permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti: troppo breve il termine per il reclamo La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il termine di 24 ore per il reclamo contro i permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti

Con la sentenza n. 78/2025, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il termine di 24 ore previsto per la proposizione del reclamo da parte del detenuto contro il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza nega un permesso, anche nei casi di grave emergenza familiare, come il pericolo imminente di vita di un familiare o convivente.

Il giudizio di legittimità è scaturito da una questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha espresso dubbi circa la compatibilità di tale termine con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Nel procedimento oggetto della pronuncia, un detenuto aveva chiesto un permesso per visitare la sorella affetta da tumore. Il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta e il detenuto aveva presentato reclamo lo stesso giorno della notifica del provvedimento, riservandosi però di motivarlo successivamente.

Solo dopo aver ottenuto la documentazione medica acquisita d’ufficio dal Magistrato, il difensore del detenuto aveva potuto reiterare il reclamo, corredandolo dei motivi. Tuttavia, il termine previsto dall’art. 30-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) per impugnare il diniego è di sole 24 ore.

Tutela effettiva del diritto di difesa

La Corte costituzionale ha accolto i dubbi di legittimità, osservando che il termine di 24 ore non consente al detenuto né di ottenere adeguata assistenza legale né di accedere alla documentazione necessaria per motivare il reclamo in modo efficace.

Richiamando un precedente orientamento (sentenza n. 113/2020, relativa ai permessi premio), la Corte ha stabilito che il termine debba essere elevato a 15 giorni, in analogia con quanto previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario per altri reclami.

Il legislatore può intervenire

Pur fissando in via provvisoria un termine di 15 giorni, la Corte ha sottolineato che resta ferma la facoltà del legislatore di stabilire un termine diverso, purché questo rispetti il diritto alla difesa e sia coerente con la natura urgente del provvedimento.

caso fortuito e rimessione

Caso fortuito e rimessione in termini: la Cassazione chiarisce La Corte di Cassazione definisce i requisiti del caso fortuito ai fini della rimessione in termini nel processo penale

Caso fortuito e rimessione in termini

Con la sentenza n. 18618/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della rimessione in termini per il ricorso per cassazione, specificando i presupposti giuridici che danno rilievo al caso fortuito nel processo penale.

Il fatto processuale

Nel caso di specie, il difensore dell’imputato aveva presentato istanza di rimessione in termini, adducendo il verificarsi di un evento eccezionale che aveva impedito il rispetto del termine per l’impugnazione. Il legale invocava il caso fortuito, chiedendo alla Corte di riconoscerne la sussistenza e di ritenere ammissibile il ricorso presentato oltre il termine ordinario.

La definizione di caso fortuito secondo la Cassazione

La Suprema Corte, richiamando la propria giurisprudenza consolidata, ha ribadito che il caso fortuito si configura come:

“un’accidentalità che opera come causa non conoscibile, ineliminabile con l’uso delle comuni prudenza e diligenza”.

Per essere rilevante ai fini della rimessione in termini, l’evento deve dunque:

  • essere imprevisto e imprevedibile;

  • avere carattere eccezionale e atipico;

  • manifestarsi in modo improvviso;

  • impedire oggettivamente all’agente di conformare tempestivamente la propria condotta alla situazione determinatasi.

Il principio affermato

In applicazione di tali criteri, la Corte ha rigettato la richiesta di rimessione in termini, ritenendo che l’evento dedotto dal difensore non fosse inquadrabile come caso fortuito in senso tecnico-giuridico. La decisione valorizza il profilo dell’esigibilità del comportamento diligente, sottolineando che il caso fortuito deve determinare un impedimento insormontabile e non semplicemente una difficoltà organizzativa o una negligenza, anche se minima.

Allegati

41-bis

41-bis 41 bis: cos'è, normativa di riferimento, a chi si applica e per quali reati, restrizioni, durata e proroga, compatibilità con la Costituzione

Cos’è il 41-bis

Il regime carcerario del 41-bis dell’ordinamento penitenziario italiano rappresenta una delle misure più rigorose previste dal sistema penale, comunemente noto come “carcere duro”. È uno strumento straordinario, introdotto per contrastare le organizzazioni criminali di tipo mafioso e terroristico, volto a interrompere i legami tra detenuti e contesti esterni di criminalità organizzata.

