insidie stradali

Le insidie stradali Insidie stradali: definizione, normativa di riferimento, risarcimento danni, onere della prova e responsabilità della PA

Insidie stradali

Le insidie stradali rappresentano una delle principali cause di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, con importanti conseguenze risarcitorie per i danni causati agli utenti della strada. Buche, sconnessioni, caditoie aperte, segnaletica mancante o non visibile: tutte queste situazioni possono integrare la fattispecie dell’insidia o trabocchetto.

Definizione

Il concetto di insidia stradale si riferisce a una situazione di pericolo occulto presente sulla strada, non prevedibile e non evitabile dall’utente medio con l’ordinaria diligenza. Il danno che ne deriva è riconducibile alla responsabilità del custode della strada, ossia, nella maggior parte dei casi, l’ente pubblico proprietario o gestore della stessa.

Normativa di riferimento: l’art. 2051 c.c.

La responsabilità per danni da insidia stradale è inquadrata nell’ambito della responsabilità oggettiva del custode, ai sensi dell’art. 2051 del codice civile, secondo cui: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.”

In questo caso, la Pubblica Amministrazione (es. Comune, Provincia, ANAS) è considerata custode della rete stradale, e pertanto tenuta al risarcimento dei danni causati da difetti della stessa, salvo che dimostri che l’evento è avvenuto per caso fortuito.

Insidia stradale e trabocchetto

In ambito giurisprudenziale, l’insidia è una situazione pericolosa che non è percepibile con la normale attenzione. Il trabocchetto, analogamente, è un pericolo improvviso e imprevedibile, che sfugge alla comune diligenza dell’utente medio.

Perché si configuri un’insidia stradale è necessario che sussistano due requisiti fondamentali:

  •  il pericolo non deve essere visibile o facilmente evitabile;
  •  il danno non deve essere prevedibile con l’uso della normale prudenza.

Esempi tipici di insidie sono:

  • buche non segnalate;
  • dissesti dell’asfalto;
  • tombini rotti o aperti;
  • caditoie sporgenti o affossate;
  • ghiaccio non rimosso o segnalato in tempo utile.

Risarcimento danni insidie stradali

Chi subisce un danno a causa di un’insidia stradale (es. una caduta, un incidente con l’auto o la moto) può richiedere il risarcimento dei danni materiali e/o fisici al soggetto responsabile, in genere l’ente proprietario o gestore della strada.

Il risarcimento può comprendere:

  • danni patrimoniali (spese mediche, danni al veicolo, perdita di reddito);
  • danni non patrimoniali (biologici, morali, da perdita di qualità della vita).

Il termine per proporre l’azione risarcitoria è, di norma, 5 anni dalla data del sinistro (art. 2947 c.c., prescrizione per fatto illecito).

Distribuzione dell’onere della prova 

Nel giudizio civile per danno da insidia stradale, l’onere della prova è ripartito tra le parti in questo modo:

A carico del danneggiato

  • provare l’esistenza del danno (con referti medici, foto, verbali, testimoni);
  • dimostrare il nesso causale tra la condotta della PA e il danno subito;
  • provare la non visibilità e imprevedibilità dell’insidia.

A carico della Pubblica Amministrazione

  • Provare il caso fortuito, ovvero che l’evento si è verificato per un fatto esterno, imprevedibile e inevitabile, idoneo a interrompere il nesso causale (es. manomissione improvvisa da parte di terzi, evento atmosferico eccezionale).

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 270/2017 ha chiarito che per andare esente da ogni responsabilità, è compito della pubblica amministrazione dimostrare che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed esterne create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, o da una situazione qualificabile come caso fortuito; deve trattarsi, in definitiva, di un antecedente causale idoneo a recidere il nesso di causalità tra condotta, attiva o omissiva, della P.A ed evento dannoso pregiudizievole della sfera giuridica del terzo.

Responsabilità PA insidie stradali: giurisprudenza

La giurisprudenza ha progressivamente ampliato l’applicazione dell’art. 2051 c.c anche alla Pubblica Amministrazione, superando l’orientamento tradizionale che richiedeva la prova della colpa ex art. 2043 c.c.

Oggi, grazie anche a sentenze come Cassazione n. 39965/2021 è pacifico che l’ente pubblico risponda dei danni da insidia a titolo oggettivo, quale custode della strada, salvo prova contraria.  La responsabilità stabilita dall’articolo 2051 del Codice Civile infatti è oggettiva, il che significa che deriva direttamente dalla dimostrazione del legame causale tra la cosa in custodia e il danno subito. Il custode può liberarsi da tale responsabilità solo provando l’esistenza di un caso fortuito, ovvero un elemento esterno che interrompe tale legame causale. Questo elemento può essere un evento naturale, l’azione di un terzo o il comportamento della vittima stessa.

