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SCIA: Segnalazione Certificata di Inizio Attività SCIA: cos'è, quando è necessaria, differenze con la CILA, quanto costa e giurisprudenza delle corti superiori

Cos’è la SCIA?

La SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) è uno strumento previsto dal sistema normativo italiano che consente a chi intende eseguire determinati lavori edilizi di avviare l’attività senza dover attendere il rilascio di un’autorizzazione preventiva. Si tratta di un importante strumento di semplificazione amministrativa, che permette di ridurre i tempi e i costi per ottenere l’autorizzazione a realizzare interventi edilizi.

La SCIA è un procedimento amministrativo che consente di avviare i lavori edilizi senza attendere una risposta preventiva dall’amministrazione pubblica. In pratica, il cittadino o l’impresa edile, al momento della presentazione della SCIA, può iniziare i lavori immediatamente, dichiarando che l’intervento sarà eseguito in conformità alla normativa vigente. L’amministrazione ha poi il compito di verificare la conformità dell’opera rispetto agli strumenti urbanistici e alle altre normative edilizie.

La SCIA si distingue dal tradizionale permesso di costruire in quanto non richiede un’autorizzazione preventiva, ma una semplice segnalazione che attesta la conformità del progetto. Una volta inviata la SCIA, l’amministrazione ha dai 30 ai 60 giorni di tempo, a seconda del tipo di SSCIA richiesta, per esprimere il proprio parere; se non c’è risposta entro questo termine, si considera che l’autorizzazione sia implicitamente rilasciata.

Quando è necessaria la SCIA?

La SCIA è necessaria per interventi edilizi che non comportano modifiche sostanziali al territorio, alla volumetria o alla destinazione d’uso di un immobile. È utilizzata soprattutto per lavori di manutenzione straordinaria, ristrutturazioni leggere, opere interne, e per quei lavori che non alterano la struttura urbanistica di un’area.

Alcuni esempi di lavori che richiedono la SCIA includono:

  • Manutenzione straordinaria: interventi che riguardano il restauro, la sostituzione o la modifica di parti strutturali di un edificio.
  • Ristrutturazioni leggere: lavori che modificano l’aspetto esteriore di un edificio, ma senza variare la volumetria o la destinazione d’uso
  • Apertura di attività commerciali: quando si intende avviare un’attività in un locale già esistente e conforme alle normative urbanistiche.

In generale, la SCIA è obbligatoria per quei lavori che non richiedono una modifica sostanziale del piano urbanistico o che non hanno un impatto significativo sull’ambiente e sulla sicurezza pubblica.

Differenze con la CILA

Molti tendono a confondere la SCIA con la CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata), ma tra i due strumenti vi sono differenze sostanziali:

SCIA

  • Necessità: la SCIA è necessaria per lavori che possono avere un impatto sul territorio, ma senza modificarne la destinazione d’uso o la volumetria.
  • Caratteristiche: consente di avviare i lavori senza attendere il rilascio di un’autorizzazione preventiva, ma l’amministrazione ha un termine di legge per effettuare eventuali controlli. Se non interviene, il permesso si considera rilasciato tacitamente.
  • Esempi: lavori di ristrutturazione leggera, ampliamenti, modifiche della facciata, interventi che non alterano le caratteristiche fondamentali dell’edificio.

CILA

  • Necessità: la CILA è utilizzata per lavori che non comportano modifiche sostanziali alla struttura dell’immobile e non incidono sulla volumetria. Viene usata principalmente per opere interne non invasive.
  • Caratteristiche: la CILA non richiede il parere dell’amministrazione, ma si deve allegare una dichiarazione asseverata da un tecnico abilitato che attesti la conformità dell’ È utilizzata principalmente per lavori di manutenzione ordinaria o piccoli interventi.
  • Esempi: rifacimento degli impianti, lavori di restauro e risanamento conservativo che non incidono sulla struttura.

Differenze principali

  1. Impatto del lavoro: la SCIA si applica a interventi più complessi e che potrebbero alterare la configurazione dell’edificio, mentre la CILA è destinata a lavori meno invasivi.
  2. Responsabilità tecnica: la SCIA può essere presentata senza il supporto di una perizia asseverata, mentre la CILA richiede una dichiarazione tecnica da parte di un professionista.
  3. Tempi di risposta: con la SCIA l’amministrazione ha a disposizione un determinato periodo di tempo per intervenire; con la CILA, invece, non ci sono termini di risposta specifici da parte dell’amministrazione.

