stalking

Stalking abusare della genitorialità ai danni dell’ex Stalking: il reato viene integrato anche dall’abuso della genitorialità quando esercitata in danno dell’ex  

Reato di stalking l’abuso della genitorialità

Il reato di stalking si configura anche quando i diritti e i doveri connessi alla genitorialità vengono esercitati oltre i limiti fissati dal giudice. O quando ad esempio il diritto di visita viene svolto oltre i limiti del diritto/dovere di assistenza morale e materiale del minore. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 2732/2025.

Stalking: doppia condanna

La Corte d’appello conferma la condanna nei confronti dell’imputato per il delitto di atti persecutori perpetrato in danno della donna alla quale è stato legato da una relazione affettiva.

Abuso della genitorialità insussistente

Il difensore dell’imputato impugna la decisione in Cassazione. Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce l’errata valutazione delle dichiarazioni della parte civile costituita e delle persone legate alla stessa. La Corte avrebbe dovuto riconsiderare la versione dei fatti fornita da questi soggetti, stante la divergenza di questa rispetto alla pacificità dei fatti. Con il quarto e il quinto motivo invece denuncia il vizio di motivazione sulla prova dell’elemento soggettivo del reato di stalking e della sussistenza degli eventi integrativi del reato. L’imputato afferma di non aver mai voluto interferire nella vita privata dell’ex compagna. Lo stesso si sarebbe limitato a coltivare il rapporto con il figlio minore. Il tutto senza effetti negativi sulla madre del minore, che, in piena libertà e autonomia ha scelto di trasferirsi nella città in cui lavorava e frequentava amici. Il PG della Cassazione e il difensore della donna chiedono il rigetto del ricorso.

Stalking esercizio genitorialità fuori dai limiti

Gli Ermellini respingono il ricorso perché infondato. Il terzo motivo del ricorso in particolare risulta inammissibile. Le argomentazioni relative alla censura sulla valutazione delle dichiarazioni rese dai testi a favore della parte civile sono generiche e ripetono doglianze già respinte nel merito. La Cassazione ribadisce che tali doglianze non sono consentite in sede di legittimità se dirette a una nuova valutazione o rilettura dei fatti.

La S.C. non condivide neppure le critiche dell’imputato relative all’apprezzamento delle prove, che smentirebbero la versione dei fatti così come descritta dalla parte civile. Dal verbale dell’udienza celebrata davanti al Tribunale per i Minorenni emerge in sostanza che l’imputato ha minacciato la parte civile di portarle via il figlio. Dalla motivazione della sentenza impugnata emerge inoltre “l’ossessione dell’imputato per l’ex compagna, cui aveva cagionato un forte stress emotivo appostandosi continuamente presso la sua abitazione e il luogo di lavoro.”

La Cassazione ricorda inoltre chel’esercizio dei diritti e dei doveri genitoriali nei confronti dei figli, avvenuto con modalità che esorbitino dai limiti fissati dalla regolamentazione del giudice civile ex art. 337-ter cod. proc. o, comunque, dai limiti del diritto/dovere di assistenza morale e materiale del minore stesso (ad esempio del diritto di visita) costituisce abuso del diritto alla genitorialità e non può essere fatto valere neppure alla stregua di scriminante putativa, come tale suscettibile di escludere l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.” 

Condotta ossessiva e molesta dell’ex

Nel caso di specie è indubbio che l’imputato abbia abusato della propria genitorialità per danneggiare la ex compagna. L’uomo non si è “limitato a far visita al figlio minore o a cercare di incontrarlo”. Lo stesso ha tenuto una “condotta ossessiva, reiteratamente molesta e intrusiva nella vita della stessa ex compagna, cui aveva creato un grave e perdurante stato d’ansia.”

Respinto anche l’ultimo motivo. I giudici di merito hanno infatti ritenuto, in maniera conforme, che le condotte ossessive, reiteratamente moleste e intrusive, tenute dall’imputato nei confronti della sua ex convivente, avevano avuto un’incidenza negativa sull’equilibrio psichico della donna, che aveva dovuto cambiare il luogo di residenza ed aveva subito il persistente patema d’animo discendente dal rischio di incontrare il ad integrare gli eventi del delitto di atti persecutori”.

Eventi che non sono stati smentiti dal ricorrente, che non è stato in grado di fornire prove contrarie decisive.