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responsabilità del notaio

La responsabilità del notaio Responsabilità del notaio: cos'è, tipologie di responsabilità, obbligo assicurativo e prescrizione della responsabilità notarile

Cos’è la responsabilità del notaio

La responsabilità del notaio costituisce uno dei profili centrali dell’attività notarile, data la delicatezza e l’importanza degli atti pubblici da lui redatti. Il notaio, in quanto pubblico ufficiale e professionista liberale, è soggetto a un regime di responsabilità articolato e rigoroso, che copre sia l’aspetto pubblicistico, connesso alla funzione certificativa, sia quello privatistico, legato al rapporto con il cliente.

La responsabilità del notaio si configura quando quest’ultimo viola obblighi di legge o doveri professionali nell’esercizio delle proprie funzioni, arrecando un danno patrimoniale o morale a terzi o alle parti coinvolte nell’atto notarile.

La sua attività è regolata, oltre che dalla normativa civilistica generale, dalla:

  • Legge notarile (L. 89/1913);
  • Codice civile (artt. 1176, 1218, 2043, 2236 c.c.);
  • Codice deontologico notarile.

Il notaio è tenuto a garantire legalità, validità e certezza dell’atto, assumendo un ruolo di garanzia per tutte le parti. È responsabile non solo di errori formali, ma anche di mancati controlli e omissioni informative che avrebbero potuto evitare l’insorgenza di contenziosi.

Tipologie di responsabilità del notaio

La responsabilità notarile può articolarsi in diverse forme, ciascuna con proprie caratteristiche e conseguenze:

1. Responsabilità civile

La responsabilità civile deriva dalla violazione di obblighi contrattuali o extracontrattuali che causano un danno economicamente quantificabile al cliente o a terzi.

Si distinguono:

  • Responsabilità contrattuale: in virtù del contratto d’opera professionale (art. 2230 c.c.), il notaio risponde ai sensi degli articoli 1176 e 1218 c.c., con una presunzione di colpa a suo carico.
  • Responsabilità extracontrattuale: si applica nei confronti dei terzi danneggiati, ex art. 2043 c.c., che devono dimostrare il fatto illecito, il danno e il nesso causale.

Esempi pratici:

  • mancata iscrizione dell’ipoteca o della trascrizione dell’atto;
  • mancato controllo della libertà dell’immobile da vincoli;
  • omessa verifica dell’identità o della capacità giuridica delle parti.

2. Responsabilità penale

Il notaio può incorrere in responsabilità penale nei casi di comportamenti illeciti che integrano reati propri del pubblico ufficiale, come:

  • falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.);
  • omessa denuncia di reati o falsità materiale;
  • concussione o corruzione, se abusano della funzione.

3. Responsabilità disciplinare

Il notaio è sottoposto anche a controlli deontologici e disciplinari da parte del Consiglio notarile di appartenenza. Può essere sanzionato per:

  • negligenza professionale;
  • condotta non conforme al decoro e alla dignità della funzione;
  • violazione del segreto professionale;
  • mancata conservazione dei repertori e dei registri.

Le sanzioni vanno dall’avvertimento alla sospensione, fino alla destituzione nei casi più gravi.

L’obbligo assicurativo del notaio

Il notaio, ai sensi della legge n. 89/2013ha l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile professionale.

Questa assicurazione:

  • copre i danni causati nell’esercizio dell’attività notarile;
  • è condizione necessaria per l’esercizio della professione;
  • garantisce tutela ai clienti e alle controparti in caso di errori o omissioni.

L’importo minimo della copertura è fissato dal Consiglio Nazionale del Notariato e varia in base al volume d’affari del professionista. Alcune polizze includono anche la copertura per il personale dipendente dello studio.

La prescrizione della responsabilità del notaio

I termini di prescrizione per la responsabilità del notaio variano in base alla natura del rapporto:

Contrattuale:

  • Il termine è di 10 anni, ex art. 2946 c.c., decorrenti dal momento in cui il cliente ha effettiva conoscenza del danno e della condotta causale del professionista.

Extracontrattuale:

  • La responsabilità verso terzi si prescrive in 5 anni, ai sensi dell’art. 2947 c.c.

Tuttavia, in presenza di reato, la responsabilità può prescriversi nei termini previsti per il reato medesimo, con possibilità di estensione.

 

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Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: va monitorato il paziente in codice verde Responsabilità infermiere: la Cassazione afferma che l'infermiere del PS deve monitorare l'evoluzione clinica del paziente nell'attesa di visita medica

Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: la quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 15076/2025, ha affermato un principio rilevante in materia di colpa medica infermieristica nel triage ospedaliero. L’infermiere di pronto soccorso è tenuto non solo a rilevare i parametri vitali del paziente al momento dell’accesso, ma anche a proseguire il monitoraggio clinico, prestando attenzione all’eventuale peggioramento dei sintomi riferiti o osservati, anche nei casi di assegnazione del codice verde.

Il caso: crisi respiratoria sottovalutata

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Livorno, dichiarava non doversi procedere nei confronti di un’infermiera, per intervenuta prescrizione del reato, confermando la condanna al risarcimento del danno subito dalle parti civili costituite, in solido con l’ASL-Toscana
per il reato di cui all’art. 589 c.p.

