Legittimo l'obbligo di testimonianza

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto La Corte Costituzionale ha dichiarato non irragionevole l'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 199 c.p.p. se il familiare è persona offesa dal reato

Obbligo di testimonianza prossimo congiunto

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato. Così, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 200/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’art. 199 del codice di procedura penale. Disposizione che, mentre riconosce ai prossimi congiunti dell’imputato la facoltà di astenersi dal testimoniare, introduce un’eccezione per il familiare che sia persona offesa dal reato.

La qlc

Decidendo sulle censure del Tribunale di Firenze, riferite agli articoli 3, 27, secondo comma, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU, la Consulta ha affermato che “tale eccezione alla facoltà di astensione non è irragionevole, né sproporzionata, e neppure lede la vita e l’unità della famiglia”. Ciò in quanto essa, da un lato “corrisponde al fatto che proprio la condotta offensiva dell’imputato normalmente incide sul legame affettivo sotteso alla facoltà di astenersi”. Dall’altro, “protegge la vittima del reato dalle pressioni che spesso provengono dallo stesso ambito familiare affinché si astenga dal deporre”.

Legittimo l’obbligo di testimonianza: la decisione

È stata altresì disattesa dal giudice delle leggi – per il carattere fortemente “manipolativo” della sollecitata pronuncia – “la richiesta subordinata del rimettente, diretta a ottenere l’eliminazione dell’obbligo di deporre del congiunto, persona offesa, nell’ipotesi in cui la sua deposizione non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”.

La Corte ha sottolineato, infine, che quella del prossimo congiunto, offeso dal reato, “non si differenzia da un’ordinaria testimonianza, sicché nei suoi confronti può essere applicata, ove ne ricorrano gli estremi, la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale”.

animali abbandonati

Abbandono di animali per strada: carcere fino a 7 anni Abbandono di animali: se avviene per strada e causa un incidente stradale, la riforma del Codice della Strada prevede il carcere fino a 7 anni

Abbandono di animali: pene più severe

Il nuovo Codice della Strada, in vigore dal 14 dicembre 2024, segna un importante passo avanti nella lotta contro l’abbandono degli animali. La riforma, approvata dopo un iter complesso e sostenuta da varie forze politiche, introduce pene più severe per chi si macchia di un reato tanto crudele quanto pericoloso. La tutela degli animali e la sicurezza stradale sono al centro delle nuove disposizioni.

Abbandono di animali: sicurezza e civiltà

L’abbandono degli animali non è solo un atto incivile, ma rappresenta anche un grave rischio per la sicurezza stradale. Secondo i dati ENPA, ogni anno in Italia vengono abbandonati oltre 130.000 animali, con picchi significativi durante il periodo estivo. Questo fenomeno causa spesso incidenti stradali, mettendo a rischio sia la vita degli animali sia quella degli automobilisti. La riforma del Codice della Strada punta a contrastare questa piaga con misure severe e un forte effetto deterrente. L’inasprimento delle pene invia un messaggio chiaro: l’abbandono non sarà più considerato una semplice leggerezza, ma un crimine con gravi conseguenze legali.

Nuove sanzioni per chi abbandona animali

L’articolo 727 del Codice penale già punisce l’abbandono di animali domestici con l’arresto fino a un anno o un’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.

Tuttavia, la nuova normativa prevede un significativo inasprimento delle pene:

  • aumento della pena di un terzo se l’abbandono avviene su strada o nelle sue pertinenze;
  • sospensione della patente da sei mesi a un anno se l’abbandono avviene con un veicolo;
  • revoca della patente nei casi più gravi o in presenza di una recidiva

Queste sanzioni mirano a punire comportamenti irresponsabili e a scoraggiare atti che mettono a rischio la collettività. La sospensione o la revoca della patente rappresentano un ulteriore strumento dissuasivo, soprattutto per chi abbandona gli animali utilizzando un veicolo.

Pene aggravate in caso di incidenti stradali

Se l’abbandono di un animale causa un incidente stradale da cui derivino lesioni personali o la morte di una persona, le conseguenze diventano ancora più gravi. La nuova normativa applica le pene previste per i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali:

  • lesioni gravi: reclusione da 3 mesi a 1 anno;
  • lesioni gravissime: reclusione da 1 anno a 3 anni;
  • omicidio stradale: reclusione da 2 a 7 anni.

Queste disposizioni riconoscono la gravissima responsabilità di chi, abbandonando un animale, causa tragedie su strada. Non si tratta più di un comportamento marginale, ma di un crimine con effetti devastanti.

