traffico influenze illecite

Traffico influenze illecite Traffico di influenze illecite: come cambia l’articolo 326 bis c.p. in virtù della Riforma Nordio in vigore dal 25 agosto 2024

Traffico influenze illecite: com’era e com’è ora

Il reato di traffico di influenze illecite, disciplinato dall’articolo 346 bis c.p., è stato modificato di recente dalla Legge Nordio, in vigore da domenica 25 agosto 2024.

Vediamo com’era formulato l’articolo 346 bis del codice penale e come è cambiato dopo l’entrata in vigore del testo di legge che ne ha rinnovato il contenuto.

Traffico influenze illecite: art. 346 bis c.p. fino al 24 agosto 2024

L’art. 346 bis c.p nella versione vigente fino al 24 agosto 2024 punisce chiunque, al di fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione per l’esercizio della funzione, per atto contrario ai doveri d’ufficio, in atti giudiziari e in quelli contemplati dall’articolo 322 bis c.p, sfruttando o vantando relazioni esistenti o affermate con un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti contemplati dall’articolo 322 bis c.p fa dare o promettere indebitamente a se stesso o ad altri denaro o altre utilità come corrispettivo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti di cui all’articolo 322 bis c.p.

Il reato si configura anche quando il denaro o altra utilità venga erogato per remunerare il pubblico ufficiale o gli altri soggetti indicati in relazione all’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri.

La pena

La pena prevista in questi casi è della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.

La stessa pena è prevista nei confronti di chi indebitamente dà o promette denaro o altre utilità.

Nel caso in cui il soggetto che indebitamente fa dare o promettere per sé o altri denaro o altre utilità rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio la pena è aumentata.

Sono previsti aumenti di pena anche nei seguenti casi:

  • se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie;
  • se i fatti sono commessi per remunerare il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio o uno dei soggetti indicati nell’articolo 322 bis c.p in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio oppure in relazione all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.

Le pene sono invece diminuite in presenza di fatti di particolare tenuità.

La ratio del reato di traffico di influenze illecite

La norma si pone l’obiettivo di tutelare la pubblica amministrazione dal traffico illecito diretto o indiretto delle pubbliche funzioni.

Il traffico di influenze illecite è un reato di pericolo perché anticipa fortemente la tutela. Esso si consuma infatti nel momento in cui si da il denaro o si accetta la promessa della remunerazione per corrompere poi il funzionario pubblico.

Traffico influenze illecite: le novità della legge Nordio

Il reato di traffico di influenze illecito è stato inserito nel codice penale dalla legge Severino n. 120/2012. La legge n. 3/2019, meglio nota come “spazza corrotti” ha modificato il testo dell’articolo 346 bis c.p. In entrambi i casi il testo presentava un contenuto fortemente repressivo.

La legge Nordio, nel modificare il testo dell’articolo 346 bis c.p ha invece limitato le fattispecie ai casi più gravi, tenuto conto delle osservazioni della dottrina e delle evoluzioni giurisprudenziali.

Art. 346 bis c.p: cosa cambia

La legge conserva l’ipotesi della mediazione ed elimina quella della millanteria. In pratica affinché si configuri il reato è necessario l’utilizzo effettivo delle relazioni tra il mediatore e il pubblico ufficiale, le stesse non dovranno quindi essere solo vantate. Le stesse dovranno essere reali, non solo affermate.

L’utilità alternativa al denaro che il faccendiere promette deve avere natura economica. Sono esclusi altri tipi di vantaggi.

L’atto di farsi dare o promettere denaro o altro può avere due finalità:

  • remunerare il PU per le sue funzioni;
  • realizzare un’altra mediazione illecita.

Elevato infine a un anno e sei mesi il minimo edittale della pena.

Il testo dell’articolo 346 bis c.p. dal 25 agosto 2024

Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319 e 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a se’ o ad altri, denaro o altra utilità economica, per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita, e’ punito con la pena della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi. 

Ai fini di cui al primo comma, per altra mediazione illecita si intende la mediazione per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito. 

La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità economica.

La pena e’ aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a se’ o ad altri, denaro o altra utilità economica riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio o una delle qualifiche di cui all’articolo 322-bis. 

La pena e’ altresì aumentata se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”. 

 

Vuoi approfondire? Leggi anche l’articolo “Legge Nordio: in vigore dal 25 agosto

phishing

Phishing: cos’è e come tutelarsi Phishing: truffa informatica che sfrutta le paure dei navigatori del web per rubare i dati e mettere in atto diversi illeciti penali

Phishing: cos’è

Il phishing è un attacco informatico che ha la finalità di rubare i dati e le informazioni personali dei navigatori di Internet.

Il phishing inganna psicologicamente l’utente, sfruttando i suoi timori, per sottrargli ad esempio i dati di accesso ai conti correnti o ai documenti di identità. Il criminale impiega poi questi dati per compiere illeciti penali, senza che la vittima se ne accorga, salvo nel momento in cui si sente accusare di condotte penalmente rilevanti.

Come si realizza

Il mezzo preferito per carpire le informazioni altrui è senza dubbio la posta elettronica.

