cartella clinica

La cartella clinica incompleta non basta a provare l’errore medico La Cassazione chiarisce che l’incompletezza della cartella clinica non dimostra di per sé il nesso causale. Serve la prova di una condotta colposa astrattamente idonea a causare il danno

Il caso giunto in Cassazione

Cartella clinica: la Suprema corte si è pronunciata su un ricorso presentato dagli eredi di un paziente deceduto dopo un intervento chirurgico per la sostituzione di un pacemaker con un defibrillatore biventricolare.
Gli eredi avevano convenuto in giudizio l’azienda sanitaria, ritenendo che l’evento fosse riconducibile a responsabilità medica. Tribunale e Corte d’appello, però, avevano escluso la colpa dei sanitari, attribuendo il decesso a un evento imprevedibile e inevitabile.

Il ruolo della cartella clinica

Secondo gli eredi, la cartella clinica era inadeguata poiché non riportava esami diagnostici che non erano stati eseguiti. A loro avviso, proprio questa incompletezza provava automaticamente il nesso causale tra condotta medica ed evento letale.
La Cassazione ha respinto tale argomento, chiarendo che l’omessa annotazione di esami mai effettuati non integra, di per sé, un difetto della cartella.

La decisione della Cassazione

Con la sentenza n. 14609 del 30 maggio 2025, la Cassazione ha ribadito che:

  • l’incompletezza della cartella clinica non può essere considerata prova automatica di responsabilità;

  • occorre dimostrare che il professionista abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno;

  • solo quando la lacunosità della cartella renda impossibile accertare il nesso causale, e vi sia un fumus di colpa medica, il giudice può valorizzarla come elemento probatorio.

Il principio affermato

La Corte ha riaffermato un criterio importante: la responsabilità sanitaria non può fondarsi su mere omissioni formali, ma necessita di un accertamento sostanziale.
Se manca qualsiasi indizio di condotta colposa e l’evento è imprevedibile e inevitabile, l’incompletezza della cartella clinica diventa irrilevante ai fini probatori.

polizze catastrofali

Polizze catastrofali: per grandi, medie, piccole e micro imprese Polizze catastrofali: cosa sono e in cosa consiste l’obbligo della stipula per le imprese di grandi, medie, piccole e micro dimensioni

Polizze catastrofali: cosa sono

Le polizze catastrofali sono polizze assicurative che la legge di bilancio 2024 (n. 213/2023) ha reso obbligatorie per tutte le imprese che hanno la sede legale in Italia, per proteggerle da eventi catastrofici e calamità naturali (Cat Nat). La normativa è conseguente ai fenomeni climatici che negli ultimi anni si sono abbattuti sul territorio italiano con ripercussioni negative anche sulle attività economiche e produttive.

Il decreto attuativo, DM n. 18 del 30 gennaio 2025 ha dettato le modalità di attuazione e di operatività degli schemi assicurativi dei rischi catastrofali.

Polizze catastrofali: il termine del 31 marzo 2025

L’articolo 1 comma 101 e successivi della legge di bilancio n. 213/2023 aveva stabilito l’obbligo di adeguamento al 31 dicembre 2024.

Il decreto Milleproroghe ha rinviato però tale obbligo al 31 marzo 2025.

Rinvio per medie, piccole e micro imprese

Il Senato il 21 maggio 2025 con 78 voti a favore, nessuno contrario e 53 astenuti ha approvato in via definitiva il “ddl di conversione con modificazioni, del decreto-legge 31 marzo 2025, n. 39, recante misure urgenti in materia di assicu­razione dei rischi catastrofali.” Il testo della nuova legge n. 78/2025 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore il 31 maggio 2025.

Fatta questa necessaria premessa, che cosa stabilisce il testo definitivo? Chi e quando deve sottoscrivere le polizze catastrofali?

Imprese obbligate e termini per la stipula

Le grandi imprese, con più di 250 dipendenti, devono stipulare dette polizze entro il termine del 30 giugno 2025, anche se l’obbligo è in vigore dal 31 marzo 2025. Il decreto infatti ha previsto per queste imprese un periodo transitorio di 90 giorni, fino al 30 giugno, per permettere alle aziende prive di contratto di adeguarsi.