Numeri sull’abbandono degli animali

Secondo Legambiente, nel 2023 sono stati abbandonati oltre 85.000 cani, con un aumento dell’8,6% rispetto all’anno precedente. Ogni giorno vengono abbandonati più di 127 animali, numeri che testimoniano la necessità di interventi immediati e concreti. Molti Comuni non dispongono di servizi adeguati, come spazi aperti dedicati agli animali d’affezione, aggravando ulteriormente la situazione. La riforma del Codice della Strada mira a ridurre questi numeri con sanzioni più severe e misure preventive. Tuttavia, sarà fondamentale anche un cambio culturale che promuova la responsabilità e il rispetto verso gli animali.

Lotta all’inciviltà e a favore della sicurezza

La nuova normativa rappresenta un segnale forte nella lotta contro l’abbandono degli animali. Le istituzioni hanno riconosciuto la gravità del fenomeno e hanno deciso di intervenire con misure severe. La riforma mira a dissuadere comportamenti barbarici e pericolosi, soprattutto nei mesi estivi, quando i numeri raggiungono livelli inaccettabili. L’auspicio è che queste nuove regole non restino solo sulla carta. Le pene severe e le sanzioni accessorie devono tradursi in un effettivo calo degli abbandoni. La sensibilizzazione è altrettanto fondamentale: ogni cittadino deve comprendere che abbandonare un animale è un crimine, con conseguenze pesanti per tutti.

La riforma del Codice della Strada è un progresso significativo per chi ama gli animali e per chi crede nella convivenza civile. L’inasprimento delle pene per l’abbandono punta a tutelare la vita degli animali, ma anche a garantire la sicurezza delle strade italiane.

Ogni atto di abbandono rappresenta una scelta irresponsabile, capace di provocare dolore e tragedie. Con questa normativa, l’Italia invia un messaggio chiaro: l’abbandono degli animali non sarà più tollerato. Questa battaglia è un impegno di civiltà e responsabilità, che coinvolge istituzioni e cittadini.

 

Leggi anche: Riforma Codice della strada

processo penale telematico

Processo penale telematico: depositi rinviati Processo penale telematico: deposito analogico e digitale per garantire la sperimentazione anche durante il 2025

Processo penale telematico: malfunzionamenti e rinvii

Il Ministero della Giustizia ha ufficializzato il rinvio dell’obbligatorietà del processo penale telematico (PPT). Il regime di doppio binario, analogico e telematico, resterà infatti in vigore fino al 31 dicembre 2025. Lo prevede una Nota datata 11 dicembre 2024.

Il processo penale telematico è stato introdotto con la riforma Cartabia (decreto legislativo n. 150/2022). La legge prevedeva la digitalizzazione del processo fino all’udienza preliminare, a partire dal gennaio 2024. Tuttavia, i continui malfunzionamenti dell’applicativo hanno spinto il Ministero a rinviare i termini. L’opposizione ha sollevato critiche severe, denunciando il rischio di un sistema ingestibile a partire dal 2025.

Il nuovo calendario del PPT

La modifica del regolamento ministeriale (DM n. 217/2023) introduce una fase transitoria scaglionata.

– Fino al 31 dicembre 2025: deposito telematico facoltativo per atti di magistrati nella fase delle indagini preliminari e deposito telematico facoltativo per procedimenti cautelari, personali e reali.

– Dal 1° gennaio 2025: deposito obbligatorio degli atti relativi all’udienza preliminare, ai riti speciali e al dibattimento.

Dal 1° aprile 2025: deposito esclusivamente telematico per le iscrizioni delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) e per il rito “direttissimo”.

Progressi e nuove funzionalità

Il Ministero della Giustizia evidenzia comunque progressi significativi. L’applicativo APP, operativo dal gennaio 2024, viene infatti costantemente aggiornato. La nuova versione APP 2.0, in uso dal 18 ottobre 2024, introduce funzionalità avanzate:

  • ricerca e gestione dei fascicoli;
  • caricamento semplificato degli atti;
  • visualizzazione del calendario delle udienze;
  • inserimento automatico dell’intestazione delle sentenze.

Dal 16 dicembre 2024, ulteriori miglioramenti permetteranno inoltre una gestione strutturata e digitalizzata del fascicolo penale.

Il Ministero assicura che il rinvio consentirà una sperimentazione adeguata del Processo Penale Telematico durante tutto il 2025. L’obbligatorietà dei depositi digitali, salvo eccezioni, entrerà in vigore il 1° gennaio 2025 e sarà completamente operativa entro la fine dell’anno.