Alla predetta, in qualità di infermiera professionale in servizio presso il Pronto Soccorso, era stato contestato di aver omesso di valutare correttamente la gravità del quadro clinico di soggetto asmatico, attribuendole così un codice di accesso di colore verde, circostanza che determinò un ritardo nell’intervento medico, causa della morte della paziente per arresto cardio-respiratorio dovuto ad “insufficienza respiratoria acuta da attacco asmatico di tipo 2”.

Il ruolo dell’infermiere nel triage

La Suprema Corte, esaminando il caso di specie, ha ribadito che “al personale infermieristico compete non solo una completa raccolta di dati, non limitata alla rilevazione dei parametri vitali, ma compete altresì un giudizio di carattere valutativo dei sintomi riscontrati e riferiti. E tanto considerano compiutamente i giudici di merito, rilevando non solo come non si possa sostenere che il compito dell’infermiere si limiti alla meccanica compilazione delle schede, ma che, appunto, lo stato della paziente obiettivamente rilevabile, avrebbe dovuto condurre ad una valutazione di gravità del caso”.

Seppur non competente a formulare diagnosi,  il personale infermieristico, in sostanza, doveva procedere all’auscultazione mediante stetoscopio, potendo rilevare i ” sibili” certamente presenti in un attacco di asma grave quale quello in corso, compilando correttamente la scheda di triage.

Pertanto, i giudici rimarcano altresì “la gravità della condotta colposa della ricorrente, in quanto caratterizzata da sottovalutazione delle condizioni della paziente e dalla omissione del dovere di monitoraggio che, qualora osservato, avrebbe permesso di avvisare il personale medico dell’aggravarsi delle condizioni della donna e della necessità di intervenire immediatamente”.

Infermiere titolare di posizione di garanzia

Va invero ribadito, concludono gli Ermellini, che, secondo principi costantemente affermati dalla Corte di legittimità, “l’infermiere è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche (cfr. Cass. n. 21449/2022).

Il dovere di monitorare la stabilità delle condizioni dei pazienti presenti rientra, pertanto, tra gli obblighi specifici del personale infermieristico di pronto
soccorso, il quale, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, “ha l’obbligo di allertare i sanitari in servizio, anche in altri reparti dell’ospedale, al fine di consentirne l’intervento in supporto (cfr. Cass. n. 11601/2014).

Allegati

responsabilità dello psichiatra

La responsabilità dello psichiatra Responsabilità dello psichiatra: definizione, posizione di garanzia, tipologie, prescrizione, TSO e giurisprudenza

Cos’è la responsabilità dello psichiatra

La responsabilità dello psichiatra è un tema delicato che coinvolge aspetti giuridici, etici e medici. Trattandosi di una figura professionale che opera su pazienti affetti da disturbi mentali, lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, ovvero ha l’obbligo di prevenire eventi dannosi che potrebbero derivare dalle condizioni del paziente.

Lo psichiatra infatti è un medico specialista che si occupa della diagnosi, cura e prevenzione dei disturbi psichici. La sua responsabilità giuridica deriva dall’obbligo di prendersi cura del paziente e prevenire danni  che lo stesso può procurare a sé stesso e agli altri.

Questa figura può andare incontro a due principali forme di responsabilità:

  • responsabilità civile, che comporta un obbligo di risarcimento danni se si verifica un pregiudizio per il paziente o per terzi;
  • responsabilità penale, che si verifica quando lo psichiatra, con negligenza, imprudenza o imperizia, causa un danno penalmente rilevante.

La posizione di garanzia dello psichiatra

La giurisprudenza ha chiarito che lo psichiatra ha una posizione di garanzia nei confronti del paziente e della collettività. Questo significa che deve adottare tutte le misure necessarie per prevenire comportamenti autolesivi o etero-lesivi del paziente. Secondo l’art. 40 comma 2 del Codice Penale, “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

Facciamo qualche esempio pratico per comprendere meglio che cosa significa posizione di garanzia:

  • se un paziente con disturbi psichiatrici manifesta tendenze suicidarie e lo psichiatra omette di ricoverarlo, può essere considerato responsabile in caso di suicidio;
  • se un paziente con disturbi gravi compie atti violenti contro terzi e lo psichiatra non ha predisposto le dovute misure di sicurezza, può essere ritenuto responsabile civilmente e penalmente.

La responsabilità è quindi molto alta soprattutto nei casi in cui il medico non interviene in situazioni di pericolo evidente.

Responsabilità civile dello psichiatra

Dal punto di vista civile, la responsabilità dello psichiatra può derivare da:

  • errore diagnostico o terapeutico (es. prescrizione errata di farmaci psichiatrici);
  • omessa vigilanza (es. dimissione di un paziente pericoloso senza adeguata valutazione);
  • violazione del consenso informato (es. trattamenti sanitari imposti senza rispettare la normativa).