 

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guida sotto effetto

Guida sotto effetto di stupefacenti: servono gli esami Guida sotto effetto di stupefacenti: non bastano gli elementi sintomatici e il sì all'esame del sangue esclude quello delle urine

Guida sotto l’effetto di stupefacenti ed esami

Guida sotto effetto di stupefacenti: non è configurabile il reato previsto dall’articolo 187, comma 8 del Cds se il soggetto alla guida rifiuti il prelievo delle urine acconsentendo al prelievo ematico, già sufficiente. Lo ha chiarito la quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 30617/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di L’Aquila, confermava la sentenza di primo grado con cui il ricorrente veniva dichiarato colpevole del reato previsto e punito dall’articolo 187, commi 3 e 8, del decreto legislativo 285/1992, perché, dopo essere stato fermato alla guida di una autovettura per un controllo sulla circolazione stradale, sebbene invitato dagli operanti di polizia giudiziaria, si era rifiutato di sottoporsi all’accertamenti sanitari per accertare l’effettiva assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, e veniva perciò condannato alla pena di mesi 8 di arresto ed euro 1800 di ammenda, oltre ad essere sanzionato con la sospensione della patente di guida per anni 1.
La Corte aveva evidenziato che nel corso del controllo eseguito dalla polizia giudiziaria in occasione di un sinistro stradale, l’uomo aveva manifestato segni di alterazione psico-fisica e pertanto gli operanti lo avevano invitato a sottoporsi all’accertamento per verificare il tasso alcolemico e l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. Atal fine si era recato in ospedale, dove aveva accettato di sottoporsi al prelievo del sangue che aveva dato risultato negativo ma, subito dopo, si era allontanato dal pronto soccorso, rifiutandosi di fornire anche un campione delle urine per l’esame tossicologico.

Pertanto, la corte distrettuale riteneva integrata la contravvenzione prevista dalla norma indicata, atteso che l’imputato avrebbe prestato il consenso soltanto ad una verifica parziale mediante esame ematico, rifiutando il prelievo di altri campioni biologici.

Il ricorso

L’imputato, a mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per cassazione, deducendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte distrettuale, si era reso disponibile a sottoporsi all’esame ematico, idoneo ad entrambi gli accertamenti alcolemico e tossicologico, dovendosi perciò ritenere che non aveva opposto il rifiuto di sottoporsi all’accertamento richiesto. Richiamava in proposito precedenti giurisprudenziali riguardanti casi analoghi, in cui era stato affermato che l’aver comunque accettato di sottoporsi a prelievo ematico, pienamente sufficiente anche ai fini dell’accertamento dell’assunzione di sostanze stupefacenti, rendeva superfluo il compimento dell’ulteriore analisi delle urine.
Peraltro, la sentenza, a dire del ricorrente, risulterebbe carente di motivazione, non avendo fornito alcuna spiegazione sul fatto che l’esame ematico non potesse essere utilizzato per entrambi gli accertamenti alcolemico e tossicologico.

Rifiuto prelievo campioni biologici

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.

La disposizione di cui all’art. 187, comma 8, Cod. Strada «non sanziona il rifiuto opposto ad
un particolare prelievo di campioni biologici quanto, piuttosto, la condotta ostativa ovvero deliberatamente elusiva dell’accertamento di una condotta di guida indiziata di essere
gravemente irregolare e tipicamente pericolosa» (cfr. Cass. n. 43864/2016).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, non é configurabile li reato previsto dall’art. 187, comma 8, cod. strada, nel caso in cui il soggetto alla guida di un’autovettura rifiuti un tipo di prelievo (ad esempio il prelievo delle urine), acconsentendo ad altro prelievo di liquidi biologici (ad esempio il prelievo ematico), anch’esso idoneo a dimostrare l’assunzione di sostanza stupefacente (cfr., ex multis, Cass. n. 49507/2015).

Va pure ricordato, affermano dal Palazzaccio, che, “ai fini della configurabilità del reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, lo stato di alterazione del conducente dell’auto non può essere desunto in via esclusiva da elementi sintomatici esterni, così come avviene per l’ipotesi di guida in stato di ebbrezza alcolica, essendo necessario che detto stato di alterazione venga accertato nei modi previsti dall’art. 187 C.d.S., comma 2, attraverso un esame su campioni di liquidi biologici, trattandosi di un accertamento che richiede conoscenze tecniche specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze”.