Costi della SCIA

I costi legati alla presentazione di una SCIA dipendono principalmente dalle tariffe comunali e dalle spese professionali per l’assistenza tecnica. I costi variano da comune a comune e possono includere:

  • diritti di segreteria: i comuni stabiliscono una tariffa per la presentazione della SCIA, che può variare in base all’entità dell’intervento;
  • compenso per il professionista: se necessario, è possibile dover pagare una parcella per l’assistenza di un tecnico abilitato, che deve redigere la documentazione e asseverare la conformità del progetto;
  • eventuali oneri di costruzione: in alcuni casi, anche se la SCIA non prevede un’autorizzazione preventiva, potrebbero essere richiesti dei contributi per la realizzazione dell’opera, come gli oneri di urbanizzazione.

I costi per l’intero procedimento variano in base alla tipologia dell’intervento edilizio e alle normative specifiche del comune in cui vengono eseguiti i lavori.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha avuto un ruolo importante nell’interpretare e applicare le norme relative alla SCIA, in particolare riguardo alla sua correttezza applicativa e alle tempistiche di risposta da parte dell’amministrazione.

Consiglio di Stato n. 1256/2025: la SCIA edilizia acquisisce piena validità decorsi 30 giorni dalla sua presentazione, momento oltre il quale il comune perde il potere di ordinare la demolizione delle opere realizzate. Qualora, invece, intervenga una sospensione dei lavori, il comune è tenuto a emettere un ordine di ripristino entro 45 giorni; in caso contrario, tale provvedimento decade e la SCIA si consolida definitivamente.

Consiglio di Stato n. 467/2022: solo gli interventi di “edilizia libera”, definiti dall’articolo 6 del D.P.R. n. 380/2001 e dall’articolo 3, lettera e.5), possono essere eseguiti senza alcun titolo edilizio. La trasformazione di finestre in porte-finestre non rientra in questa categoria, poiché modifica i prospetti. Tale intervento è considerato manutenzione straordinaria ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 380/01 e richiede la presentazione di una SCIA (articolo 22, lettera b) del D.P.R. 380/2001).

Cassazione n. 15523/2019: anche se un intervento edilizio rientra nella categoria di quelli realizzabili tramite SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), è indispensabile ottenere l’autorizzazione paesaggistica esplicita qualora l’opera si trovi in un’area sottoposta a vincolo. Il principio del silenzio-assenso, previsto dalla legge 241/1990, non si applica in questi casi, poiché esclude atti e procedimenti relativi al patrimonio culturale e paesaggistico. Pertanto, l’assenza di tale autorizzazione costituisce reato, giustificando il sequestro preventivo dell’opera.

 

Leggi anche: Potere di autotutela e denuncia di inizio attività (DIA/SCIA)

giurista risponde

Dichiarazione di interesse culturale di un bene È legittimo il provvedimento della Soprintendenza di dichiarazione di interesse culturale di un bene che applichi in concreto, pur non facendone espressa menzione, i criteri individuati dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il provvedimento anche alla luce della necessaria valutazione di tipo globale e sintetico e posto che l’interesse culturale dell’opera venga espresso in considerazione della norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione, per cui il privato ha l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso da quest’ultima sia scientificamente inaccettabile (Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285).

Il Collegio ricorda che, ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del D.Lgs. 42/2004, il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (il c.d. vincolo diretto) è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, in quanto implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Sulla scorta di tanto, l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecniche e del procedimento applicativo prescelto (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).

Emerge, dall’elaborazione a cui il Collegio dà continuità, che il presupposto del potere ministeriale di vincolo viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione. Ne consegue, dunque, che se è vero che l’interessato può “contestare anche il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso” ha tuttavia l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione, pur non avendone fatta espressa menzione, ha applicato in concreto i criteri individuati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974 (e recepiti dal D.M. 6 dicembre 2017, n. 537), approdando ad una valutazione finale supportata da adeguata motivazione. Motivazione in linea con i già indicati criteri che svolgono un ruolo di mero indirizzo rispetto alla spendita delle potestà di discrezionalità tecnica attribuite all’amministrazione tutoria e pongono parametri compositi da applicare, senza alcun automatismo, in maniera congiunta nell’ambito di un giudizio di tipo globale e sintetico.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di interesse culturale di un bene”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

permesso di costruire

Permesso di costruire Permesso di costruire: definizione, normativa di riferimento, rilascio, differenza con la SCIA e giurisprudenza

Cos’è il permesso di costruire?

