conflitto di interessi avvocato

Conflitto di interessi avvocato: basta il dubbio per far scattare l’illecito Il CNF chiarisce che l'assoluta terzietà dell'avvocato deve sussistere al di sopra di ogni dubbio

Conflitto di interessi avvocato

“Affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 24 cdf (già art. 37 codice previgente) non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato – e quindi anche la sola apparenza del conflitto – per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico”. E’ il principio affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 241-2023 pubblicata sul sito del Codice deontologico l’8 febbraio 2024.

La vicenda

Nella vicenda, un legale all’esito del procedimento disciplinare veniva sospeso dalla professione per due mesi per aver violato vari canoni deontologici, tra cui l’aver agito in conflitto di interessi, per essersi costituita in giudizio avverso una propria ex assistita.

L’avvocato adisce il Consiglio Nazionale Forense dolendosi della responsabilità disciplinare e della eccessività della sanzione.

La decisione

Per il CNF, tuttavia, le censure sono infondate. “Correttamente il CDD di Messina ha ritenuto che l’art. 24 del Codice Deontologico è a tutela della terzietà dell’avvocato, che non solo deve sussistere, ma è necessario che non ricorrano circostanze tali da porla in dubbio” afferma preliminarmente il consiglio.

“La norma si riferisce quindi anche alla sola apparenza del conflitto degli interessi. Trattasi di un illecito di pericolo volto a garantire l’assoluta terzietà dell’avvocato al di sopra di ogni dubbio, come specificato nella decisione impugnata che opportunamente fa espresso riferimento a precedenti sentenze di questo consiglio (sentenza 12 luglio 2016 n. 186; 16 luglio 2019 n.60)” aggiunge il CNF ritenendo che le valutazioni logiche giuridiche della decisione impugnata “appaiano ben motivate ed in particolare appare corretta la considerazione che l’incolpata si sia costituita nel giudizio promosso dall’avvocato [BBB] nei confronti di una propria ex assistita, tutelando gli interessi di quest’ultima contestando le richieste formulate dal legale, integra la violazione dell’articolo 24 del Codice vigente, sotto il profilo della lealtà e della correttezza, dato che ciò ha rappresentato un nocumento almeno potenziale agli interessi della controparte”.

Nulla di fatto, infine, neanche sul fronte dell’eccessiva severità della sanzione irrogata”, che il CNF reputa equilibrata rigettando in toto il ricorso.

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detenuto pacemaker

Malato e con pacemaker: resta in carcere Per la Cassazione, il detenuto in precarie condizioni di salute e con pacemaker può restare in carcere. Rileva anche la pericolosità sociale data la condanna per reati sessuali

Gravi motivi di salute e detenzione carceraria

Resta in carcere il detenuto anche se in precarie condizioni di salute e con pacemaker. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 3332-2024, ha respinto il ricorso di un uomo condannato ad 8 anni di carcere per reati di natura sessuale.

Nella vicenda, il tribunale di sorveglianza di Palermo respingeva l’istanza di differimento facoltativo della pena per grave infermità, anche nelle forme della detenzione domiciliare, visti i gravi motivi di salute del detenuto affetto da ipertensione con impianto di pacemaker e in attesa di ricovero per sospetta fibrosi polmonare.

Il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto che le condizioni di salute dell’uomo non integrassero gli estremi di gravità tali da comportare l’incompatibilità con il regime carcerario, in quanto le esigenze diagnostiche e terapeutiche del condannato erano gestibili anche in regime detentivo.

Da qui il ricorso in Cassazione, in cui la difesa ribadiva l’incompatibilità delle condizioni di salute dell’uomo ormai anziano, e peraltro di recente sottoposto ad intervento chirurgico, con la detenzione carceraria.

Per gli Ermellini, però, il ricorso è infondato e va respinto.

Bilanciamento interesse condannato e sicurezza collettività

In punto di diritto, affermano i giudici della S.C., “la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini dell’accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell’art. 147, comma primo, n. 2, cod. pen., non è necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019, Nobile, Rv. 276413)”. È necessario però, proseguono dal Palazzaccio, che “la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre ni pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr. Cass. n. 17947/2004).

La decisione

Nella fattispecie, la valutazione negativa, alla quale è giunta l’impugnata ordinanza, non è censurabile in sede di legittimità e, peraltro, concludono dalla S.C. rigettando il ricorso, risulta coerente con quanto richiede la giurisprudenza, “sia sotto il profilo della compiuta valutazione delle condizioni di salute dell’istante in rapporto alle potenzialità di cura offerte dal carcere in cui questi è ristretto”, sia con riguardo al profilo del “bilanciamento tra li diritto alla salute del condannato e le esigenze di sicurezza della collettività, evidenziando la cospicua pericolosità sociale del detenuto in espiazione di una condanna per gravi delitti di natura sessuale”.

