metodo d'hondt

Metodo D’Hondt: cos’è, come funziona e quando si applica Come funziona il Metodo D’Hondt, il sistema proporzionale più usato per l’assegnazione dei seggi. Differenze con altri metodi e applicazioni

Cos’è il Metodo D’Hondt

Il Metodo D’Hondt è un sistema matematico utilizzato per l’assegnazione dei seggi in base al principio proporzionale, ideato alla fine del 1800 dal giurista belga Victor D’Hondt. Questo metodo mira a garantire una distribuzione dei seggi più equa tra le liste che partecipano a un’elezione, tenendo conto del numero complessivo dei voti ricevuti.

Come funziona il calcolo dei seggi

Il metodo prevede una procedura semplice ma rigorosa:

  1. si prende il numero totale di voti ottenuti da ogni lista;
  2. ogni numero di voti viene diviso per una serie crescente di numeri interi (1, 2, 3, …), fino a generare un numero sufficiente di quozienti;
  3. i seggi vengono assegnati ai quozienti più alti, fino a esaurimento dei posti disponibili.

Esempio pratico: se ci sono 3 seggi da assegnare e tre liste A, B e C con 1000, 800 e 400 voti, i seggi verranno attribuiti dividendo i voti e scegliendo i tre quozienti più alti. Questo processo tende a favorire le liste più votate, pur mantenendo un’impostazione proporzionale.

Dove viene utilizzato il Metodo D’Hondt

Il Metodo D’Hondt è adottato in numerosi sistemi elettorali, sia a livello nazionale che locale, tra cui:

  • parlamenti nazionali, come in Italia, Spagna, Portogallo, Belgio;
  • elezioni europee;
  • consigli comunali e metropolitani;
  • organismi rappresentativi di settore, come comitati tecnici, consigli universitari o comitati di gestione venatori.

Differenze rispetto ad altri metodi proporzionali

Il Metodo D’Hondt si distingue da altri sistemi di assegnazione proporzionale come:

  • Metodo Sainte-Laguë: anche questo metodo prevede l’assegnazione dei voti in modo proporzionale. Dopo la registrazione dei voti per ogni lista viene calcolato un quoziente, in base a una determinata formula matematica. La lista che ottiene il quoziente più alto ottiene un seggio, il quoziente viene quindi utilizzato nella formula fino all’assegnazione di tutti i seggi.
  • Metodo Hare-Niemeyer (quota semplice): calcola una quota fissa per ogni seggio e assegna i seggi in base al rapporto voti/quota, con un’eventuale assegnazione dei restanti per approssimazione.

Rispetto questi sistemi, il Metodo D’Hondt tende a garantire una maggiore governabilità, premiando lievemente le forze più votate e riducendo la frammentazione delle rappresentanze.

Un equilibrio tra rappresentanza e stabilità

Grazie alla sua semplicità e alla sua efficacia, il Metodo D’Hondt rappresenta uno dei sistemi proporzionali più diffusi al mondo, capace di bilanciare rappresentanza democratica e funzionalità istituzionale. La sua applicazione è spesso scelta nei contesti in cui è necessario mantenere una certa proporzione tra voti e seggi, senza però rinunciare alla stabilità degli organi rappresentativi.

 

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Caccia: è legittimo il metodo D’Hondt per i comitati di gestione La Consulta conferma la legittimità del metodo D’Hondt nella composizione dei comitati venatori. Nessuna violazione del principio di rappresentatività ambientale

La Consulta promuove il metodo D’Hondt

Con la sentenza n. 82/2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sull’articolo 3, comma 3, della legge regionale abruzzese n. 11/2023. La norma in esame introduce l’uso del sistema proporzionale con metodo D’Hondt per l’assegnazione dei seggi nei comitati di gestione della caccia.

Come funziona il metodo D’Hondt

Il metodo D’Hondt è un sistema di calcolo proporzionale che prevede la divisione dei voti di ogni lista – in questo caso il numero di iscritti a ciascuna associazione venatoria – per numeri progressivi, fino a coprire il totale dei seggi disponibili. Questo modello è ampiamente utilizzato anche in altri ambiti elettorali per assicurare una rappresentanza proporzionale.

Le critiche del TAR Abruzzo

Il TAR Abruzzo aveva sollevato dubbi di costituzionalità, ritenendo che il meccanismo penalizzasse alcune associazioni venatorie locali, contravvenendo a quanto disposto dall’articolo 14, comma 10, della legge statale n. 157/1992, a tutela della fauna. Secondo il giudice amministrativo, la norma nazionale garantirebbe una rappresentanza paritaria, considerata parte integrante della tutela ambientale ex articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione. Secondo i giudici, la norma statale richiamata non impone una rappresentanza proporzionale per ogni singola associazione, ma richiede la presenza, all’interno dei comitati, delle tre principali categorie di soggetti interessati: associazioni venatorie, associazioni di protezione ambientale e organizzazioni agricole.

Una volta garantita tale composizione tripartita, spetta alle Regioni stabilire, con ampio margine di discrezionalità, la formula elettorale più adeguata.

Ampia autonomia normativa per le Regioni

La Consulta ha ribadito che il meccanismo di ripartizione dei seggi rientra nella libertà di scelta del legislatore regionale. Il sistema D’Hondt, in questo contesto, è stato ritenuto una modalità legittima di distribuzione dei posti all’interno delle categorie rappresentate, senza ledere i principi costituzionali o gli obblighi di tutela ambientale.

giurista risponde

Titolo di “professore emerito” all’università: i presupposti Alla luce del combinato disposto dell’art. 15 della L. 18 marzo 1958, n. 311 in relazione all’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, il periodo di servizio trascorso rivestendo la qualifica di professore associato può essere riconosciuto ai fini del raggiungimento della soglia dei venti anni di servizio, indispensabile per l’attribuzione della qualifica di professore emerito?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

Ai sensi dell’art. 15, comma 2, della L. 18 marzo 1958, n. 311, e dell’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, al fine del conferimento della onorificenza di professore emerito, rileva unicamente l’attività svolta nella qualità di professore ordinario per almeno venti anni e non anche il periodo di servizio prestato quale professore associato (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 gennaio 2025, n. 1 – titolo di “Professore emerito”).

La sez. VII ha rimesso all’ Adunanza Plenaria la seguente questione di diritto: “Se alla luce del combinato disposto dell’art. 15 della L. 18 marzo 1958, n. 311, in relazione all’art. 111 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, il periodo di servizio trascorso rivestendo la qualifica di professore associato possa essere riconosciuto ai fini del raggiungimento della soglia dei venti anni di servizio, indispensabile per l’attribuzione della qualifica di professore emerito”.