La decisione

Nel caso di specie, risulta assodato che il ricorrente aveva accettato di sottoporsi al prelievo ematico “che ben poteva, in ipotesi, essere utilizzato anche per l’accertamento della presenza nel sangue di sostanze stupefacenti. Pertanto, raccordando i principi richiamati al caso concreto, considerato che il prelievo ematico è astrattamente idoneo ai fini della suddetta verifica, deve escludersi che sia stata correttamente motivata la sussistenza del ritenuto rifiuto, non essendo – in linea generale – indispensabile il compimento di un’analisi su due diversi liquidi biologici dell’imputato”.
Nella sentenza impugnata non è in alcun modo spiegato perché fosse necessario che l’uomo dopo aver dato il consenso ed essersi sottoposto al prelievo ematico, fornisse un secondo campione biologico. Per cui, la sentenza impugnata è annullata con rinvio per nuovo giudizio.

 

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decreto giustizia

Decreto giustizia: tutte le novità Decreto giustizia n. 178/2024: legge di conversione in vigore. Tutte le novità sul sistema giudiziario e sulla tutela delle vittime

Decreto giustizia: in vigore la legge

Il ddl di conversione del Decreto giustizia n. 178/2024, contenente “Misure urgenti in materia di giustizia”, approvato definitivamente dalla Camera  (C. 2196) il 21 gennaio 2025 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 24 gennaio per entrare in vigore il 25 gennaio 2025.

Vedi il dossier sul ddl di conversione del Decreto giustizia

La legge (4/2025), composta da 11 articoli, introduce diverse disposizioni per rafforzare il sistema giudiziario. Il testo dedica anche particolare attenzione alla tutela delle vittime di violenza di genere, alla gestione delle misure cautelari e all’organizzazione interna della magistratura.

Vai al testo coordinato del decreto legge 178/2024 con la legge di conversione n. 4/2025 

Vittime di violenza: novità sul braccialetto elettronico

Il decreto giustizia potenzia gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria per proteggere le vittime di violenza di genere e atti persecutori. In particolare, vengono perfezionate le norme sulle modalità di utilizzo del braccialetto elettronico. La polizia giudiziaria, prima che il giudice decida la misura cautelare, deve verificare la fattibilità tecnica e operativa dello strumento e non più solo la sua disponibilità materiale.

Questo controllo tiene conto dei seguenti aspetti:

  • caratteristiche dei luoghi coinvolti;
  • distanze e copertura della rete;
  • qualità del collegamento e tempi di invio dei segnali;
  • capacità gestionale dello strumento.

Un rapporto dettagliato su queste verifiche deve essere trasmesso all’autorità giudiziaria, senza ritardo e comunque entro 48 ore. Se il braccialetto non è tecnicamente od operativamente idoneo, il giudice può adottare misure più severe, anche in combinazione con quelle già in atto.

In caso di violazioni gravi o reiterate delle prescrizioni imposte, il giudice ha la facoltà di revocare gli arresti domiciliari e optare per la custodia cautelare in carcere, ad eccezione di quei casi in cui il fatto sia di lieve entità.

Proroga elezioni giudiziarie e misure magistratura

Un’altra importante disposizione della nuova legge 4/2025 riguarda la proroga delle elezioni per i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, che il decreto, ora differisce ad aprile 2025. Questa decisione permette di riallineare le date elettorali alle recenti modifiche normative e assicurare una gestione più fluida delle procedure di rinnovo.

Il decreto giustizia modifica inoltre i criteri per il conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti (anche superiori) di legittimità, riservandoli ai magistrati che garantiscono almeno due anni di servizio prima del collocamento a riposo, anziché quattro.

In vista della piena operatività del nuovo Tribunale per le persone, i minorenni e la famiglia, si introduce una deroga temporanea ai limiti di permanenza nell’incarico per i magistrati già assegnati a procedimenti familiari. La deroga vale fino alla decorrenza del termine di tre anni dalla pubblicazione sulla GU del decreto legislativo n. 149/2022, che ha attuato la Riforma Cartabia. La misura intende incentivare l’integrazione dei magistrati esperti nella nuova struttura.

Formazione e impiego dei giudici onorari

La legge di conversione del decreto giustizia inoltre prevede per i magistrati che abbiano già ottenuto il conferimento o che si siano visti confermare incarichi direttivi di primo o secondo grado l’obbligo di frequentare, entro sei mesi dal conferimento dello stesso, corsi di formazione. La modifica, che posticipa l’obbligo formativo rispetto al conferimento, riduce i tempi burocratici, agevolando una più rapida assegnazione delle responsabilità.

Il periodo di assegnazione dei giudici onorari di pace all’ufficio del processo è ridotto da due anni a 6 mesi (termine questo ridotto ulteriormente in Commissione, rispetto al precedente termine annuale). Questa decisione punta a rendere più efficiente l’impiego delle risorse selezionate, velocizzando il loro contributo concreto all’attività giudiziaria.