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giurista risponde

Attività amministrativa: quale prova per il risarcimento Che tipo di prova richiede la domanda risarcitoria derivante da illegittimo esercizio dell’attività amministrativa?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Ai sensi dell’art. 1223 c.c. sono risarcibili i soli pregiudizi patrimoniali che siano conseguenza diretta e immediata dell’evento sul piano della causalità giuridica, con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi.

Tali pregiudizi devono essere allegati e provati dal danneggiato poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento. – Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092.

 

Il Consiglio di Stato ricorda che, per consolidata giurisprudenza, la prova dell’ esistenza del danno da parte del danneggiato deve essere rigorosa e in particolare si evidenzia che: “a) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, ovvero, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, che siano conseguenza diretta e immediate dell’evento sul piano della causalità giuridica; b) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell’art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile; c) una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 cod. civ., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità, invece operante solo per la responsabilità da inadempimento ex art. 1225 cod. civ., con l’eccezione del caso di dolo; d) ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., richiamato dall’art. 2056 cod. civ., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta», con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi; e) in questo ambito, resta fermo l’onere di allegazione e prova da parte del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); f) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno; g) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7
giurista risponde

Notifica avvocatura dello Stato e patrocinio La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato deve ritenersi nulla o inesistente?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato è nulla e non inesistente.

La nullità della notificazione del ricorso introduttivo di primo grado comporta, in appello, la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 148 del 2021. – Cons. Stato, Sez. VII, 17 novembre 2022, n. 10111. 

Ha chiarito il Consiglio di Stato che, agli enti pubblici autonomi, nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, bensì quello facoltativo o autorizzato, sono inapplicabili le regole del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti appunto per le sole amministrazioni dello Stato.

Deve quindi essere considerata affetta da nullità la notifica del ricorso ad una Università, ove effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato.

A fronte di una notifica nulla, il vizio di nullità riscontrato può ritenersi sanato non già fornendo la prova dell’avvenuta conoscenza, comunque, dell’atto, bensì con la costituzione in giudizio della parte convenuta o intimata.

La tardiva costituzione processuale di colui il quale lamenti di non avere regolarmente ricevuto la comunicazione dell’atto introduttivo del giudizio, infatti, se, da un lato, sana il vizio di notifica ai sensi dell’art.156, comma 3, c.p.c. (a fronte della paventata volontà del convenuto di partecipare al processo e della desumibile prova di avvenuto raggiungimento dello scopo dell’attività di notifica espletata), dall’altro, legittima la rimessione in termini, ove chiesta, al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa mediante il riconoscimento della facoltà di compiere tutte quelle attività processuali che sarebbero formalmente precluse dalle decadenze, nelle more, maturate, senza colpa, a carico dell’interessato.

Quanto alla qualificazione del vizio inficiante il procedimento di notifica i Giudici chiariscono le differenze tra nullità e inesistenza e le relative conseguenze.

Qualora, infatti, la notificazione del ricorso introduttivo si ritenesse inesistente, il giudizio si concluderebbe con la declaratoria di inammissibilità non essendo applicabile la disciplina contemplata dall’art. 44, comma 4, c.p.a. in quanto concernente i (diversi) casi di nullità e non anche quelli di inesistenza della notifica.

Diversamente, qualora si propendesse per la tesi della nullità, il giudizio andrebbe rimesso al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., essendo possibile la rinnovazione della notificazione in conformità alla disciplina prevista dall’art. 44, comma 4, cit., così come censurata dalla Corte Costituzionale con la sent. 148/2021.

Ciò premesso, richiamando la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione formatasi in tema di notificazione degli atti processuali, si precisa che: “L’inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. A tali fini, il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto ed i vizi relativi alla individuazione di detto luogo, anche qualora esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto (Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2462)”.

Alla stregua del richiamato indirizzo giurisprudenziale, la notificazione non può, dunque, essere ritenuta inesistente, qualora il procedimento di notifica si sia comunque perfezionato, configurandosi eventuali difformità rispetto al modello tipizzato dal legislatore ipotesi di nullità processuale, suscettibili di sanatoria, in via retroattiva, per effetto della costituzione della parte intimata.