Le medie imprese con un minimo di 50 dipendenti fino a un massimo di 250, hanno invece altri sei mesi di tempo, ossia fino al 1° ottobre 2025, per stipulare i contratti assicurativi.

Per le micro e piccole imprese l’obbligo è  posticipato al 31 dicembre 2025.

La mancata stipula comporterà il mancato accesso a incentivi statali e risorse pubbliche per sviluppare l’attività. Le imprese che intendono chiedere determinati aiuti dovranno infatti dimostrare di essere in regola con la stipula.

Obbligo assicurativo: eccezioni

Sono esclusi dall’obbligo assicurativo gli immobili che non possono essere assicurati perchè:

  • costruiti o ampliati in assenza di un titolo edilizio valido o ultimati quando il titolo non era obbligatorio;
  • oggetto di sanatoria o con procedimento di sanatoria o condono in corso.

Indennizzo assicurativo

L’indennizzo spettante in caso di evento catastrofale spetta al proprietario dell’immobile se l’imprenditore assicura beni di proprietà altrui impiegati per l’attività di impresa, comunicando al proprietario la stipula della polizza. L’indennizzo, una volta corrisposto, deve essere impiegato solo per ripristinare i beni danneggiati. Se questa regola non viene rispettata all’imprenditore spetta comunque una somma per la riparazione del lucro cessante nel limite del 40% dell’indennizzo massimo indennizzabile.

Polizze catastrofali: le faq del MIMIT

Sul sito Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) sono presenti le FAQ sulle polizze assicurative contro eventi catastrofali. Le risposte chiariscono aspetti essenziali in merito all’obbligo assicurativo per le imprese e agli effetti sull’accesso ai benefici pubblici.

Obbligo assicurativo e incentivi pubblici

Il Ministero precisa che la norma relativa allobbligo per le imprese di stipulare polizze assicurative contro calamità naturali – prevista dall’art. 1, comma 102 della Legge n. 213/2023 – non è immediatamente applicabile in modo automatico. Infatti, la disposizione stabilisce che la mancata sottoscrizione della polizza deve essere tenuta in considerazione nella concessione di contributi, agevolazioni e sovvenzioni pubbliche, ma non ne definisce in modo vincolante gli effetti.

Questo significa che l’inadempimento all’obbligo assicurativo non comporta automaticamente lesclusione dai benefici pubblici, ma richiede un’espressa valutazione da parte dell’ente erogatore, secondo i criteri stabiliti nei singoli provvedimenti attuativi.

Nessuna retroattività della norma

Il MIMIT chiarisce inoltre che la disciplina in questione non ha efficacia retroattiva. Pertanto, l’obbligo assicurativo e le eventuali conseguenze sulla concessione di agevolazioni pubbliche si applicano solo a partire dalla data di recepimento della norma da parte delle specifiche misure di incentivazione o dalle eventuali diverse decorrenze indicate nei relativi atti.

Polizze catastrofali: incentivi per chi si adegua all’obbligo

Con il decreto del Ministro delle Imprese e del Made in Italy del 18 giugno 2025, di cui è stato dato avviso il 28 luglio 2025, si subordinano tutta una serie di incentivi e di agevolazioni all’adempimento dell’obbligo assicurativo “fermi restando i requisiti di ammissibilità e la disciplina delle cause di esclusione propri della normativa di attuazione di ciascun incentivo.” 

La disciplina riguarda sia le imprese che hanno la sede legale nel territorio italiano che quelle che hanno la sede legale all’estero, ma che hanno in Italia un’organizzazione stabile e che sono tenute all’iscrizione nel registro delle imprese.

Nel rispetto delle scadenze previste per adempiere l’obbligo assicurativo, ossia il 30 giugno 2025 per le grandi imprese, il 1° ottobre 2025 per le medie imprese e il 31 dicembre 2025 per le piccole imprese, il decreto stabilisce che le disposizioni si applicheranno alle domande per gli incentivi che verranno presentate rispettivamente a partire dal 30 giugno, dal 2 ottobre e dal 1° gennaio 2026.