Il permesso di costruire è un atto amministrativo che autorizza l’inizio di un intervento edilizio, che deve rispettare una serie di normative urbanistiche, ambientali e tecniche. Si tratta di uno degli strumenti più importanti per garantire che le opere edilizie siano conformi ai piani regolatori comunali, alle leggi sul paesaggio, alla sicurezza e alla qualità dell’ambiente urbano.
Esso è disciplinato dal Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), che ha sostituito la precedente “concessione edilizia”, stabilendo regole uniformi su tutto il territorio nazionale.

Normativa di riferimento

Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 è la normativa principale che regola il permesso di costruire. Il Testo Unico dell’Edilizia ha armonizzato e semplificato le procedure di rilascio di autorizzazioni edilizie, offrendo indicazioni precise su come e quando ottenere il permesso di costruire.

Gli articoli salienti

Alcuni articoli salienti di questa normativa sono:
• l’articolo 10: che stabilisce che il permesso di costruire è necessario per gli interventi edilizi che comportano una modificazione sostanziale dell’uso del suolo, come nuovi edifici, ampliamenti e modifiche strutturali significative;
• l’art. 11: che definisce le caratteristiche del permesso di costruire, ossia la trasferibilità ai successori e aventi causa, la sua irrevocabilità e onerosità. Il permesso di costruire inoltre non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali e non comporta limitazioni dei diritti dei terzi;
• l’articolo 12: che stabilisce i presupposti per il suo rilascio;
• l’art. 15: che stabilisce l’efficacia temporale e la decadenza del permesso a costruire;
• l’articolo 20: che regolamenta il procedimento per il rilascio e i tempi, stabilendo anche le modalità di ricorso in caso di diniego.
Oltre al Testo Unico, ogni comune ha una propria normativa edilizia che deve essere rispettata. I regolamenti locali possono prevedere ulteriori specifiche, come le modalità di presentazione della domanda, i documenti necessari e le procedure per il rilascio.

Quando viene rilasciato il permesso di costruire?

Il permesso viene rilasciato quando si ha intenzione di realizzare interventi edilizi che comportano una modificazione sostanziale del territorio, come la costruzione di nuovi edifici, la ristrutturazione o l’ampliamento di edifici esistenti, qualsiasi intervento che modifichi l’assetto urbanistico di un’area.
La richiesta viene presentata al comune, il quale deve verificarne la conformità rispetto al piano regolatore e ad altre normative settoriali (sicurezza, ambiente, paesaggio, salute pubblica, ecc.).

Una volta ottenuto il permesso, il richiedente ha un termine per avviare i lavori e, generalmente, è obbligato a completare l’opera entro i termini stabiliti.

Differenza tra permesso di costruire e SCIA

Una delle principali distinzioni nel panorama delle autorizzazioni edilizie riguarda la differenza tra permesso di costruire e SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività). Mentre il permesso di costruire è obbligatorio per le opere più rilevanti e che impattano maggiormente sull’urbanistica, la SCIA si applica a interventi più semplici che non modificano in modo sostanziale il territorio o la struttura edilizia esistente.

Permesso di costruire vs SCIA

• Permesso di Costruire: richiesto per interventi edilizi complessi o per nuove costruzioni che possano influire sul piano regolatore, sull’assetto urbano o sull’ambiente. L’amministrazione pubblica ha il compito di valutare la conformità del progetto con le normative urbanistiche e ambientali.
• SCIA: la SCIA è una dichiarazione che il soggetto interessato presenta per avviare determinati lavori edilizi. L’intervento deve essere conforme agli strumenti urbanistici vigenti, ma, in questo caso, non è necessaria l’autorizzazione preventiva da parte dell’amministrazione, che potrà solo controllare la correttezza dell’intervento successivamente.

La SCIA è spesso usata per interventi di minore impatto, come lavori di manutenzione ordinaria, interventi di ristrutturazione leggera o modifiche interne a edifici esistenti, mentre il permesso si applica in casi in cui l’opera comporta una vera e propria trasformazione del territorio.

Giurisprudenza rilevante

Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’interpretare e applicare la normativa, risolvendo le controversie relative alla sua applicazione:

Consiglio di Stato n. 962/2025

Il soggetto legittimato a impugnare un permesso di costruire, come un proprietario confinante, deve rispettare termini specifici per presentare il ricorso. Questi termini decorrono dal momento in cui i lavori hanno inizio (c.d. an dell’edificazione) o, eventualmente, da quando l’interessato ne viene a conoscenza.
Trascorsi i 60 giorni previsti per l’impugnazione, il ricorso è considerato tardivo e non può essere esaminato dal giudice, indipendentemente dalla conformità dell’opera al titolo edilizio.