L’Adunanza ritiene condivisibile la ricostruzione della Sezione, evidenziando che, come è stato correttamente sottolineato, l’art. 15, comma 2, della L. 311/1958 contiene un espresso richiamo all’art. 111 del R.D. 1592/1933 che, a sua volta, individua la qualifica di “professore emerito” e i requisiti per il suo conferimento. Ad avviso del Collegio, tale rinvio ha ribadito, dunque, il perdurante vigore della suddetta disposizione e dei requisiti ivi indicati.

Il dato letterale, ad avviso dei Giudici, è chiaro e insuperabile e comporta la non condivisibilità della ricostruzione effettuata da questo Consiglio di Stato con il parere della sez. II, 2203/2015 e con la sentenza della sez. VI, 1506/2021.

Entrambe queste pronunce, infatti, hanno dato preminente rilievo alla prima frase del secondo comma del citato art. 15, mentre avrebbero dovuto rilevare il significativo richiamo contenuto nella frase successiva (“ai sensi dell’art. 111 del testo unico delle leggi sulla istruzione superiore approvato con R.D. 31 agosto 1933, n. 1592”).

L’Adunanza Plenaria rileva come il primario criterio di interpretazione della legge sia quello letterale.

Infatti, l’art. 12 (rubricato ‘Interpretazione della legge’) delle “disposizioni sulla legge in generale’ allegate al codice civile dispone che: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

La rilevanza del dato testuale della legge, evidenzia l’Adunanza Plenaria, è desumibile anche dall’art. 101 della Costituzione, il quale – nel prevedere che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” – dispone il dovere del giudice di darne applicazione, salve le possibilità, consentite da altre disposizioni costituzionali, di emanare una ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale o di dare applicazione a prevalenti regole dell’Unione europea.

Gli altri criteri di interpretazione rilevano solo quando risulti equivoca la formulazione linguistica dell’enunciato normativo e la disposizione presenti ambiguità e si presti a possibili differenti o alternative interpretazioni (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2024, n. 6440).

Nel caso di specie, sostiene il Collegio, la formulazione linguistica risulta univoca e non si presta a dubbi interpretativi, atteso che occorre tenere conto anche dell’ultima frase contenuta nel sopra riportato comma 2 dell’art. 15.

Inoltre, i Giudici ritengono di non condividere la tesi dell’appellante anche sulla base dei criteri della interpretazione storico-sistematica e dell’interpretazione teleologica.

Innanzitutto, il Collegio disattende la tesi secondo cui vi sarebbe stata la “implicita abrogazione” dell’art. 15, comma 2, cit., in quanto tale disposizione va letta in modo sistematico in relazione alle altre disposizioni della L. 311/1958, e in particolare al suo art. 3, secondo cui: “I professori di ruolo sono straordinari e ordinari”; la portata innovativa di tale disposizione è consistita nell’estendere la valutabilità del servizio come professore di ruolo non solo nella qualità di professore ordinario (come previsto dall’art. 111, cit.), ma anche in quella di professore straordinario.

Rimarca il Collegio che la tesi dell’appellante neppure è supportata dalle considerazioni riguardanti la portata applicativa delle riforme universitarie, disposte dapprima con il D.P.R. 381/1980 (avente il rango di decreto legislativo) e poi dalla L. 240/2010, in quanto hanno sì previsto l’unicità del ruolo dei professori ordinari e di quelli associati, ma li hanno distinti per diversi aspetti.

L’art. 1 del D.P.R. 382/1980, pur prevedendo l’unicità del ruolo, ha distinto i compiti e le responsabilità degli uni e degli altri, inquadrandoli in due fasce funzionali.

Le perduranti differenze tra le due qualifiche riguardano: – le regole sul reclutamento, poiché per accedere alla qualifica di professore ordinario occorre l’abilitazione scientifica nazionale di prima fascia, che dimostra il raggiungimento della piena maturità scientifica, mentre per accedere alla qualifica di professore associato occorre l’abilitazione scientifica nazionale; – i presupposti per potere accedere alle due qualifiche, poiché alla qualifica di professore ordinario si accede a seguito del raggiungimento della “piena maturità scientifica”; – le regole sul conferimento degli incarichi direttivi (Direttore di dipartimento, rettore, prorettore), riservati ai professori ordinari, con l’eccezione delle Università nelle quali essi non vi siano), con un regime diverso anche sull’elettorato attivo.

Dunque, anche dopo la riforma universitaria non si può ravvisare l’equiparazione tra la qualifica del professore ordinario e quella di quello associato.

Oltre alla persistente differenza sostanziale delle qualifiche di professore ordinario e di professore associato, in sede di interpretazione del secondo comma dell’art. 15, il Collegio afferma che occorre tenere conto della sua specifica ratio.

Sulla base di una specifica valutazione del legislatore, l’onorificenza può essere conferita al professore ordinario in considerazione della perduranza nel tempo – fissato in venti anni – dello svolgimento dell’attività lavorativa nella posizione apicale della docenza universitaria.

Tale perduranza, evidenzia la Plenaria, è stata considerata decisiva dal legislatore, affinché possa essere valutata la eccezionalità della carriera accademica, giustificativa dell’onorificenza.

Rileva, dunque, anche il dato testuale dell’art. 22 del D.P.R. 382/1980, per il quale sussiste l’equiparazione dello stato giuridico dei professori ordinari e di quello dei professori associati, “salvo che non sia diversamente disposto”: in materia di conferimento dell’onorificenza, il legislatore ha sempre attribuito rilievo esclusivamente alla qualifica di professore ordinario.

L’Adunanza Plenaria, pertanto, condivide e fa proprie le considerazioni poste a base della sentenza della Corte cost. 990/1988, per la quale “l’unitarietà della funzione docente non equivale all’unicità del ruolo dei professori universitari. Il sistema normativo del 1980 stabilisce una gerarchia di valori e delle funzioni tra le due fasce del ruolo dei professori, riservando compiti direttivi, organizzativi e di coordinamento all’ordinario, acquisito all’istruzione universitaria attraverso più severa selezione concorsuale mirante ad individuare una personalità scientifica compiutamente matura, mentre le diverse modalità del reclutamento dell’associato è preordinata soltanto ad accertarne l’idoneità scientifica e didattica.

Non hanno pertanto rilievo gli indiscussi principi relativi alla unitarietà della funzione docente e alla pari garanzia di libertà didattica e di ricerca, evocati dall’appellante.