 

Leggi anche: Processo penale telematico: cos’è e come funziona

custodia cautelare

Custodia cautelare: vietato pubblicare l’ordinanza Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il decreto che vieta la pubblicazione delle ordinanze nel corso delle indagini preliminari

Custodia cautelare: divieto pubblicazione ordinanza

Il Consiglio dei ministri interviene sulla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Il 9 dicembre 2024, per attuare gli impegni comunitari, il CdM ha infatti approvato in via definitiva il decreto legislativo che adegua la legge italiana alla Direttiva UE 2016/343, attraverso l’attuazione dell’art. 4 della legge di delegazione europea n. 15/2024.

Ordinanza di custodia cautelare: finalità del divieto

Il testo di legge approvato vuole perseguire diversi obiettivi:

  • integrare quanto già previsto dal decreto legislativo n. 188/2021;
  • garantire la piena attuazione della presunzione di innocenza contemplata dall’art. 27 della Costituzione “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”;
  • rafforzare il diritto di presenza nei procedimenti penali.

Articolo 114 c.p.p: divieto di pubblicazione di atti e immagini

Per garantire in modo più efficace la presunzione di innocenza del soggetto indagato o imputato in un procedimento penale il testo interviene sull’articolo 114 del codice di procedura penale, che contiene il divieto di pubblicazione di atti e di immagini dei procedimenti penali.

In estrema sintesi il testo di legge, soprannominato “legge bavaglio” dagli organismi di rappresentanza dei giornalisti, prevede il divieto di pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino al termine delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare.

Questo perchè le ordinanze cautelari sono quei sempre il risultato di una valutazione sommaria del PM nella fase delle indagini preliminari, che si caratterizzano per l’assenza di contraddittorio.

Emendamento “Costa”

Il provvedimento adottato non rappresenta una novità assoluta. L’emendamento al disegno di legge di delegazione europea è stato soprannominato “Costa” dal nome del proponente Enrico Costa. In base a questo emendamento, se un soggetto viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare si potrà procedere solo alla pubblicazione delle seguenti informazioni:

  • riassunto dell’atto giudiziario;
  • nome del destinatario dell’ordinanza;
  • ragioni dell’emissione del provvedimento.

Custodia cautelare: divieto di pubblicazione nella proposta di legge 2022

Il deputato Costa è lo stesso che il 29 novembre 2022 aveva presentato una proposta di legge (C. 653) alla Camera dei deputati contenente “Modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, in materia di pubblicazione delle ordinanze che dispongono misure cautelari.”

La proposta, che interveniva sull’articolo 114 c.p.c, prevedeva, in un unico articolo  le seguenti modifiche: “a) al comma 2, le parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292 » sono soppresse; b) al comma 7 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292, della quale è consentita esclusivamente la pubblicazione del nome e cognome del destinatario del provvedimento e dei delitti per i quali si procede.”

Nel discorso di presentazione della proposta il deputato denunciava l’eccessiva leggerezza con cui troppo spesso vengono disposte le misure cautelari e l’impiego delle stesse come forma “mascherata” di anticipazione della pena. La pubblicazione di queste ordinanze sui giornali di conseguenza viene percepita dall’opinione pubblica come una “sentenza di condanna” anticipata, che genera confusione, soprattuto se l’indagato non viene poi ritenuto responsabile.

Per evitare queste storture è necessario quindi impedire la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelari fino a quando non siamo concluse le indagini preliminari o l’udienza preliminare. Per questo nella proposta di legge il deputato limitava la pubblicazione alle informazioni indispensabili rappresentate dal nome e cognome del destinatario e dal delitto per il quale si doveva procedere.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli della categoria “diritto penale

guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza: tolleranza zero Guida in stato di ebbrezza: come cambiano le regole del Codice della Strada dal 14 dicembre 2024, quando entra in vigore la riforma

Guida in stato di ebbrezza: nuove regole dal 14 dicembre

Cambiano le regole per chi guida in stato di ebbrezza. Il 14 dicembre 2024 entrerà in vigore la legge 25 novembre 2024, n. 177, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 novembre. Questa legge introduce misure incisive per migliorare la sicurezza stradale e assegna al Governo una delega per la revisione completa del Codice della Strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285).

Le nuove norme facilitano anche la sospensione della patente per chi guida sotto l’effetto di alcol, una punizione che si aggiunge a un quadro sanzionatorio già severo per infrazioni legate alla distrazione. L’obiettivo è ridurre l’incidentalità stradale e uniformare il sistema normativo alle esigenze moderne.

Tolleranza zero per chi guida in stato di ebbrezza

Tra le principali modifiche spicca l’inasprimento delle sanzioni per la guida in stato di ebbrezza. Le conseguenze legali diventano più severe.