L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), modificato nel corso degli anni da vari interventi legislativi, prevede la possibilità per il Ministro della giustizia di sospendere in tutto o in parte l’applicazione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario nei confronti di detenuti per reati di particolare gravità, al fine di impedire contatti con l’esterno che possano agevolare attività criminali.

Tale sospensione avviene mediante un provvedimento motivato del Ministro.

Normativa vigente

L’attuale formulazione dell’art. 41-bis, stabilisce al comma 2 che quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, il Ministro della giustizia può sospendere in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluni reati, l’applicazione delle regole del trattamento penitenziario previste dalla presente legge e consentire restrizioni specifiche in deroga ai principi generali.

Le modifiche più rilevanti sono state introdotte con:

  • Legge n. 663/1986;
  • Legge n. 279/2002 (legge di sistema sul carcere duro);
  • Successivi interventi fino alla legge n. 94/2009, che ha ulteriormente inasprito il regime, rendendolo permanente e prorogabile.

A chi si applica il regime del 41-bis

Il regime differenziato si applica ai detenuti imputati o condannati per reati di particolare allarme sociale, come:

  • Associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.);
  • Terrorismo internazionale o interno (artt. 270-bis e seguenti c.p.);
  • Traffico di stupefacenti aggravato;
  • Sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.);
  • Associazione finalizzata al traffico illecito di armi o esseri umani;
  • Strage, omicidio aggravato, o attentato per finalità eversive o terroristiche.

La misura è adottata se sussiste il pericolo concreto che il soggetto, anche dalla detenzione, possa mantenere legami con l’organizzazione criminale di riferimento o esercitare il controllo sul territorio.

Quali restrizioni prevede il 41-bis

Il regime 41-bis prevede una serie di limitazioni molto severe, tra cui:

  • isolamento dal resto della popolazione carceraria;
  • limitazione e controllo dei colloqui con i familiari, esclusivamente attraverso vetri divisori e in presenza di agenti;
  • controllo della corrispondenza scritta e monitoraggio delle conversazioni telefoniche;
  • censura dei pacchi e limitazioni sugli oggetti ricevibili;
  • riduzione dell’ora d’aria e delle attività comuni, spesso a piccoli gruppi selezionati;
  • divieto di interazioni non autorizzate con altri detenuti.

Tutte queste restrizioni mirano a impedire che il detenuto possa comunicare ordini o informazioni all’esterno, mantenendo viva la rete criminale.

Durata e proroga del 41-bis

La sospensione del regime ordinario è disposta per una durata massima iniziale di 4 anni, prorogabile di due anni in due anni, qualora persistano le condizioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ogni proroga deve essere motivatamente disposta e soggetta a verifica giudiziaria, attraverso ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza competente.

Critiche e compatibilità costituzionale

Il 41-bis è stato più volte oggetto di esame costituzionale e critiche da parte di organismi internazionali, come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) e l’ONU, per presunte violazioni dei diritti umani. Tuttavia, la Corte costituzionale italiana ha ribadito la legittimità della misura, purché le limitazioni siano proporzionate e motivabili in funzione della sicurezza.

In particolare, la Consulta ha evidenziato che non si tratta di una forma di “pena aggiuntiva”, ma di una misura di gestione penitenziaria eccezionale, volta a prevenire il crimine e tutelare la collettività (Corte Cost., sent. n. 376/1997 e n. 190/2010).

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permessi premio

Permessi premio: la guida Permessi premio: cosa sono, a cosa servono, chi può chiederli, come funzionano, come fare domanda, concessione, limiti e condizioni

Permessi premio: misure per rieducare detenuto

I permessi premio sono una delle più importanti misure di trattamento penitenziario premiale previste dall’ordinamento italiano, introdotti per incentivare la rieducazione del detenuto e favorire il suo graduale reinserimento nella società, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione.

