processo penale telematico

Processo penale telematico: atti esclusi dall’accettazione automatica Processo penale telematico: la circolare DGSIA del 12 novembre 2024 chiarisce quali atti e sono esclusi dall’accettazione automatica

Processo penale telematico: chiarimenti dalla DGSIA

La Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) ha emanato, il 12 novembre 2024, una circolare rivolta agli uffici giudiziari per ottimizzare la gestione dei depositi telematici effettuati dai difensori attraverso il portale del Processo Penale Telematico. Il documento specifica le categorie di atti processuali escluse dall’accettazione automatica e che, pertanto, richiedono la verifica manuale da parte degli operatori addetti.

Atti esclusi dall’accettazione automatica

La circolare elenca in modo puntuale gli atti che non possono essere processati automaticamente dal sistema informatico. Tra questi:

  1. nomina difensiva, quando necessita di un atto abilitante, ad esempio prima della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis Cpp);
  2. richieste di accesso agli atti;
  3. richieste di avocazione al Procuratore Generale;
  4. rescissioni del giudicato;
  5. revisioni di sentenze;
  6. domande di riparazione per ingiusta detenzione;
  7. denunce e querele;
  8. istanze di procedimento;
  9. integrazioni di denuncia, querela o istanza di procedimento;
  10. Richieste di certificati e solleciti;
  11. atti depositabili presso il Tribunale del riesame.

Accettazione denunce, istanze e querele: il ruolo del PM

Un elemento cruciale chiarito nella circolare riguarda l’accettazione delle denunce, querele e istanze di procedimento. In passato, il sistema informatico accoglieva automaticamente tali atti,

Una nota del Ministero della Giustizia, pubblicata il 13 novembre 2024 però ha chiarito che il sistema informatico non avvia in automatico un procedimento penale. La piattaforma Pdp si limita a registrare e accettare l’atto trasmesso, mentre la scelta di procedere con l’iscrizione di un nuovo fascicolo dipende esclusivamente dal Pubblico Ministero.

Motivazioni legate al segreto investigativo

La circolare del 12 novembre 2024 introduce ulteriori restrizioni, evidenziando che alcuni atti sono esclusi dall’accettazione automatica per proteggere il segreto della fase investigativa.

Tra questi, si trovano:

  • depositi indirizzati al Giudice per le indagini preliminari (Gip), quando il fascicolo si trova in una fase interlocutoria;
  • eccezioni: richieste di incidente probatorio, convalida di fermo o arresto, proroga dei termini di indagine e ammissione all’oblazione;
  • atti relativi a richieste di decreto penale di condanna e a procedimenti ex art. 129 Cpp

In questi casi, il numero di registro generale del fascicolo presso l’ufficio Gip non viene esposto al difensore sul Pdp, garantendo una maggiore riservatezza.

PPT: implicazioni pratiche per operatori e difensori

Queste disposizioni mirano a tutelare l’accuratezza e la segretezza del processo penale, impedendo che determinate fasi delicate siano gestite automaticamente dal sistema. Per gli operatori giudiziari e i difensori, ciò comporta una maggiore attenzione nella preparazione e nel monitoraggio dei depositi.

La distinzione tra atti accettati automaticamente e atti che richiedono intervento manuale rafforza il controllo umano su procedure fondamentali, come l’iscrizione di una notizia criminis, e protegge l’integrità del sistema giuridico.

In questo modo si realizza un uso più efficace del processo penale telematico, bilanciando innovazione tecnologica e garanzie processuali. L’introduzione di limiti precisi all’accettazione automatica degli atti processuali rafforza il ruolo del Pubblico Ministero e tutela la riservatezza delle indagini, assicurando un controllo rigoroso nei procedimenti penali.

 

Leggi: Processo penale telematico: cos’è e come funziona

Allegati

certificato casellario giudiziale

Certificato casellario giudiziale Certificato casellario giudiziale: è il documento che attesta la presenza di provvedimenti penali, civili e amministrativi passati in giudicato o definitivi a carico di una persona

Certificato casellario giudiziale: cos’è

Il Certificato del casellario giudiziale è un documento ufficiale che attesta la presenza di provvedimenti penali, civili e amministrativi passati in giudicato o definitivi emessi a carico di una persona. Questo certificato fornisce una panoramica delle vicende giuridiche in cui una persona è stata coinvolta.