Cassazione n. 23186/2018

La totale difformità dal permesso di costruire, secondo l’articolo 31 del Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001), si verifica quando l’intervento edilizio realizzato si discosta completamente da quello autorizzato. Questo avviene in due casi principali:

1. Modifica sostanziale dell’organismo edilizio – Se l’opera costruita differisce integralmente per tipologia, forma, volumetria o destinazione d’uso rispetto a quanto previsto nel permesso di costruire.

2. Superamento dei volumi autorizzati – Se vengono realizzati volumi edilizi eccedenti i limiti approvati, tali da costituire un’unità edilizia autonoma o comunque significativa rispetto al progetto iniziale. In sintesi, la totale difformità si ha quando l’opera costruita è radicalmente diversa da quella autorizzata, tanto da configurare un nuovo organismo edilizio.

TAR Campania – Salerno n. 1611/2015

E’ illegittimo che un’Amministrazione richieda, come condizione per il rilascio del permesso di costruire, la dimostrazione della regolarità del richiedente nei confronti dei tributi comunali. Tale pretesa altera la finalità del potere amministrativo, utilizzandolo per scopi estranei rispetto a quelli stabiliti dalla legge, che disciplina il permesso di costruire con criteri specifici e autonomi.

 

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giurista risponde

Legittimazione a impugnare e azione popolare (Art. 9 D.lgs. 267/2000) Ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia se si presuppone l’esistenza di una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale e l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale (Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2024, n. 9046 – Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000).

Nella fattispecie concreta il ricorrente ha agito in giudizio ai sensi dell’art. 9, comma 1, D.Lgs. 267/2000, e cioè in via sostitutiva dell’ente comunale e provinciale.

La suddetta disposizione prevede che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. Dunque, si tratta di un particolare meccanismo di sostituzione processuale dell’ente locale a beneficio degli elettori che presuppone l’esistenza di un’azione giudiziale di spettanza dell’ente e la sua inerzia nell’esercitarla.

La natura dello strumento non è correttiva, bensì suppletiva e il suo presupposto necessario va rinvenuto nell’omissione, da parte dell’ente, dell’esercizio delle proprie azioni e ricorsi. Infatti, l’attore non può porsi in contrasto con l’ente stesso al fine di rimuovere gli errori e le illegittimità da questo commessi.

Pertanto, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale cui l’elettore si sostituisce, in specie nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti o atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni.

L’iniziativa sostitutiva postula dunque, da un lato, una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale, dall’altro, l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale.

 

(*Contributo in tema di “Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice Il giudice accertata l’intrinseca irrazionalità/illogicità del giudizio di anomalia può disporre immediatamente l’annullamento dell’aggiudicazione e dichiarare l’inefficacia del contratto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il giudice, accertata l’irrazionalità del giudizio di anomalia, non può disporre immediatamente l’annullamento dell’aggiudicazione in luogo del rinvio degli atti all’Amministrazione, per la rinnovazione globale del subprocedimento di verifica dell’anomalia, da estendersi ad ogni aspetto riguardante l’attendibilità dell’offerta economica (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2024, n. 8437 (Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice).

I Giudici di Palazzo Spada evidenziano che il Giudice di prime cure, rilevando profili di criticità, non ha esorbitato dai limiti delle proprie attribuzioni. Nel far ciò, dunque, non si è in alcun modo sostituito alle valutazioni dell’Amministrazione, formulando un proprio giudizio di anomalia diverso da quello svolto in sede di gara – la qual cosa determinerebbe senz’altro uno straripamento del potere giurisdizionale in ambiti riservati alla discrezionalità amministrativa – bensì, si è limitato ad accertare i suddetti elementi di criticità riguardante la stima dei ricavi.

Il Giudice di prime cure si è dunque attenuto al principio giurisprudenziale secondo il quale: “Il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto; pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo” (Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2019, n. 2879).

Senonché, nella fattispecie in esame, il Giudice di prime cure dopo aver correttamente accertato l’intrinseca irrazionalità/illogicità del giudizio di anomalia, ha esorbitato le proprie attribuzioni, disponendo l’immediato annullamento dell’aggiudicazione e dichiarando altresì l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, in luogo di disporre rinvio degli atti all’Amministrazione, per la rinnovazione globale del sub-procedimento di verifica dell’anomalia, da estendersi ad ogni aspetto riguardante l’attendibilità dell’offerta economica.

La Sezione ha, dunque, aderito ad un precedente orientamento: “L’accertamento di una carenza di istruttoria da parte della stazione appaltante nella verifica di anomalia dell’offerta aggiudicataria comporta sempre la riapertura del relativo sub-procedimento e la valutazione anche delle giustificazioni degli altri concorrenti. Tale sindacato giurisdizionale non può incontrare pertanto un limite nell’art. 34, comma 2, Cod. proc. amm., in quanto, per il solo fatto di determinare un prosieguo procedimentale, non integra una pronuncia su poteri amministrativi non ancora esercitati, limitandosi piuttosto ad un effetto conformativo sulla riedizione del potere”.