I permessi premio rappresentano infatti uno strumento centrale nel sistema penitenziario italiano, volto a realizzare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. La loro concessione però, come vedremo, non è automatica, ma subordinata a criteri rigorosi, che richiedono un percorso concreto di responsabilizzazione del detenuto. Per ottenere un permesso è essenziale dimostrare affidabilità, impegno nel trattamento e volontà di reinserimento sociale.

Cosa sono i permessi premio

I permessi premio sono disciplinati dall’art. 30-ter della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354) e consistono nella possibilità per il detenuto di uscire temporaneamente dal carcere per un massimo di 45 giorni all’anno, anche frazionabili, per fare rientro in famiglia, partecipare a eventi significativi o riprendere contatti con il tessuto sociale esterno.

Non si tratta di un diritto automatico, ma di un beneficio che può essere concesso in base a specifici requisiti oggettivi e soggettivi.

A cosa servono i permessi premio

I permessi premio hanno una funzione rieducativa, risocializzante e progressiva, finalizzata a:

  • favorire i legami familiari e affettivi del detenuto;
  • stimolare comportamenti responsabili e collaborativi durante l’esecuzione della pena;
  • valutare in concreto l’idoneità del condannato a vivere in libertà senza recidive;
  • preparare il detenuto alla liberazione anticipata o al passaggio a misure alternative.

Chi può ottenere i permessi premio

I permessi premio non sono concessi a tutti i detenuti indistintamente, ma solo a chi:

  1. è stato condannato all’arresto o alla reclusione per un periodo non superiore a 4 anni anche se congiunta alla pena dell’arresto;
  2. è stato condannato alla pena della reclusione per un periodo duperiuore ai 4 anni , dopo aver espiati almeno 1/4 della pena;
  3. è stato condannato alla pena della reclusione per particolari reati (art. 4 bis commi 1, 1 ter e 1 quater) dopo aver espiato almeno metà della pena e comunque di non oltre 10 anni;
  4. è stato condannato all’ergastolo ma ha già espiato 10 anni;
  5. ha tenuto una condotta regolare e collaborativa nel periodo di detenzione;
  6. partecipa attivamente al percorso trattamentale, mostrando progressi in ambito lavorativo, scolastico o relazionale;
  7. non presenta pericolosità sociale attuale, valutata anche in relazione al tipo di reato commesso;
  8. partecipa al programma di giustizi riparativa.

In presenza di condanne per reati ostativi di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (es. mafia, terrorismo, reati sessuali gravi), il permesso premio può essere concesso solo se il detenuto ha collaborato concretamente con la giustizia.

Chi decide sulla concessione del permesso

La decisione spetta al Magistrato di sorveglianza, su proposta dell’Equipe trattamentale dell’istituto penitenziario, che valuta:

  • le relazioni comportamentali del detenuto;
  • le attività trattamentali seguite (lavoro, formazione, ecc.);
  • gli elementi di pericolosità attuale o futura;
  • l’esistenza di un programma specifico per il permesso (es. visita a familiari, partecipazione a un evento importante, colloqui di lavoro).

Il parere dell’Equipe non è vincolante, ma è elemento rilevante per la decisione finale.

Come funziona un permesso premio

Il permesso premio può essere concesso per una durata massima di 15 giorni consecutivi per volta, entro il limite annuale di 45 giorni complessivi.

Durante il permesso, il detenuto:

  • non è sottoposto a vigilanza diretta, ma deve attenersi scrupolosamente agli obblighi imposti;
  • deve ritornare in istituto alla scadenza del periodo autorizzato, pena la denuncia per evasione;
  • può essere soggetto a controlli esterni da parte delle forze dell’ordine o del personale del carcere.

La concessione del permesso è revocabile in caso di violazione delle condizioni o di comportamenti inappropriati durante il periodo fuori dall’istituto.

Come si fa domanda per il permesso premio

La richiesta può essere presentata direttamente dal detenuto o tramite il proprio difensore. La procedura prevede:

  1. la presentazione di un’istanza scritta motivata, rivolta al Magistrato di sorveglianza;
  2. l’invio della relazione aggiornata dell’Equipe trattamentale;
  3. la presentazione di documentazione che giustifichi il motivo del permesso (inviti, certificati, lettere familiari, ecc.);
  4. l’indicazione di eventuali garanzie esterne (disponibilità alloggio, presenza di familiari, ecc.).

