i membri del raggruppamento, vale a dire di eseguire la maggior parte dell’insieme delle prestazioni contemplate dall’appalto, l’art. 83, comma 8, del Codice dei contratti pubblici fissa una condizione più rigorosa di quella prevista dalla direttiva 2014/24, la quale si limita ad autorizzare l’amministrazione aggiudicatrice a prevedere, nel bando di gara, che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente da un partecipante al raggruppamento di operatori economici.

Secondo il regime istituito da tale direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici hanno la facoltà di esigere che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente dall’offerente stesso o, se l’offerta è presentata da un raggruppamento di operatori economici ai sensi dell’art. 19, par. 2, della direttiva 2014/24, da un partecipante a detto raggruppamento; per contro, secondo il diritto nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, il legislatore nazionale impone, in modo orizzontale, per tutti gli appalti pubblici in Italia, che il mandatario del raggruppamento di operatori economici esegua la maggior parte delle prestazioni.

È vero che l’art. 19, par. 2, comma 2, della direttiva 2014/24 prevede che gli Stati membri possano stabilire clausole standard che specifichino il modo in cui i raggruppamenti di operatori economici devono soddisfare le condizioni relative alla capacità economica e finanziaria o alle capacità tecniche e professionali di cui all’articolo 58 di tale direttiva.

Tuttavia, quand’anche la capacità di svolgere compiti essenziali rientrasse nella nozione di «capacità tecnica», ai sensi degli artt. 19 e 58 della direttiva 2014/24, ciò che consentirebbe al legislatore nazionale di includerla nelle clausole standard previste dall’art. 19, par. 2, della stessa, una norma come quella contenuta nell’art. 83, comma 8, terzo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che obbliga il mandatario del raggruppamento di operatori economici ad eseguire direttamente la maggior parte dei compiti, va al di là di quanto consentito da tale direttiva.

Infatti, una norma del genere non si limita a precisare il modo in cui un raggruppamento di operatori economici deve garantire di possedere le risorse umane e tecniche necessarie per eseguire l’appalto, ai sensi dell’art. 19, par. 2, di detta direttiva, in combinato disposto con l’articolo 58, paragrafo 4, della stessa, ma riguarda l’esecuzione stessa dell’appalto e richiede in proposito che essa sia svolta in misura maggioritaria dal mandatario del raggruppamento.

Infine, è vero che l’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 consente alle amministrazioni aggiudicatrici di esigere, per gli appalti di servizi, che «taluni compiti essenziali» siano svolti da un partecipante al raggruppamento di operatori economici.

Nondimeno, nonostante le lievi differenze sussistenti tra le versioni linguistiche della direttiva 2014/24, si evince manifestamente dai termini «taluni compiti essenziali», la volontà del legislatore dell’Unione, conformemente agli obiettivi di cui ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, consiste nel limitare ciò che può essere imposto a un singolo operatore di un raggruppamento, seguendo un approccio qualitativo e non meramente quantitativo, al fine di incoraggiare la partecipazione di raggruppamenti come le associazioni temporanee di piccole e medie imprese alle gare di appalto pubbliche.

Un requisito come quello enunciato all’art. 83, comma 8, terzo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che si estende alle «prestazioni in misura maggioritaria», contravviene a siffatto approccio, eccede i termini mirati impiegati all’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 e pregiudica così la finalità, perseguita dalla normativa dell’Unione in materia, di aprire gli appalti pubblici alla concorrenza più ampia possibile e di facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese.

Del resto, mentre l’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 si limita ad autorizzare le amministrazioni aggiudicatrici ad esigere, per gli appalti di servizi, che taluni compiti siano svolti dall’uno o dall’altro partecipante al raggruppamento di operatori economici, l’art. 83, comma 8, del Codice dei contratti pubblici impone l’obbligo di esecuzione delle prestazioni in misura maggioritaria al solo mandatario del raggruppamento, ad esclusione di tutte le altre imprese che vi partecipano, limitando così indebitamente il senso e la portata dei termini impiegati all’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24.

Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’art. 63 della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.

giurista risponde

Irretroattività regolamenti L’irretroattività va considerato un carattere assoluto dei regolamenti? Quali sono le conseguenze dell’annullamento di un atto regolamentare e dei provvedimenti attuativi dello stesso in punto di responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato da un regolamento, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento.

Ne deriva che l’imprenditore consapevole dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate. – Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 2022, n. 2915.

Ha chiarito la Sezione che l’irretroattività va considerata un predicato assoluto e irrinunciabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi.