In genere le e-mail presentano un logo o un indirizzo che richiama quello di enti od organizzazioni attendibili, come istituti di credito o servizi postali. Per rubare i dati le e-mail segnalano di solito l’esistenza di un problema di sicurezza relativo all’account della banca o della posta di cui la vittima è titolare. C’è quindi un invito a cliccare un link per la risoluzione del problema. L’utente è quindi portato a inserire i propri dati personali, che vengono immediatamente indirizzati sul sito falso del criminale. Una volta che l’utente entra nel sito del cracker subisce in genere anche un danno al proprio divella a causa di virus, trojan e malware.

Phishing: quali reati può configurare

Il phishing è quindi una condotta illecita che può realizzare diverse fattispecie criminose.

Il primo è il reato di sostituzione di persona contemplato dall’articolo 494 c.p. C’è poi l’accesso abusivo in un sistema informatico o telematico previsto e disciplinato dall’articolo 615 ter c.p. La condotta però può anche configurare il reato di falsificazione di comunicazione telematica di cui all’articolo 617 sexies c.p, la truffa di cui all’articolo 640 c.p o la frode informatica punito dall’articolo 640 ter c.p. L’articolo 167 del Codice in materia di protezione dei dati personali contenuto nel decreto legislativo n. 196/2003 e riformato per adeguare questo testo di legge al regolamento UE 2016/679 punisce infine il trattamento illecito di dati che prevede l’intervento del PM e del Garante Privacy.

Come tutelarsi

La prima strategia per evitare che i dati personali vengano rubati per commettere illeciti consiste nel prestare molta attenzione alla creazione dei datti, ma soprattutto al loro utilizzo e alla loro diffusione.

Occorre poi stare attenti al tono di email e SMS. Il phishing, come anticipato, sfrutta le paure degli utenti della rete, per cui tendono ad avere sempre un tono allarmistico.

Prima di aprire una e-mail è sempre bene controllate l’indirizzo del mittente. In genere è possibile rendersi conto subito che si tratta di indirizzi fasulli.  Questi indirizzi e-mail infatti spesso non contengono neppure il nome dell’ente o della banca che lo invia e, se lo contengono, presentano caratteri particolari, da cui è facile intuire che non sono ufficiali.

Una volta aperta la e-mail evitare di aprire qualsiasi link contenuto al suo interno. Per un controllo veloce è possibile passare il mouse sopra il link o inserirlo nella barra in cui si inserisce l’indirizzo del motore di ricerca.

Un altro aspetto molto importante da considerare è rappresentato dalla connessione. Meglio scegliere connessioni sicure ed evitare connessioni Wi-Fi sconosciute o senza password. Verificare inoltre la presenza del protocollo HTTPS e il nome del dominio.

Come sporgere denuncia

Le vittime del raggiro tramite il phishing che hanno subito il furto dei propri dati possono fare denuncia attraverso il servizio dedicato del sito Commissariato della Polizia di Stato.

Lo sportello per la sicurezza degli utenti del web può essere utilizzato per denunciare o segnalare tutta una serie di reati informatici come il phishing appunto, ma anche il cyberbullismo, il romance scam, la violazione del diritto d’autore, lo spamming, il cyberstalking, la pedofilia online, il cyberstalking e tante altre condotte criminali online.

La denuncia che viene inviata tramite questo sito è seguita dall’apertura di un fascicolo, che viene poi inviato alla Procura della Repubblica per poter procedere.

reato di minaccia

Reato di minaccia Il reato di minaccia si configura qualora un soggetto minacci un altro di un danno ingiusto, se aggravato è punito con la reclusione

Reato di minaccia: cos’è

La minaccia è un reato contemplato dall’art. 612 del codice penale. Esso si configura quando un soggetto minaccia un altro soggetto di cagionargli un danno ingiusto. La norma tutela la libertà morale e psichica contro ogni tipo di condotta in grado di creare un turbamento derivante dal prospettare un male ingiusto alla vittima. Il danno minacciato può consistere in una lesione o nella sola messa in pericolo di un interesse che ha rilievo giuridico. L’ingiustizia del danno si riferisce ai danni che vengono cagionati da condotte illecite.

Il reato di minaccia è definito “di pericolo” perché non richiede il verificarsi di un evento, è sufficiente che il male venga  prospettato e che questo induca nella vittima il timore che il danno minacciato si potrebbe effettivamente verificare.

Procedibilità del reato di minaccia

Il reato di minaccia è punibile a querela della persona offesa.

Si procede d’ufficio se:

  • la minaccia si realizza in uno dei modi contemplati dall’articolo 339 del codice penale;
  • la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti con effetto speciale diverse dalla recidiva;
  • la persona offesa è incapace per età o per infermità.

Minaccia aggravata: art. 339 c.p.

La minaccia è aggravata se il soggetto agente la commette:

  • durante manifestazioni che si svolgono in un luogo pubblico o aperto al pubblico;
  • con l’uso delle armi;
  • da un soggetto dal volto coperto;
  • da più soggetti riuniti;
  • con uno scritto anonimo;
  • ricorrendo alla forza intimidatorie di associazioni segrete, esistenti o anche solo supposte;
  • lanciando o utilizzando corpi contundenti o altri oggetti idonei a offendere come i fuochi d’artificio, tutti oggetti che creano situazioni di pericolo per le persone.

Elemento soggettivo

Per integrare il delitto di minaccia la legge richiede che il soggetto agisca con dolo generico ossia con la coscienza e la volontà di minacciare un altro soggetto di un danno ingiusto.