Il comma 3 dell’articolo 1 precisa che l’obbligo assicurativo deve sussistere anche in sede di erogazione degli incentivi elencati nel successivo comma 4.

Per fornire importanti chiarimenti relativi all’applicazione della disciplina prevista dal decreto il MIMIT interviene con un avviso del 5 agosto 2025. 

In esso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy precisa che il decreto si riferisce solo alle agevolazioni che sono di competenza della Direzione Generale regolamentati dai decreti del solo Ministero. L’elenco dei vari incentivi previsti dal decreto quindi non è tassativo, presto infatti la disciplina sarà adeguata agli altri incentivi sempre di competenza della Direzione, ma definiti insieme ad altri Ministeri.

aquaplaning

Aquaplaning: responsabilità del Comune se causato da ristagno d’acqua La Cassazione riconosce la responsabilità del Comune per l’aquaplaning causato da ristagno d’acqua sulla carreggiata. Risarcito il conducente danneggiato

Responsabile il Comune per l’aquaplaning da ristagno d’acqua

Con l’ordinanza n. 21321/2025, la Corte di Cassazione ha affermato che è responsabile il Comune per il danno subito da un automobilista a causa del ristagno d’acqua sulla carreggiata, che ha generato un fenomeno di aquaplaning e ha determinato lo sbandamento del veicolo contro il guardrail. Secondo i giudici, la dettagliata ricostruzione fornita dal conducente costituisce elemento sufficiente a individuare il nesso causale tra l’anomalia stradale e l’evento dannoso.

I fatti

L’incidente si è verificato nel Comune di Calcinato, dove il conducente, mentre percorreva una strada urbana, ha perso il controllo della vettura a causa dell’accumulo d’acqua sul manto stradale, con conseguente impatto contro la barriera di protezione. Il fenomeno di aquaplaning è stato provocato dal contatto tra le ruote sinistre dell’auto e la zona allagata, che ha generato una perdita di aderenza e il conseguente sbandamento.

Le decisioni di merito

In primo grado, il Tribunale di Brescia (sentenza n. 390/2021) aveva riconosciuto una responsabilità concorrente tra conducente (75%) e Comune (25%). Quest’ultimo era stato condannato al pagamento di 346.250 euro a titolo di danno non patrimoniale. Il giudice aveva accertato, da un lato, la condotta imprudente del conducente (velocità eccessiva e pneumatici usurati), e dall’altro la presenza verosimile di ristagni d’acqua, come evidenziato dal CTU.

La Corte d’appello di Brescia, invece, con sentenza n. 1266/2022, aveva integralmente riformato la decisione, escludendo ogni responsabilità dell’ente. Secondo la Corte, il danneggiato non aveva allegato con precisione la causa dell’incidente, e nel verbale dei Carabinieri non era stata rilevata la presenza di acqua stagnante.

Cassazione: centrale la prova del nesso causale

La Suprema Corte ha invece accolto il ricorso del danneggiato, ritenendo fondata la sua ricostruzione dettagliata del sinistro. I giudici hanno chiarito che, ai sensi dell’art. 2051 c.c., il danneggiato non deve dimostrare la pericolosità intrinseca della strada, ma solo allegare e provare l’esistenza del nesso causale tra il bene demaniale e il danno.

La descrizione fornita dal conducente – che ha minuziosamente spiegato le dinamiche dello sbandamento e il ruolo svolto dall’acqua accumulata – è stata considerata sufficiente a configurare la responsabilità dell’amministrazione per omessa manutenzione e vigilanza sul tratto stradale.

Obbligo di custodia e dovere di manutenzione del Comune

Secondo la Cassazione, l’ente proprietario della strada è tenuto a garantire la sicurezza della viabilità pubblica, mediante un’adeguata attività di manutenzione, ispezione e segnalazione dei pericoli. Il ristagno d’acqua, se non tempestivamente rimosso, può costituire insidia stradale, idonea a determinare incidenti come quello oggetto di giudizio.