Le nuove disposizioni prevedono le seguenti sanzioni, graduate in base al tasso alcolemico rilevato:

  • tasso alcolemico 0,5-0,8 g/l: sanzione amministrativa tra 573 e 2.170 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi;
  • tasso alcolemico 0,8-1,5 g/l: arresto fino a 6 mesi, pecuniaria (800-3.200 euro) e sospensione della patente da 6 mesi a 1 anno;
  • tasso alcolemico oltre 1,5 g/l: arresto da 6 mesi a 1 anno, ammenda tra 1.500 e 6.000 euro e sospensione della patente da 1 a 2 anni.

Ogni violazione comporta anche la decurtazione, fino a 10, dei punti dalla patente di guida.

Introduzione dell’alcolock

La riforma introduce nel Codice della strada l’alcolock, un sistema che impedisce l’avviamento del motore se rileva un tasso alcolemico superiore a zero. Il conducente deve soffiare in un dispositivo collegato alla centralina del veicolo: se il tasso è superiore al limite infatti l’auto non parte. Questo strumento è pensato come deterrente per ridurre la recidiva nella guida in stato di ebbrezza.

Secondo il nuovo art. 186 del Codice della Strada, i giudici, quando la violazione consiste nella guida con tassi di 0,8-1,5 g/l e oltre 1,5 g/l, possono applicare i codici unionali 68 (“Niente alcool”) e 69 (“Solo veicoli con alcolock”) sulla patente dei condannati:

  • Codice 68: vieta completamente l’uso di alcol;
  • Codice 69: permette la guida solo su veicoli dotati di alcolock.

Questi obblighi permangono per due anni in caso di infrazioni moderate (tasso alcolemico 0,8-1,5 g/l) e per tre anni in caso di violazioni gravi (oltre 1,5 g/l). La commissione medica, competente per i rinnovi della patente, può comunque prolungare questo periodo. Per chi tenta di manomettere l’alcolock, le sanzioni si inasprisco o ulteriormente.

Problemi applicativi e criticità

L’alcolock solleva tuttavia alcune questioni operative perché non è chiaro come è possibile gestire i trasgressori che non possiedono un veicolo. La norma prevede infatti l’installazione dell’alcolock solo sui mezzi intestati ai conducenti condannati. Questo lascia scoperti casi in cui il trasgressore utilizzi veicoli aziendali, in leasing o appartenenti a terzi.

Inoltre, l’obbligo di installazione dell’alcolock scatta solo dopo la sentenza definitiva. Considerando i tempi della giustizia, potrebbero passare anni prima che il dispositivo venga effettivamente applicato. Nel frattempo, il trasgressore potrebbe dimostrare un comportamento virtuoso, rendendo meno efficace la misura punitiva.

Un decreto ministeriale, da emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, definirà le specifiche tecniche del dispositivo, le modalità di installazione e le officine autorizzate.

Revisione complessiva del Codice della Strada

Oltre alle misure immediatamente operative, la legge delega il Governo a una revisione globale del Codice della Strada. Entro 12 mesi dovranno essere emanati i decreti legislativi necessari per adeguare la normativa alle esigenze attuali. Questo processo punta a semplificare il quadro normativo e a rendere più efficaci le misure di sicurezza stradale.

La Legge 177/2024 segna un passo avanti nella lotta contro la guida in stato di ebbrezza e l’incidentalità stradale. L’introduzione dell’alcolock rappresenta una svolta significativa, anche se permangono alcune criticità applicative. La revisione complessiva del Codice della Strada, affidata al Governo, costituirà un ulteriore banco di prova per modernizzare il sistema e garantire maggiore sicurezza sulle strade.

 

Leggi anche: Riforma Codice della strada

censura corrispondenza al 41-bis

Censura corrispondenza al 41-bis: quali limiti Non si può censurare tout court la corrispondenza al 41-bis senza l'applicazione graduale del solo visto di controllo

Carcere duro e corrispondenza

Censura corrispondenza al 41-bis: è inapplicabile senza l’applicazione graduale dello strumento ordinario del visto di controllo. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41191/2024 accogliendo il ricorso di un detenuto in regime detentivo speciale.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli ha confermato, in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 18 ter ord. pen., il provvedimento in tema di limiti alla ricezione e visto di corrispondenza emesso dalla Corte di Assise di Appello di Napoli nei confronti di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. pen.
Secondo il Tribunale le limitazioni alla ricezione di quotidiani dell’area geografica di provenienza del detenuto, così come il limite alla possibilità di inoltrare o ricevere (in via generale) missive da qualsiasi altro soggetto sottoposto al regime differenziato di cui all’art.41 bis ord. pen. sono del tutto legittime, in riferimento alle finalità perseguite dal regime differenziato.