Come è punito il reato di minaccia

Il reato di minaccia viene punito con una multa che può arrivare fino a 1.032,00 euro.

Se la minaccia è grave o è commessa nei modi previsti dall’articolo 339 c.p il reato è punito con la pena della reclusione fino a un anno.

Minaccia: rapporto con altri reati

Il reato di minaccia può essere confuso con altri reati contro la persona, ma può anche rappresentare una componente di altre condotte illecite complesse. La Cassazione nel tempo ha fornito importanti chiarimenti al riguardo.

Minaccia in concorso con violenza privata

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 50702/2019 ha chiarito che: “il reato di violenza privata si distingue dal reato di minaccia per la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto, ovvero per la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. Ne consegue che i due reati, pur promossi da un comune atteggiamento minatorio, dando luogo ad eventi giuridici di diversa natura e valenza, concorrono tra loro.”

Minacce assorbite dal reato di maltrattamenti in famiglia

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17599/2021 ha precisato che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di minaccia previsto dall’art. 612 c.p. purché le minacce rivolte alla persona offesa non siano il risultato di una condotta criminosa autonoma e indipendente, ma costituiscano una delle condotte per mezzo delle quali si mette in atto il reato di maltrattamenti.

Minacce assorbite o in concorso con il reato di stalking

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 12720/2020 ha sancito che il delitto di minaccia contemplato dall’art. 612 c.p. è assorbito da quello di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p a condizione che le minacce vengano poste in essere nello stesso contesto temporale e fattuale che integrano lo stalking. Qualora invece le minacce risalgano a un periodo anteriore all’inizio degli atti persecutori allora le minacce concorrono con il reato di stalking.

 

Leggi anche gli arti articoli di diritto penale

pratiche di mutilazione

Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili Nozione e oggetto giuridico del reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili ex art. 583bis c.p.

Il reato ex art. 583-bis c.p.

Il reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili è previsto e punito ai sensi dell’art. 583bis, il quale dispone che risponde penalmente: “a) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (comma 1); b) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al comma 1, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente (comma 2)”.

Legge n. 7/2006

Trattasi di fattispecie introdotta dalla L. 9-1-2006, n. 7, nel novero di un complesso di misure finalizzate a «prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine» (art. 1, L. 7/2006 cit). Configurando una ipotesi speciale del delitto di lesione personale, con essa condivide l’oggetto giuridico, essendo posta a tutela dell’incolumità della persona (cui va aggiunto l’interesse statuale all’integrità fisica e psichica dei cittadini). Con tale norma il legislatore mira, infatti, alla repressione di condotte lesive degli apparati connessi alla funzione sessuale, dunque gravemente pregiudizievoli dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo, della sua dignità personale, nonché della stessa vita di relazione.

Il reato negli altri Paesi europei

L’opportunità di tale intervento legislativo è, altresì, evidenziata dal fatto che già altri Paesi europei hanno provveduto ad introdurre fattispecie ad hoc (ad esempio, in Svezia, sin dal 1983, è sanzionata penalmente qualsiasi forma di mutilazione dei genitali femminili, pur se solo con un massimo di due anni di reclusione, ma con una pena maggiore se dalla mutilazione deriva pericolo di morte; in Gran Bretagna, sin dal 1985, costituisce reato, fra l’altro, «tagliare, infibulare o in qualsiasi modo mutilare le grandi e piccole labbra in tutto o in parte e la clitoride»). Il ripudio di tali inammissibili aggressioni dell’integrità fisica è, peraltro, ricavabile, in modo più o meno chiaro e cogente, dalle previsioni normative di numerose dichiarazioni, patti e convenzioni internazionali, ratificati in Italia, fra le quali la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1969), la Convenzione contro la tortura (1984), la Convenzione contro ogni forma di discriminazione contro le donne (1979, nota con l’acronimo «Cedaw»), cui vanno aggiunti la Dichiarazione ed il Programma di azione adottati a Pechino il 15-9-1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, nonché, a livello di legislazione «interna», gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, alla cui attuazione è «consacrata» la L. 7/2006. Tale provvedimento è, altresì, in linea con quanto affermato dal Parlamento europeo nel settembre 2001, considerando le mutilazioni genitali come «gravissima lesione della salute fisica, mentale e riproduttiva delle donne e delle bambine», ed invitando gli Stati membri a considerarle come «reato all’integrità della persona».

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 1

Il comma 1 della previsione in commento sanziona penalmente il cagionare una mutilazione di organi genitali femminili, specificando (per vero pleonasticamente) che la condotta rileva penalmente solo ove non trovi giustificazione in esigenze terapeutico-curative della vittima.

È lo stesso comma 1 a precisare che, nel concetto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» rientrano «la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo».