Regime della prescrizione

Entro quanto tempo si può far valere il diritto che consegue alla responsabilità civile del medico psichiatra? Tutto dipende dalla natura della responsabilità stessa:

  • se la responsabilità è contrattuale (rapporto medico-paziente), il termine di prescrizione è di 10 anni;
  • se la responsabilità è extracontrattuale, la prescrizione è di 5 anni.

Responsabilità penale dello psichiatra

Dal punto di vista penale, lo psichiatra può essere chiamato a rispondere di:

  • Omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.);
  • Omicidio colposo o lesioni colpose (art. 589-590 c.p.);
  • Sequestro di persona (se impone un trattamento sanitario obbligatorio illegittimo)

La colpa medica nella responsabilità psichiatrica

La colpa dello psichiatra si valuta in base a tre parametri:

  • negligenza: mancata vigilanza su pazienti pericolosi;
  • imprudenza: scelte terapeutiche azzardate (es. sospensione improvvisa di farmaci);
  • imperizia: errore nella diagnosi o terapia.

TSO e responsabilità dello psichiatra

Lo psichiatra può disporre un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) nei  seguenti casi:

  • il paziente ha un grave disturbo psichiatrico;
  • il paziente rifiuta il trattamento nonostante necessiti di cure;
  • il paziente rappresenta un pericolo per sé o per gli altri.

Lo psichiatra in relazione al TSO può andare incontro a responsabilità se:

  • non attiva il TSO e il paziente commette un reato, può essere accusato di omissione di atti dovuti;
  • impone un TSO senza rispettare la procedura, può incorrere in sequestro di persona.

Doveri dello psichiatra per evitare responsabilità

Per ridurre i rischi di responsabilità, lo psichiatra deve quindi:

  • effettuare diagnosi accurate e aggiornate;
  • valutare attentamente il rischio di autolesionismo o etero-aggressività;
  • predisporre il TSO quando necessario, seguendo la legge;
  • coinvolgere la famiglia e il team sanitario nelle decisioni;
  • rispettare il consenso informato del paziente.

Poiché la responsabilità dello psichiatra è molto elevata,  è fondamentale operare con prudenza e rispettare scrupolosamente le linee guida cliniche e giuridiche.

Giurisprudenza in materia

Ecco una serie di massime della Cassazione in materia di responsabilità dello psichiatra:

Cassazione n. 24138/2022

La paziente mostrava gravi problemi psicologici, accentuati da ricoveri frequenti, rifiuto di cibo, autolesionismo e un recente aborto traumatico. Il medico, con comportamenti errati e insoliti, non ha valutato adeguatamente la gravità della situazione, ignorando il rischio e non adottando misure preventive, inclusa la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), dimostrando negligenza e imprudenza. Il medico per queste ragioni è stato ritenuto responsabile della morte della paziente suicida.

Cassazione n. 43476/2017

Un medico psichiatra ha la responsabilità legale di proteggere i propri pazienti. Questo significa che deve fare tutto il possibile per prevenire:

  • che il paziente possa fare del male ad altre persone;
  • che il paziente possa fare del male a se stesso.

In un caso specifico, un medico è stato ritenuto colpevole di omicidio colposo perché una paziente, affetta da grave schizofrenia, si è suicidata poche ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale. Il medico, nonostante la paziente avesse ingerito una dose eccessiva di farmaci, non aveva attivato alcuna cura o sorveglianza. La Corte ha stabilito che il medico non aveva adempiuto al suo dovere di protezione.

Cassazione n. 28187/2017

La possibilità che uno psichiatra sia ritenuto responsabile per aver contribuito involontariamente a un reato intenzionale commesso da un suo paziente esiste nel sistema legale. Tuttavia, questa responsabilità deve essere valutata con attenzione, considerando le linee guida mediche per determinare i limiti del rischio accettabile e valutando in anticipo se l’adeguatezza delle terapie scelte.

Cassazione n. 33609/2016

Uno psichiatra ha la responsabilità di proteggere i suoi pazienti, anche quando questi non sono ricoverati forzatamente. Ciò significa che, se esiste un rischio concreto che il paziente possa farsi del male, anche fino al suicidio, il medico deve prendere precauzioni specifiche per prevenirlo.

danno endofamiliare

Il danno endofamiliare Danno endofamiliare: cos’è, normativa, presupposti, tipologie, quantificazione, prescrizione del diritto risarcitorio

Cos’è il danno endofamiliare

Il danno endofamiliare rappresenta la conseguenza di una particolare ipotesi di responsabilità civile, che si verifica in ambito familiare. Si tratta di un danno non strettamente patrimoniale, causato da un comportamento illecito di un componente della famiglia che viola i doveri derivanti dal rapporto familiare. La sua risarcibilità è stata oggetto di un’evoluzione giurisprudenziale significativa, culminata in un riconoscimento sempre più ampio da parte della Corte di Cassazione.