Il Casellario giudiziale è gestito dal Ministero della Giustizia e raccoglie i dati relativi a tutte le decisioni giudiziarie emesse da tribunali italiani, comprese le condanne, le sentenze di non luogo a procedere, le assoluzioni e le misure di sicurezza.

Chi può richiederlo

Il Certificato del casellario giudiziale può essere richiesto da chiunque abbia interesse a ottenere una certificazione sulla propria posizione giuridica.

  1. Dalla persona interessata per se stessa per attestare se si ha o meno un’eventuale condanna penale a proprio carico.
  2. Da un soggetto che ha un interesse legittimo. Ad esempio, un datore di lavoro può richiedere il certificato di un candidato durante una selezione, per verificare che non ci siano condanne penali. In questo caso, è necessaria una specifica autorizzazione della persona interessata.
  3. Dall’ente pubblico o dall’istituzione che necessita di verificare la posizione giuridica di una persona può richiederlo per motivi legati a incarichi o adempimenti particolari (es. assunzioni in ambito pubblico, concessione di licenze, etc.).

A cosa serve il certificato del casellario giudiziale

Il certificato del casellario giudiziale ha numerosi usi e applicazioni pratiche. Alcuni dei principali sono:

  1. Adempimenti lavorativi: Il certificato può essere richiesto da datori di lavoro, sia pubblici che privati, per verificare se un candidato abbia condanne penali o procedimenti pendenti, soprattutto in contesti sensibili (es. assunzioni in ambito sanitario, educativo, giuridico, etc.).
  2. Partecipazione a concorsi pubblici: Le pubbliche amministrazioni richiedono spesso il Certificato del Casellario Giudiziale per i candidati ai concorsi pubblici, al fine di verificare l’idoneità morale e giuridica alla posizione.
  3. Concessione di licenze e autorizzazioni: In alcuni casi, come per l’ottenimento di licenze professionali o per la gestione di attività sensibili (come bar, ristoranti, o agenzie di sicurezza), le autorità locali possono richiedere il certificato per garantire che il richiedente non abbia precedenti penali.
  4. Esigenze personali: Può essere richiesto anche per motivi personali, come ad esempio per la presentazione di una domanda di visto o per procedimenti legali in corso. Alcuni cittadini possono anche richiederlo per semplici motivi di trasparenza o per tutelarsi in specifiche situazioni.
  5. Adempimenti giuridici: In determinati contesti legali, come per la partecipazione a cause civili o per l’affidamento di minori, il certificato può essere richiesto per accertare l’affidabilità del soggetto coinvolto.

Come si richiede il certificato del casellario giudiziale

La richiesta del Certificato del Casellario Giudiziale può essere effettuata attraverso vari canali:

  1. Online: È possibile richiederlo direttamente online tramite il portale del Ministero della Giustizia, con una procedura semplificata che permette di ottenere il certificato in modo rapido. In alcuni casi, è necessaria una firma digitale per completare la richiesta.
  2. Presso gli uffici giudiziari: In alternativa, il certificato può essere richiesto recandosi direttamente presso l’ufficio del Casellario Giudiziale del tribunale competente (tribunale di residenza o di domicilio dell’interessato).
  3. Per posta: È possibile inviare una richiesta scritta al tribunale competente, allegando la documentazione necessaria per l’identificazione.
  4. In agenzia pratiche: Alcune agenzie o studi legali si occupano di inoltrare la richiesta per conto di terzi, in cambio di una tariffa per il servizio.

Costo del certificato

La richiesta di un Certificato del Casellario Giudiziale comporta un costo, che può variare a seconda del tipo di certificato richiesto e delle modalità di rilascio (ad esempio, online, in tribunale, per posta, etc.).  Il sito del Ministero precisa che il costo per il rilascio del certificato è di 19,92 Euro (16,00  Euro per la marca da bollo e 3,92 euro per i diritti). Per la spedizione occorre poi sostenere i relativi costi di affrancatura.