La distinzione tra le due qualifiche, ciascuna delle quali correlata ad un diverso livello di maturità scientifica e didattica, è stata confermata anche dalla riforma universitaria recata dalla L. 240/2010, che nulla ha innovato in materia.

 

(*Contributo in tema di “L’adunanza plenaria chiarisce i presupposti per il conferimento del titolo di “Professore emerito” nell’università”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

stop ai cellulari

Stop ai cellulari anche alle superiori: cosa prevede la circolare Il Ministero vieta l’uso dello smartphone nelle superiori durante l’orario scolastico. Eccezioni, motivazioni e sanzioni spiegate nella circolare del MIM

Smartphone banditi alle scuole superiori

Stop ai cellulari: il Ministero dell’Istruzione e del Merito, con la circolare prot. n. 3392 del 16 giugno 2025, estende il divieto di utilizzo dello smartphone agli istituti del secondo ciclo di istruzione, includendo tutte le scuole superiori. Durante l’orario scolastico è proibito l’uso del cellulare, in analogia alle norme già adottate per la scuola primaria e media. 

Motivazioni alla base del divieto

La scelta ministeriale si basa su evidenze internazionali sul danno causato dall’uso eccessivo dello smartphone:

  • uno studio OCSE 2024 mette in relazione smartphone, social media e calo delle performance scolastiche; 

  • l’OMS e l’ISS segnalano l’aumento del rischio di dipendenze comportamentali, con ricadute negative su sonno, concentrazione e relazioni sociali. 

Eccezioni per casi particolari

Sono previste esenzioni al divieto in tre situazioni:

  • alunni con disabilità o DSA, secondo il PEI o PDP;

  • attività didattiche specifiche in settori tecnici/informatici;

  • per esigenze personali motivate documentate.

Strumenti alternativi e uso responsabile

Non sono vietati altri strumenti digitali come PC, tablet o lavagne elettroniche, purché utilizzati secondo il progetto formativo e l’autonomia scolastica. Le scuole sono inoltre invitate a promuovere un’educazione al uso responsabile delle tecnologie, con interventi mirati sugli strumenti digitali e sull’uso consapevole di internet.

Sanzioni e organizzazione scolastica

Gli istituti, aggiornando i regolamenti e i patti di corresponsabilità, devono prevedere sanzioni disciplinari proporzionate per gli studenti che violano il divieto. Spetta alla scuola definire le modalità organizzative necessarie a garantire l’effettiva applicazione del divieto. 

Obiettivi generali e prospettive future

La circolare mira a tutelare salute, apprendimento e benessere degli adolescenti, contrastando fenomeni come la dipendenza da social e gaming. Il Ministero ha anche sollecitato la Commissione UE ad adottare una raccomandazione che promuova l’uso appropriato delle tecnologie digitali negli istituti europei

vizi dell'atto amministrativo

Vizi dell’atto amministrativo Vizi dell'atto amministrativo: requisiti dell'atto amministrativo, tipologie di vizi, annullamento, nullità, correzione e conseguenze

Vizi dell’atto amministrativo: cosa sono

Per comprendere in cosa consistono i vizi dell’atto amministrativo occorre premettere che questo è lo strumento principe mediante il quale la Pubblica Amministrazione esercita il proprio potere. Gli atti amministrativi si possono classificare in tre categorie principali: gli atti amministrativi in senso stretto, gli atti amministrativi normativi e i provvedimenti amministrativi.

Affinché l’atto amministrativo sia valido ed efficace, deve rispettare determinati requisiti previsti dalla legge. Quando questi requisiti mancano o sono compromessi, si parla di vizi dell’atto amministrativo.

I vizi compromettono la legittimità dell’atto e possono portare alla sua annullabilità o nullità, con conseguenze rilevanti per la pubblica amministrazione e per i cittadini destinatari. L’atto però può anche presentare vizi di merito, come vedremo.

La disciplina dei vizi dell’atto amministrativo rappresenta uno dei pilastri del diritto amministrativo. Essa garantisce che la pubblica amministrazione operi nel rispetto della legalità, della trasparenza e dell’efficienza, tutelando al contempo i diritti dei cittadini. Conoscere i diversi tipi di vizi e le relative conseguenze è essenziale per capire il funzionamento corretto del potere amministrativo e il ruolo del controllo giurisdizionale nell’ordinamento italiano.

I requisiti dell’atto amministrativo

Per comprendere a fondo i vizi dell’atto amministrativo, è necessario esaminare gli elementi costitutivi dell’atto amministrativo:

  • il soggetto: l’autorità, l’ente competente a emanare l’atto;
  • la forma: il modo con cui l’atto si presenta all’esterno, esso in alcuni casi deve rispettare la forma scritta, mentre in altri casi la forma è libera;
  • l’oggetto: corrisponde al contenuto dell’atto, che deve essere lecito, possibile e determinato;
  • la motivazione: ossia l’indicazione delle ragioni di fatto e di diritto per cui l’atto viene emanato;
  • le finalità o causa dell’atto, il quale deve perseguire sempre l’interesse pubblico, in quanto principio cardine dell’azione amministrativa;

La mancanza o l’errata configurazione di uno di questi elementi essenziali dell’atto amministrativo è causa di vizi dell’atto amministrativo

Tipologie di vizi  

I principali vizi dell’atto amministrativo sono classificabili in due categorie: i vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge previsti dall’art. 21 octies Legge n. 241/1990) e i vizi di merito.

Vizi di legittimità dell’atto amministrativo

1. Incompetenza: si ha incompetenza quando l’atto è adottato da un soggetto diverso da quello previsto dalla legge. L’incompetenza può essere:

  • assoluta: se l’atto è emanato da un’autorità priva di qualsiasi potere sull’oggetto;
  • relativa: se l’autorità appartiene alla stessa amministrazione, ma non è il soggetto specificamente competente (es. un dirigente invece del responsabile di settore).

L’incompetenza è generalmente causa di annullabilità, ma può portare alla nullità se è assoluta (es. un comune che emana un atto spettante allo Stato).

2. Violazione di legge: la violazione di legge si verifica quando l’atto è contrario a norme di legge, regolamenti o altre fonti normative. Questo vizio può riguardare:

  • la forma (es. mancanza della motivazione);
  • il procedimento (es. omessa partecipazione del privato);
  • il contenuto (es. provvedimento contrario a una norma imperativa).

La violazione di legge comporta l’annullabilità dell’atto amministrativo, salvo i casi più gravi.