Secondo le definizioni mutuate dalla scienza medica tradizionale, la clitoridectomia (o escissione), chiamata anche in arabo Tahara (purificazione) o Khefad (riduzione), consiste nella rimozione dell’intero clitoride e delle adiacenti labbra. L’infibulazione (dal latino fibula, spilla), è, invece, una mutilazione genitale femminile praticata in molte società di stampo patriarcale dell’Africa, del sud della penisola araba e del sud-est asiatico. Con tale pratica (nota anche come escissione faraonica) il clitoride viene rimosso insieme alle piccole labbra e parte delle grandi (circa i 2/3), ed al termine dell’operazione, l’apertura viene ricucita con una sutura o con spine, lasciando solo un piccolo spazio per il passaggio delle urine e del sangue mestruale. Trattasi, come evidente, di una pratica che, se pur saldamente ancorata in talune tradizioni culturali, è totalmente inammissibile in ordinamenti i cui precetti pongono al centro di ogni previsione la salvaguardia dell’integrità e della dignità dell’individuo, specie se si considera che i rapporti sessuali, attraverso questa pratica, vengono impossibilitati fino alla defibulazione (che in queste culture, viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio), che dopo ogni parto viene effettuata una nuova infibulazione per ripristinare la situazione prematrimoniale, e che la pratica dell’infibulazione faraonica ha lo scopo di conservare e di indicare la verginità al futuro sposo e di rendere la donna una specie di oggetto sessuale incapace di provare piacere nel sesso.

Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui vengono realizzate le orride mutilazioni di cui alla norma. Quanto all’elemento soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, richiedendosi esclusivamente la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte produttive delle mutilazioni, a prescindere dalle finalità perseguite concretamente dal reo.

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 2

La norma completa la tutela della sfera genitale femminile sanzionando penalmente chiunque cagioni lesioni ad organi genitali femminili diverse da quelle prima descritte, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, al fine di menomare le funzioni sessuali, anche in tale ipotesi (come detto, ovviamente) al di fuori del caso in cui sussistano esigenze terapeutico-curative.

Nel tentativo, peraltro, di configurare in tale fattispecie una ipotesi «speciale» di lesione personale, il legislatore ne ha riprodotto la equivoca struttura oggettiva, sanzionando le lesioni (agli organi genitali femminili, elemento specializzante) da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente. Anche in tale occasione, dunque, è possibile elevare le critiche mosse dalla migliore dottrina (Antolisei, Mantovani) e dalla prevalente giurisprudenza, in relazione all’analogo disposto dell’art. 582 c.p. Dalla lettura di tale ultimo articolo, infatti, sembra ipotizzarsi la necessità di un duplice evento naturalistico: la lesione organica conseguente alla condotta umana, e la malattia fisica o mentale in conseguenza dell’evento-lesione. In realtà, si obiettò che l’evento è unico, e consiste nella malattia corporea o mentale conseguente alla condotta criminosa.

È possibile, dunque, concludere che tale comma sia diretto a sanzionare chiunque cagioni una qualunque alterazione anatomico-funzionale a carico degli organi genitali femminili, che comporti la necessità di un processo di reintegrazione curativa, sia pur di breve durata. L’adesione alla tesi dell’unicità dell’evento, consistente, appunto, nella malattia, consente, altresì, di dedurre che la condotta criminosa (a differenza della fattispecie di cui al comma 1) non debba necessariamente consistere in una azione violenta, e debba (come la fattispecie-madre di lesioni) considerarsi configurabile anche in forma omissiva impropria.

Quanto al momento consumativo, si identifica con il prodursi dell’evento naturalistico della fattispecie, consistente nella malattia.

Quanto al tipo di malattia cagionabile, si è osservato che, se il riferimento alla patologia mentale ha un senso rispetto alle lesioni personali comuni, difficilmente è configurabile in relazione ad una fattispecie nella quale si richiede il prodursi di una malattia ad organi genitali, se non quale conseguenza ulteriore rispetto alla patologia «corporea».

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto, a differenza della configurazione di cui al comma 1, è punibile a titolo di dolo specifico, richiedendosi la coscienza e volontà di cagionare la lesione, al fine di menomare le funzioni sessuali (finalità il cui mancato conseguimento non incide sulla consumazione del reato, rispetto al quale, come detto, rileva esclusivamente il prodursi della malattia). Poco opportuna, sotto il profilo interpretativo, appare, inoltre, la previsione di una circostanza attenuante ad effetto speciale, sancita dall’ultimo periodo del comma in esame, per il caso in cui la lesione sia di lieve entità, in quanto rimette al giudice una non agevole (dunque potenzialmente disuniforme) valutazione, contrapposta alla «chiarezza» delle nozioni «comuni» di lesione lieve o lievissima, connesse alla durata della patologia prodotta, evincibili dall’art. 582 c.p.

Circostanze aggravanti

Il comma 3 della norma in commento prevede due configurazioni aggravate delle fattispecie appena descritte, consistenti nel caso in cui il fatto sia commesso a danno di un minore o per fini di lucro.

Totalmente condivisibile risulta tale opzione normativa, se si ha riguardo del fatto che, eccettuati rari casi posti in essere su donne in età «da marito» ed, addirittura, su neonate, l’età tipica per praticare le mutilazioni di cui alla norma oscilla dai 6 ai 10 anni, e che la sussistenza nell’agente di un becero animus lucrandi, in luogo degli, sia pur inammissibili, intenti derivanti da convincimenti ideologico-religiosi, rende ancor più socialmente intollerabile la realizzazione di tali pratiche, fondando l’aggravio sanzionatorio.

Inoltre, a seguito dei correttivi effettuati sull’art. 585 c.p. dal cd. «Pacchetto sicurezza» (L. 15-7-2009, n. 94), il delitto in commento è aggravato se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 576 c.p. (pena aumentata da un terzo alla metà) e dall’art. 577 c.p. (pena aumentata fino a un terzo), come anche nel caso in cui il fatto sia commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite.