L’omissione di tali attività integra una colpa in vigilando, salvo che l’ente non dimostri che il danno sia stato causato da caso fortuito, prova che, nel caso concreto, non è stata fornita.

contratto di spedalità

Contratto di spedalità Contratto di spedalità: cos'è, normativa, contenuto, novità della Legge Gelli Bianco n. 24/2017 e responsabilità della struttura

Cos’è il contratto di spedalità?

Il contratto di spedalità è l’accordo che si instaura tra il paziente e la struttura sanitaria all’atto del ricovero. Questo contratto regola i diritti e i doveri di entrambe le parti, disciplinando sia gli aspetti assistenziali che quelli economici. Con l’introduzione della Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), la normativa sulla responsabilità sanitaria ha subito importanti modifiche, incidendo direttamente anche sulla disciplina del contratto di spedalità.

La normativa sul contratto di spedalità

Il contratto di spedalità è un contratto atipico, cioè non espressamente disciplinato dal Codice Civile, ma riconosciuto dalla giurisprudenza come un contratto a prestazioni corrispettive. Esso prevede che:

  • il paziente riceva cure mediche, assistenza e prestazioni sanitarie;
  • la struttura sanitaria garantisca servizi idonei e organizzazione adeguata;
  • il paziente corrisponda un pagamento se la prestazione è erogata in regime privatistico.

Questo contratto si applica sia alle strutture pubbliche (ospedali, ASL) sia a quelle private accreditate.

Contenuto del contratto di spedalità

Il contratto di spedalità comprende diverse obbligazioni a carico della struttura sanitaria:

  1. obbligo di prestare cure adeguate secondo le linee guida mediche;
  2. corretta gestione delle risorse umane e tecnologiche per garantire la sicurezza del paziente;
  3. rispetto del diritto all’informazione e al consenso informato;
  4. diligenza nella tenuta della cartella clinica e nella gestione dei dati sanitari;
  5. obbligo di garantire la continuità assistenziale in caso di trasferimento o dimissioni del paziente;
  6. messa a disposizione del personale, dei medicinali e delle attrezzature;
  7. fornitura di prestazioni alberghiere come vitto e alloggio.

Le novità introdotte dalla Legge Gelli-Bianco

La Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) ha ridefinito il sistema di responsabilità sanitaria, introducendo novità rilevanti per il contratto di spedalità.

  • Doppio regime di responsabilità:
    • contrattuale per la struttura sanitaria (art. 1218 c.c.);
    • extracontrattuale per il medico (art. 2043 c.c.), salvo che non vi sia un rapporto diretto tra paziente e medico (es. libera professione intramoenia).
  • Obbligo per le strutture sanitarie di dotarsi di copertura assicurativa, per garantire il risarcimento dei danni ai pazienti;
  • Definizione delle linee guida per la valutazione della condotta medica.
  • Maggior tutela per i pazienti, con regole più chiare sulla trasparenza delle cure e sulla responsabilità della struttura.

Responsabilità della struttura sanitaria

La struttura sanitaria è responsabile contrattualmente per le prestazioni rese nei confronti del paziente. Tale responsabilità può essere:

  • diretta, quando il danno è dovuto a difetti organizzativi (es. carenza di personale, attrezzature inadeguate);
  • indiretta, se il danno deriva dalla condotta negligente di un medico dipendente.

Onere della prova

Secondo la Cassazione, in caso di danno subito dal paziente, spetta alla struttura sanitaria dimostrare di aver adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni oppure che l’inadempimento della prestazione è dipesa da una causa non imputabile (Cassazione n. 5922/2024)

Termini di prescrizione

La responsabilità contrattuale della struttura sanitaria ha un termine di prescrizione di 10 anni, mentre quella del medico libero professionista (extracontrattuale) si prescrive in 5 anni.