Con il termine “danno endofamiliare” si indica il pregiudizio che una persona subisce all’interno della propria famiglia a causa della violazione dei doveri giuridici derivanti dai rapporti familiari, così come delineati dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, nonché dagli articoli 143 e ss. del Codice civile. Esempi classici di danno familiare sono quelli che conseguono alle seguenti condotte:

  • violenze domestiche;
  • tradimento coniugale lesivo della dignità del partner;
  • privazione affettiva nei confronti dei figli;
  • abbandono della prole o del coniuge in condizione di bisogno.

Normativa di riferimento

Non esiste una norma codificata che disciplini espressamente il danno endofamiliare. Tuttavia, il suo riconoscimento si fonda sull’interpretazione sistematica delle seguenti disposizioni:

  • Art. 2043 c.c.: prevede l’obbligo di risarcire ogni fatto illecito che cagiona un danno ingiusto;
  • Art. 2059 c.c.: legittima il risarcimento del danno non patrimoniale nei casi previsti dalla legge;
  • Art. 143 c.c. e ss.: sancisce i doveri coniugali e genitoriali;
  • Art. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost.: proteggono i diritti inviolabili della persona e i diritti della famiglia.

Fondamentale è stata la Cassazione a Sezioni Unite n. 26972/2008, che ha chiarito che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche quando sussiste una lesione grave di diritti inviolabili della persona.

Presupposti risarcimento danno endofamiliare

Perché il danno endofamiliare sia risarcibile è necessario che sussistano i seguenti elementi:

  1. vi sia una condotta illecita da parte di un componente della famiglia;
  2. la condotta violi obblighi giuridici derivanti da norme costituzionali o codicistiche;
  3. la lesione riguardi diritti inviolabili della persona (es. salute, dignità, integrità morale);
  4. il danno sia serio, grave e ingiusto e non si configuri come un semplice disagio o sofferenza passeggera.

La giurisprudenza esclude il risarcimento in caso di meri conflitti o attriti fisiologici nella vita familiare.

Tipologie di danno risarcibile

Il danno endofamiliare può assumere forme differenti:

  • danno biologico: lesione alla salute psicofisica;
  • danno morale: sofferenza interiore provocata dalla violazione del rapporto affettivo.
  • danno esistenziale: alterazione delle abitudini di vita e del progetto esistenziale.

Quantificazione del danno endofamiliare

La quantificazione del danno endofamiliare avviene in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., e si basa su criteri oggettivi e soggettivi:

  • gravità della condotta;
  • durata della lesione;
  • intensità del vincolo affettivo leso;
  • prova documentale e testimoniale;
  • eventuale presenza di patologie collegate al trauma (es. disturbi post-traumatici).

Prescrizione del diritto al risarcimento

Il diritto al risarcimento del danno endofamiliare si prescrive in 5 anni, ai sensi dell’art. 2947, comma 1, c.c., decorrenti dal momento in cui il fatto si è verificato. In caso di reato, si applica il termine più lungo previsto per l’azione penale, ex art. 2947, comma 3, c.c.

 

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prescrizione responsabilità medica

Prescrizione della responsabilità medica Prescrizione della responsabilità medica: termini, normativa e giurisprudenza

Cos’è la prescrizione nella responsabilità medica

La responsabilità medica è un tema di grande rilevanza giuridica, in particolare per quanto riguarda la prescrizione del diritto al risarcimento in caso di errore medico. Stabilire i termini entro cui un paziente può agire contro un medico o una struttura sanitaria è fondamentale per tutelare sia i diritti del danneggiato sia la certezza giuridica degli operatori sanitari.

La prescrizione è un istituto giuridico che stabilisce un limite temporale entro cui il danneggiato può esercitare il proprio diritto al risarcimento. Trascorso tale termine, il diritto si estingue e non può più essere fatto valere in giudizio.

Nella responsabilità medica, la prescrizione varia a seconda che il rapporto tra paziente e medico (o struttura sanitaria) sia di natura contrattuale o extracontrattuale.

Termini di prescrizione responsabilità medica

La legge italiana prevede due diversi regimi di prescrizione:

  • prescrizione di 10 anni per la responsabilità contrattuale (art. 2946 c.c.);
  • prescrizione di 5 anni per la responsabilità extracontrattuale (art. 2947 c.c.)

1. Responsabilità contrattuale (prescrizione 10 anni)

Quando il paziente subisce un danno a causa di un errore medico nell’ambito di un rapporto contrattuale con la struttura sanitaria o con il medico, la prescrizione è di 10 anni.

Esempio: un paziente si sottopone a un intervento chirurgico e scopre, dopo alcuni anni, di aver subito un danno per negligenza del chirurgo. Avrà 10 anni di tempo dalla scoperta del danno per agire legalmente.

2. Responsabilità extracontrattuale (prescrizione 5 anni)

Se il danno deriva da un rapporto non contrattuale, ad esempio per un errore commesso da un medico non legato da un contratto con il paziente, la prescrizione è di 5 anni.