3. Eccesso di potere: è un vizio tipico del diritto amministrativo e si ha quando l’atto, pur formalmente corretto, è illegittimo per un uso distorto del potere. Esso colpisce gli atti di natura discrezionale. Le forme più comuni di eccesso di potere sono:

  • lo sviamento di potere: quando l’amministrazione persegue un fine diverso da quello pubblico;
  • l’illogicità manifesta: se l’atto appare incoerente o irragionevole;
  • la contraddittorietà: quando l’atto è in contrasto con precedenti decisioni non motivate;
  • l’insufficienza di motivazione: l’atto presenta una motivazione vaga o assente;
  • il travisamento dei fatti: l’atto si basa su presupposti errati.

L’eccesso di potere determina l’annullabilità.

Vizi di merito dell’atto amministrativo 

L’atto amministrativo può presentare anche vizi di merito. In questo caso il vizio non è determinato dalla contrarietà a norme giuridiche, ma dal mancato rispetto del principio generale della buona amministrazione sancito dall’articolo 97 della Costituzione. L’attività della Pubblica amministrazione infatti deve essere esercitata avendo bene a mente la necessità di utilizzare i mezzi più idonei ed efficaci per il raggiungimento del fine. I vizi di merito possono quindi configurarsi quando non vengono rispettati i principi cardine dell’azione amministrativa come l’opportunità, l’eticità, l’economicità e l’equità.

La nullità dell’atto amministrativo

Secondo l’art. 21-septies della legge n. 241/1990, l’atto amministrativo è nullo (e quindi privo di effetti) nei seguenti casi:

  • mancanza di elementi essenziali;
  • difetto assoluto di attribuzione;
  • contenuto illecito (contrario all’ordinamento);
  • violazione o elusione di giudicato.

La nullità è rilevabile d’ufficio in ogni tempo, anche oltre i termini per l’impugnazione.

Annullamento dell’atto viziato

L’annullamento dell’atto viziato può essere:

  • giurisdizionale: se viene disposto dal giudice amministrativo su ricorso di un interessato;
  • d’ufficio: se esercitato dalla stessa amministrazione entro un termine ragionevole e nel rispetto dell’interesse pubblico (art. 21-nonies legge 241/1990).

Correzione dell’atto amministrativo viziato

Quando un atto amministrativo presenta un vizio di legittimità e risulta annullabile, la pubblica amministrazione può anche decidere di non ritrarlo, ma di “correggerlo” attraverso gli strumenti che la legge le mette a disposizione e che sono: la sanatoria, la convalida, la ratifica, la consolidazione e l’acquiescenza.

Conseguenze pratiche

I vizi dell’atto amministrativo incidono sull’affidamento del cittadino, sull’efficacia dell’azione pubblica e sulla legittimità dell’intervento amministrativo. È perciò fondamentale che la pubblica amministrazione:

  • rispetti le regole procedimentali;
  • fornisca motivazioni adeguatamente le proprie decisioni;
  • agisca con coerenza, imparzialità e razionalità.

L’ordinamento prevede meccanismi di controllo (interni e giurisdizionali) volti a tutelare i cittadini e garantire la legalità dell’azione amministrativa.

 

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giurista risponde

Mancato deposito sentenza entro il termine: quali conseguenze L'Adunanza plenaria sulla questione relativa all’individuazione delle conseguenze del mancato adempimento dell’onere di depositare la sentenza impugnata entro il termine di legge

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 94, comma 1, del codice del processo amministrativo non dispone l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’impugnazione, nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 marzo 2025, n. 4 e 5 – mancato deposito della sentenza)

Per un orientamento condiviso dalle ordinanze di rimessione, l’onere del deposito della copia della decisione impugnata entro il termine di trenta giorni dall’ultima notificazione dell’impugnazione sarebbe da intendersi a pena di decadenza, in quanto «funzionale a garantire esigenze di ordine pubblico processuale, indisponibili per le parti private, strumentali al regolare svolgimento del giudizio», rispetto alle quali l’adempimento in questione si configurerebbe come corollario dei «canoni di chiarezza, sinteticità, leale collaborazione, che non sono mere enunciazioni di principio o puri esercizi cartolari, ma il contenuto di puntuali doveri delle parti» (così da ultimo, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154, 20 febbraio 2024, n. 1663 e 4 giugno 2024, n. 5000; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, 23 gennaio 2023, n. 86, e 22 settembre 2022, n. 956, Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4520).

Secondo l’indicato orientamento, rileverebbe a contrario il testo dell’art. 45, comma 4, del c.p.a., per il quale non si verifica alcuna decadenza, qualora il ricorrente non abbia depositato il provvedimento impugnato e la relativa documentazione, non sempre facile da reperire: l’ultima frase del comma 1 dell’art. 94 affermerebbe un principio opposto a quello sancito dal medesimo art. 45, comma 4.

A parere di tale prospettazione, rileverebbe anche l’introduzione di una espressa regola nel c.p.a., innovativa rispetto al diverso principio contenuto nell’art. 347, comma 2, del codice di procedura civile, in precedenza applicabile al processo amministrativo.

Non vi sarebbe pertanto alcuna lacuna nell’art. 94, sicché non vi sarebbero i presupposti per applicare l’art. 39, comma 1, del c.p.a., che, quale ‘disposizione di chiusura’, determina il ‘rinvio esterno’ alle disposizioni del codice di procedura civile (cfr., sui presupposti per l’operatività del ‘rinvio esterno’, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 marzo 2024, n. 4; 27 aprile 2015, n. 5, e 10 dicembre 2014, n. 33).

Nel vigore del codice del processo amministrativo, si è affermato che il deposito di copia della sentenza impugnata – quando esso non sia contestuale al deposito dell’atto di impugnazione – debba esservi entro il «termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione del ricorso, dimezzato nel rito abbreviato» (Cons. Stato, sez. III, 14 giugno 2011, n. 3619 – onere deposito sentenza impugnata).

Tale orientamento è stato seguito anche dopo l’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, poiché l’art. 94 del c.p.a. si dovrebbe considerare quale norma inderogabile, che imporrebbe doveri puntuali a tutela di interessi di ordine pubblico processuale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2023, n. 9958; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, n. 955, 956, 958, 959, 960, 962, 965/2022; Cons. Stato, sez. VI 3 giugno 2022, n. 4520, e 20 febbraio 2024, n. 1680).

Si è anche rimarcato come le riforme approvate nel periodo successivo alla digitalizzazione amministrativa, pur apportando numerose modifiche al codice del processo amministrativo (si pensi all’inserimento dei commi 1bis e 1ter nell’art. 25 o alle innovazioni relative all’art. 136 e a diverse norme di attuazione [in primis l’art. 5], per opera del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni in L. 25 ottobre 2016, n. 197), abbiano lasciato invariato l’art. 94.