Il ricorso

Avverso detta decisione l’uomo ha proposto ricorso per cassazione – nelle forme di legge – deducendo erronea applicazione di legge e assenza di motivazione.
La critica difensiva si dirige alla parte della decisione relativa al divieto «generalizzato» di scambi epistolari con soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen. In proposito, si osserva che la legge non consente un simile divieto «preventivo e generalizzato», quanto la sottoposizione al «visto di controllo», dunque ad una attività di analisi dei contenuti delle missive, a chiunque dirette.

Limitazioni alla corrispondenza epistolare

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. “La disposizione di legge di cui all’art. 18 ter ord.pen. consente sia «limitazioni» alla corrispondenza epistolare che la «sottoposizione» al visto di controllo, sì da inibire forme di possibile prosecuzione o realizzazione di attività illecita. lI testo dell’articolo 41 bis ord. pen, in rapporto alla finalità di prevenire contatti con l’ambiente criminale di provenienza, indica come contenuto «necessario» del provvedimento applicativo la «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza».” Del resto, il soggetto sottoposto al 41-bis ha contatti con gli altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (parimenti sottoposti al regime differenziato).
Pertanto, osservano ancora i giudici, “non appare del tutto in linea con il contenuto delle disposizioni di legge, pur in un contesto di maggior tutela dei profili di sicurezza come è quello del regime differenziato, prevedere in assoluto e in via generale un «divieto» di corrispondenza epistolare tra soggetti – tutti – sottoposti al regime differenziato, posto che proprio il contenuto «strutturale» della disposizione di cui all’art. 41 bis ord. pen. induce a ritenere che lo strumento di controllo tipico è rappresentato dal «visto di censura», con verifica caso per caso del contenuto della comunicazione”.

La decisione

Le ‘limitazioni’ di cui all’art. 18 ter comma 1 lettera a), in riferimento al tema della corrispondenza, “è da ritenersi, dunque – concludono dal Palazzaccio annullando il provvedimento impugnato – che possano essere adottate solo in presenza di specifiche esigenze di sicurezza, da motivarsi in modo stringente, che rendano – in ipotesi – non sufficiente lo strumento ordinario del visto di censura”. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante della pubblicità Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante delle pubblicità, la chat conserva una sua riservatezza, non è un sito o un social media

Diffamazione su una chat di WhatsApp

Esclusa la diffamazione aggravata dal mezzo della pubblicità del messaggio offensivo su una chat di WhatsApp. Lo ha stabilito la sentenza n. 42783/2024 della Corte di Cassazione. La decisione ha stabilito infatti che l’invio di un messaggio offensivo su una chat di WhatsApp non comporta automaticamente l’applicazione dell’aggravante del “mezzo di pubblicità”. La sentenza chiarisce che l’uso di piattaforme come WhatsApp, anche se coinvolge numerosi partecipanti, non equivale a una comunicazione pubblica. La riservatezza intrinseca di queste chat limita la diffusività del messaggio e impedisce l’applicazione automatica di aggravanti legate alla pubblicità.

Militare assolto dal reato di diffamazione

Il caso di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda un militare, accusato di aver diffamato una collega tramite un commento offensivo inviato a una chat WhatsApp denominata “181 ESEMPIO”, composta da 156 membri. Per l’accusa il numero di iscritti configura l’aggravante del “mezzo di pubblicità”, rendendo il reato procedibile d’ufficio. Tuttavia, il giudice di primo grado ha assolto l’imputato per “particolare tenuità del fatto” ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale.

La Corte Militare d’Appello ha confermato la condanna, sostenendo la natura pubblica della comunicazione nella chat. Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell’imputato ha sollevato tre punti: erronea identificazione della persona offesa, contraddittorietà nella qualificazione dell’offesa e impropria applicazione della legge riguardo alla presunta “pubblicità” del messaggio.

Aggravante della pubblicità inapplicabile

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso in merito all’errata applicazione dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Secondo i giudici, una chat WhatsApp, seppur con numerosi iscritti, conserva una dimensione riservata e non può essere equiparata a strumenti come social network o siti web pubblici. La decisione si basa su un’analisi dettagliata delle caratteristiche tecniche della piattaforma. La sentenza distingue infatti i mezzi di comunicazione in grado di raggiungere un pubblico indeterminato dagli strumenti più circoscritti come le chat private.