Il magistrato valuta la richiesta e può concedere o rigettare il permesso con provvedimento motivato, eventualmente dopo un’udienza.

Limiti e condizioni

Tra i principali limiti dei permessi premio:

  • reati ostativi: come già detto, richiedono collaborazione con la giustizia per poter accedere al beneficio;
  • rischi di fuga o recidiva: il magistrato valuta attentamente ogni elemento che possa far ritenere il soggetto inaffidabile;
  • assenza di percorso trattamentale: la mancata partecipazione alle attività del carcere è elemento ostativo.

L’obiettivo è garantire che il beneficio sia parte integrante del percorso rieducativo, non un semplice privilegio.

 

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recidiva semplice

Recidiva semplice: la Consulta limita aumento automatico pena Stop all’aumento automatico della pena per recidiva semplice. La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 63 co. 3 c.p. in caso di concorso con attenuanti

Recidiva: l’intervento della Consulta

Con la sentenza n. 74 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 63, comma 3, del codice penale, nella parte in cui consente l’aumento obbligatorio di un terzo della pena in presenza di recidiva semplice e di un’altra circostanza aggravante autonoma o a effetto speciale.

Automatismo irragionevole

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Firenze, in un procedimento per minaccia aggravata commessa con armi, dove all’imputato era stata contestata anche la recidiva semplice ai sensi dell’art. 99, primo comma, c.p. In base alla norma censurata, la pena – già aumentata per l’aggravante a effetto speciale – avrebbe dovuto essere automaticamente incrementata di un terzo per effetto della recidiva.

La Consulta ha invece affermato che tale automatismo viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione, evidenziando come l’aumento obbligatorio della pena, previsto per la recidiva semplice, risulti più gravoso rispetto alla disciplina più favorevole applicabile nei casi di recidiva aggravata o qualificata, che consente al giudice di aumentare la pena solo fino alla metà e in via facoltativa.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale e nella determinazione delle pene, la Corte ha ribadito che le norme sanzionatorie devono comunque essere sottoposte al controllo di legittimità costituzionale, specialmente quando incidono sulla libertà personale.

Secondo la Corte, la disciplina censurata determinava un trattamento sanzionatorio sproporzionato e non coerente con il disvalore effettivo della condotta. In particolare, si veniva a creare una irragionevole disparità: mentre in presenza di recidiva aggravata il giudice può decidere se aumentare la pena, nel caso di recidiva semplice tale aumento era obbligatorio, anche se la condotta non era più grave.

sospensione condizionale della pena

Sospensione condizionale della pena: ok anche con un precedente La Cassazione stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l'imputato risulta gravato da un solo precedente penale

Sospensione condizionale della pena

Con la sentenza n. 19426/2025, depositata il 27 maggio 2025, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio di equilibrio tra repressione e rieducazione, stabilendo che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l’imputato risulta gravato da un solo precedente penale iscritto nel casellario giudiziale.

Il caso concreto

Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309 e aveva chiesto la concessione del beneficio della sospensione condizionale, previsto dal codice penale quando la pena inflitta non supera i due anni di reclusione.

Tuttavia, il giudice di merito aveva rigettato la richiesta, sostenendo che l’imputato non poteva beneficiarne in quanto già gravato da precedenti penali. 

Il principio sancito dalla Cassazione

La S.C. osserva che dal certificato del Casellario giudiziale allegato al ricorso e presente nel fascicolo processuale emerge, come evidenziato dal ricorrente, una sola condanna, per reato della stesa indole, a pena sospesa in astratto non ostativa alla concessione una seconda volta del beneficio in oggetto (quattro mesi di reclusione ed euro 600,00 di multa).

Secondo la Cassazione, infatti, la mera esistenza di un precedente penale non esclude automaticamente la possibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena, salvo che ricorrano circostanze che rendano inconciliabile la concessione del beneficio con la finalità rieducativa della pena.

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straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: la misura è amministrativa La Corte costituzionale chiarisce che l’espulsione dello straniero detenuto ha natura amministrativa e non trattamentale, escludendo automatismi e tutelando i soggetti vulnerabili

Espulsione straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: con la sentenza n. 73 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, confermando la natura amministrativa dell’espulsione disposta nei confronti di cittadini stranieri irregolari in stato di detenzione. La norma oggetto del giudizio è l’art. 16, comma 5, del D.lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione).

