Il giurista risponde, Penale

Condotta ex art. 615-ter c.p. In cosa si concretizza la condotta tipica di cui all’art. 615ter c.p.? Quali sono gli indici sintomatici di riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p.?

giurista risponde

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La condotta tipica del delitto di cui all’art. 615ter c.p. si concretizza nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico posti in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323.

Ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., non è sufficiente che il fatto sia occasionale, ma è necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, sia ritenuta di particolare tenuità e il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su diverse questioni di particolare rilevanza, sia sostanziale che processuale, fornisce delle soluzioni interpretative in linea di continuità con i precedenti giurisprudenziali consolidatisi in materia.

Nel pronunciarsi sulla prima questione, la Corte di Cassazione richiama il “diritto vivente”, che considera integrato il delitto di cui all’art. 615ter c.p. in presenza di una condotta concretizzatasi nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico da parte di un soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. La Corte, inoltre, sottolinea come, per l’integrazione del reato in esame, non abbiano rilevanza gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema informatico. Sul punto, tuttavia, deve rilevarsi come le Sezioni Unite nel 2017 avevano ritenuto rilevante, ai fini dell’integrazione della fattispecie in oggetto, anche la finalità perseguita in concreto dal soggetto agente che, in quell’occasione, pur non avendo violato le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico protetto, aveva posto in essere l’accesso per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.

Altro rilievo che la Suprema Corte adita mette in evidenza è quello inerente alla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo che non è sufficiente, ai fini dell’integrazione dell’aggravante di cui al comma 1, risultando necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato.

Con specifico riferimento al caso di specie, infatti, l’imputato, in qualità di appuntato dei Carabinieri, sia era abusivamente introdotto nel sistema informatico della banca dati S.D.I. (Sistema D’Indagine istituito presso il C.E.D. del Ministero dell’Interno), proprio in violazione dei doveri inerenti la funzione e contro la volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per effettuare delle interrogazioni non autorizzate e per finalità non istituzionali. Dalle modalità attuative poste in essere dal ricorrente in concreto, la Corte deduce, altresì, la sussistenza “in re ipsa” della volontà della condotta e dell’evento in capo al soggetto agente, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta di ritenere l’accesso allo S.D.I. motivato dalla necessità di soddisfare esigenze di ordine pubblico o di sicurezza pubblica ovvero di prevenzione e repressione della criminalità.

La seconda questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda l’individuazione degli indici sintomatici cui il Giudice deve riferirsi per ritenere integrata la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. Sul punto, il Supremo Consesso ribadisce come non sia sufficiente che il fatto sia occasionale, ritenendo, invece, necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, risulti di particolare tenuità alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, c.p.. In tale prospettiva, pertanto, il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il mero richiamo a generiche clausole di stile. Il giudizio sulla tenuità dell’offesa, dunque, dev’essere effettuato, con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma 1, c.p., senza che ciò comporti una mera elencazione degli stessi, attraverso forme di automatismo valutativo che, viceversa, si pongono in palese contrasto con il principio di legalità sostanziale su cui si regge l’intero sistema penale.

Ed invero, la causa di non punibilità, di cui all’art. 131bis c.p., trova applicazione in presenza di fatti che, pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli manifestino un’offensività di scarso valore, da renderli immeritevoli di sanzione. La prospettiva che viene in rilievo è quella della proporzionalità, dell’adeguatezza e dell’extrema ratio della sanzione penale che attribuisce al giudice il potere di qualificare, in ragione della predetta valutazione, come irrilevanti fatti di minima gravità, secondo l’antico brocardo “De minimis non curat praetor”.

Pertanto, come già affermato in un precedente arresto dello stesso Giudice di legittimità, l’art. 131bis, c.p., costituisce un limite negativo alla punibilità del fatto stesso, la prova della cui ricorrenza è demandata all’imputato che, com’è noto, è tenuto ad allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l’indicazione di elementi specifici. Onere che, nel caso di specie, non era stato assolto dall’imputato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 4694/2011; Cass. pen. 50782/2019; Cass. pen. 18180/2018
Difformi:      Cass. pen., S.U., 41210/2017

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