Aggravante della pubblicità configurabile su social e siti web

Nelle piattaforme social, come Facebook, la diffusione di contenuti può teoricamente raggiungere un numero indefinito di utenti, configurando una “pubblicità” che giustifica l’applicazione dell’aggravante. Nel caso delle chat WhatsApp, invece, il messaggio è accessibile solo agli iscritti, i quali devono essere stati precedentemente accettati nel gruppo. Questa caratteristica preserva un elemento fondamentale di riservatezza, anche se il numero di membri può essere elevato. La Cassazione sottolinea che la diffusione di un messaggio all’interno di un gruppo chiuso non determina automaticamente la “perdita di riservatezza”. Con l’esclusione dell’aggravante, il reato contestato al militare è procedibile solo su querela di parte e non d’ufficio. La mancanza di una querela valida ha quindi portato all’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello, rendendo improcedibile il caso.

 

Leggi anche: Il reato di diffamazione

reato di truffa

Reato di truffa accodarsi all’auto davanti per non pagare Telepass Reato di truffa: integrato anche quando ci si accoda all’automobile che precede nella pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio 

Reato di truffa non pagare i pedaggi autostradali

Il reato di truffa punito dall’art. 640  c.p, rappresenta una fattispecie complessa che si configura anche quando, come nel caso di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 42760/2024, con più azioni dello stesso disegno criminoso, un soggetto compie più passaggi autostradali alla guida della propria auto accodandosi al veicolo che lo precede sulla pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio.

Il caso analizzato dagli Ermellini offre spunti di riflessione sulle dinamiche di questo reato, anche in relazione a provvedimenti cautelari e alla disponibilità dei beni strumentali.

Sequestro preventivo del mezzo

Il Giudice di primo grado si pronuncia su un caso di presunta truffa connessa al mancato pagamento di pedaggi autostradali. L’indagato, attraverso una serie di condotte illecite reiterate, avrebbe infatti evitato di pagare i pedaggi accodandosi ai veicoli sulla corsia riservata al Telepass. Questo comportamento, configurato come reato di truffa, è accompagnato dal sequestro preventivo dell’autovettura utilizzata per commettere il reato.

Istanza di dissequestro dell’auto dell’acquirente

Nella vicenda però è coinvolto anche un terzo soggetto, che ha acquistato l’auto utilizzata dall’indagato per commettere il reato e che per questo ha presentato istanza di dissequestro del mezzo. L’uomo, a supporto della sua domanda, sostiene la regolarità della compravendita e la sua estraneità al reato. Il Tribunale però rigetta la richiesta. Per l’autorità giudiziaria il contratto rappresenta un possibile espediente per eludere il vincolo reale sul bene.

Nessun contratto di comodo per l’acquisto dell’auto

La decisione viene portata all’attenzione della Corte di Cassazione. Il ricorrente sostiene che la compravendita era avvenuta in buona fede e prima che l’indagato fosse consapevole delle accuse a suo carico. La difesa denuncia un apparato motivazionale insufficiente e illogico del provvedimento con cui si è deciso di mantenere il sequestro, contestando la definizione del contratto come un accordo “di comodo”. Nell’impugnazione il ricorrente sottolinea inoltre l’assenza di trascrizione nei registri pubblici, da cui dovrebbe conseguire l’invalidazione del sequestro.

Sequestro opponibile al terzo

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, riaffermando alcuni principi giuridici fondamentali.

  • In materia di ricorsi contro provvedimenti cautelari reali, è possibile sollevare solo questioni di legittimità e non di merito. Nel caso in esame, le contestazioni avanzate si riferiscono invece soprattutto al merito della valutazione del Tribunale, quindi non esaminabili in sede di legittimità.
  • Il sequestro può essere opposto anche al terzo acquirente se emergono elementi che dimostrano la strumentalità del contratto rispetto al reato.
  • La mancata trascrizione del vincolo non influisce sulla validità del sequestro, poiché tale formalità ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva.

Il caso richiama l’attenzione su fenomeni di micro-criminalità, come l’elusione dei pedaggi autostradali, che possono assumere rilevanza penale e comportare conseguenze significative, inclusa la perdita della disponibilità di beni apparentemente estranei al reato.

 

Leggi anche: Truffa contrattuale per chi riduce i chilometri dell’auto venduta

 

Allegati

divieto di avvicinamento

Divieto di avvicinamento: requisiti della misura Divieto di avvicinamento: il giudice deve indicare i luoghi che la vittima frequenta di solito, la distanza minima e la misura di controllo

Requisiti del divieto di avvicinamento

Quando un giudice emette un divieto di avvicinamento, è tenuto a specificare nell’ordinanza i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, la distanza minima di sicurezza da mantenere, che non deve essere inferiore a 500 metri, e il sistema di controllo da adottare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42892/2024, ha annullato un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Genova, mettendo in luce gravi carenze nell’applicazione del divieto avvicinamento nei confronti della persona offesa.