Espulsione anticipata non è alternativa alla detenzione

La Consulta ha chiarito che l’espulsione applicata durante l’esecuzione della pena – nei confronti di stranieri irregolari con pena residua inferiore a due anni per reati non gravi – non costituisce una misura trattamentale, né può essere assimilata alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.

Si tratta, piuttosto, di un provvedimento amministrativo che anticipa l’espulsione già prevista a causa dell’irregolarità del soggiorno e che, comunque, sarebbe intervenuta al termine della pena detentiva.

Valutazione individuale e garanzie contro automatismi

La Corte ha escluso qualsiasi automatismo nell’applicazione di tale misura, sottolineando che il magistrato di sorveglianza è tenuto a valutare caso per caso, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico all’espulsione e le condizioni personali e familiari del soggetto. Restano salvi, in ogni caso, i divieti di espulsione previsti per situazioni di vulnerabilità oggettiva o soggettiva, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 286/1998, cui rinvia espressamente anche l’art. 16, comma 9, dello stesso testo unico.

crudeltà

Le lesioni inflitte con crudeltà sono procedibili d’ufficio Per la Cassazione, le lesioni inflitte con crudeltà non si estinguono per remissione di querela, in quanto procedibili d’ufficio

Aggravante della crudeltà

Il reato di lesioni commesso con crudeltà (nella specie sigaretta spenta sul braccio della vittima) non si estingue per effetto della remissione di querela, in quanto procedibile d’ufficio. Lo rammenta la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 19050/2025, dando ragione al procuratore che aveva impugnato la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Castrovillari dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al delitto di lesioni personali aggravate dalla crudeltà, di cui agli art. 582, 585, 57 e 61 n. 4, cod. pen. per essere lo stesso estinto per remissione tacita di querela.

Proponeva ricorso per cassazione li Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro, deducendo che li reato di lesioni personali come contestato, ossia, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 4 cod. pen. per essere stato il fatto commesso con l’uso della crudeltà, è procedibile d’ufficio, di modo che il giudice censurato avrebbe errato nell’averlo dichiarato estinto per remissione di querela. Peraltro, la circostanza aggravante contestata sarebbe in astratto configurabile, avuto riguardo alle modalità della condotta dell’imputato, che spegnendo una sigaretta sull’avambraccio sinistro della parte offesa, le aveva inflitto sofferenze aggiuntive rispetto a quelle necessariamente discendenti dalla realizzazione del reato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

“La lettura dell’imputazione – affermano i giudici preliminarmente – riportata nell’incipit della sentenza impugnata dà conto di come oggetto dell’addebito mosso a siano le lesioni personali di cui agli artt. 582 e 585 cod. pen. in relazione all’art, 577 e 61 n. 4 cod. pen., aggravate dall’«avere agito con crudeltà verso la persona offesa»”.

Il testo della disposizione di cui all’art. 582, comma 2, cod. pen., in tema di lesioni personali, ordinariamente perseguibili a querela di parte, ricordano dal Palazzaccio, stabilisce che «Si procede tuttavia d’ufficio se ricorre taluna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583, 583-quater, secondo comma, primo periodo, e 585, ad eccezione di quelle indicate nel primo comma, numero 1), e nel secondo comma dell’articolo 577».

Nel caso al vaglio, “il reato contestato all’imputato non poteva essere dichiarato estinto per remissione di querela: l’elemento accessorio della crudeltà non rientra, infatti, nel novero delle eccezioni alla procedibilità d’ufficio delle lesioni personali pur aggravate”. Per cui, la sentenza impugnata va annullata. Parola al giudice del rinvio.

 

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suicidio assistito

Suicidio assistito: legittimo il sostegno vitale Suicidio assistito: la Corte costituzionale conferma la legittimità del requisito del trattamento di sostegno vitale

Suicidio assistito: nuovo intervento della Consulta

Suicidio assistito: con la sentenza n. 66 del 2025, la Corte costituzionale ha confermato la non contrarietà alla Costituzione della previsione normativa che subordina la non punibilità dell’aiuto al suicidio alla condizione che la persona malata necessiti, secondo valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. La pronuncia rigetta le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Milano in relazione all’art. 580 c.p., in un procedimento avviato a seguito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero.