Pene e istituti processuali

La pena, per l’ipotesi di cui al comma 1, è la reclusione da 4 a 12 anni; per la fattispecie di cui al comma 2 è la reclusione da 3 a 7 anni (ridotta fino a due terzi in caso di lesione di lieve entità, ed incrementata di un terzo nell’ipotesi aggravata.

La pena accessoria di cui al comma 4

Dispone il comma 4 dell’articolo in esame (neointrodotto dalla L. 172/2012) che la condanna, anche se patteggiata, per il reato in commento comporta, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, rispettivamente la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale e l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. Tale disposto non costituisce previsione inedita (salvo che per il riferimento alla pena patteggiata), ma trova corrispondenza nell’art. 602bis (conseguentemente soppresso).

L’art. 583-ter c.p.

Ai sensi dell’art. 583ter, la condanna contro l’esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti dall’art. 583bis importa la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da tre a dieci anni (per tal via energicamente stigmatizzando, quasi con un «marchio di infamia», quanti si rendano responsabili delle lesioni in oggetto, ad un tempo suggellando plasticamente la gravità del reato e neutralizzando il reo). Della sentenza di condanna è data comunicazione all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (evidentemente in vista dell’applicazione di sanzioni disciplinari; si tenga, infatti, conto del fatto che l’art. 50 del Codice di deontologia medica, nel precludere al medico ogni forma di collaborazione, partecipazione o semplicemente presenza al compimento di atti di tortura o di trattamenti crudeli, disumani o degradanti, vieta, altresì, espressamente al medico di praticare qualsiasi forma di mutilazione sessuale femminile).

Aspetti procedurali

La fattispecie di cui al comma 1 è di competenza del Tribunale collegiale, mentre quella di cui al comma 2 del Tribunale monocratico. Si procede d’ufficio, l’arresto in flagranza è facoltativo ed il fermo consentito (salvo che per la seconda ipotesi attenuata).

Infine, l’ultimo comma dell’art. 583bis estende l’applicabilità delle relative disposizioni al caso in cui il fatto sia commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia.

 

Vedi tutti gli articoli della categoria Codice Rosso

riforma penale nordio legge

Legge Nordio: in vigore dal 25 agosto In vigore dal 25 agosto la legge Nordio sulla giustizia che interviene sulle intercettazioni, elimina l’abuso d’ufficio e modifica l’informazione di garanzia

Legge Nordio in vigore dal 25 agosto 2024

La legge Nordio, il disegno di legge per la riforma della giustizia  presentato dal Ministro della giustizia Carlo Nordio é in vigore. La Camera ha approvato in via definitiva il testo nella mattinata di mercoledì 10 luglio 2024. Il testo (legge n. 114/2024) è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 10 agosto per entrare in vigore il 25 agosto.

Dall’abuso d’ufficio alle intercettazioni: le novità

Il testo, che interviene sul codice penale, sul codice di procedura penale, sull’ordinamento giudiziario e su quello militare, abolisce il reato di abuso d’ufficio, modifica la disciplina sulle intercettazioni, limitando i poteri di pubblicazione e introduce importanti novità per quanto riguarda il reato di traffico di influenze illecite. Analizziamo le novità più significative della riforma Nordio.

Leggi anche Abuso d’ufficio addio definitivo

Eliminato il reato di abuso d’ufficio

L’eliminazione del reato di abuso d’ufficio contenuto nell’articolo 323 del Codice penale e commesso dai pubblici ufficiali o dai soggetti incaricati dello svolgimento di un pubblico servizio  rappresenta una delle modifiche più significative del disegno di legge, approvata dalla Camera diversi giorni prima dell’approvazione definitiva.

Modificato il reato di traffico di influenze illecite

Il reato contemplato dall’art. 346 bis c.p subisce delle restrizioni applicative, lo stesso viene limitato infatti alle condotte particolarmente gravi. La pena minima viene innalzata a un anno e sei mesi e le relazioni tra mediatore e pubblico ufficiale devono essere “utilizzate, non vantate. L’utilità data o promessa al posto del denaro infine deve essere solo economica.

Intercettazioni: limiti alla pubblicazione

Il testo prevede una maggiore tutela per le comunicazioni che intercorrono tra il difensore e l’imputato. L’autorità giudiziaria non potrà acquisire le comunicazioni tra i soggetti suddetti, fatta eccezione per la corrispondenza, a meno che non ritenga che si tratti di corpo del reato.

Introdotto il divieto di pubblicazione, anche solo di una parte del contenuto delle intercettazioni, qualora non venga riprodotto dal giudice all’interno della motivazione di un provvedimento giudiziale o impiegato nel dibattimento.

Impossibile infine il rilascio di copie delle intercettazioni quando non possono essere pubblicate, se la domanda proviene da un soggetto terzo rispetto al difensore e alle parti a meno che i risultati delle intercettazioni debbano essere utilizzati in un altro procedimento.

Informazione di garanzia

Nell’informazione di garanzia si dovrà descrivere il fatto in modo sommario, indicando data e luogo del reato. La pubblicazione sarà vietata fino a quando non saranno concluse le indagini preliminari e la notifica dovrà essere effettuata in modo da tutelare l’indagato da conseguenze improprie.