Secondo tale indirizzo, l’onere di deposito della sentenza impugnata non sarebbe diventato un ‘adempimento superfluo’, malgrado i componenti del Consiglio di Stato possano accedere al fascicolo di primo grado, così come a quello del giudizio al loro esame, ove si consideri che va verificato se la sentenza impugnata sia stata notificata al soccombente, al fine di accertare se l’impugnazione sia tempestiva.

Si osserva al riguardo che la parte appellante, con il deposito della sentenza, non si limita a compiere un’attività materiale, ma pone in essere un’attività stricto sensu giuridica, perché, depositando la sentenza senza la documentazione attestante la sua notifica, assume implicitamente la responsabilità di dichiarare che essa non è stata notificata.

Inoltre, si aggiunge che il giudice che acquisisse d’ufficio la sentenza impugnata nel fascicolo di primo grado dovrebbe disporre anche una istruttoria per verificare, ai fini dello scrutinio della tempestività dell’impugnazione, se la sentenza sia stata, o meno, notificata, in contrasto con le regole sull’onere della prova nel processo amministrativo.

Si è, infine, messo in rilievo che l’onere di deposito della sentenza non si potrebbe considerare “sproporzionato o irragionevole” nemmeno alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, essendo richiesto solo il deposito della sentenza, entro un termine ragionevole decorrente dalla notifica dell’impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154), tanto più che non occorre il deposito di una copia autentica della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2024, n. 1384, e la già richiamata sent. 2773/2014).

In definitiva, l’art. 94 c.p.a., comma 1, andrebbe interpretato nel senso che l’impugnazione sarebbe inammissibile nel caso di mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata, in coerenza con il dovere di cooperazione di cui all’art. 2, comma 2, del c.p.a., preordinato a consentire la ragionevole durata del processo.

Per un orientamento più recente, invece, l’onere del deposito della sentenza impugnata non sarebbe previsto a pena di inammissibilità dell’atto di impugnazione (Cons. Stato, sez. VI, 4542 e 4548/2024; sez. III, 8 marzo 2023, n. 2403).

Questo indirizzo interpretativo si basa sul dato testuale dell’art. 94, comma 1, del c.p.a., il quale prevede la sanzione della decadenza unicamente per il caso del mancato tempestivo deposito del ricorso, e non anche per quella del mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata: le parole “a pena di decadenza” sono contenute nella frase che riguarda esclusivamente il deposito del ricorso e non vi è la espressa previsione sulla decadenza anche per il diverso caso di mancato deposito della sentenza impugnata.

Si è anche osservato che la sanzione della decadenza per mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con il diritto di azione e difesa di cui agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché all’art. 117, comma 1, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 47 della Carta di Nizza, in quanto rappresenterebbe una conseguenza sproporzionata ed eccessiva, anche perché in attuazione delle regole sul processo amministrativo telematico il giudice dell’impugnazione può reperire nel fascicolo d’ufficio la copia digitale della sentenza impugnata, così come può reperirla consultando il sito della Giustizia amministrativa (così Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4542).

Seguendo il medesimo percorso argomentativo, nel richiamare la giurisprudenza formatasi prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (per la quale solo nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata nel corso del giudizio si poteva pronunciare l’improcedibilità dell’appello: Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20), si è affermato che: «Le esigenze di carattere processuale poste a fondamento della soluzione finora seguita dalla giurisprudenza prevalente possono essere efficacemente soddisfatte con la fissazione di un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata» (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4548).

Per un orientamento ‘mediano’, l’impugnazione sarebbe inammissibile soltanto nel caso più grave in cui manchi l’effettiva volontà della parte di depositare la sentenza impugnata congiuntamente all’atto introduttivo (Cons. Stato, sez. IV, 4488/2020), sicché per i casi di “sviste” o di “inconvenienti informatici” il collegio potrebbe fissare un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 maggio 2024, n. 4831, 4832, 4833 e 4834; 8 maggio 2024, n. 4130 e ord. 22 gennaio 2024, n. 683, in casi in cui la sentenza impugnata risultava indicata nel foliario depositato, unitamente all’atto di impugnazione).

Questa Adunanza ritiene di aderire all’orientamento secondo cui l’art. 94, comma 1, del c.p.a. va interpretato nel senso che la sanzione della decadenza, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione, non è riferibile al mancato (tempestivo) deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata).

Rileva in primo luogo, l’argomento letterale (la cui importanza, ex art. 12 delle disposizioni generali, è stata sottolineata da questa Adunanza plenaria con le sent. 1/2025, §4.2, 7/2022, §5; 3/2017, §3.1; 3/2010, §18.1).

La disposizione in parola fissa un chiaro e diretto collegamento con la sanzione della decadenza unicamente per l’incombenza relativa al deposito del ricorso, e non anche per quelle dei depositi della sentenza impugnata e della prova delle eseguite notificazioni. Infatti, l’effetto preclusivo è confinato in un inciso (“[…] a pena di decadenza […]”) che il legislatore ha inserito, sul piano strutturale, nella parte del precetto riferita esclusivamente al deposito del ricorso. Il testo dell’articolo disgiunge, poi, le due proposizioni attraverso una virgola che crea una cesura tra l’adempimento principale (il deposito dell’atto di appello) e i due adempimenti accessori (i depositi della sentenza di primo grado e della prova delle eseguite notificazioni). La forza di tali elementi testuali è corroborata dalla considerazione logica per cui, se il legislatore avesse inteso riferire la rilevanza del termine di decadenza anche ai due adempimenti integrativi, esso avrebbe anticipato l’inserimento del sintagma in parola collocandolo dopo la parola “ricorso”, dando vita alla seguente formulazione: “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso, unitamente ad una copia della sentenza impugnata […], deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45”.

Da tali argomenti si ricava che la decadenza è correlata expressis verbis al solo mancato rispetto del termine per il deposito dell’atto di impugnazione e che, quindi, l’estensione del medesimo effetto preclusivo agli altri incombenti, non prevista in modo univoco dalla lettera della legge, richiederebbe una interpretazione estensiva, volta a dilatare la portata del dato testuale. Tale metodo interpretativo è, tuttavia, ostacolato dal rilievo che le disposizioni che fissano oneri decadenziali e cause di inammissibilità, in quanto precetti a carattere eccezionale ex art. 14 delle preleggi, devono essere formulate in modo tassativo e, quindi, soggiacciono, per esigenze di certezza del diritto e in omaggio al canone di prevedibilità degli effetti applicativi, a un’interpretazione ancorata al dato strettamente linguistico (vedi Corte cost. 14 maggio 2021, n. 98, che ha ribadito il primato del dato testuale, considerato limite esterno di legittimità al potere giurisdizionale).