Pertanto, l’accertamento di carenze istruttorie nel corso del sub-procedimento di verifica di anomalia non ridonda nel sindacato su poteri non ancora esercitati, poichè l’esito di tale accertamento è la riedizione del potere da parte dell’Amministrazione.

Dunque, solo a seguito di questa ulteriore e completa verifica sarà possibile considerare effettivamente consumata la discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con conseguente possibilità, da parte del giudice amministrativo, di un sindacato diretto sul modo di esercizio di detta discrezionalità da parte dell’Amministrazione.

(*Contributo in tema di “Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

atto amministrativo

Atto amministrativo valido anche senza firma Atto amministrativo: l'assenza di formale sottoscrizione non elide la possibilità di attribuire comunque la provenienza dell'atto alla competente PA

Atto amministrativo senza firma

E’ valido l’atto amministrativo senza firma se il responsabile è comunque individuabile. Questo quanto si ricava dalla sentenza n. 8141/2024 del Consiglio di Stato.

La vicenda

A ricorrere a palazzo Spada, è una donna che aveva chiesto l’assegnazione in regolarizzazione di un alloggio ERP abusivamente occupato.

La domanda veniva rigettata, dal Comune di Barletta, per assenza del “presupposto temporale” ossia l’abusiva occupazione dell’immobile per almeno un triennio precedente alla entrata in vigore della legge regionale n. 10 del 2014.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al TAR Bari il quale rigettava il ricorso della richiedente per le seguenti ragioni: pur in assenza di firma autografa, il provvedimento di rigetto risulta comunque attribuibile alla competente PA; non è stata fornita la benché minima dimostrazione circa l’abusiva occupazione dell’alloggio nel triennio precedente all’entrata in vigore della legge regionale citata.

L’appello

Da qui l’appello, dove la donna si doleva dell’erroneità della sentenza nella parte in cui non sarebbe stato considerato che alcuna firma digitale sarebbe stata apposta sul gravato provvedimento. In ogni caso, anche a voler ritenere apposta la firma digitale, l’atto non era poi stato trasmesso in via telematica ma soltanto a mezzo del messo notificatore.

L’assenza di formale sottoscrizione

“L’assenza di formale sottoscrizione del provvedimento di rigetto non elide la possibilità di attribuire comunque, all’amministrazione comunale appellata, la effettiva provenienza del medesimo atto” afferma preliminarmente il Consiglio di Stato.

Al riguardo, prosegue il giudice amministrativo, la giurisprudenza sull’assenza di firma dei provvedimenti tributari o amministrativi in generale, è pacifica nell’affermare che “Sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisce lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che la giurisprudenza ha recentemente (e condivisibilmente) osservato, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la ‘non leggibilità’ della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano), che permettono di individuare la sua sicura provenienza (C.d.S., sez. IV, 7 luglio 200, n. 4356; sez. VI, 29 luglio 2009, n. 4712)”.

La decisione

La giurisprudenza ha anche rilevato (Cass. sez. lav., 10 giugno 2009, n. 13375) che “l’atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall’amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo” (Cons. Stato, sez. V, 2 gennaio 2024, n. 29; n. 3119/2012).

Pertanto, l’appello è infondato e va rigettato. Spese compensate.

giurista risponde

Varianti in senso stretto del permesso a costruire e varianti essenziali Quando si configura una variante in senso stretto del permesso a costruire e quando una variante essenziale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Collegio fa luce sulla distinzione tra varianti in senso stretto e varianti essenziali (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2024, n. 8072).

Il Collegio ricorda che con la L. 10/1977 il regime sanzionatorio è stato graduato secondo uno schema generale tuttora vigente: le opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità dalla stessa devono essere demolite a spese del proprietario o del costruttore; le opere, invece, realizzate in parziale difformità devono essere demolite a spese del concessionario, ma nel caso in cui non fosse possibile, senza pregiudicare le parti conformi, il concessionario resta assoggettato a una sanzione pecuniaria.

Si è successivamente correlata la differenziazione tra variazioni essenziali e non essenziali. Le prime assoggettate al più severo regime sanzionatorio proprio della totale difformità, mentre quelle non essenziali restano ascritte al vizio della parziale difformità, correlato alle sanzioni stabilite dall’art. 34 T.U. dell’edilizia.

Emerge, dall’elaborazione a cui il Collegio dà continuità, che si è in presenza di difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzioni e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.