Interrogatorio preventivo rispetto alla misura cautelare

La persona sottoposta alle indagini verrà sottoposta all’interrogatorio preventivo nei casi in cui on sia necessario  adottare un provvedimento cautelare a sorpresa, al fine di garantire il principio del contraddittorio preventivo. Qualora si renda necessaria l’applicazione della misura cautelare in carcere durante lo svolgimento delle indagini preliminari la decisione dovrà essere adottata collegialmente.

Limiti all’appello del PM

La riforma prevede che il pubblico Ministero non possa appellare le sentenze di proscioglimento emesse in relazione a reati di “contenuta gravità”, come quelli individuati dall’art. 550 c.p.p per i quali è prevista la citazione diretta.

Ordinamento giudiziario e magistrati

In virtù della novità rappresentata dalla composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari vengono modificate le tabelle infradistrettuali e i criteri per l’assegnazione degli affari penali.

Aumenta il numero dei magistrati destinati alle funzioni giudicanti di primo grado.

Per scongiurare il rischio di nullità per i processi i mafia e di terrorismo si recisa che il limite di età di 65 anni stabilito per i giudici popolari delle Corti di Assise si riferisce al momento in cui il giudice viene chiamato per prestare servizio all’interno del collegio.

Ordinamento militare

Con la riforma l’avanzamento di carriera dei militari non sarà ostacolato in caso di rinvio a giudizio ma solo se raggiunto da una sentenza di condanna di primo grado in quanto primo atto di condanna, purché non definitivo.

giurista risponde

Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio Come occorre impostare il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio ai fini della distinzione tra i reati di incendio e di danneggiamento seguito da incendio?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio va formulato sulla base di una prognosi postuma, “ex ante”, rapportato al momento in cui l’autore ha posto in essere la propria azione, e non già tenendo conto di come il fatto si è concluso. Il giudizio prognostico, inoltre, deve essere a base parziale, ovvero fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (Cass., sez. I, 16 novembre 2023, n. 5527).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la qualifica giuridica del fatto in oggetto.

È stata applicata, a seguito di ordinanza, la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 423 c.p., per avere egli cagionato l’incendio di un’autovettura posteggiata in un’area di parcheggio, cospargendo il veicolo di liquido accelerante ed innescando il fuoco che, avvolgendo il mezzo, lo ha distrutto, con l’aggravante di aver commesso il fatto in orario notturno e in circostanze di tempo tali da ostacolare la pubblica e privata difesa.

L’indagato, a seguito di riesame, è stato rimesso in libertà, previa riqualificazione del fatto di reato ai sensi dell’art. 424, comma 1, c.p.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione dal Procuratore della Repubblica, contestando la qualificazione giuridica del fatto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato quanto stabilito da Cass. 17 maggio 2019, n. 29294, relativamente alla distinzione tra reato di incendio di cui all’art. 423 c.p. e reato di danneggiamento a seguito di incendio ex art. 424 c.p.

La differenza inerisce l’elemento soggettivo. Il primo, infatti, richiede la sussistenza del dolo generico e dunque «la volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, mentre il secondo è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, senza la previsione che ne deriverà un incendio».

La Cassazione ha, inoltre, richiamato la condivisa interpretazione dell’art. 423 c.p. fornita dalla Cass. 14 dicembre 2021, n. 46402, secondo cui ai fini dell’integrazione di tale delitto occorre distinguere il concetto di fuoco da quello di incendio, poiché si determina quest’ultimo solo quando il fuoco divampi irrefrenabilmente, «così da porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone».

È stato chiarito che il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio vada formulato sulla base di una prognosi postuma, ex ante, relativa al momento in cui è l’autore ha compiuto la propria azione. Tale giudizio deve essere a base parziale, cioè fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (così anche Cass. 22 aprile 2010, n. 35769)

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che in sede di riesame si era verificata una omissione della valutazione ex ante.

Alcune circostanze, invece, andavano valorizzate, quali l’utilizzo di liquido accelerante con conseguente flash fire generatosi dallo sversamento di liquido accelerante e la vicinanza dell’autovettura ad alberi ad alto fusto, alla pubblica via, al palo dell’illuminazione elettrica ed un tombino contente cavi elettrici di rame.

Nell’ordinanza impugnata, inoltre, non è stato tenuto conto che, all’arrivo dei Vigili del Fuoco, il fuoco era giunto ad intaccare un albero a grande fusto posto a distanza di 3 m e che , secondo il rapporto dei Carabinieri, qualora le fiamme avessero avvolto il fusto maggiormente, si sarebbe verificato un effetto domino tra gli alberi a causa del quale le fiamme si sarebbero propagate verso gli immobili adiacenti e i veicoli parcheggiati nelle vicinanze.

L’intervento che aveva impedito la diffusione delle fiamme – l’arrivo dei Vigili del Fuoco – costituisce, dunque, fattore esterno, indipendente dalla volontà dell’agente.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del riesame, affinché proceda a nuovo giudizio, attenendosi al principio evidenziato in massima.