Si deve fare pertanto applicazione del principio per il quale non può essere applicata analogicamente una disposizione processuale che comporta come conseguenza la sanzione della decadenza.

D’altra parte, in coerenza con il principio della effettività della tutela giurisdizionale, il giudice deve preferire una interpretazione che consenta una pronuncia sulla spettanza del ‘bene della vita’, piuttosto che quella che imponga una sentenza di inammissibilità o di improcedibilità, eccedente rispetto al testo ed alla ratio della previsione violata.

La previsione di un termine a pena di decadenza si giustifica solo per il deposito del ricorso, trattandosi di un incombente diretto all’instaurazione del rapporto processuale e alla devoluzione all’organo giurisdizionale della res litigiosa.

Nell’attuale quadro normativo, non sussiste invece una effettiva esigenza di depositare anche la sentenza impugnata.

Il comma 1 dell’art. 94 del c.p.a. non richiede il deposito di una ‘copia autentica’ della sentenza impugnata, il cui testo è reperibile nel fascicolo d’ufficio: essa va depositata in una logica di garanzia della mera completezza e regolarità formale del fascicolo (così, già prima del codice, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20; Cons. Stato, sez. VI, 17 settembre 1985, n. 468).

Inoltre, neppure rileva l’osservazione per la quale va verificata la tempestività dell’atto di impugnazione.

In primo luogo, il comma 1 in esame non ha imposto a chi proponga l’impugnazione l’onere di depositare la copia della sentenza eventualmente notificatagli, con gli elementi concernenti la notifica.

In secondo luogo, la questione non si pone quando l’impugnazione sia proposta entro il termine breve calcolato dalla pubblicazione della sentenza impugnata, non potendosi dubitare in tal caso della tempestività dell’impugnazione.

In terzo luogo, non può sottacersi come la parte destinataria dell’impugnazione abbia interesse a costituirsi, per porre il giudice a conoscenza di un fatto (l’avvenuta notifica della sentenza impugnata) non preso in considerazione dal sopra riportato comma 1 dell’art. 94.

D’altra parte, anche il termine per il deposito delle prove delle notifiche non è previsto a pena di decadenza (Cons. Stato, sez. II, 29 aprile 2024, n. 3868). A maggior ragione, il giudice non può dichiarare la decadenza dell’impugnazione, potendo agevolmente consultare il fascicolo d’ufficio, che consente di leggere immediatamente la sentenza impugnata, o la banca dati, accessibile da chiunque sul sito www.giustizia-amministrativa.it.

Tale soluzione è avvalorata dal canone dell’interpretazione storico-evolutiva, che impone al diritto vivente di adeguare il dato letterale ai cambiamenti decisivi verificatisi tra la sua entrata in vigore e la sua applicazione attuale (Cass., Sez. Un., 2061/2021; Cass., sez. III, 26 ottobre 1998, n. 10629).

Nella specie, si deve considerare che l’art. 94 c.p.a. è stato redatto prima dell’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, le cui modalità applicative consentono al giudice di ovviare agevolmente alla dimenticanza della parte che ha proposto l’impugnazione, con la consultazione del fascicolo telematico di primo grado e del sito della giustizia amministrativa.

Se, infatti, la ratio del secondo periodo del comma 1 dell’art. 94 è quella di consentire al giudice dell’impugnazione la lettura della sentenza impugnata, essa è realizzata dalla sua acquisizione, conseguente alla richiesta da parte del segretario della trasmissione del fascicolo d’ufficio al segretario del giudice di primo grado (art. 6, comma 2, all. I, c.p.a.), sul portale SIGA che consente l’accesso diretto al fascicolo di primo grado da parte dei soggetti abilitati (art. 11, all. 2, del decreto Presidente del Consiglio di Stato 28 luglio 2021, recante «Regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico», emanato ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a.), nonché a seguito dell’agevole e immediata consultazione del sito della giustizia amministrativa.

Un’irregolarità solo formale non può dunque comportare alcuna decadenza, che risulterebbe irragionevole e sproporzionata, per il principio di strumentalità delle forme (art. 159 c.p.c.), nel vigore delle regole sul processo amministrativo telematico, improntate alla semplificazione delle forme e all’informatizzazione dell’intero procedimento.

Va, infine, osservato, che una disposizione espressa che comminasse la decadenza – per effetto del mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata) – non sarebbe coerente con i principi costituzionali ed euro-unitari sul diritto di azione e di difesa (artt. 24. 103, 113 e 117, comma 1, della Costituzione; artt. 6 della CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, infatti, l’ampia discrezionalità di cui è dotato il legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene travalicato qualora emerga un’ingiustificata compressione del diritto di agire in giudizio in ragione di un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione (ex multis, sent. 148/2021, 102/2021, 253, 95, 80, 79/2020 e 271/2019).

Inoltre, per la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non può essere dichiarata inammissibile una impugnazione quando sia mancato un adempimento meramente formale (cfr. la sent. 23 maggio 2024, Pat. e altri contro la Repubblica italiana, §102, sulla violazione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea in un caso in cui una impugnazione era stata dichiarata inammissibile per la mancata attestazione della conformità all’originale della sentenza impugnata – onere deposito sentenza impugnata).

In una prospettiva convergente, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che il diritto di agire in giudizio, pur non atteggiandosi a diritto assoluto, è passibile solo di restrizioni proporzionate e volte al perseguimento di uno scopo legittimo (Corte di giustizia UE, sez. III, 15 settembre 2016, C-439/14 e C-488/14, Sc Star; sez. V, 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte salute, sez. II, 30 giugno 2016, C-205715, Directia Generala).

Poiché la regola sull’inammissibilità dell’impugnazione per il mancato deposito della sentenza impugnata contrasterebbe con i sopra richiamati principi costituzionali ed euro-unitari, si deve tenere dunque anche conto del criterio dell’interpretazione ‘conforme’ ‘o adeguatrice’ (cfr. Corte cost. 36/2016 e 559/1988., secondo cui tra le possibili diverse interpretazioni va preferita quella che sia rispettosa dei principi costituzionali).

Sulla base delle considerazioni fin qui esposte, reputa questa Adunanza Plenaria che il mancato deposito della sentenza impugnata, nel termine fissato dall’art. 94 del c.p.a., non produca la conseguenza dell’inammissibilità dell’appello.