Questo provvedimento sottolinea i requisiti imprescindibili che devono essere rispettati dai giudici quando dispongono misure cautelari per proteggere le vittime, specialmente nei casi di violenza domestica o di genere.

Così facendo, la Corte riafferma l’importanza di applicare rigorosamente le norme relative al divieto di avvicinamento. I giudici devono assicurarsi che le misure cautelari non siano solo simboliche, ma strumenti efficaci per prevenire ulteriori abusi. La precisione delle prescrizioni e l’utilizzo delle tecnologie di controllo non sono facoltativi, ma requisiti essenziali per garantire la sicurezza delle vittime e l’efficacia dell’intervento giudiziario.

Lacune nell’ordinanza cautelare

L’ordinanza contestata è stata emessa il 31 luglio 2024. Con questo provvedimento, il Tribunale del Riesame aveva sostituito gli arresti domiciliari dell’imputato con il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da questa frequentati, assieme a un obbligo di dimora con permanenza notturna. Tuttavia, il Pubblico Ministero ha impugnato la decisione evidenziando:

  • la mancata indicazione dei luoghi solitamente frequentati dalla vittima;
  • l’assenza della distanza minima di sicurezza di 500 metri;
  • la mancata imposizione dei dispositivi elettronici di controllo come previsto dall’articolo 282-ter c.p.p., aggiornato dalla Legge 168/2023.

Previsioni legislative

Le normative attualmente vigenti richiedono che nel disporre il divieto di avvicinamento alla persona offesa il giudice debba indicare:

  • i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima con descrizioni chiare e dettagliate;
  • una distanza minima non inferiore a 500 metri;
  • l’adozione obbligatoria dei dispositivi elettronici per il controllo (come ad esempio i braccialetti elettronici), salvo accertamenti tecnici che ne dimostrino l’impossibilità.

Tali requisiti sono stati introdotti attraverso modifiche legislative mirate a rafforzare le tutele per le vittime dei reati violenti e garantire un controllo efficace sui comportamenti degli imputati. La legge stabilisce che la mancanza anche solo di uno degli elementi richiesti rende il provvedimento viziato.

Divieto di avvicinamento: criticità dell’ordinanza

La Corte di Cassazione, concordando con il Pubblico Ministero, ha ritenuto l’ordinanza emessa dal Tribunale genovese non conforme ai principi sanciti dalla normativa vigente. Essa infatti non ha specificato i luoghi frequentati dalla persona offesa, elemento cruciale per fornire certezze sia all’imputato sia alla vittima. L’omissione compromette infatti l’efficacia delle misure cautelari e la sicurezza della vittima.

Inoltre, nell’ordinanza mancava anche la prescrizione della distanza minima richiesta dalla legge. Infine, non era previsto l’utilizzo degli strumenti elettronici per il controllo come richiesto dall’articolo 282-ter; questo impone infatti che il divieto d’avvicinamento venga accompagnato da modalità tecnologiche salvo impossibilità tecnica dichiarata espressamente. Tale misura non è accessoria, ma parte integrante della tutela.

La Cassazione ribadisce inoltre che il divieto d’avvicinamento rappresenta una misura cautelare unica modulabile secondo due approcci:

  • vietando l’accesso ai luoghi frequentati dalla vittima;
  • imponendo una distanza minima rispetto alla persona offesa.

La scelta tra queste opzioni o loro combinazione deve essere motivata nel rispetto dei principi proporzionalità ed adeguatezza; inoltre prescrivere controlli tramite dispositivi tecnologici obbligatoriamente garantisce continuo monitoraggio sul rispetto delle misure imposte.

Misure protettive più stringenti

Le modifiche legislative recenti culminate nella Legge n°168/2023 hanno reso più stringente quadro normativo relativo alle misure protettive seguendo approccio tolleranza zero verso violenze domestiche/genere; in particolare eliminata discrezionalità giudice circa adozione dispositivi elettronici rendendoli obbligatori salvo impossibilità tecnica accertata.

La sentenza ha quindi annullato l’ordinanza impugnata, disponendo rinvio Tribunale Genova affinché deliberi nuovamente rispettando principi stabiliti dalle norme vigenti.

 

Leggi anche: Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento

messa alla prova

Messa alla prova La messa alla prova è un istituto giuridico di diritto penale che permette di evitare la condanna se si rispetta il programma di recupero

Messa alla prova: analisi della disciplina

La messa alla prova è un istituto giuridico che consente a un imputato di affrontare un processo penale senza la condanna, purché dimostri il proprio impegno nel seguire un programma di recupero sociale. Questo strumento ha come obiettivo la rieducazione e il reinserimento del reo nella società, riducendo così il ricorso alla pena detentiva. In Italia, la messa alla prova è disciplinata dalla Legge 67/2014, modificata dal D.Lgs. n. 150/2022, con l’intento di rafforzare e migliorare l’efficacia di questa misura alternativa alla pena.