Esempio: un paziente viene soccorso in emergenza e subisce un danno per negligenza del medico di turno. In questo caso, il termine di prescrizione è di 5 anni dalla data in cui il paziente scopre il danno.

Quando inizia a decorrere la prescrizione

Uno degli aspetti più dibattuti riguarda il dies a quo, ovvero il momento in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione. La giurisprudenza ha chiarito che il termine non parte dal giorno in cui si è verificato l’errore medico, ma dal momento in cui il paziente ha avuto piena consapevolezza del danno e della sua causa.

Il principio della “manifestazione del danno”

La Cassazione ha stabilito che il termine decorre dal momento in cui il paziente è in grado di collegare il danno subito all’errore medico. Questo significa che se il danno emerge a una certa distanza dall’intervento, la prescrizione inizierà a decorrere solo dal momento della scoperta.

Esempio: Un paziente subisce un errore chirurgico nel 2015, ma scopre il danno solo nel 2020 a seguito di accertamenti medici. In questo caso, il termine di 10 anni (o 5 anni, a seconda della responsabilità) partirà dal 2020, e non dal 2015.

Riforma Gelli-Bianco e impatto sulla prescrizione

Con la Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), la responsabilità medica ha subito alcune modifiche:
Per la struttura sanitaria, la responsabilità resta contrattuale (prescrizione 10 anni).
Per il medico, invece, la responsabilità diventa extracontrattuale (prescrizione 5 anni).

Effetto pratico: il paziente potrà  quindiagire contro la struttura entro 10 anni, contro il medico solo entro 5 anni.

Prescrizione responsabilità medica: Cassazione 

Di seguito alcune rilevanti massime della Cassazione in materia di prescrizione della responsabilità medica:

Cassazione n. 29760/2022: il termine iniziale per la prescrizione dell’azione di risarcimento danni da malpractice medica non coincide con l’aggravamento della malattia, ma con il momento in cui la vittima ne percepisce l’esistenza. I giudici confermano che, in base agli articoli 2935 e 2947 del codice civile, il diritto al risarcimento per responsabilità medico-chirurgica inizia a decorrere da quando la malattia è percepita o avrebbe potuto esserlo usando la normale diligenza e considerando lo stato attuale delle conoscenze scientifiche, come conseguenza ingiusta della condotta altrui

Cassazione n. 3267/2024: l’azione legale intentata dai familiari per ottenere il risarcimento dei danni dovuti alla perdita del rapporto parentale a causa del decesso del loro congiunto, ritenuto responsabilità della struttura sanitaria, è considerata un’azione di responsabilità extracontrattuale, poiché non sussiste un contratto diretto tra i familiari e la struttura. Di conseguenza, una volta stabilita la natura illecita dell’evento, il termine di prescrizione applicabile per la richiesta di risarcimento non è quello ordinario di cinque anni, bensì il termine di prescrizione più esteso previsto per il reato di omicidio colposo.

 

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errore diagnostico

Errore diagnostico Errore diagnostico: definizione, normativa di riferimento, risarcimento del danno e pronunce della Corte di Cassazione

Cos’è l’errore diagnostico?

L’errore diagnostico si verifica quando un medico formula una diagnosi errata o omette di riconoscere una patologia, causando un ritardo o un’errata impostazione terapeutica. Questo errore può derivare da:

  • diagnosi errata: ossia identificazione sbagliata della malattia;
  • diagnosi tardiva: ritardo nell’individuazione della patologia;
  • mancata diagnosi: omissione nel riconoscere la malattia.

Normativa di riferimento

La responsabilità medica per errore diagnostico è disciplinata dalla Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), che distingue tra:

  • responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) per il medico dipendente di una struttura sanitaria;
  • responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.) per il medico libero professionista.

Inoltre, l’art. 2236 c.c. limita la responsabilità del medico ai soli casi di dolo o colpa grave quando l’errore riguarda interventi complessi.

Incertezza diagnostica e nesso causale

L’errore diagnostico non implica automaticamente la responsabilità medica. Devono essere accertati:

  • l’errore effettivo: analizzando se il medico ha rispettato le linee guida e le buone pratiche cliniche;
  • il nesso causale: dimostrare che l’errore ha causato un danno al paziente.

Secondo la Cassazione (sentenza n. 18392/2017), il medico è responsabile se la diagnosi errata ha impedito un trattamento tempestivo che avrebbe migliorato le condizioni del paziente.

Risarcimento del danno da errore diagnostico

Il paziente ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale se prova che:

  1. l’errore diagnostico è stato determinante per l’aggravamento della patologia;
  2. il medico non ha rispettato il dovere di diligenza;
  3. il danno subito è direttamente collegato all’errore.

Il risarcimento può includere:

  • danno biologico (lesione della salute fisica e psichica);
  • danno morale (sofferenza interiore);
  • danno patrimoniale (spese mediche e perdita di reddito).