Va anche escluso che la parte ricorrente sia onerata, a pena di improcedibilità, a espletare l’incombente in un momento successivo allo spirare del termine legale (e che, comunque, il mancato deposito della sentenza di primo grado costituisca una «causa impeditiva della spedizione della causa in decisione» – onere deposito sentenza impugnata).

Il giudice può leggere la sentenza impugnata, che non sia stata depositata, senza la necessità di compiere atti processuali formali, sicché non vi è alcunché da sanare e non va differita la decisione della causa.

 

(*Contributo in tema di “Mancato adempimento dell’onere di deposito della sentenza oggetto di impugnazione entro il termine di legge. Conseguenze”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

permesso di costruire

Permesso di costruire per recinzioni: quando è necessario Il Consiglio di Stato chiarisce quando è richiesto il permesso di costruire per le recinzioni: attenzione alle opere permanenti. Ecco i criteri e le regole applicabili

Recinzioni e permesso di costruire

Con la sentenza n. 4044 del 2025, il Consiglio di Stato ha stabilito che anche una recinzione può richiedere il permesso di costruire, quando assume carattere permanente e incide in modo non transitorio sull’assetto edilizio del territorio.

L’occasione è data dal ricorso avverso una decisione del T.A.R. Campania (sentenza n. 6962/2021), e offre lo spunto per riepilogare i principi che regolano l’edilizia libera e gli interventi che esulano da essa.

Il diritto alla recinzione e i suoi limiti edilizi

Ai sensi dell’art. 841 c.c., ogni proprietario ha diritto a chiudere il proprio fondo. Tuttavia, ciò non significa che qualsiasi modalità di recinzione sia esente da titoli abilitativi. La giurisprudenza, infatti, distingue tra:

  • recinzioni leggere e precarie, come reti metalliche su paletti infissi nel terreno;

  • recinzioni strutturalmente rilevanti, come muretti in calcestruzzo o opere murarie con carattere di durabilità e impatto visivo.

Solo le prime possono rientrare nel regime di edilizia libera, mentre le seconde necessitano di permesso di costruire in quanto assimilabili a nuove costruzioni (Cons. Stato, sez. II, 7 aprile 2025, n. 2964; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 26 marzo 2025, n. 2575).

Edilizia libera: cosa si può fare senza titolo abilitativo

Il quadro normativo dell’edilizia libera è disciplinato da tre riferimenti principali:

  1. Art. 6 del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia), che elenca tassativamente le opere realizzabili senza permesso;

  2. DM 2 marzo 2018, che contiene un glossario esplicativo delle opere più comuni (es. arredi da giardino, giochi per bambini, pergotende, piccoli manufatti);

  3. Art. 3, comma 1, lett. e.5) del D.P.R. 380/2001, che si riferisce a strutture mobili temporanee, come tende e roulotte.

Secondo la giurisprudenza, questo regime va interpretato in senso restrittivo: le opere edilizie sono libere solo se non producono impatti permanenti sul territorio e non modificano volumi, superfici o destinazioni d’uso (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2024, n. 6668).

Esempi pratici: cosa richiede titolo edilizio e cosa no

Serve il permesso di costruire:

  • Recinzioni con muro di sostegno in cemento o simili;

  • Opere che modificano in modo stabile l’assetto del territorio;

  • Installazioni con impatto paesaggistico o urbanistico.

Rientra nell’edilizia libera:

  • Recinzioni leggere (reti su paletti senza fondazioni);

  • Cancelli funzionali alla delimitazione, in assenza di vincoli speciali;

  • Tinteggiature che ripristinano l’aspetto preesistente;

  • Soppalchi interni non abitabili né volumetricamente rilevanti;

  • Pergotende, se amovibili e prive di elementi edilizi rigidi.

Compatibilità con vincoli paesaggistici e urbanistici

Anche quando l’opera rientra nell’edilizia libera, non è mai slegata dal rispetto delle norme urbanistiche e paesaggistiche. Le amministrazioni locali possono imporre prescrizioni tecniche per garantire l’armonia con il contesto, specialmente in aree vincolate (Cons. Stato, sez. II, 7 aprile 2025, n. 2964).

Il diritto del proprietario non è quindi illimitato: il Comune può valutare caso per caso, considerando materiali, dimensioni, impatto visivo e durata dell’opera (T.A.R. Toscana, Firenze, 10 settembre 2019, n. 1227).

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farmacie dei servizi

Farmacie dei servizi: quali limiti Il TAR Sicilia chiarisce i limiti delle farmacie dei servizi: prestazioni solo in sede e non assimilabili a quelle dei centri sanitari accreditati

Cosa sono le farmacie dei servizi

Le farmacie dei servizi sono un’evoluzione della farmacia tradizionale, introdotta per offrire sul territorio prestazioni a valenza socio-sanitaria complementari a quelle dei medici e delle strutture sanitarie accreditate. Introdotte con il D.lgs. n. 153/2009, hanno trovato attuazione con il D.M. 16 dicembre 2010 e successive norme, soprattutto in risposta all’emergenza Covid-19. Il loro scopo è potenziare l’offerta sanitaria del Servizio sanitario nazionale (SSN), soprattutto nei piccoli centri e nelle aree a bassa densità medica.

Le prestazioni erogabili includono, ad esempio, servizi di screening, prenotazioni CUP, autoanalisi, misurazioni, vaccinazioni e test diagnostici in farmacia.

Il caso esaminato dal TAR Sicilia

Con la sentenza n. 881/2025, il TAR Sicilia ha risolto una controversia avviata da alcune associazioni e strutture sanitarie private contro l’Assessorato alla Salute della Regione Siciliana. In particolare, venivano contestate:

  • le linee guida regionali per l’erogazione sperimentale di nuovi servizi da parte delle farmacie di comunità;

  • la possibilità di eseguire tali servizi in locali esterni alla farmacia;

  • la remunerazione delle prestazioni a carico del SSN senza il rispetto dei requisiti di autorizzazione e accreditamento previsti per le strutture sanitarie private.

TAR: non sono operatori sanitari

Il tribunale ha stabilito che le farmacie dei servizi non sono assimilabili agli operatori sanitari accreditati. Infatti, esse erogano prestazioni socio-sanitarie, non sanitarie in senso stretto, e quindi non devono sottostare agli stessi requisiti strutturali e autorizzativi imposti a poliambulatori o cliniche private. Per questo motivo, non si configura alcuna violazione in termini di autorizzazione sanitaria.