Dunque, “mentre le varianti in senso stretto al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 22, comma 2, T.U. edilizia, e cioè le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire; le variazioni “essenziali”, giacché caratterizzate da incompatibilità con il progetto edificatorio originario in base ai parametri ricavabili, in via esemplificativa, dall’art. 32 T.U. edilizia, sono soggette al rilascio di un permesso a costruire del tutto nuovo e autonomo rispetto a quello originario”.

Nel caso di specie l’adozione dell’ordinanza di demolizione, con la quale l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti in materia edilizia e urbanistica, si connota come un preciso obbligo dell’Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo, la violazione della regola di proporzionalità agganciata alla presenza di presunte opere modeste non può trovare utile invocazione considerato che la configurazione delle opere, abusive, tratteggiata dall’Amministrazione, non poteva che condurre al completo ripristino dello stato dei luoghi.

 

(*Contributo in tema di “Varianti in senso stretto del permesso a costruire e varianti essenziali”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

silenzio amministrativo

Silenzio amministrativo Silenzio amministrativo: definizione, normativa di riferimento conseguenze e giurisprudenza degli organi di giustizia amministrativa

Cos’è il silenzio amministrativo

Il silenzio amministrativo è un istituto del diritto amministrativo italiano che si verifica quando l’amministrazione non risponde entro un termine prestabilito a una richiesta o istanza avanzata dal cittadino. Questo comportamento, regolato dalla normativa vigente, produce effetti giuridici specifici. Esaminiamo il concetto, la normativa di riferimento, le conseguenze e alcuni orientamenti giurisprudenziali sul tema.

Forme del silenzio amministrativo

Il silenzio amministrativo rappresenta, in sostanza, una modalità attraverso cui l’amministrazione esprime o si presume esprima una volontà in relazione a una richiesta o procedimento amministrativo.

Può assumere diverse forme:

 

  • Silenzio-assenso: il mancato riscontro equivale a un’accettazione implicita.
  • Silenzio-rifiuto: il mancato riscontro equivale a un diniego implicito.
  • Silenzio-inadempimento: l’amministrazione non conclude il procedimento nei termini, ma ciò non genera un effetto giuridico immediato.

 

Normativa di riferimento

La disciplina del silenzio amministrativo è contenuta principalmente nella legge 7 agosto 1990, n. 241, che regola il procedimento amministrativo, e in altre disposizioni settoriali. Gli articoli principali sono:

  • 2, l. 241/1990: definisce i termini entro cui l’amministrazione deve concludere il procedimento. Il comma 2 della norma stabilisce che i procedimenti amministrativi delle PA statali e dagli enti pubblici nazionali devono concludersi in 30 giorni a mano che la legge non stabilisca dei termini diversi. La norma stabilisce anche che la tutela in materia di silenzio dell’amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo, contenuto nel dlgs n. 104/2010.
  • Art 2 bis, l. 241/1990: le pubbliche amministrazioni che non osservano con colpa o con dolo il termine per concludere il procedimento sono tenute al risarcimento del danno. Fatte salve queste ipotesi, quelle di silenzio qualificato e quelle relative ai concorsi “in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo.”
  • 20, l. 241/1990: stabilisce la regola generale del silenzio-assenso, salvo eccezioni.

 

In ambito ambientale, edilizio o per altri settori sensibili, la regola del silenzio-assenso può non essere applicabile, prevedendosi obbligatoriamente un provvedimento espresso.

 

Conseguenze del silenzio amministrativo

Le conseguenze variano in base al tipo di silenzio.

Silenzio-assenso: l’istanza si intende accolta, con effetti giuridici favorevoli al cittadino. L’amministrazione conserva il potere di intervenire successivamente, ma solo in presenza di motivi di interesse pubblico.

Silenzio-rifiuto: il cittadino può impugnare l’atto presunto davanti al giudice amministrativo per contestare il diniego implicito.

Silenzio-inadempimento: non si produce un provvedimento implicito, ma il cittadino può sollecitare l’adempimento ricorrendo al giudice amministrativo o chiedendo un intervento sostitutivo.