Introduzione della messa alla prova

La Legge 67/2014 ha introdotto nel sistema penale italiano l’istituto della messa alla prova, applicabile a imputati per reati di natura non grave. L’idea alla base di questa legge è quella di offrire a chi ha commesso un reato l’opportunità di evitare la pena detentiva a condizione che accetti di intraprendere un percorso di recupero e di reintegrazione sociale, sotto il controllo delle autorità competenti.

L’istituto può essere richiesto per reati punibili con pene inferiori a 4 anni di reclusione, salvo specifiche esclusioni. Esso è applicabile in particolare a persone con un’età inferiore ai 21 anni al momento del reato, a chi ha compiuto 70 anni, o a chi è affetto da patologie che ne rendono incompatibile l’esecuzione della pena.

Durante il periodo della messa alla prova, l’imputato può essere obbligato a svolgere attività socialmente utili, partecipare a corsi di formazione o seguire programmi terapeutici, a seconda del tipo di reato commesso e della valutazione del giudice. Se l’imputato completa con successo il programma, il processo penale si conclude con un esito positivo, evitando la condanna.

Novità del decreto legislativo n. 150/2022

Il D.Lgs. n. 150/2022, entrato in vigore il 17 ottobre 2022, ha apportato rilevanti modifiche alla Legge 67/2014, per rendere l’istituto uno strumento ancora più efficace e accessibile, mirando a una maggiore personalizzazione del trattamento e alla riduzione dei tempi processuali.

Una delle principali novità riguarda l’ampliamento delle categorie di reati per cui è possibile richiedere la messa alla prova. Il decreto legislativo 150/2022 ha esteso l’istituto anche a reati che, pur non essendo di particolare gravità, erano precedentemente esclusi da questa misura alternativa. Inoltre, il decreto ha reso più flessibile la durata dell’istituto, permettendo di adattarla alle necessità del singolo individuo e al tipo di programma scelto.

Una novità significativa riguarda anche l’introduzione di meccanismi di monitoraggio più efficienti. La legge 150/2022 ha reso più stringente il sistema di controllo sull’osservanza degli impegni assunti dall’imputato, con un maggiore coinvolgimento dei servizi sociali e delle agenzie di recupero. Ciò permette di garantire che il processo di rieducazione e reintegrazione sia effettivamente seguito e che venga rispettato dagli imputati.

Come funziona la messa alla prova

Il funzionamento della messa alla prova prevede che il giudice verifichi, su richiesta dell’imputato, se sussistono le condizioni per l’applicazione di questa misura. In caso positivo, il giudice stabilisce le modalità e le condizioni specifiche per il programma di recupero. Il periodo di messa alla prova varia in base alla tipologia di reato e alle esigenze di recupero dell’imputato. L’articolo 168 c.p stabilisce in ogni caso che “La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.”

Nel periodo stabilito, l’imputato è tenuto a completare attività lavorative o socialmente utili, attività educative, corsi di formazione o di terapia, a seconda del piano stabilito. Se al termine del programma il giudice ritiene che l’imputato abbia adempiuto agli obblighi previsti, il procedimento penale viene archiviato e non viene inflitta alcuna condanna.

Se, invece, l’imputato non rispetta le condizioni della messa alla prova, il giudice può decidere di revocarla, con conseguente ripristino del processo penale. In tal caso, l’imputato viene giudicato secondo le modalità ordinarie.

I benefici della misura

La messa alla prova offre numerosi vantaggi sia per l’imputato che per la società. Tra i benefici principali della misura ci sono i seguenti:

  • evitare il carcere: la messa alla prova consente di evitare la pena detentiva, che può essere particolarmente gravosa per il reo e dannosa per il suo reinserimento sociale;
  • promuovere la rieducazione: attraverso attività socialmente utili e programmi di formazione, l’imputato ha l’opportunità di recuperare e reintegrarsi nella società;
  • decongestionare il sistema penale: la messa alla prova riduce il carico di lavoro per i tribunali e le carceri, contribuendo a snellire i processi e a garantire una giustizia più rapida;
  • risparmio di risorse: il sistema di messa alla prova, che prevede l’utilizzo di risorse esterne come associazioni di volontariato, è anche un modo per ottimizzare i costi del sistema giudiziario e penitenziario.

 

Leggi anche: Messa alla prova e domiciliari sono compatibili