Nel caso in cui, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi siano la risultante dell’avvenuto annullamento dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti, non si potrebbe ritenere che l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione. Tale tesi contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento.

Tali conseguenze, infatti, costituiscono piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento.

Ha chiarito la Sezione che in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”.

I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata all’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”).

Invero, la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo.

In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 21 e 19
giurista risponde

Ricorso per revocazione sentenze Consiglio di Stato confliggenti con CGUE Gli artt. 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consentono di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, sono compatibili con gli artt. 4, par. 3, 19, par. 1, del TUE e 2, par. 1 e 2, e 267 TFUE?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 4, par. 3, e l’art. 19, par. 1, TUE nonché l’art. 267 TFUE, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che non ostano a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro che, pur rispettando il principio di equivalenza, producono l’effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi del suddetto art. 267, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione dell’organo giurisdizionale nazionale sulla base del motivo che quest’ultimo avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda. – Corte Giust. UE, sez. IX, 7 luglio 2022, C-261/21, F. Hoffmann-La Roche Ltd e altri.

Con la citata sentenza la Corte di giustizia UE si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale effettuato da Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2021, n. 2327, al fine di chiarire se la normativa UE debba essere interpretata nel senso che osta a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro aventi per effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una determinata controversia nell’ambito della quale aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione sulla base del motivo che quest’ultima avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda.

Al riguardo si afferma, innanzitutto, che l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari ad assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva.

Spetta, tuttavia, all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale, stabilire le modalità processuali di tali rimedi giurisdizionali, nel rispetto del principio di equivalenza, che nel caso di specie non si ritiene violato.

Le disposizioni processuali dell’ordinamento italiano, infatti, limitano la possibilità per i singoli di chiedere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato secondo le medesime modalità, indipendentemente dal fatto che la domanda di revocazione trovi il proprio fondamento in disposizioni di diritto nazionale oppure in disposizioni del diritto dell’Unione.

La normativa processuale interna non è neppure ritenuta lesiva del principio di effettività, che non impone agli Stati membri di istituire mezzi di ricorso identici a quelli previsti dal diritto europeo, purché non sia reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dall’Unione.

Qualora siano invocate disposizioni di diritto dell’Unione dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, il quale emetta la propria decisione dopo aver ricevuto la risposta alle questioni che esso aveva sottoposto alla Corte in merito all’interpretazione di tali disposizioni, la condizione relativa all’esistenza, nello Stato membro interessato, di un rimedio giurisdizionale che consenta di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione è necessariamente soddisfatta.

Detto Stato può, di conseguenza, limitare la possibilità di chiedere la revocazione di una sentenza del suo organo giurisdizionale amministrativo di ultimo grado a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate, che non includano l’ipotesi in cui, ad avviso del singolo soccombente dinanzi a detto organo giurisdizionale, quest’ultimo non abbia tenuto conto dell’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta alla sua domanda di pronuncia pregiudiziale.

L’art. 19, par. 1, comma 2, TUE non obbliga, quindi, gli Stati membri a consentire ai singoli di chiedere la revocazione di una decisione giurisdizionale emessa in ultimo grado sulla base del motivo che quest’ultima violerebbe l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale che era stata formulata nel medesimo procedimento.

Tale conclusione non è contraddetta dall’art. 4, par. 3, TUE che non può essere interpretata nel senso di obbligare gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi giurisdizionali, obbligo che non è imposto loro dall’art. 19, par. 11, comma 2, TUE.

Detta conclusione non è contraddetta neanche dall’art. 267 TFUE, il quale impone al giudice del rinvio di dare piena efficacia all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte nella sentenza emessa in via pregiudiziale, ma spetta solo al giudice nazionale accertare e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale.

In conclusione si afferma che non spetta alla Corte esercitare, nell’ambito di un nuovo rinvio pregiudiziale, un controllo che sia destinato a garantire che tale giudice, dopo aver investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione applicabili alla controversia sottopostagli, abbia applicato tali disposizioni in modo conforme all’interpretazione di queste ultime fornita dalla Corte, ferma la possibilità per il giudice nazionale di rivolgersi nuovamente alla Corte di giustizia UE per ottenere ulteriori chiarimenti sull’interpretazione del diritto dell’unione fornita dalla Corte.

Si precisa, tuttavia, che i singoli, ove abbiano eventualmente subito un danno per effetto della violazione dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione causata da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado possono far valere la responsabilità di tale Stato membro purché siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza del nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito da tali soggetti.