Durata e validità

Il Certificato del Casellario Giudiziale ha una validità limitata, in quanto le informazioni contenute possono cambiare nel tempo. Solitamente, il certificato è valido per un periodo di 6 mesi, ma per determinati scopi, come la partecipazione a concorsi pubblici o richieste di lavoro, potrebbe essere richiesta una data di rilascio più recente.

accesso abusivo ai sistemi

Accesso abusivo ai sistemi informatici Guida al reato di accesso abusivo ai sistemi informatici previsto e punito dall’art. 615-ter del codice penale

Accesso abusivo ai sistemi informatici: il reato

Il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici si verifica quando una persona accede, senza autorizzazione, a sistemi informatici o telematici protetti da misure di sicurezza. Questo comportamento è punito in modo severo, poiché può compromettere la sicurezza dei dati e dei sistemi coinvolti. L’illecito può avere impatti rilevanti che spaziano dal furto di informazioni sensibili fino al sabotaggio di sistemi aziendali o governativi.

L’articolo 615-ter c.p si occupa di tutelare la riservatezza e la sicurezza dei sistemi informatici, penalizzando chiunque si introduca in tali sistemi senza avere il diritto o il consenso a farlo. La legge è stata pensata per rispondere ai rischi legati all’evoluzione tecnologica, garantendo la protezione delle risorse digitali da azioni di intrusione e manipolazione non autorizzata.

Articolo 615-ter c.p.: cosa prevede

L’articolo 615-ter del Codice Penale italiano punisce l’accesso abusivo a un sistema informatico con la seguente formulazione:

“Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, ovvero di arrecare ad altri un danno, abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.”

Elementi costitutivi del reato:

  1. Accesso abusivo: la legge punisce chiunque acceda senza autorizzazione, ma il termine “abuso” implica che l’accesso non avvenga per un motivo lecito. In altre parole, se l’accesso è effettuato con il consenso del titolare del sistema o per una finalità legittima, non si configura il reato.
  2. Sistema informatico o telematico protetto: il reato si verifica esclusivamente quando l’accesso riguarda un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza. Questo significa che il sistema deve essere configurato in modo da impedire l’accesso non autorizzato (ad esempio, tramite password, codici, firewall, etc.).
  3. Finalità del reato: il legislatore prevede che l’accesso abusivo avvenga con l’intenzione di procurarsi un profitto o di arrecare danno ad altri. La finalità di danneggiare o trarre vantaggio illecito è un elemento essenziale del reato, anche se non è necessario che il danno o il profitto si materializzino concretamente.

Pene e sanzioni

Chi commette il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è punito con una reclusione da sei mesi a tre anni. La pena varia in base alle circostanze del reato, come la gravità del danno causato, l’entità del profitto ottenuto o altre variabili.

Aggravamenti di pena

Il reato di accesso abusivo inoltre può essere aggravato nei casi in cui l’autore del crimine:

  • sia un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema;
  • se il colpevole per commettere il fatto usa minaccia o violenza sulle cose o alle persone, ovvero se è palesemente armato;
  • se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento ovvero la sottrazione, anche mediante riproduzione o trasmissione, o l’inaccessibilità al titolare del sistema o l’interruzione totale o parziale del suo funzionamento, ovvero la distruzione o il danneggiamento dei dati, delle informazioni o dei programmi in esso contenuti.
  • Il base al comma 3 della norma inoltre se i fatti di cui ai commi primo e secondo riguardino sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico, la pena è, rispettivamente, della reclusione da tre a dieci anni e da quattro a dodici anni.”

Procedibilità del reato

Il comma 4 della norma prevede che nei casi meno gravi contemplati dal comma 1 il reato è perseguibile su querela della persona offesa Nei casi aggravati previsti dai commi 2 e 3  invece si procede d’ufficio.