 

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carta d'imbarco

Risarcimento volo cancellato: basta la carta d’imbarco La Cassazione conferma che per ottenere il risarcimento in caso di volo cancellato è sufficiente esibire la carta d’imbarco. Non serve anche il biglietto aereo

La carta d’imbarco come prova del contratto di trasporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17644/2025, ha chiarito un principio importante per i passeggeri che richiedono il risarcimento in caso di mancata partenza del volo.
Secondo i giudici, la semplice presentazione della carta d’imbarco costituisce un elemento sufficiente a dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto aereo, non essendo necessario allegare anche il biglietto.
Questo orientamento rafforza la tutela dei consumatori, semplificando l’onere probatorio nei procedimenti di risarcimento.

Il caso concreto

La vicenda ha riguardato un passeggero che, dopo la cancellazione del proprio volo Roma-Londra, aveva prodotto le carte d’imbarco a supporto della propria richiesta risarcitoria.
La Corte d’appello, pur prendendo atto della documentazione, aveva ritenuto che essa non bastasse a dimostrare l’acquisto del biglietto, dichiarando quindi carente la prova del contratto.
La Cassazione ha censurato tale decisione, evidenziando che la carta d’imbarco è strettamente collegata al biglietto, al punto da poter essere considerata prova equipollente.

Gli obblighi probatori delle parti

Nella pronuncia, la Suprema Corte ha ricordato la corretta ripartizione degli oneri probatori in materia di trasporto aereo, in linea con la Convenzione di Montreal del 1999 e con il Regolamento CE n. 261/2004.
Il passeggero è tenuto a:

  • fornire la prova del contratto di trasporto (titolo di viaggio o documento equivalente);

  • allegare l’inadempimento del vettore (ad esempio, la cancellazione o il ritardo del volo).

Spetta invece alla compagnia aerea dimostrare l’esatto adempimento, oppure che l’inadempimento sia derivato da cause di forza maggiore o da eventi eccezionali che la esonerino da responsabilità.

Carta d’imbarco: il principio affermato dalla Cassazione

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nell’ambito del trasporto aereo internazionale, l’esistenza del contratto può essere provata non solo attraverso il biglietto ma anche con la produzione di qualsiasi documento idoneo a dimostrare la prenotazione e l’ammissione all’imbarco.
La carta d’imbarco, in quanto documento rilasciato direttamente dal vettore, costituisce pertanto una prova sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria.

morso cane randagio

Morso di cane randagio: quando la PA deve risarcire La Cassazione chiarisce: per ottenere il risarcimento da morso di cane randagio serve la prova del nesso di causalità e dell’omesso controllo della PA

La sentenza n. 16788/2025 della Cassazione fornisce importanti chiarimenti sulla responsabilità della pubblica amministrazione in caso di danni causati da cani randagi. Il risarcimento spetta solo se il danneggiato dimostra che il morso è conseguenza diretta dell’omesso controllo sul territorio e che esiste un nesso di causalità tra la condotta inadeguata dell’ente e il danno subito.

I tre criteri fissati dalla Cassazione

Prima di stabilire il principio di diritto, i giudici di legittimità hanno individuato tre regole fondamentali per questo tipo di controversie:

Onere della prova sulla condotta omissiva

Il danneggiato deve dimostrare che la pubblica amministrazione non ha predisposto adeguati strumenti e risorse per prevenire il fenomeno del randagismo.

Dimostrazione del nesso causale

Il cittadino deve provare che l’omessa attività di controllo sia stata la causa del morso. Questa prova può avvenire anche in via presuntiva, evidenziando che si è realizzato proprio quel rischio che l’amministrazione avrebbe dovuto evitare.

Prova contraria da parte della PA

L’ente pubblico può liberarsi dalla responsabilità dimostrando il caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e inevitabile.

Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte

I giudici hanno ribadito che la responsabilità dell’amministrazione si fonda sull’articolo 2043 del codice civile, che disciplina il risarcimento del danno ingiusto causato da fatto illecito.

Il principio affermato è chiaro: “La responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.”

Non basta dimostrare che un cane randagio abbia causato la lesione: occorre provare la carenza organizzativa del servizio di prevenzione del randagismo e che un’adeguata attività avrebbe impedito il danno.

