Reato di bancarotta fraudolenta e liquidazione giudiziale
Il reato di bancarotta fraudolenta punisce l’imprenditore, o chi ricopre cariche societarie, che compia con dolo atti in danno del patrimonio dell’impresa o della parità di condizioni dei creditori.
L’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I.) dispone, sulla falsariga di quanto prevedeva l’art. 216 della Legge Fallimentare, che può essere punito per tale reato solo l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale (in precedenza, si faceva riferimento all’imprenditore fallito; la liquidazione giudiziale ha sostanzialmente sostituito il fallimento nella nuova disciplina posta dal Codice, come strumento procedurale teso a soddisfare i creditori dell’imprenditore insolvente).
Le diverse ipotesi di bancarotta fraudolenta
Le ipotesi di bancarotta fraudolenta individuate dall’art. 322 C.C.I.I. sono le seguenti:
- la c.d. bancarotta patrimoniale, che ricorre quando l’imprenditore distrae, occulta, dissimula o distrugge o dissipa i propri beni, oppure quando espone o riconosce passività inesistenti per arrecare pregiudizio ai creditori;
- la c.d. bancarotta documentale, quando l’imprenditore sottrae, distrugge o falsifica i libri o le scritture contabili, per trarne un ingiusto profitto o per recar danno ai creditori;
- e la c.d. bancarotta preferenziale, che ricorre quando l’imprenditore favorisce alcuni creditori in danno di altri, eseguendo pagamenti o simulando titoli di prelazione.
Le pene previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
Ciò che distingue il reato di bancarotta fraudolenta dalla semplice bancarotta è l’elemento psicologico, che consiste nel dolo, e cioè nell’intenzione, da parte del soggetto agente, di arrecare danno ai creditori.
La pena prevista per il reato di bancarotta fraudolenta è la reclusione da tre a dieci anni, nei casi di bancarotta patrimoniale o documentale, e da uno a cinque anni per la bancarotta preferenziale.
In ogni caso, il colpevole è punito anche con la condanna alla pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e all’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni (art. 322 C.C.I.I., ultimo comma).
Dichiarazione di liquidazione giudiziale nella giurisprudenza
Particolare interesse ha suscitato in giurisprudenza il valore della dichiarazione di liquidazione giudiziale, che a volte è stata considerata come un vero e proprio elemento del reato, mentre altre volte come una mera condizione di punibilità.
In particolare, la sentenza n. 13910/2017 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione aveva sancito che la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) fosse semplicemente una condizione di punibilità, cioè un evento al verificarsi del quale il colpevole può essere punito. Ciò perché, a giudizio degli Ermellini, la dichiarazione di fallimento è cosa ben diversa dallo stato di insolvenza che ne è alla base e che solo costituisce l’offesa al patrimonio dei creditori.
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Orientamento più risalente della Cassazione
L’orientamento più risalente della Corte di Cassazione, che considerava invece la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, è stato invece riportato in auge da una successiva pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., sent. n. 40477/18), che considera la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) come un elemento costitutivo della fattispecie di reato.
In proposito, la sentenza motiva tale scelta “in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti essenziali”, ricollegandosi espressamente al risalente, ma autorevole, arresto delle Sezioni Unite (sent. n. 2 del 1958), che giustificava tale orientamento sostenendo che, mentre la condizione di punibilità presuppone un reato già perfetto, la dichiarazione di fallimento inerisce intimamente alla struttura del reato.