Ratio del reato di accesso abusivo

Il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici previsto dall’articolo 615-ter c.p è una norma fondamentale per proteggere la sicurezza delle informazioni e la privacy degli utenti. Con l’evoluzione della tecnologia, questo tipo di crimine è diventato sempre più rilevante. Esso. Ha infatti  impatti significativi sia su scala individuale che aziendale. La prevenzione e la protezione sono quindi cruciali per evitare che i dati sensibili vengano compromessi.

Modalità di accesso abusivo

L’accesso abusivo ai sistemi informatici può avvenire in vari modi.

  1. Hacking: attacco informatico in cui il criminale sfrutta vulnerabilità nei sistemi per ottenere accesso senza autorizzazione;
  2. Phishing: tecniche di ingegneria sociale che manipolano l’utente affinché fornisca credenziali di accesso (come username e password), che poi vengono utilizzate in modo illecito.
  3. Malware e virus: introduzione di software dannosi (come virus, trojan horse, ransomware) che compromettono la sicurezza dei sistemi e consentono l’accesso non autorizzato da parte di terzi.
  4. Accesso fisico non autorizzato: alcuni attacchi informatici avvengono quando l’autore del reato ottiene l’accesso fisico ai dispositivi, come computer o server, per sottrarre dati o compromettere il sistema.

Prevenzione e protezione accesso abusivo ai sistemi

Per prevenire il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici, è fondamentale implementare misure di sicurezza adeguate.  Per proteggere.  Sistemi si può ricorrere all’uso di firewall, software antivirus, cifratura dei dati e autenticazione a più fattori (MFA). Inoltre, le aziende e le pubbliche amministrazioni devono investire in formazione del personale. E’ infatti fondamentale sensibilizzare sui rischi legati alla sicurezza informatica e sulle buone pratiche per evitare intrusioni.

 

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giudice predibattimentale

Giudice predibattimentale: non può celebrare il giudizio La Consulta boccia l'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del giudice predibattimentale a celebrare il giudizio dibattimentale

Giudice predibattimentale incompatibilità

Il giudice predibattimentale è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale. E’ quanto ha affermato la Consulta (sentenza n. 179/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale di primo grado il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale, introdotta recentemente nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica dall’art. 32 del d.lgs. n. 150 del 2022, sul modello dell’udienza preliminare.

La qlc

Il Tribunale di Siena ha sollevato la questione di costituzionalità nell’ambito di un procedimento penale nel quale lo stesso giudice, che aveva tenuto l’udienza di comparizione predibattimentale, si trovava ad essere anche investito del giudizio dibattimentale.

Il Tribunale ha rilevato che la censurata norma processuale (art. 554-ter, comma 3, cod. proc. pen.) si limitava a porre la regola secondo cui il giudice del dibattimento sarebbe dovuto essere «diverso» rispetto al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale; ma non prevedeva l’incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen.

Censura fondata

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma Cost., affermando che la mancata previsione, in tal caso, di una vera e propria incompatibilità viola i principi costituzionali di terzietà e imparzialità del giudice, quali presupposti dell’effettività della tutela giurisdizionale.

La Consulta ha, infatti, sottolineato che nelle ipotesi di incompatibilità previste dall’art. 34 cod. proc. pen., l’imparzialità del giudice è compromessa ex sé, in generale e in astratto, diversamente da quanto si verifica nei casi di possibile astensione del giudice per gravi ragioni di convenienza, di cui all’art. 36 cod. proc. pen.; disposizione questa che, invece, si riferisce a situazioni, in cui la terzietà e l’imparzialità del giudice risultano compromesse in concreto, caso per caso.

“La sola prescrizione della diversità del giudice del dibattimento rispetto a quello predibattimentale non è sufficiente ad assicurare la piena garanzia del giusto processo, trattandosi in una fattispecie in cui il pregiudizio all’imparzialità e terzietà del giudice del dibattimento è di gravità tale da dover essere necessariamente prevista in via generale e predeterminata come ipotesi di incompatibilità” ha ritenuto la Corte.