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 15786/2023: l’errore diagnostico non si limita a una diagnosi errata di una malattia, ma si verifica anche quando il medico omette di eseguire gli esami e i controlli necessari per una diagnosi corretta. In altre parole, la responsabilità medica sussiste non solo quando si sbaglia la diagnosi, ma anche quando si trascura di fare tutto il necessario per arrivare a una diagnosi corretta.

Cassazione n. 17410/2023: il professionista che interpreta un esame diagnostico ha una responsabilità che va oltre la semplice lettura dei dati: è suo dovere valutare la necessità di ulteriori indagini e indirizzare il paziente verso approfondimenti diagnostici, qualora lo ritenga opportuno. In altre parole, non può limitarsi a una mera analisi formale, ma deve agire attivamente per garantire una diagnosi completa e accurata.

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danno iatrogeno

Danno iatrogeno Danno iatrogeno: definizione, normativa di riferimento, risarcimento del danno e giurisprudenza rilevante in materia

Cos’è il danno iatrogeno?

Il danno iatrogeno differenziale si verifica quando un paziente subisce un peggioramento delle proprie condizioni di salute a causa di un trattamento sanitario. Questo danno può derivare da errori medici, effetti collaterali non prevedibili o complicazioni post-operatorie. La responsabilità per questo danno può essere attribuita alla struttura sanitaria o al personale medico, qualora vi sia una condotta colposa o negligente.

Normativa di riferimento

Il danno iatrogeno rientra infatti nell’ambito della responsabilità sanitaria disciplinata dalla Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), che stabilisce i criteri di imputabilità della responsabilità medica. In particolare:

  • il medico risponde penalmente solo per colpa grave in caso di imperizia, se ha seguito le linee guida riconosciute;
  • la struttura sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale, mentre il medico dipendente ha responsabilità extracontrattuale.

Risarcimento del danno

La liquidazione del danno iatrogeno segue i principi del risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale:

  • Danno biologico: peggioramento della salute del paziente, quantificato attraverso le tabelle di invalidità permanente.
  • Danno patrimoniale: perdita di reddito o aumento delle spese mediche per trattamenti correttivi.
  • Danno morale: sofferenza psicologica del paziente.

Giurisprudenza di rilievo

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimento sul danno iatrogeno differenziale:

Cassazione n. 8851/2017: il danno differenziale si verifica quando il danneggiato richiede il risarcimento esclusivamente per il danno iatrogeno, senza includere l’intero danno subito. In sede di liquidazione, verranno quindi considerati i postumi che il paziente avrebbe comunque riportato anche in caso di un trattamento medico corretto. Il risarcimento del danno iatrogeno differenziale si determina sottraendo dall’importo corrispondente all’invalidità complessiva quello relativo alla percentuale di invalidità che si sarebbe comunque verificata, anche in presenza di un intervento medico eseguito in modo ottimale.

Cassazione n. 26117/2021: in materia di danno differenziale e impatto degli indennizzi Inail nel calcolo del risarcimento la corte ha chiarito che il calcolo del danno differenziale prevede la sottrazione dell’indennizzo INAIL solo se quest’ultimo copre lo stesso pregiudizio per cui si richiede il risarcimento. Se l’indennizzo è erogato sotto forma di rendita, occorre considerare sia i ratei già percepiti sia il valore capitale della rendita futura. Nel caso di danno iatrogeno, ossia l’aggravamento di una lesione preesistente dovuto a negligenza medica, il danno deve essere quantificato economicamente e confrontato con l’indennizzo ricevuto per determinare l’effettivo risarcimento spettante.

 

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segreto professionale medico

Segreto professionale medico Segreto professionale medico: normativa di riferimento, conseguenze in caso di violazione, eccezioni, la giusta causa nella giurisprudenza

Cos’è il segreto professionale medico?

Il segreto professionale medico è un obbligo legale ed etico che impone al medico di non divulgare informazioni relative allo stato di salute dei pazienti, ai trattamenti ricevuti e ad altre informazioni acquisite nell’esercizio della professione.

Tale dovere è finalizzato a tutelare la riservatezza del paziente, garantire la fiducia nel rapporto medico-paziente e assicurare il rispetto della dignità della persona.

Normativa di riferimento

La disciplina del segreto professionale medico è regolata da diverse fonti normative:

  • 622 del Codice Penale: punisce chi rivela segreti appresi nell’esercizio della professione senza giusta causa, con pene che vanno fino a un anno di reclusione o una multa.
  • 200 del Codice di Procedura Penale: riconosce ai medici il diritto di rifiutarsi di testimoniare su fatti appresi nell’esercizio della professione.
  • Codice di Deontologia Medica (art. 10 e 11): sancisce l’obbligo di riservatezza e disciplina le eccezioni giustificate.
  • Regolamento UE 2016/679 (GDPR): tutela la riservatezza dei dati sanitari.