 

Giurisprudenza in materia di silenzio amministrativo

La giurisprudenza ha spesso affrontato il tema del silenzio amministrativo, chiarendo alcuni punti fondamentali:

 

  • Silenzio-assenso: il Consiglio di Stato ha ribadito che il silenzio-assenso non si applica in settori che richiedono una verifica particolarmente stringente, come l’ambiente e la sanità (Consiglio di Stato 1834/2022). Nella decisione n. 5746/2022 Palazzo Spada ha anche previsto che il silenzio-assenso si forma anche se l’attività per cui si chiede l’autorizzazione non rispetta pienamente le norme che la regolano. Questo accade perché la legge vuole semplificare i rapporti tra cittadini e amministrazione, accelerando le procedure. Tuttavia, l’amministrazione mantiene comunque il potere di intervenire successivamente per correggere eventuali irregolarità.
  • Silenzio-rifiuto: il giudice amministrativo è competente a valutare l’illegittimità del rifiuto presunto, e può ordinare all’amministrazione di adottare un provvedimento espresso (TAR Lazio, 254/2023).
  • Silenzio-inadempimento: nei casi in cui il silenzio costituisca violazione dell’obbligo di concludere il procedimento, l’intervento giudiziario è volto a ripristinare il rispetto dei tempi procedurali (Consiglio di Stato n. 3867/2021). Perché si possa parlare di silenzio inadempimento da parte dell’Amministrazione, non basta che questa non concluda il procedimento entro il tempo stabilito per quel tipo di richiesta. È anche necessario che l’Amministrazione abbia un preciso obbligo di rispondere all’istanza del privato. Questo obbligo può derivare dalla legge, da principi generali, dalla particolarità del caso o da ragioni di giustizia e correttezza nei rapporti tra amministrazione e cittadini. Inoltre, è fondamentale che la risposta dell’Amministrazione sia necessaria per permettere al cittadino di far valere i propri diritti in sede giudiziaria (Consiglio di Stato 961/2018).

 

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atti e provvedimenti amministrativi

Atti e provvedimenti amministrativi Atti e provvedimenti amministrativi: definizione, elementi distintivi, tipologie, normativa e giurisprudenza 

Cosa sono gli atti amministrativi

Vediamo cosa sono atti e provvedimenti amministrativi.

Gli atti amministrativi sono manifestazioni di volontà, dichiarazioni o comportamenti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione per perseguire interessi pubblici. Questi atti si distinguono per la loro finalità di realizzare obiettivi di interesse generale, agendo nel rispetto delle norme di legge e dei principi costituzionali.

Un atto amministrativo è generalmente unilaterale, ossia emesso dalla Pubblica Amministrazione senza necessità di consenso da parte del destinatario. Gli atti possono essere ricognitivi, se accertano una situazione giuridica preesistente, o costitutivi, se creano, modificano o estinguono situazioni giuridiche.

Cosa sono i provvedimenti amministrativi

I provvedimenti amministrativi rappresentano una particolare categoria di atti amministrativi caratterizzati dalla capacità di incidere direttamente sulla sfera giuridica dei destinatari, creando obblighi o attribuendo diritti. Essi si distinguono per la loro immediata esecutorietà, che consente alla Pubblica Amministrazione di darvi attuazione senza necessità di ulteriori passaggi giudiziari.

Tra i provvedimenti amministrativi più comuni troviamo:

  • autorizzazioni;
  • concessioni;
  • ordini;
  • sanzioni amministrative.

Qual è la normativa di riferimento?

La disciplina degli atti e dei provvedimenti amministrativi si fonda su normative di livello costituzionale, legislativo e regolamentare:

  • Articolo 97 della Costituzione: stabilisce i principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, che devono guidare l’adozione di atti e provvedimenti.
  • Legge n. 241/1990: regola il procedimento amministrativo, imponendo trasparenza, motivazione e partecipazione per gli atti adottati dalla PA.
  • Codice del processo amministrativo (D.lgs. n. 104/2010): disciplina il controllo giurisdizionale sugli atti amministrativi, prevedendo strumenti di tutela per i destinatari.
  • Codice civile: in alcuni casi, integra la disciplina amministrativa, ad esempio con riferimento alla capacità giuridica o alla validità degli atti.

Quali effetti producono gli atti amministrativi?

Gli atti amministrativi producono effetti giuridici immediati e diretti sulla sfera dei destinatari. A seconda della loro natura, possono:

– attribuire diritti: ad esempio, un’autorizzazione consente al destinatario di svolgere un’attività altrimenti vietata;

– imporre obblighi: come nel caso di un’ordinanza di demolizione;

sanzionare comportamenti illeciti: attraverso l’irrogazione di multe o altre sanzioni amministrative;

dichiarare situazioni giuridiche: riconoscendo uno status giuridico preesistente.