Il giudice delle leggi ha, poi, ritenuto violato anche l’art. 3 Cost., rilevando che il giudice dell’udienza preliminare e il giudice dell’udienza predibattimentale sono soggetti alla medesima regola di giudizio compendiata nel canone secondo cui «il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere» quando «gli elementi acquisiti non consentono» di formulare «una ragionevole previsione di condanna».

La decisione

Invece l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. detta una disciplina ingiustificatamente differenziata nella misura in cui prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio soltanto per «il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare» e non anche per il giudice dell’udienza predibattimentale. Dall’ampliamento dei casi di incompatibilità per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale è conseguita la necessità di assicurare il principio del giusto processo anche con riferimento al giudizio di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, sicché la Corte, in via consequenziale, ha altresì esteso la dichiarazione di illegittimità costituzionale anche a questa ulteriore ipotesi.

certificato carichi pendenti

Certificato carichi pendenti: cos’è e chi può richiederlo Il certificato carichi pendenti serve a conoscere se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico

Il certificato dei carichi pendenti è un documento ufficiale che attesta se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico ed eventuali relativi giudizi di impugnazione. Viene rilasciato dal Ministero della Giustizia e può essere richiesto per una serie di motivi legali, amministrativi o professionali.

Vediamo nel dettaglio cos’è il certificato carichi pendenti, come si richiede e chi può farne richiesta.

Cos’è il certificato carichi pendenti

Il certificato dei carichi pendenti è dunque un documento che certifica la presenza o meno di procedimenti penali in corso a carico di una persona. Questi procedimenti possono riguardare indagini, processi o procedimenti esecutivi che non sono ancora stati definitivi (ad esempio, una sentenza di condanna che non è ancora passata in giudicato). Il certificato, quindi, non riporta condanne definitive (distinguendosi perciò dal certificato del casellario giudiziale), ma solo quelle in corso di svolgimento.

Il certificato ha valore legale ed è spesso richiesto in ambito lavorativo, per la partecipazione a concorsi pubblici, o per altre finalità amministrative e legali.

Come si richiede il certificato carichi pendenti

La richiesta del certificato può essere fatta in vari modi, a seconda delle necessità del richiedente e della modalità che preferisce.

Il certificato viene rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale che ha giurisdizione sul luogo di residenza dell’interessato. Il documento riporta i procedimenti pendenti presso tale ufficio e quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia (DDA), di cui si è ricevuta comunicazione.

Non risultano comunque divieti al rilascio del certificato da parte di una Procura diversa da quella di residenza.

Presso molti uffici giudiziari, inoltre, è possibile prenotare il certificato online tramite l’apposito modulo disponibile nelle procure e sul sito del ministero della Giustizia, unitamente a un documento di riconoscimento in corso di validità.

I certificati prenotati si ritirano allo sportello dell’ufficio locale del casellario selezionato, consegnando il modulo di richiesta prodotto dal sistema ovvero in alternativa il numero di prenotazione assegnato nel corso della procedura online.

Chi può richiedere il certificato

Il certificato carichi pendenti può essere richiesto da:

  • dal diretto interessato o da persona da lui delegata;
  • dalle pubbliche amministrazioni o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l’espletamento delle loro funzioni;
  • dall’autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;
  • dal difensore dell’imputato, nei confronti della persona offesa o del testimone.

Quando viene richiesto il certificato dei carichi pendenti

Il certificato è spesso richiesto in numerosi contesti, tra cui:

Concorsi pubblici

Molti concorsi pubblici, soprattutto per incarichi che implicano responsabilità giuridiche o finanziarie, richiedono che i candidati presentino il certificato dei carichi pendenti per escludere soggetti con procedimenti penali in corso.

Assunzione in aziende private

Alcune aziende, soprattutto nei settori della sicurezza o in posizioni sensibili, possono chiedere il certificato dei carichi pendenti ai propri dipendenti o ai candidati per garantire che non ci siano procedimenti legali in corso.

Procedimenti legali

In caso di contenziosi legali, l’avvocato potrebbe richiedere il certificato per accertare la situazione penale del cliente o della controparte.