Violazione del segreto professionale medico

La violazione del segreto professionale può avere conseguenze penali, civili e disciplinari:

  1. conseguenze penali (art. 622 c.p.): il medico rischia la reclusione fino a un anno o una multa che varia dai 30 ao 516 euro;
  2. conseguenze civili: il paziente può chiedere il risarcimento del danno per violazione della privacy;
  3. conseguenze disciplinari: l’Ordine dei Medici può irrogare al professionista sanzioni disciplinari che comprendono la sospensione dell’attività fino alla radiazione dall’

Eccezioni al segreto professionale medico

Esistono alcune circostanze in cui il medico può o deve rivelare informazioni riservate, senza incorrere in sanzioni:

  • Consenso del paziente: il paziente può autorizzare la divulgazione delle proprie informazioni sanitarie.
  • Obbligo di referto e denuncia (artt. 365 e 334 c.p.): il medico è tenuto a segnalare all’autorità giudiziaria reati perseguibili d’ufficio (es. violenze su minori).
  • Tutela della salute pubblica: segnalazione di malattie infettive per prevenire epidemie.
  • Giusta causa: quando la divulgazione è necessaria per proteggere un interesse superiore (es. prevenzione di un crimine grave).

La giusta causa nella violazione del segreto

Il concetto di giusta causa (art. 622 c.p.) è stato chiarito dalla giurisprudenza. La Corte di Cassazione infatti nella sentenza n. 318/2021 ha chiarito che il reato di rivelazione di segreto professionale, disciplinato dall’articolo 622 del codice penale, si configura quando viene effettuata una “rivelazione” di un segreto in assenza di una “giusta causa”. La nozione di “giusta causa” si basa sul concetto ampio di giustizia, e la sua presenza, che può integrare il reato di cui all’articolo 622 del codice penale, deve essere valutata dal giudice caso per caso, tenendo conto della liceità, sia dal punto di vista etico che sociale, dei motivi che spingono un individuo a compiere una determinata azione o comportamento.

 

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danno parentale

Danno parentale: il vincolo di sangue non è imprescindibile Danno parentale: per il riconoscimento non rileva il legame di sangue ma la dedizione e l'assistenza morale e materiale

Danno parentale al padre vicario

Per il riconoscimento del danno parentale previsto per la perdita del congiunto il legame di sangue non è un elemento imprescindibile di valutazione. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza. n. 5984/2025, riconoscendo il danno parentale da perdita al compagno di una madre che ha perso la figlia di 4 anni in un incidente stradale. L’uomo merita di essere risarcito perché ha svolto il ruolo di padre vicario nei confronti della bambina, provvedendo a tutte le sue necessità nella sua breve vita.

Danno parentale da perdita del congiunto al compagno

Una donna e il compagno fanno causa ai responsabili della morte della figlia della sola donna conseguente a un sinistro stradale. Nella domanda chiedono la condanna in solido di tutti i responsabili al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In giudizio uno dei convenuti rende noto l’avvenuto pagamento in favore della madre della somma di 270.000,00 euro. La CTU medico legale riconosce però alla madre il massimo risarcimento previsto dalle tabelle di Roma per il danno parentale. Il Giudice di primo grado rigetta la richiesta risarcitoria avanzata dal compagno della donna finalizzata a ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. La Corte d’Appello tuttavia ribalta la decisione e dispone in suo favore il risarcimento. L’uomo ha svolto infatti il ruolo di padre sostituto del padre biologico, eclissatosi completamente dalla vita, seppur breve, della figlia. La sentenza viene impugnata in Cassazione e nel terzo motivo si contesta “la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale disposta in favore del compagno della madre, per la morte della figlia di quest’ultima, in assenza di convivenza e della prova della effettiva assunzione, da parte dell’istante, del “ruolo morale e materiale di genitore”.

Cassazione: rilevano dedizione e assistenza

Per la Cassazione però il motivo è inammissibile perché si basa su una critica all’idoneità e alla sufficienza delle prove acquisite, cercando una rivalutazione del materiale probatorio. Compito questo che non spetta al giudice di legittimità. L’obiettivo del motivo consiste nell’ottenere una nuova valutazione delle prove. La Corte d’Appello ha fornito una motivazione ragionevole e coerente dal punto di vista giuridico. La stessa ha infatti accertato, sulla base delle prove raccolte, che il ricorrente aveva assunto un ruolo di “padre vicario” nei confronti della vittima, una bambina deceduta in un incidente. Il padre biologico era assente dalla vita della bambina, e il ricorrente ha fornito dedizione e assistenza morale e materiale per oltre tre anni, su un totale di quattro anni di vita della minore. Il ricorrente pertanto ha subito, senza alcun dubbio, un danno da perdita del rapporto parentale.

La decisione della Corte si basa sul principio giurisprudenziale secondo cui la convivenza non è sufficiente a dimostrare il danno parentale. È necessario provare piuttosto la dedizione e l’assistenza morale e materiale fornite, come nel caso in esame. Il vincolo di sangue quindi non è essenziale per il riconoscimento del danno parentale; ciò che conta è l’esistenza di una relazione affettiva stabile e duratura, indipendentemente dalla consanguineità.

 

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