Sostegno vitale come criterio non discriminatorio

La Consulta, richiamando i principi già affermati nella sentenza n. 135 del 2024, chiarisce che il requisito del trattamento di sostegno vitale si considera soddisfatto quando, in base all’indicazione clinica, tale trattamento è necessario per garantire le funzioni vitali del paziente. È sufficiente che, in assenza del trattamento, la morte risulti prevedibile in un arco temporale ristretto. Non è invece richiesta la previa attivazione del trattamento al solo fine di accedere al suicidio assistito.

Non viola la Costituzione il limite salvavita

La Corte ha escluso che tale condizione integri una forma di discriminazione o rappresenti una violazione del diritto all’autodeterminazione. Ha inoltre ribadito che, pur potendo il legislatore adottare scelte differenti, queste dovrebbero essere accompagnate da idonee garanzie contro possibili abusi. Allo Stato deve essere riconosciuto un ampio margine di discrezionalità legislativa nel bilanciamento tra la tutela della vita (art. 2 Cost.) e il diritto all’autonomia personale, intesa come espressione del più ampio diritto allo sviluppo della personalità.

Garanzie procedurali essenziali e ruolo del legislatore

La Corte ha ribadito l’importanza delle condizioni sostanziali e procedurali, già individuate con la sentenza n. 242 del 2019, sottolineando la loro funzione nel prevenire abusi e nel tutelare soggetti vulnerabili. Tali requisiti costituiscono un argine anche rispetto a potenziali derive culturali che possano indurre persone malate a optare per il suicidio in assenza di un adeguato sostegno sociale e sanitario.

Criticità del sistema di cure palliative

Nel testo della pronuncia emerge inoltre un chiaro richiamo al dovere della Repubblica di garantire l’accesso effettivo a cure palliative e assistenza sociosanitaria domiciliare continuativa, poiché l’assenza di tali servizi incide significativamente sulle scelte delle persone affette da gravi patologie. La Corte ha segnalato con preoccupazione le criticità sistemiche: carenza di personale specializzato, disparità territoriali, lunghi tempi d’attesa e una presa in carico spesso inadeguata.

Infine, viene nuovamente sollecitato il Parlamento e il Servizio sanitario nazionale affinché provvedano alla puntuale attuazione della sentenza n. 242 del 2019, anche attraverso l’elaborazione di una disciplina normativa alternativa che, pur nel rispetto delle indicazioni costituzionali, possa fornire una risposta compiuta e uniforme alla tematica del fine vita.

misure cautelari personali

Misure cautelari personali Misure cautelari personali: definizione, principio di proporzionalità, normativa, presupposti, tipologie, normativa e giurisprudenza

Cosa sono le misure cautelari personali?

Le misure cautelari personali rappresentano strumenti giuridici che limitano temporaneamente la libertà personale di un soggetto nel corso di un procedimento penale. Vengono applicate per prevenire la fuga dell’imputato, la reiterazione del reato o l’inquinamento delle prove.

Le misure cautelari personali sono provvedimenti restrittivi imposti dal giudice prima della sentenza definitiva per garantire il buon andamento del processo.

Il principio di proporzionalità

Tra i principali criteri di scelta delle misure cautelari da applicare il giudice deve tenere conto del principio di proporzionalità della misura rispetto al reato contestato (art. 275 app).

Normativa di riferimento

Sono disciplinate dal Titolo I del Libro IV del Codice di Procedura Penale (articoli 272-315 app).

Queste le norme di maggiore rilievo:

  • art. 272 CPP: Principio di eccezionalità delle misure cautelari;
  • art. 273 CPP: Necessità di gravi indizi di colpevolezza;
  • art. 274 CPP: Esigenze cautelari;
  • art. 275 CPP: Principio di proporzionalità;
  • art. 280 CPP: Condizioni di applicabilità delle misure;
  • art. 292 CPP: Contenuto dell’ordinanza cautelare;
  • art. 309-311 CPP: Procedura di impugnazione delle misure cautelari.

