pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale Pubblico ufficiale: chi è, normativa, tipologie e differenze rispetto all’incaricato di pubblico servizio

Chi è il pubblico ufficiale

La figura del pubblico ufficiale riveste un ruolo centrale nel diritto penale e amministrativo italiano. Si tratta infatti di quei soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni, rappresentano direttamente la Pubblica Amministrazione, esercitando poteri autoritativi o certificativi. Capire chi è il pubblico ufficiale e quali sono le sue responsabilità è fondamentale per interpretare correttamente molte norme del nostro ordinamento.

Normativa di riferimento

La definizione giuridica di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del Codice Penale, che dispone:

“1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”

La norma specifica che la pubblica funzione implica l’esercizio di poteri autoritativi o certificativi, cioè la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati, manifestando la volontà della Pubblica Amministrazione.

Tipologie di pubblici ufficiali

In base all’attività svolta, i pubblici ufficiali possono essere suddivisi in varie categorie:

  • pubblici ufficiali legislativi: parlamentari, consiglieri regionali e comunali;
  • pubblici ufficiali giudiziari: magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari;
  • pubblici ufficiali amministrativi: sindaci, assessori, dirigenti pubblici, ufficiali di stato civile;
  • agenti di polizia giudiziaria: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, limitatamente a specifiche funzioni.

Anche i notai, nella redazione degli atti notarili, agiscono in qualità di pubblici ufficiali, attribuendo fede privilegiata ai documenti redatti.

Funzioni e poteri del pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale esercita:

  • poteri autoritativi, cioè può adottare provvedimenti che incidono unilateralmente sulle situazioni giuridiche dei privati (es. ordinanze, sanzioni);
  • poteri certificativi, ovvero può redigere atti pubblici che fanno piena prova fino a querela di falso (es. registrazione di nascite o decessi, verbalizzazioni ufficiali).

In virtù di questi poteri, il pubblico ufficiale gode di una particolare tutela penale, ma al contempo è soggetto a responsabilità aggravate in caso di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Differenze tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Sebbene entrambe le figure collaborino con la Pubblica Amministrazione, vi sono differenze sostanziali:

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Definizione

Soggetto che esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi o certificativi

Soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi né certificativi

Funzione

Autoritativa e certificativa

Esecutiva o strumentale

Esempi

Sindaco, carabiniere, cancelliere, ufficiale di stato civile

Addetto a società di trasporti pubblici, personale sanitario convenzionato

Reati applicabili

Reati contro la Pubblica Amministrazione, inclusi quelli che presuppongono l’esercizio di pubblici poteri

Reati compatibili con l’assenza di pubblici poteri

Il pubblico ufficiale, dunque, ha una funzione più pregnante e rilevante dal punto di vista giuridico rispetto all’incaricato di pubblico servizio, proprio perché rappresenta in maniera diretta la volontà della Pubblica Amministrazione.

Responsabilità penale del pubblico ufficiale

I pubblici ufficiali sono destinatari di una disciplina penale speciale che riguarda i reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • Peculato (art. 314 c.p.).
  • Corruzione propria (art. 319 c.p.).
  • Concussione (art. 317 c.p.).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
  • Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.).

La qualità di pubblico ufficiale è una condizione soggettiva che aggrava la responsabilità penale e comporta conseguenze particolarmente rilevanti.

Giurisprudenza

Cassazione n. 11341/2022:  i consiglieri regionali, in quanto membri del gruppo partitico di riferimento, sono da considerarsi pubblici ufficiali per tutte le attività connesse all’esercizio della funzione legislativa pubblica all’interno dell’assemblea regionale. Questa qualifica si estende alle iniziative intraprese tramite il gruppo consiliare, in quanto espressione della loro partecipazione alla funzione legislativa. In sostanza, l’esercizio del mandato di consigliere regionale e l’operare attraverso il gruppo di appartenenza nell’ambito dell’attività legislativa regionale attribuiscono la qualifica di pubblico ufficiale.

Cassazione n. 5550/2022:  Per stabilire se una persona sia un pubblico ufficiale, non conta se lavora per un ente pubblico o privato, né che tipo di contratto abbia. L’elemento decisivo è il tipo di attività che svolge concretamente. Anche un privato può essere considerato pubblico ufficiale se la sua attività è di natura pubblica. Allo stesso modo, è incaricato di pubblico servizio chiunque svolga un servizio pubblico, indipendentemente dal fatto che sia un dipendente pubblico o meno. In sostanza, ciò che definisce la qualifica è la natura pubblica del servizio svolto, non la forma giuridica del datore di lavoro o del rapporto lavorativo.

Cassazione n. 17972/2019: riveste la qualifica di pubblico ufficiale il soggetto che, pur in forza di un contratto privatistico di collaborazione coordinata e continuativa per un incarico di consulenza e supporto alla direzione sanitaria regionale, partecipa alla formazione della volontà dell’ente e all’attuazione dei suoi obiettivi istituzionali. Ciò si verifica anche quando l’attività svolta ha una rilevanza interna al procedimento amministrativo. In sintesi, la natura pubblica della funzione esercitata prevale sulla forma privatistica del rapporto di lavoro, qualora l’attività del soggetto contribuisca concretamente alle decisioni e alle finalità dell’amministrazione.

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abuso dei mezzi di correzione

Abuso dei mezzi di correzione Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina: cos'è, quando si configura, normativa, elementi, procedibilità, pena e giurisprudenza

Cos’è il reato di abuso dei mezzi di correzione

Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, disciplinato dall’articolo 571 del Codice penale, sanziona l’uso eccessivo o improprio di strumenti correttivi o disciplinari da parte di soggetti legittimati, quali genitori, insegnanti, tutori, educatori, o chiunque eserciti un potere analogo.