Il criterio della concretizzazione del rischio

La Cassazione ha precisato che, solo dopo aver dimostrato la colpa della pubblica amministrazione, è possibile ricorrere al criterio della concretizzazione del rischio.
Questo criterio permette di ritenere provato il nesso causale se l’evento lesivo coincide con il rischio che la norma violata era destinata a prevenire. In altre parole, se l’ente avesse adottato un’azione corretta di controllo e cattura dei randagi, l’aggressione non si sarebbe verificata.

Quando il risarcimento non spetta

Se manca la prova dell’insufficienza dei controlli o il collegamento diretto tra omissione e danno, il risarcimento non può essere riconosciuto. La sola presenza del cane randagio sul territorio non è sufficiente a far scattare la responsabilità dell’amministrazione.

medici in quiescenza

L’Asl può ricorrere ai medici in quiescenza se c’è necessità La Corte costituzionale conferma la legittimità della legge della Regione Sardegna che consente l’impiego temporaneo di medici in quiescenza per garantire l’assistenza primaria nelle aree disagiate

Legittimo l’impiego straordinario di medici in quiescenza

Con la sentenza n. 84/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata contro l’art. 1, comma 1, della legge regionale sarda n. 12/2024. La norma in questione consente l’impiego, sino al 31 dicembre 2024, di medici di medicina generale in quiescenza per progetti straordinari di assistenza primaria, anche mediante contratti libero-professionali.

Garantire l’assistenza nelle aree disagiate

La disposizione mira a garantire la copertura dell’assistenza sanitaria primaria nei territori con carenza di medici, attraverso l’attivazione di ambulatori straordinari di comunità territoriale. I medici coinvolti sono abilitati all’uso dei ricettari previsti dall’art. 50 del d.l. 269/2003.

Le critiche del Governo e la posizione della Corte

Il Presidente del Consiglio ha impugnato la norma sostenendo che essa violerebbe la competenza statale in materia di ordinamento civile e contrasterebbe con l’Accordo collettivo nazionale (ACN) del 2024, che vieta l’attività convenzionata ai medici in quiescenza. La Corte, tuttavia, ha rigettato la questione, riconoscendo alla Regione Sardegna una legittima competenza in materia di organizzazione sanitaria.

Medici in quiescenza per tutelare la salute

La Consulta ha chiarito che l’adozione di misure temporanee e straordinarie è compatibile con l’ordinamento, qualora serva a garantire l’effettività del diritto alla salute, specialmente in presenza di criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA). Negare questa possibilità impedirebbe alle Regioni di far fronte a situazioni emergenziali, compromettendo le garanzie minime costituzionali.

tolleranza del 5%

Tutor autostrade: la tolleranza del 5% è obbligatoria per legge La Cassazione chiarisce: le multe per eccesso di velocità rilevate col tutor devono applicare una tolleranza del 5%, con minimo di 5 km/h

Tutor e limiti di velocità

La Cassazione, con ordinanza n. 15894/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di sanzioni per eccesso di velocità: anche quando l’infrazione è rilevata tramite sistema “tutor”, deve essere applicata la tolleranza del 5% prevista dal regolamento di esecuzione del Codice della Strada, in base all’art. 345, comma 2.

La riduzione ha un minimo garantito di 5 km/h, anche quando la percentuale applicata risulterebbe inferiore.

Il caso: contestazione di una multa per tutor

Nel caso esaminato, l’automobilista aveva impugnato una sanzione per eccesso di velocità accertata mediante sistema tutor, lamentando la mancata applicazione della prevista riduzione tecnica. I giudici di merito avevano respinto il ricorso, ma la Cassazione ha accolto il motivo, riconoscendo la violazione del diritto alla corretta applicazione della norma tecnica.

La normativa di riferimento

L’articolo 345 del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada stabilisce che, per le rilevazioni elettroniche, i valori di velocità devono essere considerati al netto della tolleranza tecnica, pari al 5% della velocità rilevata, e comunque mai inferiore a 5 km/h.

La Corte sottolinea che non si tratta di una facoltà, ma di un obbligo normativo, che garantisce l’affidabilità della rilevazione automatica.