Cessione di immobili o altri contratti

In alcune situazioni, come la cessione di beni immobili o la firma di contratti di rilevante valore, può essere richiesto il certificato per verificare l’affidabilità della parte coinvolta.

mentire sul contributo unificato

Mentire sul contributo unificato: cosa si rischia Mentire sul reddito per pagare un contributo unificato inferiore integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche

Reato dichiarare il falso per pagare di meno

Mentire sul reddito percepito per pagare una cifra inferiore di contributo unificato configura il delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. In questo caso l’agente commette il reato previsto dall’articolo 316 ter del codice penale e non il reato di falsità ideologica di cui all’articolo 483 c.p. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 40872/2024.

Falsità ideologica mentire sul reddito

La Corte di appello assolve l’imputata per la particolare tenuità del fatto in relazione al reato di falsità ideologica commesso dal privato in un atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.

La donna, per pagare un contributo unificato inferiore a quello previsto per legge e dovuto in relazione a varie controversie di lavoro avviate, ha dichiarato infatti un reddito inferiore rispetto a quello che successivamente è stato accertato.

Reato ex art. 316 ter c.p.

La donna nel ricorrere in Cassazione contesta però il reato ascrittole. La sua condotta integrerebbe il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p, che assorbe il delitto di falso, come chiarito dalla sentenza “Carchivi”.

Per l’imputata dichiarare un reddito inferiore per ottenere un provvedimento di esenzione dal pagamento di una somma dovuta allo Stato equivale a conferire una somma di denaro a titolo di contributo. Anche in quest’ultimo caso infatti, il dichiarante ottiene un indebito vantaggio in danno della società.

Nel caso di specie tuttavia la soglia di punibilità prevista per il reato di indebita percezione non è stata superata. Il vantaggio economico che la stessa ha ricavato di soli 43,00 euro, pari al risparmio sul contributo unificato dovuto.

Vantaggio economico in danno della società

La Cassazione accoglie il ricorso, perché fondato.

La sentenza Carchivi richiamata dall’imputata ha chiarito infatti che un fatto astrattamente riconducibile al delitto di quellart. 483 cod. pen è assorbito in quello di cui allarticolo 316 ter del medesimo codice quando la dichiarazione falsa è finalizzata ad ottenere un indebita erogazione pubblica.” 

Questo perché il reato punito dall’articolo 316 ter c.p si consuma in presenza di una falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’articolo 483 c.p o con l’uso di un atto falso.

Solo i reati di cui agli articoli 483 c.p e 489 c.p restano assorbiti dall’articolo 316 ter c.p, che concorre invece con altri diritti di falso commessi eventualmente per ottenere erogazioni indebite.

La successiva sentenza “Pizzuto” è giunta alle stesse conclusioni. La stessa ha infatti chiarito che integra il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per lesenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere (…)”.

In questo modo si realizza in effetti un’erogazione ai danni dello Stato, anche in assenza di un esborso, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico a carico della comunità.

Deve quindi affermarsi, nel rispetto della stessa ratio, il principio per il quale il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si configura anche quandola falsa attestazione sulle condizioni reddituali è volta a ottenere lesenzione dal pagamento del contributo edificato.” Questa esenzione permette infatti al soggetto dichiarante di beneficiare di un vantaggio economico  in danno della collettività.

 

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messa alla prova

Messa alla prova e domiciliari sono compatibili I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni

Messa alla prova e domiciliari

La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024.

La vicenda

Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova.
In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse.
L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse.

Presupposti della messa alla prova

La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova,
esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni – spiegano infatti i giudici di legittimità – si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale,  attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”.
Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”.

Portata rieducativa e afflittiva

L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022).
L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali.
Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena.
“In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio – proseguono i giudici – la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”.
Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.”

La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”.

Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare

In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”.
Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”.

La decisione

Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poichè muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio.

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stalking il gps

Stalking il GPS sull’auto dell’ex moglie GPS sull’auto della ex moglie e una serie di condotte vessatorie e persecutorie integrano il reato di stalking

Reato di stalking

Stalking il GPS sullauto della moglie posizionato per monitorarne tutti i movimenti, accompagnato da una serie di condotte vessatorie, offensive  e accusatorie. La Cassazione non si fa convincere dalla versione del marito, quando afferma che il GPS è stato posizionato all’interno dell’auto da un investigatore privato da lui incaricato per dimostrare l’infedeltà della moglie ai fini dell’addebito della separazione. Questo quanto emerge dalla sentenza degli Ermellini n. 40504/2024.