Stop alle prestazioni in locali esterni

Diverso è il giudizio sulla possibilità di erogare le prestazioni in spazi esterni alla sede della farmacia. Su questo punto, il TAR ha accolto il ricorso, ritenendo illegittima la previsione regionale che autorizzava l’erogazione in ambienti del tutto separati dalla farmacia stessa.

Secondo il Collegio, il D.M. 16 dicembre 2010, che parla di “spazi dedicati e separati dagli altri ambienti”, fa riferimento a locali interni alla farmacia, e non a strutture esterne. Inoltre, l’unica eccezione ammessa dal legislatore è quella prevista dall’art. 1, comma 2, lett. e-quater del D.lgs. 153/2009, che consente l’uso di locali esterni solo per vaccinazioni e tamponi anti-Covid o antinfluenzali.

In mancanza di una base normativa chiara, un ampliamento tramite atto amministrativo è stato giudicato inammissibile.

PNRR scuola

PNRR Scuola: legge in vigore PNRR scuola: in vigore dal 7 giugno la legge che prevede, tra le varie misure, un bonus per favorire l’assunzione dei ricercatori

PNRR Scuola: in vigore la legge

Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 129 del 6 giugno 2025 la legge n. 79/2025 PNRR Scuola di conversione del decreto n. 45/2025.

La legge in vigore dal 7 giugno 2025 si occupa di argomenti piuttosto eterogenei.

Le misure per la scuola

Per quanto riguarda l’edilizia scolastica il provvedimento stanzia nuovi fondi per la costruzioni di nuovi edifici,  e la messa in sicurezza di quelli esistenti. Si assisterà a una vera e propria riforma degli istituti tecnici. La legge introduce nuovi indirizzi e orari. Aumentano gli stanziamenti per i libri di testo. La carta del docente dal prossimo anno scolastico 2025-2026 avrà un importo massimo annuale di 500 euro. Gli esercenti avranno 90 giorni di tempo dalla validazione del buono per inviare le fatture. Scaduto il termine perderanno il diritto al rimborso.

Da menzionare anche le novità che riguardano la professione di guida turistica, il sistema di reclutamento del personale scolastico, la riforma dell’organizzazione del sistema scolastico, la rimodulazione delle risorse assegnate al Ministero dell’istruzione e la mobilitazione straordinaria dei dirigenti scolastici

Bonus assunzione ricercatori 2025

Una delle misure più interessanti da segnalare però, è senza dubbio la misura finalizzata a favorire l’assunzione di giovani ricercatori da parte delle imprese italiane.

L’articolo 3 septies, contenente disposizioni urgenti per l’assunzione di giovani ricercatori da parte delle imprese, prevede un credito di imposta di 10.000 euro per ogni ricercatore assunto a tempo indeterminato dal 1° luglio al 31 dicembre 2025.

Questa norma va a modificare l’articolo 26 del DL n. 13/2023, che contiene disposizioni urgenti per attuare il PNRR e il PNC, al fine di perseguire gli obiettivi dell’investimento 3.3, Missione 4, componente 2 PNRR.

La disposizione va a modificare in particolare i commi 1, 2, 3 prevedendo alcune e importanti novità. La prima novità è rappresentata appunto dal bonus di 10.000 euro. Novità questa contenuta nel comma 1, che comporta l’abrogazione del comma 2 che prevedeva invece l’esonero dal versamento dei contributi.

La modifiche del comma 3 invece comportano la soppressione del concerto tra il Ministro dell’università e della ricerca e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali per il decreto attuativo delle predette disposizioni e il periodo di riferimento del limite di spesa di 150 milioni di euro, che ora va dal 1° luglio 2025 fino al 31 dicembre 2026.

 

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legge concorrenza 2025

Legge concorrenza 2025: ok del Governo Approvato il disegno di legge annuale per la concorrenza 2025. Focus su servizi pubblici locali, sanità, trasferimento tecnologico e sicurezza dei consumatori

Approvato il ddl concorrenza 2025

Legge concorrenza 2025: il 4 giugno, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, ha dato il via libera al disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2025, previsto dall’articolo 47 della legge n. 99/2009. Il Governo ha chiesto al Parlamento una sollecita calendarizzazione del testo, considerata la sua rilevanza strategica nel contesto degli impegni assunti dall’Italia nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

L’approvazione di una legge annuale in materia di concorrenza costituisce infatti un passaggio essenziale per l’erogazione dei fondi europei previsti dal Piano.

Tecnologia e innovazione

Tra i punti cardine del disegno di legge, figura l’adozione di misure volte a favorire il trasferimento tecnologico verso le filiere produttive italiane. In particolare, è previsto un atto di indirizzo strategico congiunto del Ministero delle imprese e del Made in Italy e del Ministero dell’università e della ricerca, per promuovere la diffusione delle conoscenze e sostenere la trasformazione tecnologica del sistema industriale.

A tale scopo, la gestione di 250 milioni di euro destinati a progetti di trasferimento tecnologico sarà affidata alla Fondazione Tech e Biomedical, con l’obiettivo di rafforzare le sinergie tra ricerca e impresa.

Servizi pubblici locali

Il testo interviene anche sul fronte dei servizi pubblici locali, con misure specifiche rivolte ai Comuni con oltre 5.000 abitanti. Le norme puntano a migliorare l’efficienza delle gestioni affidate in-house, rafforzando gli strumenti di controllo e verifica da parte delle amministrazioni locali.

Nel settore del trasporto pubblico regionale, si estendono gli obblighi di trasparenza e le procedure di ricognizione delle modalità di gestione degli affidamenti, già previste per i servizi pubblici locali. In caso di inefficienze, saranno applicabili misure correttive analoghe.

Accreditamento sanitario

In ambito sanitario, il disegno di legge introduce nuovi criteri per l’accreditamento delle strutture private, al fine di stimolare una maggiore concorrenza nel settore, in vista della scadenza della proroga attualmente fissata per dicembre 2026.

Questa riforma intende armonizzare l’accesso al sistema sanitario con logiche di efficienza e qualità, promuovendo la competitività tra erogatori pubblici e privati accreditati.

Tutela dei consumatori

Sul versante della sicurezza dei consumatori, il provvedimento prevede nuove sanzioni per l’uso professionale di prodotti cosmetici non conformi alle norme di etichettatura, in particolare quando possano comportare rischi per la salute.

Ulteriori misure riguardano l’impiego di esche e topicidi in spazi pubblici, vietato se pericoloso per animali domestici o persone vulnerabili, come i bambini. L’obiettivo è rafforzare i presidi di sicurezza in ambienti condivisi, contrastando l’uso improprio di sostanze nocive.