Tolleranza del 5%: più tutele per gli automobilisti

Con questa decisione, la Cassazione rafforza la tutela dei conducenti contro errori di calcolo o rigidità applicativa dei sistemi automatici. Chi riceve una multa con tutor può sempre verificare se è stata applicata correttamente la tolleranza e, in caso contrario, contestarla dinanzi al giudice di pace.

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responsabilità medica

Responsabilità medica: colpa del dentista per danni al “nervo” La Cassazione conferma la responsabilità medica penale del dentista per danni anatomici durante un’estrazione dentaria

Responsabilità medica

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22474/2025, ha riconosciuto la responsabilità medica penale di un odontoiatra che, durante l’esecuzione di un intervento di estrazione dentaria, ha provocato l’interruzione della corticale ossea mandibolare. Il paziente ha riportato danni anatomici permanenti e sintomi post-operatori invalidanti, elementi che hanno portato alla condanna del professionista per lesioni colpose.

La condotta colposa: oltre il rischio consentito

Secondo i giudici, l’intervento è stato condotto con imperizia e negligenza, violando le regole di buona pratica clinica. L’interruzione della corticale, pur essendo un rischio teoricamente possibile, non rientrava tra gli eventi inevitabili in un’estrazione eseguita correttamente, come accertato dalla consulenza tecnica.

La motivazione della Cassazione

La Suprema Corte ha sottolineato che la responsabilità non deriva dalla scelta di procedere all’estrazione, ma dalla modalità con cui è stata eseguita la manovra chirurgica. L’odontoiatra ha omesso di adottare cautele e tecniche conservative volte a evitare il danno. Ne deriva una responsabilità per lesioni colpose, aggravata dalla natura permanente delle conseguenze subite dal paziente.

Allegati

furto d'auto

Furto d’auto in hotel? Niente risarcimento senza contratto di deposito La Cassazione nega l’indennizzo per il furto d’auto in hotel: serve un vero contratto di deposito, non basta il parcheggio all’interno della struttura

Furto d’auto nel parcheggio dell’hotel

Con l’ordinanza n. 12840/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di furto d’auto nel parcheggio di un hotel, l’albergatore non è automaticamente responsabile, a meno che non sia stato perfezionato un contratto di deposito. L’esistenza di tale contratto è infatti il presupposto imprescindibile per poter ottenere un indennizzo.

Il contratto di deposito: quando si perfeziona

Secondo il Codice civile (artt. 1766 ss.), il contratto di deposito è di natura reale: si perfeziona solo con la consegna della cosa mobile e, in certi casi, anche delle chiavi, quando necessarie alla custodia. Il depositario ha l’obbligo di custodire e restituire il bene, salvo eventi indipendenti dalla sua volontà.

Nel caso del furto, l’art. 1780 c.c. stabilisce che il depositario è liberato dalla responsabilità solo se denuncia immediatamente l’accaduto e dimostra che l’evento non gli è imputabile.

Il caso: furto d’auto e richiesta di risarcimento

Un cliente (Sempronio) aveva soggiornato in un albergo, parcheggiando la propria auto in un’area interna alla struttura. In seguito al furto del veicolo, aveva citato l’hotel per ottenere un risarcimento, sostenendo che il servizio di parcheggio fosse incluso nel soggiorno e che ciò integrasse un contratto di deposito.

La struttura alberghiera si è difesa sostenendo che non vi era stata alcuna consegna né dell’auto né delle chiavi, e che il cliente aveva solo usufruito di uno spazio delimitato, senza alcun accordo specifico di custodia.

Nessuna responsabilità dell’hotel

Sia il tribunale di primo grado che la Corte d’appello hanno respinto la richiesta di risarcimento. Il cliente ha proposto ricorso per Cassazione, invocando una presunta violazione dell’art. 1780 c.c., ma la Suprema Corte ha confermato le decisioni precedenti.

Gli Ermellini hanno chiarito che il solo fatto che il parcheggio sia interno alla struttura non implica la nascita automatica di un contratto di deposito. Senza consegna del veicolo e delle chiavi, e in assenza di specifiche condizioni pattuite, manca il presupposto giuridico per l’obbligo di custodia e, di conseguenza, per il risarcimento in caso di furto.