Presupposti adozione misure cautelari personali

L’adozione di una misura cautelare personale richiede la presenza di determinati presupposti fondamentali:

1. gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p);

2. esigenze cautelari (art. 274 c.p.p), che possono riguardare:

  • il pericolo di fuga;
  • la possibile reiterazione del reato;
  • l’inquinamento delle prove.

3. utilità della misura. 

Tipologie di misure cautelari personali

Le misure cautelari personali si distinguono in misure coercitive e misure interdittive.

Misure Coercitive

Le misure coercitive incidono direttamente sulla libertà personale dell’imputato.

  • Custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p): è la misura più grave, applicata per reati particolarmente gravi (es. omicidio, mafia, terrorismo). Il giudice deve motivare la necessità di applicarla.
  • La custodia cautelare può avvenire anche in un istituto a custodia attenuata per le detenute madri (art. 285 bis c.p.p) e in un luogo di cura (art. 286 c.p.p).
  • Arresti domiciliari (art. 284 c.p.p): l’imputato è obbligato a rimanere presso la propria abitazione o altro luogo designato. Può essere concesso solo se sufficiente a tutelare le esigenze cautelari.
  • Obbligo di dimora (art. 283 c.p.p): impone all’indagato di risiedere in un determinato Comune senza allontanarsi.
  • Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p): viene adottato nei casi di reati contro la persona, come violenza domestica o stalking.
  • Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p): l’imputato deve presentarsi periodicamente presso un comando di polizia.
  • Divieto di espatrio (art. 281 c.p.p): l’imputato non può uscire dal territorio nazionale senza preventiva autorizzazione del giudice procedente.

Misure interdittive

Le misure interdittive non limitano direttamente la libertà personale, ma incidono sull’attività professionale o sociale dell’imputato.

  • Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale (art. 288 c.p.p)
  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 288 c.p.p);
  • Divieto temporaneo di contrattare con la Pubblica Amministrazione (art. 289 bis c.p.p)
  • Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290 c.p.p).

Durata delle misure cautelari

La durata della custodia cautelare è stabilita dall’art. 303 CPP e dipende dalla gravità del reato e dalla fase processuale:

  • Massimo 2 anni per reati puniti con pena massima non superiore a 6 anni;
  • Massimo 4 anni per reati puniti con pena non superiore nel massimo a 20 anni, salvo eccezioni;
  • Massimo 6 anni per reati con pena superiore a 20 anni o puniti con la pena dell’ergastolo.

Per quanto riguarda invece la durata delle misure cautelari diverse dalla custodia cautelare l’art. 308 c.p.p stabilisce che “perdono efficacia quando dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti dall’articolo 303.”

Le misure interdittive invece non possono durare più di 12 mesi, anche se possono essere rinnovate.

Per particolari delitti queste perdono efficacia con il decorso di sei mesi dalla loro esecuzione.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha spesso ribadito i criteri di applicazione delle misure cautelari:

Cassazione n. 8379/2025: a seguito della sentenza n. 173 del 2024 della Corte costituzionale, è stato dichiarato illegittimo l’automatismo con cui il giudice, dopo aver disposto il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa con le modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis del codice di procedura penale, applichi una misura più restrittiva qualora si accerti l’impossibilità tecnica di tali controlli. La Corte ha stabilito che il giudice, in tale circostanza, deve invece riesaminare il caso specifico e decidere se aggravare o attenuare la misura originaria, sempre nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità.

Cassazione n. 30996/2023: la vicenda cautelare richiede una valutazione continua e unitaria dei presupposti che la giustificano, il che significa che le condizioni richieste per l’applicazione di una specifica misura devono persistere non solo al momento iniziale, ma durante tutta la sua esecuzione. I principi di adeguatezza e proporzionalità devono quindi accompagnare quella particolare misura restrittiva non solo quando viene disposta, ma per tutta la sua durata nel processo. Se così non fosse, si verificherebbe una limitazione della libertà personale sproporzionata rispetto alla sua funzione, compromettendo il quadro costituzionale di riferimento.

 

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