Giurisprudenza su atti e provvedimenti amministrativi

La giurisprudenza ha contribuito a definire con precisione le caratteristiche e i limiti degli atti e provvedimenti amministrativi:

Consiglio di Stato: ha specificato che i provvedimenti amministrativi devono essere adeguatamente motivati e adottati nell’ambito delle competenze dell’ente, pena la loro annullabilità. Come precisato nella sentenza n. 2457/2017 l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, ha una funzione sostanziale: è rispettato se l’atto espone il percorso logico-giuridico che ha portato alla decisione, consentendo al destinatario di comprenderne le ragioni e di accedere efficacemente alla tutela giurisdizionale, in linea con gli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Consiglio di Stato n. 10484/2024: l’amministrazione competente per il diritto di accesso ai   è il soggetto pubblico o privato che, svolgendo attività di pubblico interesse, possiede o deve possedere i documenti amministrativi relativi a tale attività. Non può essere opposta al cittadino la mancanza dei documenti, se questi rientrano nelle competenze dell’amministrazione e devono essere da essa detenuti.

Cassazione civile n. 5097/2018: secondo l’art. 21-septies della L. 241/1990, la nullità di un provvedimento amministrativo si configura solo in caso di “difetto assoluto di attribuzione”, cioè quando manca qualsiasi norma che conferisca il potere esercitato. I casi di “carenza di potere in concreto” (esercizio del potere senza i presupposti di legge) ricadono invece nell’annullabilità.

 

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danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance: basta la revisione della decisione  Danno da perdita di chance: per il risarcimento non basta la lesione di una mera aspettativa, per riparare basta la revisione della decisione

Risarcimento danno da perdita di chance

Il risarcimento del danno da perdita di chance è il focus della sentenza del Consiglio di Stato n. 10324/2024, che affronta così un tema cruciale per il diritto amministrativo. Dalla decisione emerge chiaramente che questo tipo di risarcimento non si limita a una compensazione economica. Esso può anche consistere nella revisione della decisione amministrativa contestata. Analizziamo i punti chiave della pronuncia.

Procedura selettiva annullata: danno da perdita di chance

Un candidato aveva partecipato a una procedura selettiva per incarichi dirigenziali bandita dal Ministero dell’Istruzione. Non risultando vincitore, aveva contestato la valutazione dei punteggi, ritenendoli irragionevoli. Dopo un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il Consiglio di Stato aveva annullato gli atti della procedura per manifesta illogicità nei criteri di valutazione.

Il candidato, ritenendo di aver perso l’opportunità di vincere, aveva richiesto al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio il risarcimento del danno patrimoniale, curriculare e non patrimoniale. Il TAR aveva respinto la domanda, decisione confermata successivamente dal Consiglio di Stato.

Il risarcimento non è automatico

Il Consiglio di Stato ha chiarito  infatti che il risarcimento del danno non segue automaticamente all’annullamento di un provvedimento amministrativo. Per ottenere il risarcimento, è necessario dimostrare:

  • la condotta illegittima dell’amministrazione;
  • il nesso causale tra la condotta e il danno;
  • la perdita concreta e ingiusta subita dal ricorrente.

L’onere della prova spetta al ricorrente, il quale deve fornire elementi certi o almeno altamente probabili per dimostrare il danno subito.

Perdita di chance: bene giuridico autonomo

La perdita di chance si deve tradurre in una possibilità concreta di conseguire un risultato favorevole, non un danno ipotetico o remoto. La giurisprudenza distingue la perdita di chance da una semplice aspettativa, richiedendo una probabilità vicina alla certezza del risultato perduto.

In questo caso, il Consiglio di Stato ha rilevato che il ricorrente non aveva dimostrato che, con una valutazione diversa dei punteggi, avrebbe certamente o probabilmente ottenuto l’incarico. La procedura coinvolgeva 97 candidati, di cui 74 ammessi alla fase finale. La possibilità del ricorrente di vincere, anche con una diversa valutazione dei titoli, è risultata priva di una base probatoria sufficiente.

La perdita di chance non richiede una probabilità matematica superiore al 50%, come suggerito da alcune sentenze. Tuttavia, la mera possibilità statistica, senza una base concreta, non è sufficiente per ottenere il risarcimento. In altre parole, la chance deve essere valutata in termini di un valore economico reale, non di un’aspettativa generica. Questo approccio evita di equiparare la chance alla certezza del risultato.

La revisione della decisione può bastare

L’aspetto interessante della sentenza da sottolineare però è il richiamo alla possibilità che il risarcimento consista nella revisione della decisione amministrativa. In alcuni casi, pertanto, l’annullamento degli atti impugnati e la corretta valutazione del candidato possono costituire una forma di riparazione sufficiente, rendendo superflua una compensazione economica. Tuttavia, ciò presuppone che il ricorrente dimostri un legame causale tra l’errore dell’amministrazione e la perdita subita.

 

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