Nello specifico caso esaminato, si conclude, pertanto, per la qualificazione del vizio inficiante la notifica del ricorso come nullità, con conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5484;
Cons. Stato, sez. IV, 18 settembre 2019, n. 6231;
Cass. civ., sez. VI, ord. 9 febbraio 2018, n. 3240;
Cass. civ. sez. V, 15 marzo 2017, n. 6678;
Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778;
Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2014, n. 5046
parcheggio fuori dalle strisce

Parcheggio fuori dalle strisce: scatta la multa La Cassazione ricorda che l'art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all'uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica

Parcheggio fuori dalle strisce

Multato chi parcheggia fuori dalle strisce. Lo ha confermato la seconda sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 4040-2024, rigettando il ricorso di un automobilista sanzionato per aver parcheggiato il proprio veicolo fuori dagli appositi stalli, in violazione dell’art. 157 CdS, comma 5.

L’uomo si rivolgeva al Palazzaccio ritenendo che nello spazio in cui aveva parcheggiato il proprio veicolo non vi erano segnaletiche orizzontali, tracciate soltanto sul lato della piazzetta, “sì da non costituire ostacolo per alcun genere di transito”. Per cui, la decisione del tribunale, a suo dire, era “contraria al principio secondo cui la sosta degli autoveicoli è libera al di fuori degli stalli”.

Ma gli Ermellini ritengono la tesi infondata.

Art. 157, comma V, Codice della Strada

Richiamando i principi di recente affermati, infatti, ribadiscono che “l’art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all’uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica. La norma presuppone che la violazione sia stata consumata in zona ove la sosta è consentita ma solo con le modalità regolate dalla segnaletica. In tal senso, l’art.351 comma 2 del regolamento di esecuzione prescrive che, nelle zone di sosta nelle quali siano delimitati, mediante segnaletica orizzontale, gli spazi destinati a ciascun veicolo, i conducenti sono tenuti a sistemare il proprio mezzo nello spazio ad esso destinato, senza invadere gli spazi contigui” (cfr. Cass. n. 6930/2023).

Nel caso di specie, il tribunale ha accertato che il furgone del ricorrente era stato parcheggiato al di fuori della segnaletica orizzontale ma nella stessa piazza ove erano presenti, in diversi punti, segnali orizzontali, sicchè il parcheggio era avvenuto in prossimità degli stalli contrassegnati.

“La presenza degli stalli – concludono dalla S.C. rigettando il ricorso – non consentiva, quindi, il posizionamento del veicolo all’interno della piazza se non negli spazi delimitati dalla segnaletica orizzontale e non irregolarmente all’interno dell’area di sosta e a pochi metri dagli stalli e, dunque, in violazione dell’art. 157 C.d.S, comma 5″.

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equo compenso

Avvocati: l’equo compenso entra nel Codice Deontologico Il CNF ha approvato la nuova norma deontologica che sanziona il legale che concorda compensi troppo bassi o comunque ingiusti

Nuova norma deontologica equo compenso

Via libera alla nuova norma deontologica in materia di equo compenso prevista dalla legge 49/2023. Il Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 23 febbraio scorso ha approvato il testo del nuovo art. 25-bis in linea con l’obiettivo della legge di “garantire che gli avvocati ricevano un adeguato compenso per la loro attività professionale, contrastando al tempo stesso il fenomeno delle parcelle troppo basse o addirittura gratuite”.

La nuova norma è stata elaborata dalla Commissione deontologica del Consiglio Nazionale Forense, approvata in prima battuta dal CNF nell’ultima seduta amministrativa del 2023 e inviata, come previsto dalla legge professionale forense, ai Consigli dell’Ordine per la necessaria consultazione. Completati tutti i passaggi, il CNF ha approvato quindi la disposizione in via definitiva con piccole integrazioni.

Le sanzioni previste

Due le sanzioni disciplinari previste dalla nuova norma del codice deontologico forense. L’avvocato, infatti, precisa il CNF nella nota ufficiale, “non può concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta, e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti”. In caso di violazione, ciò comporterà “l’applicazione in sede disciplinare della censura”. Inoltre, “nei casi in cui l’avvocato stipuli una qualsiasi forma di accordo con il cliente, la norma richiede l’obbligo ad avvertire per iscritto il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare i criteri stabiliti dalla legge, pena la nullità della pattuizione”. In tal caso, la violazione di questa seconda disposizione normativa “comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.

L’iter

Le modifiche al codice deontologico degli avvocati entreranno in vigore dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, completando l’iter previsto dall’ordinamento forense.

Il testo del nuovo art. 25-bis

Di seguito il testo del nuovo art. 25-bis Cdf:

Art. 25-bis – Violazioni delle disposizioni in materia di equo compenso

  1. L’avvocato non può concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta, e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti.
  2. Nei casi in cui la convenzione, il contratto, o qualsiasi diversa forma di accordo con il cliente cui si applica la normativa in materia di equo compenso siano predisposti esclusivamente dall’avvocato, questi ha l’obbligo di avvertire, per iscritto, il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia.
  3. La violazione del divieto di cui al primo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dell’obbligo di cui al secondo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.