 

Contributo in tema di “Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

medico di base

Medico di base: in caso di urgenza non è competente Il dovere di recarsi a casa del paziente non sussiste in caso di urgenza. In tal caso la competenza è del 118 e l'obbligo sussiste per la guardia medica

Doveri del medico di base

Il medico di base non è tenuto a recarsi a casa del paziente in caso di urgenza: in tale evenienza infatti la competenza passa al 118 o alla guardia medica. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24722-2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Palermo assolveva un medico dal reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, comma 1, del codice penale) per il quale era stato condannato ni primo grado perché, in qualità di medico di assistenza primaria, aveva omesso di effettuare, nonostante le continue richieste di intervento dei familiari, una visita domiciliare a scopo diagnostico e terapeutico ad un assistito che lamentava forti dolori a seguito caduta accidentale, anziano e affetto da patologie (Parkinson avanzato, cardiopatia ischemica cronica), condizioni che gli impedivano di recarsi presso l’ambulatorio.
Avverso la sentenza il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Palermo adiva il Palazzaccio, ritenendo che il medico di base avesse uno specifico obbligo per i medici di base di effettuare la visita domiciliare al paziente nel caso di non trasferibilità dell’ammalato.

Medico di base non preposto alle urgenze

Per la S.C., il ricorso è infondato.

All’esito assolutorio della sentenza in appello il Procuratore Generale ricorrente oppone “l’omessa considerazione di quanto disposto dall’art. 47, comma 1, del’Accordo Collettivo Nazionale vigente all’epoca dei fatti (del 23/03/2005), a mente del quale «l’attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell’ammalato»: disposizione invece menzionata nella sentenza di primo grado, dalla quale deriverebbe – deve inferirsi – la fonte dell’obbligo di agire, tale da giustificare l’integrazione del reato omissivo, oltre al dedotto vizio motivazionale”.
In realtà, sostengono i giudici, “la disposizione in oggetto non è affatto sfuggita alla Corte d’appello la quale, seppur senza citarla espressamente, in un punto della pronuncia, vi ha fatto un chiaro riferimento, precisando di non fare «questione di adempimento o meno del dovere giuridico del medico di base di procedere a visita a domicilio del paziente non trasportabile, quanto solo dell’esistenza o meno nel caso concreto di un dovere di procedere senza ritardo ad un tale incombente […], dovere di urgenza né ordinariamente pretensibile dal medico di medicina generale né specificamente dall’imputato in considerazione delle circostanze del caso concreto»”.
In un altro passaggio, in modo ancora più inequivoco, i Giudici di secondo grado hanno inoltre ritenuto che «il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118», aggiungendo che «da ciò deriva che per fondare uno specifico obbligo giuridico di prestazioni sanitarie urgente, anche nelle more del servizio di emergenza, da parte di un pubblico ufficiale sanitario a ciò non preposto, sarebbe stata necessaria una peculiare situazione di prossimità spaziale di necessità non indifferibile […], ben distante dall’ordinarietà degli accadimenti».

La decisione

Per cui, nessuna lacuna motivazionale è ravvisabile nella sentenza impugnata la quale distingue in modo netto il profilo della trasferibilità del paziente (toccato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell’urgenza della prestazione richiesta: urgenza in presenza della quale – come nel caso di specie -, trasferibile o meno che fosse li paziente, i Giudici hanno ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, e cioè, nella specie, dei medici del 118.
Si tratta di una “distinzione di ruoli – sottolineano da piazza Cavour che – trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare li miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un’organizzazione complessa qual è li sistema sanitario, consentendo a ciascun operatore del settore di concentrarsi sui propri compiti specifici. Distinzione che, inoltre, nei casi come quello di specie, risponde inoltre all’esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili (il medico di base non essendo attrezzato per far fronte alle urgenze), ma anche potenzialmente dannose, ove – come ben possibile – foriere di ritardi e confusioni”.
Per le ragioni esposte, la S.C. ha rigettato il ricorso.

Leggi le altre notizie di penale

Allegati

cane chiuso casa reato

Cane chiuso in casa senz’acqua: è reato Lasciare soli per ore tre cani in una casa sporca e senza dar loro dell’acqua sono indizi del reato di abbandono che legittimano il sequestro degli animali

Lasciare il cane chiuso in casa senz’acqua è abbandono di animali

Lasciare tre cani soli e chiusi in casa per ore, nella sporcizia e senz’acqua è una condotta che giustifica il sequestro degli animali perché rappresentano indizi coerenti e logici del reato di abbandono di animali. Il reato contemplato dall’art. 727 comma 2 del codice penale precisa infatti che non serve lo stato di malattia dell’animale affinché si configuri lo stato di abbandono, è sufficiente che l’animale patisca una sofferenza ingiusta. Queste le ragioni per le quali la Cassazione con la sentenza n. 30369-2024 ha rigettato il ricorso della padrona dei cani contro l’ordinanza di sequestro degli animali.

Il sequestro preventivo

Un’ordinanza conferma il sequestro preventivo di tre cani disposto con decreto dal giudice per indagini preliminari. La padrona è indagata per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 comma 2 c.p. Gli animali sono stati rinvenuti in condizioni incompatibili con le esigenze minime, in stato di abbandono, scarsa igiene e incuria nella somministrazione dell’acqua e nella cura delle malattie.

Il ricorso

La padrona, nel ricorrere avverso l’ordinanza, fa presente che dalla relazione del medico veterinario intervenuto al momento del sequestro emerge che lo stato di salute degli animali non faceva desumere l’incuria e l’abbandono di cui la stessa è stata accusata.