Tale reato si verifica quando il mezzo, pur legittimo in sé, viene applicato in modo contrario alla finalità educativa e con modalità tali da provocare un nocumento fisico o psichico alla vittima, solitamente un minore o una persona sottoposta a tutela o educazione.

Normativa: art. 571 del Codice penale

Il testo dell’art. 571 c.p. recita: “1. Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. 2. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni [572].”

Quando è integrato il reato

Il reato si perfeziona in presenza di tre presupposti:

  1. legittimazione del soggetto attivo: l’agente deve essere titolare di un potere correttivo o disciplinare (es. genitore, docente, educatore);
  2. utilizzo improprio del mezzo correttivo: il mezzo deve essere in sé lecito, ma impiegato in modo eccessivo o distorto;
  3. pericolo per la salute psico-fisica della vittima: è sufficiente il solo pericolo, senza che sia necessaria la lesione concreta.

Elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo consiste nell’uso distorto del mezzo di correzione, che deve risultare sproporzionato rispetto alla finalità educativa. Non si tratta, dunque, di qualunque forma di rimprovero o ammonizione, ma di condotte che travalicano il limite dell’educazione e degenerano in maltrattamento.

Sono esempi frequenti di abuso:

  • punizioni fisiche ripetute o violente;
  • isolamento sociale forzato e prolungato;
  • umiliazioni pubbliche;
  • privazioni eccessive.

Elemento soggettivo del reato

Il dolo richiesto è generico, cioè la coscienza e volontà di utilizzare un mezzo correttivo in modo improprio. Non è necessario che l’agente voglia ledere la salute della vittima, ma è sufficiente la consapevolezza di un uso improprio dello strumento disciplinare.

Tuttavia, in caso di dolo specifico o di volontà lesiva, il fatto può integrare reati più gravi, come i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) o le lesioni personali (art. 582 c.p.).

Procedibilità e pena dell’abuso dei mezzi di correzione 

Il reato è procedibile d’ufficio e prevede:

  • la reclusione fino a 6 mesi se dal fatto deriva un pericolo per la salute della vittima,
  • l’applicazione delle pene previste per le lesioni personali, se da esso deriva una lesione concreta,
  • la reclusione da tre a otto anni se dal fatto deriva la morte del soggetto.

Cassazione sul reato di abuso dei mezzi di correzione 

La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito i confini tra l’abuso dei mezzi di correzione.

  • Cassazione n. 46974/2024: L’articolo 571 del codice penale italiano proibisce qualsiasi azione, anche se fatta con l’intenzione di educare, che possa mettere a rischio la salute fisica o psicologica di un bambino. In questo caso specifico, lo schiaffo è stato giudicato non adatto al ruolo educativo di un genitore perché danneggia l’integrità fisica del minore. La Corte, basandosi sulla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che protegge i bambini da ogni tipo di violenza (anche in famiglia), ha sottolineato che l’interesse superiore del bambino deve essere la priorità in qualsiasi metodo educativo, escludendo le punizioni corporali.
  • Cassazione n. 13145/2022: L’uso di violenza da parte di un insegnante non rientra nell’abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) perché tale reato presuppone l’uso di metodi di per sé leciti, che diventano illeciti per l’eccesso. La violenza, invece, è sempre considerata illecita. Nel caso specifico, spingere la testa di un minore nel lavandino o nello scarico configura direttamente un atto di violenza, escludendo l’applicazione dell’articolo sull’abuso dei mezzi di correzione.
  • Cassazione n. 18706/2020: La differenza tra abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti non sta nella gravità della violenza, perché usare violenza per educare o correggere è sempre illegale.

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reato di appropriazione indebita

Reato di appropriazione indebita Appropriazione indebita: cos’è, quando si configura, normativa, elementi costitutivi, procedibilità e giurisprudenza

Cos’è l’appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un reato previsto e punito dall’art. 646 del Codice penale. Si configura quando un soggetto, avendo la disponibilità di una cosa mobile altrui, se ne appropria per trarne profitto, violando l’obbligo giuridico di restituzione o di diverso utilizzo. A differenza del furto, nel caso dell’appropriazione indebita, il bene non è sottratto clandestinamente, ma consegnato volontariamente al reo da parte dell’avente diritto.

Normativa di riferimento: art. 646 c.p.

L’articolo 646 del codice penale recita: “1. Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profittosi appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. 2. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario la pena è aumentata.”

Quando è integrato il reato

Il reato di appropriazione indebita si perfeziona quando:

  • il soggetto agente ha legittimamente il possesso del bene (es. consegna volontaria da parte del proprietario);
  • si appropria indebitamente del bene stesso;
  • con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto;
  • e con danno patrimoniale per la parte offesa.

Il reato può riguardare beni materiali o denaro, purché si tratti di cose mobili altrui.

Elemento oggettivo

L’elemento oggettivo del reato è costituito dalla condotta di appropriazione, ovvero l’atto di trattare come proprio un bene mobile altrui che il soggetto già possedeva lecitamente. Si tratta di un comportamento che implica l’inversione del possesso, ossia il mutamento dell’atteggiamento soggettivo verso la cosa, da detenzione in nome altrui a possesso uti dominus.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, cioè la volontà di appropriarsi della cosa altrui per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Deve dunque sussistere l’intenzione di trattenere il bene altrui contro la volontà del proprietario, con consapevolezza della mancanza di un diritto a farlo.

Procedibilità

Il reato è procedibile a querela di parte, come sancito dal comma 1 dell’art. 646 c.p.

Pene previste

La pena prevista per il reato di appropriazione indebita è la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. La pena aumenta se il fatto viene commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.

Differenza tra furto e appropriazione indebita

Sebbene entrambi i reati ledano il diritto di proprietà, vi sono differenze rilevanti:

Elemento

Furto (art. 624 c.p.)

Appropriazione indebita (art. 646 c.p.)

Possesso iniziale

Illecitamente sottratto

Lecitamente detenuto

Condotta

Sottrazione

Appropriazione

Consenso

Assente

Presente al momento della consegna

Procedibilità

D’ufficio (salvo casi lievi)

A querela

Giurisprudenza sull’appropriazione indebita

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti fondamentali del reato:

Cassazione n. 289/2025: Affinché si configuri l’appropriazione indebita di beni fungibili come il denaro, non basta la semplice disponibilità del bene. È fondamentale che fin dal momento in cui il bene viene consegnato, esista uno specifico vincolo di destinazione stabilito dal proprietario. Un obbligo di natura civilistica derivante da un contratto successivo non può essere considerato un vincolo di destinazione originario ai fini di questo reato. Di conseguenza, l’appropriazione indebita di un bene fungibile si verifica solo quando chi lo riceve fin dall’inizio è tenuto a utilizzarlo per uno scopo preciso e viola tale vincolo.

Cassazione Penale, n. 11950/2023: il reato di appropriazione indebita si configura quando una persona, avendo già la disponibilità di un bene mobile o di denaro appartenente ad altri, decide intenzionalmente di comportarsi come se fosse il proprietario. Questa decisione deve essere presa con la consapevolezza di non avere il diritto di farlo e con lo scopo di ricavarne un beneficio illegittimo per sé o per altri. Un esempio concreto è chi riceve un bonifico bancario per errore e, invece di restituire la somma, la trattiene per sé. In questo caso, la consapevolezza dell’errore e la decisione di non restituire il denaro, con l’intenzione di utilizzarlo, integrano il reato di appropriazione indebita.

Cassazione n. 16831/2021: Il reato di appropriazione indebita (articolo 646 del codice penale) si differenzia dal furto perché chi commette appropriazione indebita ha già il possesso del bene altrui. Questo “possesso” include ogni situazione in cui una persona ha il potere di usare il bene autonomamente, senza che il proprietario lo sorvegli direttamente. Rientra in questa definizione anche la semplice detenzione del bene. Al contrario, se una persona non ha alcun potere autonomo sul bene, ma se ne impossessa sottraendolo al proprietario, commette furto.

 

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responsabilità dello psichiatra

La responsabilità dello psichiatra Responsabilità dello psichiatra: definizione, posizione di garanzia, tipologie, prescrizione, TSO e giurisprudenza

Cos’è la responsabilità dello psichiatra

La responsabilità dello psichiatra è un tema delicato che coinvolge aspetti giuridici, etici e medici. Trattandosi di una figura professionale che opera su pazienti affetti da disturbi mentali, lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, ovvero ha l’obbligo di prevenire eventi dannosi che potrebbero derivare dalle condizioni del paziente.

Lo psichiatra infatti è un medico specialista che si occupa della diagnosi, cura e prevenzione dei disturbi psichici. La sua responsabilità giuridica deriva dall’obbligo di prendersi cura del paziente e prevenire danni  che lo stesso può procurare a sé stesso e agli altri.

Questa figura può andare incontro a due principali forme di responsabilità:

  • responsabilità civile, che comporta un obbligo di risarcimento danni se si verifica un pregiudizio per il paziente o per terzi;
  • responsabilità penale, che si verifica quando lo psichiatra, con negligenza, imprudenza o imperizia, causa un danno penalmente rilevante.

La posizione di garanzia dello psichiatra

La giurisprudenza ha chiarito che lo psichiatra ha una posizione di garanzia nei confronti del paziente e della collettività. Questo significa che deve adottare tutte le misure necessarie per prevenire comportamenti autolesivi o etero-lesivi del paziente. Secondo l’art. 40 comma 2 del Codice Penale, “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

Facciamo qualche esempio pratico per comprendere meglio che cosa significa posizione di garanzia:

  • se un paziente con disturbi psichiatrici manifesta tendenze suicidarie e lo psichiatra omette di ricoverarlo, può essere considerato responsabile in caso di suicidio;
  • se un paziente con disturbi gravi compie atti violenti contro terzi e lo psichiatra non ha predisposto le dovute misure di sicurezza, può essere ritenuto responsabile civilmente e penalmente.

La responsabilità è quindi molto alta soprattutto nei casi in cui il medico non interviene in situazioni di pericolo evidente.

Responsabilità civile dello psichiatra

Dal punto di vista civile, la responsabilità dello psichiatra può derivare da:

  • errore diagnostico o terapeutico (es. prescrizione errata di farmaci psichiatrici);
  • omessa vigilanza (es. dimissione di un paziente pericoloso senza adeguata valutazione);
  • violazione del consenso informato (es. trattamenti sanitari imposti senza rispettare la normativa).

Regime della prescrizione

Entro quanto tempo si può far valere il diritto che consegue alla responsabilità civile del medico psichiatra? Tutto dipende dalla natura della responsabilità stessa:

  • se la responsabilità è contrattuale (rapporto medico-paziente), il termine di prescrizione è di 10 anni;
  • se la responsabilità è extracontrattuale, la prescrizione è di 5 anni.

Responsabilità penale dello psichiatra

Dal punto di vista penale, lo psichiatra può essere chiamato a rispondere di:

  • Omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.);
  • Omicidio colposo o lesioni colpose (art. 589-590 c.p.);
  • Sequestro di persona (se impone un trattamento sanitario obbligatorio illegittimo)

La colpa medica nella responsabilità psichiatrica

La colpa dello psichiatra si valuta in base a tre parametri:

  • negligenza: mancata vigilanza su pazienti pericolosi;
  • imprudenza: scelte terapeutiche azzardate (es. sospensione improvvisa di farmaci);
  • imperizia: errore nella diagnosi o terapia.

TSO e responsabilità dello psichiatra

Lo psichiatra può disporre un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) nei  seguenti casi:

  • il paziente ha un grave disturbo psichiatrico;
  • il paziente rifiuta il trattamento nonostante necessiti di cure;
  • il paziente rappresenta un pericolo per sé o per gli altri.

Lo psichiatra in relazione al TSO può andare incontro a responsabilità se:

  • non attiva il TSO e il paziente commette un reato, può essere accusato di omissione di atti dovuti;
  • impone un TSO senza rispettare la procedura, può incorrere in sequestro di persona.

Doveri dello psichiatra per evitare responsabilità

Per ridurre i rischi di responsabilità, lo psichiatra deve quindi:

  • effettuare diagnosi accurate e aggiornate;
  • valutare attentamente il rischio di autolesionismo o etero-aggressività;
  • predisporre il TSO quando necessario, seguendo la legge;
  • coinvolgere la famiglia e il team sanitario nelle decisioni;
  • rispettare il consenso informato del paziente.

Poiché la responsabilità dello psichiatra è molto elevata,  è fondamentale operare con prudenza e rispettare scrupolosamente le linee guida cliniche e giuridiche.

Giurisprudenza in materia

Ecco una serie di massime della Cassazione in materia di responsabilità dello psichiatra:

Cassazione n. 24138/2022

La paziente mostrava gravi problemi psicologici, accentuati da ricoveri frequenti, rifiuto di cibo, autolesionismo e un recente aborto traumatico. Il medico, con comportamenti errati e insoliti, non ha valutato adeguatamente la gravità della situazione, ignorando il rischio e non adottando misure preventive, inclusa la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), dimostrando negligenza e imprudenza. Il medico per queste ragioni è stato ritenuto responsabile della morte della paziente suicida.

Cassazione n. 43476/2017

Un medico psichiatra ha la responsabilità legale di proteggere i propri pazienti. Questo significa che deve fare tutto il possibile per prevenire:

  • che il paziente possa fare del male ad altre persone;
  • che il paziente possa fare del male a se stesso.

In un caso specifico, un medico è stato ritenuto colpevole di omicidio colposo perché una paziente, affetta da grave schizofrenia, si è suicidata poche ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale. Il medico, nonostante la paziente avesse ingerito una dose eccessiva di farmaci, non aveva attivato alcuna cura o sorveglianza. La Corte ha stabilito che il medico non aveva adempiuto al suo dovere di protezione.

Cassazione n. 28187/2017

La possibilità che uno psichiatra sia ritenuto responsabile per aver contribuito involontariamente a un reato intenzionale commesso da un suo paziente esiste nel sistema legale. Tuttavia, questa responsabilità deve essere valutata con attenzione, considerando le linee guida mediche per determinare i limiti del rischio accettabile e valutando in anticipo se l’adeguatezza delle terapie scelte.

Cassazione n. 33609/2016

Uno psichiatra ha la responsabilità di proteggere i suoi pazienti, anche quando questi non sono ricoverati forzatamente. Ciò significa che, se esiste un rischio concreto che il paziente possa farsi del male, anche fino al suicidio, il medico deve prendere precauzioni specifiche per prevenirlo.

reato di incendio

Il reato di incendio Reato di incendio (art. 423 c.p.): disciplina, fattispecie, profili sanzionatori e giurisprudenza

Reato di incendio art. 423 c.p. 

Il reato di incendio è disciplinato dall’articolo 423 del Codice penale, collocato all’interno del Titolo VI, Capo I, dedicato ai delitti contro la pubblica incolumità. La norma punisce con la pena della reclusione da tre a 7 anni chiunque cagioni un incendio e anche quando l’incendio riguardi una cosa propria del soggetto agente, se dal fatto deriva un pericolo per la pubblica incolumità

L’incendio presuppone un fuoco di ampie dimensioni, che tende a diffondersi e che sia difficile da spegnere,

Differenza tra incendio doloso e colposo

L’incendio doloso richiede il dolo, ossia la volontà dell’agente di causare l’incendio e di accettarne le conseguenze.  In tal caso, il soggetto è punibile ai sensi dell’art. 423 c.p. (dolo generico); 423 bis comma 1 (incendio boschivo doloso);.

L’incendio colposo è disciplinato da diverse norme:

art. 423 bis c.p comma 2: incendio boschivo colposo;

dall’art. 449 c.p., che prevede pene meno gravi. La condotta infatti è punita con la reclusione da uno a cinque  anniAnche in questa forma colposa il reato si configura solo se l’incendio è tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica.

Normativa di riferimento

  • Art. 423 c.p.: incendio;
  • Art 424 bis c.p. incendio boschivo;
  • Art. 424 c.p.: danneggiamento seguito da incendio;
  • Art. 449 c.p.: delitti colposi di danni tra cui figura l’incendio.

Elementi costitutivi del reato di incendio

Per la configurazione del reato ex art. 423 c.p. occorrono:

  • Condotta attiva: accensione del fuoco su cose proprie o altrui;
  • Pericolo concreato o astratto;
  • Nesso causale tra condotta e pericolo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico;
  • Pericolo per la pubblica incolumità: anche potenziale.

Pena prevista

Il delitto di incendio, ai sensi dell’art. 423 c.p., è punito con:

  • la reclusione da tre a sette anni.

Se dall’incendio deriva un danno grave a  edifici pubblici, navi, edifici abitati, monumenti, cimiteri, navi, cantieri, ecc. trovano applicazione le aggravanti dell’art. 425 c.p., che comportano un aumento di pena.

Aspetti procedurali

  • Procedibilità d’ufficio.
  • Competenza del tribunale in composizione monocratica.

Giurisprudenza sul reato di incendio

La giurisprudenza ha è intervenuta in diverse occasioni per specificar gli aspetti più importanti del reato di incendio.

Cassazione n. 8598/2024: la sentenza distingue tra la definizione comune di incendio e la definizione giuridica del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.).

  • L’incendio comune si verifica solo quando il fuoco divampa in modo incontrollabile e su vasta scala, con fiamme distruttive che si propagano e mettono in pericolo un numero indeterminato di persone.
  • L’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.): è un reato di pericolo presunto. Non è necessario che l’incendio si sviluppi completamente con le caratteristiche descritte sopra. È sufficiente che il fuoco appiccato abbia la potenzialità di diventare un incendio, manifestando la tendenza a diffondersi, la difficoltà di essere spento e la possibilità di creare pericolo per la pubblica incolumità.

Cassazione n. 5527/2024: ciò che distingue il reato di incendio doloso (art. 423 c.p.) dal reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) è l’elemento psicologico dell’autore.

  • L’incendio doloso (art. 423 c.p.) richiede il dolo generico, ovvero la volontà di causare un evento con fiamme che, per la loro natura e intensità, sono inclini a propagarsi incontrollabilmente, generando un reale pericolo per la sicurezza pubblica. L’obiettivo primario dell’agente è provocare un incendio con queste caratteristiche.
  • Il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.): è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare una cosa altrui. L’intenzione principale dell’agente è quella di deteriorare o distruggere un bene appartenente ad altri, l’incendio è un risultato secondario, seppur prevedibile.

Rilevanza pratica e considerazioni conclusive

Il reato di incendio è di particolare rilevanza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nei periodi di emergenza ambientale o in presenza di fenomeni di vandalismo. La sua disciplina mira a tutelare la sicurezza collettiva e a prevenire disastri con effetti potenzialmente estesi e incontrollabili.

In ambito processuale e difensivo, è fondamentale valutare con attenzione:

  • la natura del fuoco (incendio o semplice combustione),
  • l’intenzionalità della condotta,
  • l’esistenza del pericolo concreto per la collettività,
  • eventuali fattori di rischio connessi (uso di sostanze acceleranti, contesto di luogo e tempo).

 

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custodia cautelare

La custodia cautelare Custodia cautelare: cos'è, normativa di riferimento, requisiti di applicazione, durata, reati e giurisprudenza

Cos’è la custodia cautelare?

La custodia cautelare è una misura cautelare personale prevista dal codice di procedura penale (art. 285- art. 286 bis c.p.p). Si applica a un imputato quando sussistono gravi indizi di colpevolezza e specifiche esigenze cautelari, al fine di garantire il corretto svolgimento del processo.

Normativa di riferimento

Le disposizioni relative alla custodia cautelare sono contenute nel Titolo I, Capo II del Libro IV del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento includono:

  • Art. 272 c.p.p.: sancisce che le libertà della persona possa essere limitata solo con misure cautelari nel rispetto delle disposizioni di legge dedicate presenti nel codice di procedura penale.
  • Art. 273 c.p.p.: le misure cautelari possono essere disposte solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza.
  • Art. 274 c.p.p.: le principali esigenze cautelari sono rappresentate dal pericolo di fuga, da quello di reiterazione del reato, dal possibile inquinamento delle prove.
  • Art. 285 c.p.p.: contiene la disciplina della custodia cautelare in carcere.
  • Art. 286 c.p.p.: prevede la custodia cautelare in un luogo di cura.
  • Art 286 bis c.p.p: prevede in quali casi è previsto il divieto della custodia cautelare.

Requisiti per l’applicazione

La custodia cautelare è disposta dal giudice quando ricorrono tre presupposti fondamentali:

  1. Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).
  2. Esigenze cautelari concrete e attuali (art. 274 c.p.p.):
    • Pericolo di fuga;
    • Pericolo di reiterazione del reato;
    • Pericolo di inquinamento delle prove.
  1. Adeguatezza della misura: il giudice deve valutare se misure meno afflittive (es. arresti domiciliari, obbligo di firma) siano insufficienti. Il comma 2 dell’articolo 275 c.p.p sancisce infatti che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o che si ritiene possa essere irrogata.”

Durata della custodia cautelare

La custodia cautelare ha una durata massima stabilita dagli artt. 303 e 304 c.p.p., che varia in base alla gravità del reato e alla fase del processo:

  • Indagini preliminari: 3 mesi per delitti che prevedono la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, 6 mesi per reati puniti con la reclusione per un periodo non superiore a sei anni salvo quanto sancito dal punto 3), comma 1, art. 2303 c.p.p, 1 anno per reati puniti con l’ergastolo o con una pena non inferiore nel massimo a 20 anni;
  • Giudizio di primo grado: sei mesi per reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a sei anni; 1 anno per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 1 anno e sei mesi se la pena prevista è l’ergastolo o la pena della reclusione superiore, nel massimo, a 20 anni.
  • Appello e Cassazione: i tempi sono ulteriormente ridotti.

Reati per cui si applica la custodia cautelare

La custodia cautelare può essere applicata per reati di particolare gravità, tra cui:

  • Mafia e associazione per delinquere (art. 416-bis c.p.).
  • Omicidio volontario (art. 575 c.p.).
  • Violenza sessuale aggravata (art. 609-bis c.p.).
  • Traffico di droga (art. 73 D.P.R. 309/90).
  • Rapina aggravata (art. 628 c.p.).

Giurisprudenza rilevante 

La Corte di Cassazione intervenuta spesso in materia di custodia cautelare per precisare le caratteristiche peculiari dell’istituto e la sua applicazione.

Cassazione n. 10925/2025

La misura della custodia cautelare in carcere va confermata nei confronti di un imputato accusato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, evidenziando che il semplice decorso del tempo non è, di per sé, sufficiente a escludere l’attualità delle esigenze cautelari. La decisione si basa sulla persistenza di elementi concreti e attuali che attestano la pericolosità del soggetto, come condotte recenti indicative di una propensione a reiterare reati della stessa natura. In questo contesto, la valutazione dell’autorità giudiziaria deve considerare non solo il tempo trascorso, ma anche eventuali comportamenti che confermino il mantenimento del legame con l’ambiente criminale o la possibilità di nuovi reati.

Cassazione SU n. 44060/2024

Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.

Cassazione n. 32593/2021

In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 2-bis, opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite; in motivazione, la Corte ha precisato che i principi di proporzionalità ed adeguatezza devono essere costantemente verificati, al fine di attuare la minor compressione possibile della libertà personale, non potendo prevalere le valutazioni compiute in fase cautelar rispetto alla pronuncia adottata in fase di merito.”

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reato di peculato

Reato di peculato Il reato di peculato di cui all'art. 314 del codice penale: cos'è, come funziona e differenze con la concussione

Cos’è il reato di peculato

Il reato di peculato si verifica quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio si appropria, indebitamente, di denaro o beni mobili altrui, di cui ha il possesso o la disponibilità in virtù del suo ufficio o servizio. La norma si pone l’obiettivo di tutelare gli interessi di natura patrimoniale della PA e quindi il suo buon andamento.

Art. 314 c.p: reato di peculato

L’articolo 314 c.p, che punisce il reato di peculato, recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizi, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”

Questo articolo prevede quindi che, nel caso in cui un pubblico ufficiale (come un ministro, un funzionario pubblico, un agente della polizia, ecc.) o un incaricato di pubblico servizio (ad esempio, un consulente pubblico o un appaltatore) si appropri di denaro o cose mobili altrui in suo possesso per ragioni di servizio o ufficio, venga punito con la reclusione da 4 fino a 10 anni e sei mesi.

Elemento oggettivo 

L’elemento oggettivo del reato di peculato è rappresentato dall’appropriazione indebita di denaro o beni mobili altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio. Perché il reato si configuri deve esserci una appropriazione del denaro o d altre cose mobili che sono nel suo possesso in ragione del suo ufficio o servizio.

Se il soggetto attivo del reato si appropria del denaro o dei beni mobili altrui, solo per farne un uso momentaneo e poi restituisce il tutto si configura il reato di peculato d’uso.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo del reato di peculato è il dolo generico. Esso si traduce nella volontà di appropriarsi dei beni pubblici per un scopo personale, che può essere economico o materiale. È essenziale che l’appropriazione venga compiuta con consapevolezza e intenzionalità. La condotta deve essere volontaria e il pubblico ufficiale deve agire con l’intenzione di trarre un beneficio illecito.

Nel peculato d’uso invece il dolo è specifico e consiste nella volontà di fare un uso momentaneo del denaro e delle cose pubbliche.

Pena e procedibilità del reato di peculato

Per il reato di peculato è la reclusione da 4 a 10 anni e sei mesi. La pena può essere maggiorata in caso di circostanze aggravanti (es: danno particolarmente grave per la pubblica amministrazione o coinvolgimento di più persone). La reclusione può essere invece ridotta se il reo restituisce i beni o il denaro di cui si è appropriato prima del processo. In questo modo egli dimostra infatti la volontà di riparare il danno arrecato.

Il peculato è un reato procedibile d’ufficio. Non è necessaria quindi la querela della parte lesa per avviare il procedimento penale. In altre parole il processo penale può essere avviato anche senza che la pubblica amministrazione presenti una denuncia. Questo aspetto è importante per tutelare l’interesse pubblico e impedire che l’azione penale possa essere bloccata da eventuali interessi privati.

Peculato e concussione a confronto

Sebbene il peculato e la concussione abbiano entrambi, come protagonisti, i pubblici ufficiali, i due reati si differenziano in modo significativo sotto il profilo della condotta e dell’intento dell’agente.

  • Peculato: il pubblico ufficiale si appropria indebitamente di beni o risorse che gli sono stati affidati per ragioni di servizio o ufficio. In questo caso, la condotta è quella di appropriarsi di risorse pubbliche per fini personali.
  • Concussione (art. 317 c.p.): il pubblico ufficiale costringe una persona a dargli o promettergli indebitamente denaro o altre utilità, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri.

Il peculato implica l’appropriazione di beni o denaro, mentre la concussione si fonda sull’intimidazione che il pubblico ufficiale esercita nei confronti di un terzo per farsi dare o promettere denaro o altre utilità.

Giurisprudenza

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimenti sul reato di peculato. Di seguito alcune sentenze significative.

Cassazione n. 11928/2025

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, confermato dai principi stabiliti dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19054 del 20/12/2012, l’utilizzo di un’auto di servizio per scopi privati è generalmente vietato. Si presume che tali veicoli siano destinati esclusivamente all’uso pubblico, a meno che non esistano provvedimenti ufficiali che autorizzino deroghe specifiche e documentate. In assenza di tali autorizzazioni, l’uso dell’auto di servizio per fini personali costituisce reato di peculato.

Cassazione n. 4520/2025

Il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, disciplinato dall’articolo 314-bis del codice penale, punisce le azioni di distrazione dei beni menzionati che, in precedenza, la giurisprudenza considerava rientranti nell’abrogato reato di abuso d’ufficio; pertanto, l’introduzione di questa nuova fattispecie non ha modificato l’ambito di applicazione del reato di peculato.

Cassazione n. 39546/2024

Il reato di peculato protegge sia il patrimonio della pubblica amministrazione sia l’integrità del suo operato, sussistendo anche in assenza di danno economico se l’interesse alla legalità viene violato. Il fulcro del reato risiede nell’abuso del possesso del bene da parte del funzionario, che lo usa per fini personali anziché istituzionali, anche senza arrecare un danno economico all’ente pubblico. Tuttavia, l’uso simultaneo del bene per scopi privati e pubblici non configura peculato se non causa un apprezzabile danno economico o funzionale all’amministrazione, poiché in tal caso non si verifica l’interversione del possesso che costituisce l’essenza del reato.

 

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Genitori responsabili dei profili social dei figli Genitori responsabili dei profili social dei figli: spetta a loro vigilare sulle attività, facendo attenzione anche ai software di manipolazione

Profili social dei figli

Genitori responsabili di quanto fanno i figli sui social. Essi hanno l’obbligo di controllare i profili social dei figli, anche se falsi, soprattutto se la prole è fragile o immatura. Il controllo serve a prevenire comportamenti illeciti o pericolosi. Non basta chiedere le password o dire di aver fatto il possibile. I genitori devono sorvegliare in modo attivo e costante. Il Tribunale di Brescia, con la recente sentenza n. 879/2025, ribadisce questo principio e condanna i genitori di una ragazza con un lieve ritardo intellettivo a risarcire 15mila euro alla vittima del comportamento della figlia.

Diffamazione aggravata e altri reati

Una ragazza crea più profili fake e con questi insulta una compagna e pubblica immagini pornografiche ottenute con un software di manipolazione delle immagini. Le indagini penali per diffamazione aggravata, atti persecutori e detenzione di materiale pedopornografico portano alla giovane.

I genitori della vittima decidono quindi di agire in giudizio e chiedono il risarcimento dei danni subiti dalla figlia. La giovane racconta infatti di aver ricevuto insulti continui su Instagram. A causa di questi episodi inoltre ha iniziato ad avere paura a uscire di casa da sola e ha temuto in diverse occasioni di essere  perseguitata da malintenzionati.

Genitori responsabili: attenzione massima ai social

Il Tribunale nel decidere sulle responsabilità e sul risarcimento richiesto, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nella sorveglianza dei dispositivi digitali dei figli. Nel caso di specie la ragazza frequentava le superiori, aveva un’insegnante di sostegno e un’educatrice. Quest’ultima in particolare aveva avviato un percorso educativo sull’uso dei social, avvisando anche i genitori sui rischi di questi strumenti. Tutto questo però evidentemente non è bastato. La ragazza infatti ha creato molti profili falsi e sconosciuti alla famiglia e tramite questi ha commesso gli illeciti di rilievo penale che le sono stati contestati in sede penale.

I genitori si difendono dalle accuse loro rivolte, affermando di aver fatto il possibile. Il giudice però ritiene che quanto affermato non sia sufficiente. Per evitare la responsabilità genitoriale (art. 2047 c.c.) serve infatti dimostrare di non aver creato o tollerato situazioni pericolose. Il compito dei genitori è di prevenire i rischi, non di reagire solo quando è troppo tardi.

Massima attenzione anche alle immagini manipolabili

Il Tribunale si sofferma inoltre sull’impiego dei contenuti manipolati con software. I ragazzi oggi possono accedere facilmente a strumenti di intelligenza artificiale per modificare immagini o video. Per questo motivo i genitori devono aumentare ancora di più il controllo sui figli in relazione a questi strumenti. Lasciare i figli soli davanti allo schermo può avere infatti gravi conseguenze legali.

La giurisprudenza recente è concorde nel rafforzare l’obbligo di vigilanza dei genitori sull’utilizzo dei social da parte dei figli. I genitori sono chiamati a limitare sia il tempo sia le modalità di accesso ai social da parte dei figli. L’educazione digitale deve essere concreta e continua. Non basta dire ai figli cosa è giusto: è necessario verificare che lo mettano in pratica.

La precoce autonomia digitale dei minori non solleva i genitori dalle loro responsabilità. Al contrario, li obbliga a educare in modo ancora più attento e moderno. Serve un impegno reale nell’insegnare e verificare l’uso corretto delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale.

 

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maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia Maltrattamenti in famiglia: quando sia configura, analisi dell’art. 572 c.p, elementi del reato, pena, procedibilità e sentenze

Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 del Codice Penale, tutela l’integrità fisica e psicologica delle persone all’interno del nucleo familiare o in rapporti assimilabili. Questa fattispecie punisce chiunque sottoponga un familiare o un convivente a sofferenze fisiche o morali in modo abituale, creando un clima di sopraffazione e paura.

Quando si configura il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti si configura quando vi è una condotta abituale di vessazioni, violenze fisiche o psicologiche, ingiurie, umiliazioni o privazioni nei confronti di un soggetto appartenente al nucleo familiare o convivente. Per l’integrazione del reato non è sufficiente un singolo episodio di violenza, ma è necessaria la reiterazione dei comportamenti vessatori nel tempo.

Le vittime possono essere:

  • il coniuge o il convivente;
  • i figli, anche adottivi;
  • gli ascendenti o gli altri parenti conviventi;
  • le persone sottoposte alla tutela, vigilanza o autorità dell’autore del reato (ad esempio, una badante nei confronti di un anziano assistito).

Cosa prevede l’art. 572 c.p.?

L’art. 572 c.p. punisce “chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia”. Per la configurazione del reato è essenziale che i maltrattamenti siano continuativi e creino un perdurante stato di sofferenza nella vittima.

Elementi del reato: oggettivo e soggettivo

Analizziamo distintamente l’elemento oggettivo e quello soggettivo del reato.

Elemento oggettivo

Il reato di maltrattamenti si caratterizza per:

  • condotta abituale: comportamenti reiterati e non un singolo atto di violenza;
  • vessazioni fisiche o morali: umiliazioni, minacce, percosse, privazioni affettive, isolamento.

Elemento soggettivo

Il dolo richiesto è generico, ossia la consapevolezza e volontà di infliggere sofferenze alla vittima. Non è necessario che l’autore del reato abbia un fine specifico, ma è sufficiente che agisca intenzionalmente.

Pena prevista per i maltrattamenti in famiglia

L’art. 572 c.p. prevede una pena da 3 a 7 anni di reclusione, che viene aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o ai danni di minori, donne in stato di gravidanza, disabili o con l’uso delle armi. La pena della reclusione sale dai 4 ai 9 anni, se i maltrattamenti provocano lesioni gravi o gravissime. Se dai maltrattamenti deriva la morte della vittima, la pena può arrivare fino a 24 anni di reclusione.

Procedibilità del reato

Il reato di maltrattamenti in famiglia è procedibile d’ufficio, il che significa che l’azione penale viene avviata automaticamente non appena le autorità ne vengono a conoscenza, senza necessità di querela da parte della vittima.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni significative sul reato di maltrattamenti.

Cassazione n. 1268/2025: integra il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi il comportamento di chi impedisce alla vittima di raggiungere l’indipendenza economica, a condizione che tali condotte vessatorie provochino nella vittima uno stato di prostrazione psico-fisica e che le decisioni economiche e organizzative familiari, imposte unilateralmente e non condivise, siano il risultato di comprovati atti di violenza o prevaricazione psicologica.

Cassazione n. 20352/2024: le condotte vessatorie nei confronti del coniuge, che hanno avuto origine in ambito domestico e persistono dopo la separazione di fatto o legale, rientrano nel reato di maltrattamenti in famiglia, anziché in quello di atti persecutori, poiché il coniuge rimane parte della famiglia fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio o allo scioglimento del vincolo matrimoniale, indipendentemente dalla convivenza.

Cassazione n. 16543/2017: il reato di maltrattamenti configura un’ipotesi di reato necessariamente abituale, caratterizzato dalla presenza di una serie di azioni, prevalentemente commissive ma anche omissive, che, considerate singolarmente, potrebbero non essere punibili (come atti di infedeltà o umiliazioni generiche) o non perseguibili (come percosse o minacce lievi, perseguibili solo su querela), ma che nel loro insieme sono in grado di provocare nella vittima sofferenze fisiche e morali durature.

 

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rapina a mano armata

Il reato di rapina a mano armata Il reato di rapina a mano armata nel diritto penale italiano: quando si configura, la pena prevista e la giurisprudenza

Rapina a mano armata: art. 628 codice penale

La rapina a mano armata rappresenta una forma aggravata del reato di rapina, disciplinato dall’articolo 628 del Codice Penale italiano. Questo delitto si configura quando un individuo, mediante l’uso di un’arma, sottrae con violenza o minaccia un bene mobile altrui, al fine di trarne profitto per sé o per altri.

Quando si configura la rapina a mano armata

La rapina a mano armata si concretizza quando l’autore del reato utilizza un’arma per intimidire la vittima e ottenere la consegna del bene desiderato. L’arma può essere di vario tipo, inclusi oggetti atti a offendere che, per le loro caratteristiche, possono incutere timore nella vittima.

Pene previste per la rapina a mano armata

La legge italiana prevede pene severe per chi commette una rapina a mano armata. In particolare, l’articolo 628, terzo comma, n. 1) del Codice Penale stabilisce una reclusione da sei a venti anni e una multa da 2.000 a 4.000 euro. Questa sanzione è più elevata rispetto a quella prevista per la rapina semplice, a causa dell’uso dell’arma che aumenta la pericolosità del reato e l’allarme sociale.

Il caso della pistola giocattolo

La giurisprudenza ha chiarito che l’aggravante dell’uso dell’arma si applica anche quando l’arma utilizzata è una pistola giocattolo, purché questa non sia immediatamente riconoscibile come tale. In altre parole, se la pistola giocattolo appare reale e incute timore nella vittima, l’aggravante è configurabile. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39253/2021, ha ribadito questo principio, affermando che l’aggravante sussiste quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso a uno strumento che appare come un’arma da sparo. La riconoscibilità dipende sia alle circostanze oggettive dell’ambiente che incidono sulla visibilità dei segni presenti sul giocattolo come il tipico tappo rosso e caratteristiche similari, sia dalla percezione che la vittima ha avuto di quei segni specifici.

Giurisprudenza rilevante

Oltre alla sentenza sopra citata, è importante menzionare altre pronunce che hanno affrontato il tema della rapina a mano armata:

  • Cassazione Penale n. 32473/2024: in relazione all’aggravante dell’arma nel reato di rapina a mano armata tutti i partecipanti, inclusi gli autori materiali e coloro che hanno fornito assistenza necessaria (i cosiddetti basisti), sono responsabili anche del reato di porto illegale di armi e della relativa circostanza aggravante. Questo perché l’ideazione del crimine include l’uso delle armi e il loro porto abusivo, necessari per realizzare la minaccia o la violenza tipiche di tale reato.
  • Cassazione Penale n. 35953/2022: per la configurabilità dell’aggravante dell’arma in un delitto circostanziato, è sufficiente che il reo sia visibilmente armato, senza necessità che l’arma venga effettivamente impugnata per minacciare. L’aggravante sussiste quando l’arma è portata in modo tale da incutere timore, lasciando presagire un suo possibile utilizzo come strumento di violenza o minaccia per costringere la vittima a sottostare alle intimazioni.

 

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