Commette stalking il marito che perseguita l’ex moglie

La Corte d’Appello accoglie l’impugnazione del pubblico ministero e condanna a un anno di reclusione l’imputato per il reato di stalking aggravato ai danni della ex moglie. L’imputato avrebbe messo in atto nei confronti della donna una vera campagna persecutoria. Pedinamenti, offese in presenza di estranei, messaggi telefonici e telefonate in cui la accusava di tradimento. L’uomo inoltre avrebbe posizionato un GPS all’interno dell’abitacolo della donna per poterne monitorare gli spostamenti e le avrebbe danneggiato l’auto con un oggetto appuntito.

Manca il nesso di causa tra condotte e ansia della vittima

L’imputato impugna la decisione in sede di Cassazione e nel terzo motivo contesta l’erronea applicazione dell’art. 612 bis c.p perché manca la prova del nesso di causa tra le condotte ascritte e lo stato d’ansia che la persona offesa ha lamentato. In questo motivo l’imputato precisa inoltre che il GPS è stato collocato all’interno dell’auto della ex moglie da un investigatore privato per finalità collegate all’addebito della separazione. La condotta non rientrerebbe quindi tra quelle contestate e finalizzate al compimento di atti persecutori.

Responsabile di stalking il marito che posiziona il GPS sull’auto della ex

La Corte di Cassazione ritiene l’intero ricorso infondato e quindi non meritevole di accoglimento. Il primo motivo è inammissibile il secondo del tutto infondato. Il terzo è inammissibile perché è finalizzato ad ottenere una rivalutazione delle prove.

Dimostrati ansia e cambiamento abitudini di vita

La Corte d’Appello ha spiegato in maniera coerente e completa la responsabilità dell’imputato per il reato di stalking, ritenendolo colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. L’uomo si è reso responsabile di un sistematico e ossessivo agire persecutorio ai danni della ex moglie, sfociato pedinamenti, insulti gravi e minacce di morte di salute oltreché in intrusione significative della sfera personale.” L’uomo è arrivato addirittura ad installare un dispositivo di localizzazione “GPS” nell’autovettura della donna. Tutte queste condotte, considerate nel loro complesso, risultano idonee a causare uno stato d’ansia e di paura e a provocare la modificazione di numerose abitudini di vita quotidiana. La donna infatti non usciva più da sola, si era munita di uno spray al peperoncino e di un allarme con S.O.S. Il tentativo del ricorrente di far passare i comportamenti vessatori come una conseguenza della conflittualità insorta nel corso della separazione rende il ricorso inammissibile proprio perché in questo modo il ricorrente chiede di rivalutare i fatti sotto un’altra ottica.

 

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sciacallaggio

Sciacallaggio: aggravante del furto Sciacallaggio: approvata dal Senato la proposta di legge che aggrava il furto commesso in occasione di calamità naturali

Sciacallaggio: la proposta di legge

Il Senato della Repubblica il 15 ottobre 2024 ha approvato con 85 voti a favore, 40 contrari e 15 astenuti la proposta di legge 778, che introduce lo sciacallaggio tra le circostanze aggravanti previste dagli articoli 61 e 625 del codice penale e modifica gli articoli 624 e 624 bis c.p. Spetta ora alla Camera approvare il testo.

Nello specifico l’articolo 61 c.p contiene l’elenco delle circostanze aggravanti comuni, l’art. 625 c.p le circostanze aggravanti del reato di furto, l’articolo 624 c.p punisce il reato di furto e l’art. 624 bis il furto in abitazione e con strappo.

Le modifiche al codice penale

In base alle modifiche previste dalla proposta, la circostanza che aggrava il reato quando non ne costituisce elemento costitutivo o aggravante speciale prevista al n. 5 dell’art 61 assume il seguente tenore letterale “l’avere profittato di pubbliche calamità”.