Gli animali non avevano zecche, presentavano una buona massa muscolare e le unghie erano in buone condizioni. La contestazione è del tutto generica e non emergono elementi oggettivi di sofferenza patita dagli animali. Insussistente quindi il fumus commissi delicti perché i fatti a lei contestati non sono stati provati adeguatamente e sono il frutto di annotazioni relative più allo stato dei luoghi che al benessere degli animali. La ricorrente lamenta inoltre la mancata valutazione della relazione del veterinario, che ha rilevato solo la presenza di malattie pregresse, normali in cani anziani. La trasmissione tempestiva di questa relazione avrebbe permesso di smentire i reati ipotizzati e contrastare gli elementi indiziari del fumus.

Il reato di abbandono di animali

Per la Cassazione le argomentazioni che hanno condotto alla decisione invece risultano puntuali, coerenti e logiche. Il giudice ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p. perché i  militari intervenuti sul posto hanno rilevato uno stato di abbandono dei tre cani di proprietà dell’indagata perché detenuti in condizioni igieniche incompatibili con i bisogni minimi che devono essere assicurati agli animali domestici. Dalle testimonianze è emerso che l’ambiente in cui i cani venivano detenuti era in pessime condizioni igieniche, le deiezioni erano diffuse, non era stato rimosso il cibo sparso per terra e non c’era acqua per gli animali, che venivano lasciati soli in casa per molte ore o in uno spazio esterno stretto e pieno di rifiuti.

Reato di abbandono: è sufficiente l’ingiusto patimento

La Cassazione ricorda che affinché si configuri il reato di abbandono di animali la detenzione degli stessi in condizioni capaci di recare loro gravi sofferenze non è solo quella che provoca una malattia, ma anche quella che produce un patire ingiusto. Non è necessaria la malnutrizione e il pessimo stato di salute, sono sufficienti quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale provocando sofferenza e afflizione. In queste condotte rientrano i comportamenti colposi di abbandono ed incuria. Il Gip ha disposto il sequestro nel timore di una reiterazione del reato poiché, nonostante ripetute segnalazioni e diversi accessi all’abitazione, l’indagata non ha messo in atto nessun comportamento finalizzato a migliorare le condizioni di detenzione degli animali. La stessa ha infatti mantenuto inalterate nel tempo le condizioni di incuria e di degrado della propria abitazione in cui deteneva i cani chiusi per diverse ore.

La decisione relativa al sequestro si è fondata sull’annotazione della polizia giudiziaria e sulla relazione dell’ENPA, successiva al sopralluogo. La relazione del medico veterinario incaricato dall’indagata non è stata acquisita perché non presente nel fascicolo al momento della pronuncia oggetto di impugnazione. La stessa è stata infatti acquisita in data successiva.

 

Vedi gli altri articoli di diritto penale

Allegati

jammer auto reato

Jammer in auto: è reato? Scatta il reato ex art. 617-bis c.p. se il jammer usato per impedire di essere intercettati, di fatto impedisce le comunicazioni tra terzi

Jammer in auto

Per la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 28084-2024)scatta il reato se lo strumento (jammer) per impedire di essere intercettato di fatto impedisce comunicazioni tra terzi.

La vicenda

Nella vicenda, gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi sul ricorso di un uomo condannato in appello a un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dal’art. 617-bis, commi primo e secondo, codice penale, per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di zona.

Il ricorso

L’uomo si doleva della inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché della contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione ala sussistenza del delitto previsto dall’art. 617-bis c.p., “che si configurerebbe solo se l’installazione sia finalizzata a impedire comunicazioni fra persone diverse dall’agente”. Nella fattispecie, invece, asseriva, il disturbo si sarebbe verificato esclusivamente nelle vicinanze della sua auto, quando l’auto della polizia giudiziaria vi si avvicinava, a dimostrazione che «l’istallazione» era finalizzata a impedire solo che qualcuno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno del suo veicolo.

D’altra parte, sosteneva il ricorrente, il possesso dell’apparecchio, risultando in libera vendita, non costituirebbe in sé reato, in assenza di una perizia che ne accerti l’effettiva potenzialità a disturbare e/o impedire le comunicazioni fra persone diverse dall’agente.

Il reato di cui all’art. 617 bis c.p.

Per la S.C., il ricorso è inammissibile.
“Il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen. – ricordano i giudici – sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto “se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che
telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio” (cfr. Cass. n. 39279/2018).

Inoltre, il delitto in parola “si configura come un reato di pericolo che si perfeziona al momento della mera installazione degli apparecchi disturbatori di frequenze e, dunque, anche nel caso in cui essi non abbiano funzionato o non siano stati attivati (cfr., ex multis, Cass. n. 1834/2021).

La decisione

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, è emerso che l’uomo aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.
La motivazione dei giudici di merito, pertanto, per piazza Cavour, è congrua e logica, e il ricorso rappresenta “la mera mera prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, ipotizzando, senza peraltro offrire alcun riscontro alla tesi difensiva, che il disturbatore fosse finalizzato a impedire che taluno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno dell’auto dell’imputato”.

Per cui, il ricorso è inammissibile.

giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

 

Contributo in tema di “Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica