condotta irreprensibile

Condotta irreprensibile avvocato già “specchiatissima e illibata” Condotta irreprensibile avvocato: cos’è, normativa, chi la valuta e cosa dice il CNF in caso di cancellazione e richiesta di reiscrizione

Condotta irreprensibile: requisito per l’iscrizione all’albo

La condotta irreprensibile dell’avvocato, definita prima del 2012 con i termini “specchiatissima e illibata” è uno dei requisiti richiesti dalla legge per l’iscrizione all’albo.

L’articolo 17 della legge n. 247/2012, contenente la “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense” al comma 1 lettera h) richiede infatti la “condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico” tra i requisiti di cui l’avvocato deve essere in possesso per potersi iscrivere all’albo.

Che cosa si intende per condotta irreprensibile?

La definizione e i confini della condotta irreprensibile li fornisce il CNF nella sentenza n. 214/2017. In questa decisione il Consiglio nazione Forense precisa che quando si valuta l’affidabilità di un avvocato, le condotte moralmente apprezzabili che rilevano non sono quelle della sua vita privata, ma piuttosto quelle che sono pertinenti alla sua capacità di svolgere correttamente i compiti assegnati.

E’ fondamentale inoltre non prendere in considerazione o valutare condotte che, per la loro natura, occasionalità, distanza nel tempo, o qualsiasi altro motivo, non siano ragionevolmente in grado di influenzare l’affidabilità attuale dell’avvocato rispetto alla sua specifica funzione o attività. In altre parole, si devono considerare solo i comportamenti che hanno un impatto concreto e attuale sulla sua professionalità e integrità in quel contesto specifico.

Valutazione della condotta irreprensibile dell’avvocato

La sentenza n. 214/2017 del CNF, richiamando quanto sancito da due sue precedenti sentenze, ricorda che spetta al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (C.O.A) valutare in modo autonomo e indipendente la “condotta irreprensibile”. Questa valutazione però non deve essere automaticamente condizionata dall’esito di un eventuale procedimento penale che abbia coinvolto l’interessato. Di conseguenza, una condanna penale non comporta un automatico impedimento all’iscrizione. Il C.O.A deve considerare tutti gli elementi per determinare se la condotta dell’individuo sia compatibile con la dignità e il decoro della professione forense, indipendentemente da sentenze penali.

Giurisprudenza recente sulla condotta irreprensibile

Sempre il CNF in tre recenti sentenze si è espresso sulla “condotta irreprensibile” dell’avvocato fornendo così importanti indicazioni.

La reiscrizione all’albo di un altro COA è una nuova iscrizione

Nella sentenza n. 473/2024, il CNF si trova a decidere sul ricorso presentato da un avvocato, che dopo essere stato cancellato dall’albo di del COA Pordenone in seguito alla sua detenzione, si è visto rigettare l’iscrizione presso il COA di Belluno a causa dell’assenza della condotta irreprensibile e dell’assenza del legame territoriale, ossia il domicilio, all’interno del circondario.

Nel rigettare il ricorso il CNF ricorda, prima di tutto, che per la reiscrizione all’albo degli avvocati, l’interessato deve aver rimosso le cause della precedente cancellazione, ma anche dimostrare di possedere ancora i requisiti originali di iscrizione. Il COA quindi deve riesaminare tutti i requisiti previsti dall’articolo 17, commi da 1 a 7, della Legge 247/2012, inclusa la condotta irreprensibile. Per principio consolidato il COA può cancellare d’ufficio un iscritto condannato per reati che compromettano tale condotta, indipendentemente da un procedimento disciplinare.

La reiscrizione è considerata infatti una nuova iscrizione, richiedendo la verifica di tutti i requisiti legali richiesti per essere inseriti nell’albo.

Il CNF ha sancito lo stesso principio nella sentenza n. 477/2024. Il Consiglio ha infatti rigettato il ricorso di un avvocato, originariamente iscritto all’albo di Pordenone, che dopo la detenzione e l’affidamento in prova, si è visto rigettare l’iscrizione al COA di Rovigo.

Reiscrizione allo stesso albo: tutti i requisiti di cui al co.1, art. 17, Legge n. 247/2012

Nella sentenza n. 475/2024 il CNF si è espresso su un ricorso presentato da un avvocato che, dopo essere stato cancellato dall’albo dopo un periodo di detenzione, si è visto rigettare la reiscrizione allo stesso albo del COA di Pordenone per assenza di condotta irreprensibile, incertezza del domicilio professionale e permanenza dello stato di esecuzione della pena nella forma dell’affidamento in prova.

Il CNF anche nel caso della richiesta di reiscrizione allo stesso albo enuncia lo stesso principio esposto nei due casi precedenti. Per la reiscrizione all’albo dopo la cancellazione verificatasi a causa della pena detentiva irrogata all’avvocato, non è sufficiente la condotta irreprensibile. Il COA infatti deve valutare il possesso di tutti i requisiti che l’articolo 17 della legge 24772012 richiede, per procedere all’iscrizione.

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consapevolezza dell'errore

Avvocati, stop attenuanti se manca consapevolezza dell’errore Il CNF esclude la riduzione della sanzione disciplinare per l’avvocato che non dimostra alcuna consapevolezza dell’errore; l’ammissione di responsabilità può valere solo se accompagnata da resipiscenza

Attenuanti se c’è consapevolezza dell’errore

Stop attenuanti per l’avvocato se non c’è consapevolezza dell’errore. Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 44/2025, pubblicata il 31 luglio sul sito del Codice deontologico, ha confermato la sospensione di sei mesi inflitta dall’organo distrettuale a un avvocato in seguito a false accuse penali nei confronti di colleghi, ribadendo principi chiave in tema di consapevolezza e responsabilità personale.

Il caso

Un avvocato del foro di Trapani aveva denunciato due colleghi (COA di Trapani e CDD di Palermo) per abuso d’ufficio, ritenendo il procedimento disciplinare avviato nei propri confronti un atto arbitrario. Tuttavia, il consiglio distrettuale accertò la falsità delle accuse e applicò la sospensione di sei mesi. Il ricorrente, poi condannato in sede penale per calunnia dal GIP, non mostrò alcuna resipiscenza nel ricorso al CNF.

Consapevolezza dell’errore, responsabilità e resipiscenza

Il CNF ha ribadito che la responsabilità disciplinare è provata non solo dalla presentazione delle false accuse, ma anche dalla loro consapevolezza, tipica di un avvocato, con l’intento di screditare i colleghi. Inoltre, l’assenza di una vera resipiscenza — sia nell’esposto sia nella memoria difensiva — ha reso inammissibile qualsiasi attenuazione della sanzione.

Ammissione della responsabilità e attenuanti personali

La sentenza sottolinea come l’ammissione di responsabilità possa entrare nel giudizio disciplinare solo se accompagnata da una sincera resipiscenza. L’assenza di chiara presa di coscienza del danno causato, infatti, impedisce l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite.

deontologia forense

Deontologia forense: guida generale Deontologia forense: le regole che disciplinano l'attività degli avvocati a tutela della collettività e della clientela

Deontologia forense: definizione

La deontologia forense rappresenta l’insieme delle norme etiche e di comportamento che gli avvocati devono osservare nell’esercizio della loro professione. Queste regole guidano l’agire dell’avvocato nei rapporti con clienti, colleghi, controparti e altre figure professionali. Esse contribuiscono al corretto funzionamento dell’ordinamento giuridico e al raggiungimento degli scopi della giustizia. La deontologia garantisce inoltre la tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, assicurando la correttezza dei comportamenti, la qualità e l’efficacia delle prestazioni professionali.

Deontologia forense: il Codice deontologico  

Il Codice Deontologico Forense raccoglie queste regole. Il testo è stato approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 31 gennaio 2014 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 16 ottobre 2014. Da allora però ha subito diverse modifiche. Una significativa revisione è avvenuta con la seduta amministrativa del CNF del 23 febbraio 2018, il cui comunicato è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 13 aprile 2018.

Il Codice è stato poi modificato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2024, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 3 maggio 2024 ed è entrato in vigore il 2 luglio 2024. Questa modifica è stata particolarmente rilevante perché ha introdotto l’art. 25-bis in materia di rispetto della normativa sull’equo compenso.

Struttura del Codice deontologico

Il Codice Deontologico Forense è strutturato in sette Titoli, ciascuno dei quali disciplina specifici ambiti della professione forense. Questa organizzazione permette una chiara e sistematica trattazione dei doveri e delle regole di condotta. I titoli sono i seguenti:

  1. Principi generali: le fondamenta etiche e i doveri generali dell’avvocato.
  2. Rapporti con il cliente e con la parte assistita: dettaglia i doveri dell’avvocato nei confronti di coloro che rappresenta.
  3. Rapporti con i colleghi: regola le interazioni e la condotta tra avvocati.
  4. Doveri dell’avvocato nel processo: specifica i comportamenti da adottare durante le fasi processuali.
  5. Rapporti con terzi e controparti: definisce le regole di condotta dell’avvocato nei confronti di soggetti diversi dal cliente e dai colleghi.
  6. Rapporti con le Istituzioni forensi: regolamenta i doveri dell’avvocato nei confronti degli organi di autogoverno della professione.
  7. Disposizione finale: precisa l’entrata in vigore del Codice decorsi 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

Deontologia Forense: i principi generali

I principi generali delineano l’essenza della professione forense. L’avvocato tutela la libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando la regolarità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono cruciali per garantire l’affidamento della collettività e la qualità della prestazione professionale. Esse si applicano a tutti gli avvocati nell’esercizio della loro attività professionale, nei rapporti reciproci e con i terzi. Dette norme si estendono anche ai comportamenti nella vita privata, qualora compromettano la reputazione personale o l’immagine della professione forense.

Tra i doveri fondamentali elencati nei principi generali figurano il dovere di evitare incompatibilità, il dovere di probità, dignità, decoro e indipendenza, il dovere di fedeltà al mandato, il dovere di diligenza, il dovere di segretezza e riservatezza, il dovere di competenza e aggiornamento professionale, e il dovere di rispettare gli adempimenti fiscali, previdenziali e assicurativi.

Responsabilità disciplinare

La responsabilità disciplinare scaturisce dalla violazione dei doveri e delle regole di condotta imposte dalla legge o dalla deontologia.Essa discende nello specifico dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettate dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni. L’avvocato è sottoposto a procedimento disciplinare anche per comportamenti non colposi che abbiano violato la legge penale, ferma restando ogni autonoma valutazione sul fatto commesso. Egli è personalmente responsabile per condotte ascrivibili a suoi associati, collaboratori e sostituti, determinate da suo incarico, salvo che il fatto integri una loro esclusiva e autonoma responsabilità. La responsabilità disciplinare riguarda anche le società tra avvocati. Essa concorre con quella del socio quando la violazione è ricollegabile a direttive impartite dalla società.

Potestà disciplinare

Gli organi disciplinari hanno la potestà di applicare sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa, nel rispetto delle procedure previste. La valutazione del comportamento è complessiva e la sanzione è unica anche in presenza di più addebiti nello stesso procedimento. La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale dolo, al comportamento precedente e successivo dell’incolpato, e alle circostanze soggettive e oggettive della violazione. Si tiene conto anche del pregiudizio subito dalla parte assistita, della compromissione dell’immagine della professione e dei precedenti disciplinari.

Sanzioni: tipologie

Le sanzioni disciplinari sono graduate in base alla gravità dell’infrazione.

  • Avvertimento: informa l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme e lo invita a non commettere altre infrazioni. Si applica per fatti non gravi, quando vi è motivo di ritenere che non vi saranno recidive.
  • Censura: consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, la responsabilità e i precedenti suggeriscono che l’incolpato non commetterà ulteriori infrazioni.
  • Sospensione: consiste nell’esclusione temporanea dall’esercizio della professione (da due mesi a cinque anni) o dal praticantato. Si applica per infrazioni gravi o quando non sono presenti le condizioni per la sola censura.
  • Radiazione: si traduce nell’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro, impedendo l’iscrizione a qualsiasi altro. Viene inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nella professione.

Nei casi più gravi le sanzioni possono essere aumentate nel loro massimo, mentre in quelli meno gravi possono essere diminuite. Per infrazioni lievi e scusabili, è previsto il richiamo verbale, che non costituisce sanzione disciplinare.

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espressioni offensive

Espressioni offensive dell’avvocato: verità, continenza e pertinenza Espressioni offensive dell'avvocato: guida all'illecito disciplinare punito dall'art. 52 Codice deontologico forense

Espressioni offensive: art. 52 Codice Deontologico

In base all’articolo 52 del Codice deontologico forense l’avvocato ha il dovere di evitare espressioni offensive o sconvenienti sia negli scritti depositati in giudizio sia durante lo svolgimento della sua attività professionale. Tale divieto vale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi. L’uso di un linguaggio offensivo è sempre una condotta disciplinarmente rilevante, anche se l’avvocato agisce per ritorsione, a seguito di una provocazione o in risposta a offese subite. La reciprocità non giustifica l’illecito.

La violazione di questo divieto comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Il limite della continenza

L’avvocato nell’esercizio della sua attività difensiva può quindi esercitare legittimamente il diritto di critica, fornendo giudizi e valutazioni in relazione a un evento. Tale diritto però deve essere esercitato entro precisi limiti oggettivi, tra i quali rileva senza dubbio la correttezza del linguaggio che si utilizza. La continenza espressiva richiede infatti che la critica si manifesti in un dissenso motivato e rispettoso, anche se si basa su un’interpretazione soggettiva. Sebbene il linguaggio possa essere forte o “provocatore”, deve sempre rispettare il limite della continenza formale. Ciò significa che la critica è lecita solo se non si traduce in attacchi personali, insulti od offese gratuite che colpiscono la dignità morale e professionale del soggetto criticato.

Il limite della pertinenza

Questo limite dispone che affinché espressioni ingiuriose possano essere considerate lecite nell’esercizio del diritto di difesa, è necessario che siano strettamente pertinenti all’oggetto della controversia e che siano funzionali alla tutela degli interessi della parte assistita.

Il limite della verità

Il limite della verità in relazione all’utilizzo delle espressioni sconvenienti od offensive nell’esercizio della difesa è un tema assai delicato. Il CNF in diverse sentenze ha chiarito tuttavia che se l’espressione utilizzata è offensiva e lesiva della dignità poco importa che i fatti denunciati con l’uso di un linguaggio colorito, siano veri.

Espressioni offensive: illecito disciplinare se dirette alla persona 

L’art. 52 del Codice deontologico è norma di indubbio rilievo perché impone limiti precisi all’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva. La giurisprudenza del Consiglio nazionale Forense (CNF) nel corso degli anni si è preoccupata però di chiarirne in modo più approfondito il contenuto.

Nella sentenza n. 159/2012 il CNF ha precisato che l’uso di un linguaggio forte, persino crudo, è lecito quando la discussione in tribunale si mantiene su un piano oggettivo, affrontando le questioni processuali e le tesi contrapposte. Al contrario, il comportamento diventa illecito e sanzionabile nel momento in cui la discussione trascende sul piano personale, ledendo il decoro e la dignità professionale degli altri.

Lo stesso concetto si riviene nella sentenza del CNF n. 122/2012, la quale chiarisce che il diritto dell’avvocato di dissentire dalle tesi avversarie, anche con un linguaggio forte e aspro per evidenziarne l’infondatezza giuridica, deve essere riconosciuto. Tuttavia, questo diritto si esaurisce quando le espressioni utilizzate non si limitano a criticare la tesi, ma si trasformano in un giudizio di valore sulle qualità personali, morali o professionali della controparte, sia essa l’avvocato o il cliente. L’uso di un lessico volgare non è mai tollerato, in quanto porta la discussione su un piano personale e soggettivo, tradendo la funzione difensiva.

Diritto di difesa: si supera il limite se si ingiuria la controparte

Interessante anche quanto sancito dalla sentenza del CNF n. 23/2025, che citando la precedente pronuncia n. 120/2017, afferma che nel bilanciamento tra il diritto di difesa e il decoro/onore della controparte, il primo ha la precedenza. Di conseguenza, un avvocato non commette un illecito disciplinare se usa espressioni forti negli atti per esporre le proprie tesi difensive e per fare valutazioni pertinenti alla controversia, anche se queste possono sembrare disdicevoli. Tuttavia, il limite viene superato se le espressioni offensive sono gratuite, ovvero non collegate alla strategia difensiva e hanno l’unico scopo di ingiuriare.

Nella motivazione di questa sentenza il CNF, nel richiamare la sentenza n. 74/2020 ha modo di chiarire anche che il limite all’uso di un linguaggio forte da parte di un avvocato si definisce in base alla natura della disputa. Finché la discussione rimane oggettiva, concentrandosi sulle questioni processuali e sulle tesi legali, è tollerato un linguaggio anche aspro.

Tuttavia, quando il confronto scivola sul piano personale e soggettivo, attaccando la persona dell’avversario piuttosto che le sue argomentazioni, si configura una violazione dell’articolo 52 del codice deontologico e si rende necessaria l’applicazione di una sanzione disciplinare a tutela del decoro professionale.

Espressioni offensive: decoro anche nella vita privata

L’avvocato comunque ha il dovere di mantenere un comportamento dignitoso e decoroso non solo nell’esercizio della sua attività professionale, ma in ogni situazione, anche nella vita privata. Deve sempre astenersi dall’usare espressioni offensive o sconvenienti. La valutazione su cosa costituisca un illecito deve essere fatta caso per caso, tenendo conto del contesto in cui le espressioni vengono pronunciate.

 

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patto di quota lite

Patto di quota lite: la ratio del divieto Il CNF ribadisce che il divieto di patto di quota lite mira a tutelare il cliente e la dignità forense, evitando commistioni nei rapporti professionali

Patto di quota lite: il CNF spiega la ratio

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 25/2025, pubblicata il 20 luglio sul sito del Codice deontologico, ha riaffermato il divieto di patto di quota lite ai sensi di art. 25 co. 2 del CDF e art. 13 commi 3 e 4 L. n. 247/2012. Tale divieto tutela l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, impedendo la commistione tra interessi del legale e risultati della lite. 

La ratio del divieto di patto di quota lite

Secondo la sentenza, la ratio del divieto risiede nella necessità di preservare l’indipendenza dell’avvocato e evitare che il compenso, se collegato all’esito della lite, trasformi il rapporto professionale in un rapporto associativo. In tal caso, l’avvocato parteciperebbe direttamente agli interessi pratici esterni della prestazione, compromettendo la trasparenza e l’imparzialità.  

Impatto sul rapporto cliente‑avvocato

La decisione sottolinea che un equo compenso basato sul valore previsto dell’affare è lecito, ma è vietato un accordo che leghi la remunerazione all’esito pratico della lite. In questo modo si evita la trasformazione del rapporto in una forma di partecipazione economica ai frutti del contenzioso. 

Conferme da giurisprudenza e dottrina

La sentenza n. 25/2025 si inserisce in una consolidata giurisprudenza: Cassazione n. 2169/2016, CNF n. 260/2015, n. 26/2014 e n. 225/2013 avevano già chiarito tale principio. Conferma anche l’orientamento espresso nella recente Cass. n. 23738/2024. 

In sintesi, il CNF riafferma che il divieto di patto di quota lite è necessario per proteggere il rapporto di fiducia tra cliente e avvocato e tutelare la dignità della professione, evitando che il legale diventi partecipe dell’esito economico della lite.

illecito trattenere somme

Avvocati: illecito trattenere somme del cliente oltre il necessario Il CNF chiarisce che l’avvocato viola l’art. 31 CDF trattenendo somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario

Illecito trattenere somme del cliente

Illecito trattenere somme del cliente: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 472/2024, pubblicata il 4 luglio 2025 sul sito ufficiale del Codice Deontologico, ha affrontato la questione della gestione del denaro altrui da parte dell’avvocato, chiarendo che trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario configura una violazione deontologica.

Il comportamento è stato ritenuto in contrasto con l’art. 31 del Codice Deontologico Forense, che impone all’avvocato obblighi di puntualità e diligenza nella gestione di denaro, beni o valori altrui.

Il principio enunciato: dovere di puntualità e diligenza

La pronuncia stabilisce che l’avvocato non può trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario per il compimento di attività funzionali all’esecuzione del mandato o alla rendicontazione.

La violazione di questo principio integra un illecito deontologico, anche in assenza di appropriazione indebita o dolo. È sufficiente la mancanza di tempestiva restituzione a determinare una condotta disciplinarmente rilevante.

L’articolo 31 CDF e la gestione del denaro altrui

L’art. 31 del Codice Deontologico Forense stabilisce che l’avvocato deve custodire il denaro ricevuto per conto del cliente in modo distinto dal proprio e restituirlo senza ritardo. La norma mira a garantire trasparenza, affidabilità e fiducia nella relazione fiduciaria tra cliente e difensore.

Il trattenere somme indebitamente, anche solo per negligenza, lede la deontologia forense e comporta responsabilità disciplinare.

avvocato assente

Avvocato assente all’udienza: responsabile anche senza danno Il CNF sottolinea che l’assenza ingiustificata all’udienza configura sempre violazione deontologica, anche in assenza di danno concreto per il cliente

Avvocato assente all’udienza

Avvocato assente all’udienza: il Consiglio Nazionale Forense ha pubblicato il 7 luglio 2025 sul sito del Codice deontologico la sentenza n. 487/2024, riguardante l’omissione del difensore – di fiducia o d’ufficio – nell’adempimento al mandato, in particolare a causa dell’assenza ingiustificata all’udienza.  

Il principio ribadito dal CNF

Il CNF ribadisce l’orientamento consolidato: «L’inadempimento al mandato per assenza all’udienza, in difetto di accordo con il cliente, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante ex art. 26 CDF (già art. 38 previgente)». 

Indipendenza dall’effettivo danno al cliente

È indifferente che l’assenza non abbia causato conseguenze negative per l’assistito: tale circostanza non elimina il disvalore del comportamento negligente, potendo però attenuare la sanzione disciplinare. 

Il professionista che intenda giustificare la propria assenza deve dimostrare l’accordo o la causa legittima per non presentarsi all’udienza: in assenza di questo onere, la violazione sussiste. 

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libertà di espressione

Libertà di espressione avvocati con limiti di dignità e rispetto Il CNF ribadisce la libertà di espressione degli avvocati per garantire il diritto di difesa ma con i limiti di dignità e rispetto

Difesa e libertà di espressione

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 30/2025 pubblicata il 2 luglio 2025 sul sito del Codice Deontologico Forense, ha sottolineato il ruolo fondamentale della libertà di espressione degli avvocati. Essa è considerata cruciale per il diritto di difesa e per garantire l’equo processo, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, CEDU.

Espressione critica: valore e limiti

La pronuncia afferma che la manifestazione del pensiero da parte dell’avvocato è essenziale per il buon funzionamento della giurisdizione, aiutando a contrastare eventuali abusi. Tuttavia, tale libertà non è illimitata: va esercitata nel rispetto della dignità della professione e della fiducia della collettività, senza intaccare l’affidamento nell’ordinamento giudiziario e nella funzione sociale dell’avvocatura.

Rispetto verso magistratura e opinione pubblica

Pur consentendo critica verso il potere giudiziario, il CNF sottolinea che:

  • questa non può superare il rispetto dovuto agli organi giurisdizionali;

  • non può ledere la fiducia dell’opinione pubblica nel sistema forense;

  • deve mantenersi nei confini fissati dall’art. 1 della L. n. 247/2012, che tutela la dignità e il decoro della professione forense, anche rispetto alla figura dell’avvocato come co-protagonista del processo.

Equilibrio tra diritto di critica e credibilità professionale

La sentenza del CNF definisce un equilibrio tra:

  • il diritto/dovere dell’avvocato di esprimere la propria opinione in modo critico e incisivo;

  • e la necessità di preservare l’immagine e l’autorevolezza della categoria forense e della magistratura.

Critiche inappropriate o aggressive – soprattutto se rivolte a funzionari giudiziari – possono essere sanzionate deontologicamente.

sanzione

Avvocati: la malattia non annulla l’illecito ma attenua la sanzione Il CNF stabilisce che le condizioni di salute dell’avvocato non escludono l’illecito deontologico, ma possono ridurre la sanzione disciplinare

Malattia avvocato e responsabilità disciplinare

Sanzione avvocato: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 487/2024, pubblicata l’8 luglio 2025, ha chiarito un principio fondamentale in tema disciplinare: la malattia dell’incolpato non scrimina l’illecito deontologico, ma può influenzare la misura della sanzione.

Nessuna scriminante per motivi di salute

Il CNF afferma che, anche se le condizioni psicofisiche dell’avvocato possono incidere sul suo comportamento, non escludono la responsabilità disciplinare, in quanto per commettere un illecito è sufficiente la volontarietà dell’azione. La malattia, pertanto, non è una giustificazione che invalidi la procedura disciplinare.

Mitigazione della sanzione: il margine di discrezionalità

Tuttavia, la gravità ridotta per motivi di salute può rappresentare una causa di attenuazione della sanzione. L’Autorità disciplinare, nel valutare il caso, può modulare la pena commisurandola alle condizioni dell’incolpato, riconoscendo il ruolo attenuante della malattia nella valutazione complessiva.

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restituzione documenti

Restituzione documenti al cliente: illecito disciplinare anche senza danno Il CNF ha stabilito che la tardiva restituzione degli atti al cliente costituisce illecito disciplinare a prescindere dal danno subito, confermando l’autonomia della responsabilità deontologica

Mancata o tardiva restituzione dei documenti

Restituzione documenti al cliente: il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 451/2024 pubblicata il 26 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, ha ribadito un principio chiaro in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato: l’illecito previsto dall’art. 33 Cdf si configura anche quando la riconsegna dei documenti al cliente avviene con colpevole ritardo, indipendentemente dal fatto che ciò abbia prodotto un danno concreto.

La sentenza si inserisce nella giurisprudenza che valorizza la corretta gestione del rapporto fiduciario con l’assistito, ritenuto essenziale per garantire la dignità e il decoro della professione forense.

La norma violata: art. 33 cdf

L’art. 33 del Codice Deontologico impone all’avvocato di restituire al cliente, alla cessazione del mandato, tutta la documentazione ricevuta e quella formata nell’interesse dell’assistito. L’obbligo è di carattere immediato e non può essere subordinato ad altre pretese del professionista, come la liquidazione delle proprie competenze.

Nel caso esaminato dal CNF, l’avvocato aveva riconsegnato la documentazione solo dopo reiterati solleciti e con un ritardo significativo.

L’irrilevanza del danno subito dal cliente

Un aspetto centrale della decisione è l’affermazione che l’illecito disciplinare prescinde dall’accertamento di un pregiudizio effettivo.

Infatti, la circostanza che il cliente non abbia subito alcuna decadenza o preclusione non esclude la violazione del dovere deontologico. La Corte ha osservato che il rapporto fiduciario si fonda anche sulla disponibilità degli atti e sulla correttezza del comportamento professionale, elementi che assumono valore autonomo rispetto all’eventuale danno patrimoniale.

Il principio di diritto affermato

La sentenza ha chiarito in modo inequivoco che: “L’illecito disciplinare di cui all’art. 33 cdf sussiste anche qualora la documentazione sia stata restituita con colpevole ritardo, senza che ciò abbia determinato danni concreti al cliente.”

Questo principio ribadisce l’autonomia della responsabilità deontologica rispetto alla responsabilità civile o agli effetti sul processo.

Le conseguenze disciplinari e il dovere di correttezza

Il CNF ha sottolineato che l’adempimento tempestivo dell’obbligo di restituzione è espressione del dovere di diligenza, correttezza e lealtà, che costituiscono i pilastri dell’attività professionale.

Il mancato rispetto di questi principi è suscettibile di sanzione disciplinare anche in assenza di conseguenze dannose per il cliente, poiché incide sulla fiducia che deve caratterizzare il rapporto tra difensore e assistito.