Il comma 3 dell’art. 624 c.p viene così modificato Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia dufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre taluna delle circostanze di cui allarticolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7 bis e otto quater.” 

Il nuovo comma 3 dell’art. 624 bis così dispone: “La pena è della reclusione da 5 a 10 anni e della multa da 1000 euro a euro 2500, quando ricorre taluna delle circostanze aggravanti previste dallarticolo 625, primo comma, ovvero dellarticolo 61. La pena è della reclusione da 6 a 12 anni e della multa da euro 2000 a 5000 euro quando concorrono due o più delle circostanze indicate nel primo periodo.”  

Al comma dell’art 625 c.p dopo il punto 8 ter viene aggiunto il n. 8 quater, il quale dipone che “se ricorre la circostanza di cui all’articolo 61, numero 5.”

Sciacallaggio: ratio della proposta di legge

La proposta di legge n. 778 al Senato, alla Camera n. 2096 introduce misure specifiche per il contrasto al furto e al saccheggio di luoghi o di persone che sono stati colpiti da calamità. La proposta è l’effetto di alcuni fatti incresciosi verificatisi in occasione delle calamità che hanno colpito alcune regioni d’Italia.

L’ordinamento fino a questo momento non aveva mai contemplato il fenomeno dello sciacallaggio con disposizioni specifiche. La giurisprudenza, al verificarsi dello sciacallaggio, si sempre limitata ad applicare le forme aggravate dei reati di furto e di furto in abitazione. In alternativa altri giudici hanno ritenuto che le circostanze di tempo e di luogo che caratterizzano le calamità naturali potessero integrare, in caso di furto, la circostanza aggravante della minorata difesa.

Con questa proposta l’aggravante specifica che viene introdotta colma una lacuna presente nel nostro ordinamento grazie a un’ipotesi di furto aggravata commessa durante eventi calamitosi o disgrazie che si abbattono sulla popolazione e quindi ancora più deprecabile in quanto ricadente su soggetti in stato di grave difficoltà e bisogno.

 

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non punibile chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte Non punibile chi copia senza menzionare la fonte da cui ha attinto e chi offende  su Facebook se i fatti sono particolarmente tenui

Particolare tenuità del fatto per chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte da cui ha attinto e chi rivolge frasi ingiuriose alla persona offesa su Facebook se i fatti si caratterizzano per la particolare tenuità prevista dall’art. 131 bis c.p. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 39647/2024.

Imputati assolti per particolare tenuità dei fatti commessi

La Corte d’appello riformando la sentenza di primo grado assolve uno degli imputati dal reato previsto dall’articolo 171 della legge n. 633/1941. Il soggetto agente è stato ritenuto responsabile di avere trascritto e diffuso senza autorizzazione e senza citare la fonte la parte di un libro, opera dell’ingegno tutelata dalla normativa sul diritto d’autore. L’imputata invece è stata assolta “per la particolare tenuità del fatto” dal reato di cui all’art. 595 commi 1 e 3. La stessa è stata accusata di aver offeso la persona offesa su Facebook rivolgendole frasi ingiuriose. La sentenza revoca inoltre le statuizioni civili del giudice di primo grado con cui aveva condannato le parti a risarcire la parte civile con l’importo complessivo di 5.500,00 euro.

Errato ritenere non punibile chi copia e chi offende

La parte civile ricorre la decisione in Cassazione lamentando principalmente l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis c.p e contestando la revoca delle statuizioni civili.

Assoluzione per particolare tenuità

La Cassazione però ritiene inammissibile l’impugnazione della parte civile relativa alla concessione agli imputati del beneficio della non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Per la S.C. il ricorso della parte civile è inammissibile per carenza di interesse considerato che il pubblico ministero non ha impugnato la sentenza che ha dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La statuizione della non punibilità non produce infatti alcun effetto pregiudizievole per il danneggiato nel giudizio civile in base a quanto sancito dall’articolo 652 bis c.p.p Il comma 1 di questa norma dispone infatti che: “La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.”

 

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