Emergenza carceraria ed edilizia penitenziaria

Modificata anche la disciplina che riguarda il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, il cui incarico viene esteso fino al 31 dicembre 2026, rispetto al termine del 31.12.2025 previsto. L’obiettivo è di affrontare con maggiore efficienza la crisi del sistema carcerario, migliorando le strutture e ottimizzando l’allocazione delle risorse.

Il Commissario riceverà un compenso, che sarà stabilito “in ragione della complessità dell’incarico” e ogni anno, entro il 30 giugno, dovrà inviare una relazione sullo stato di attuazione del programma al Ministero della Giustizia, a quello delle Infrastrutture e dei Trasporti e a quello dell’Economia e delle Finanze.

Insolvenza, INAIL e lavori di pubblica utilità

Il provvedimento all’articolo 8 chiarisce alcune disposizioni transitorie relative al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, stabilendo la vigenza di alcune disposizioni in relazione a determinati procedimenti e la validità, senza necessità di rinnovo, di alcuni atti procedimentali.

Si introducono anche misure specifiche per estendere la copertura INAIL ai soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità, pena sostituiva per reati che vengono puniti con la pena detentiva non superiore a tre anni. Questa previsione amplia le tutele per i lavoratori, garantendo un maggiore riconoscimento della loro attività.

 

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capacità di stare in giudizio

Capacità di stare in giudizio: salute mentale e psicofisica equiparabili Capacità di stare in giudizio: l’autodeterminazione può essere pregiudicata da problemi psicofisici, la compromissione va provata

Capacità di stare in giudizio: il pregiudizio fisico rileva?

Sulla capacità  di stare in giudizio rileva anche il pregiudizio fisico se compromette la percezione e la coscienza. Queste alterazioni  però devono essere debitamente provate. Questo in breve il principio espresso dalla Cassazione n. 47299/2024.

Compromissione della capacità di stare in giudizio

La Corte d’appello ha confermato la condanna emessa dal Tribunale e ha ritenuto l’imputato responsabile di molteplici reati fiscali ai sensi del d.lgs. n. 74/2000. Tra questi figurano l’occultamento di scritture contabili e la dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti. La pena inflitta è stata di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Un aspetto rilevante del procedimento è la questione della capacità di stare in giudizio, sollevata dalla difesa dell’imputato. Questo tema, connesso all’autodeterminazione dell’imputato durante il processo, ha suscitato particolare interesse alla luce di una recente pronuncia della Corte costituzionale.

La difesa dell’imputato ha infatti presentato ricorso per cassazione sollevando dubbi sulla capacità del suo assistito di agire consapevolmente nel processo.

La difesa ha contestato il mancato esperimento di una perizia volta a verificare se l’imputato, successivamente al 19 gennaio 2011, fosse in grado di comprendere e valutare le proprie azioni. Tale data coincide con un grave evento traumatico subito dall’imputato. Lo stesso ha anche sostenuto che le condizioni psicofisiche dell’imputato abbiano compromesso la sua capacità di autodeterminarsi e partecipare consapevolmente al procedimento. La Corte d’appello però aveva ritenuto irrilevanti i certificati medici prodotti dalla difesa.

Condizioni psicofisiche pregiudicano le facoltà cognitive

Per la difesa è necessario considerare che la Corte costituzionale, con sentenza n. 65/2023, ha ampliato il concetto di incapacità di stare in giudizio. La stessa ha infatti dichiarato illegittimi gli articoli del codice di procedura penale che limitano tale incapacità al solo stato mentale, escludendo altre condizioni psicofisiche. La Corte ha sottolineato che anche situazioni di disabilità fisica possono compromettere facoltà essenziali quali coscienza, pensiero, percezione ed espressione, analogamente alle disabilità mentali.

I certificati medici prodotti dalla difesa però non hanno dimostrato una compromissione significativa delle facoltà cognitive o decisionali dell’imputato. Questo per due motivi. I certificati attestavano una “lesione ischemica acuta ed epilessia secondaria”, ma non indicavano problemi specifici relativi alla coscienza o alla percezione. L’imputato inoltre, seppur colpito da problemi di salute, aveva continuato a operare, anche con l’aiuto della moglie.

Capacità di stare in giudizio: l’alterazione va dimostrata

La Corte di Cassazione ha dichiarato quindi manifestamente infondati i motivi relativi alla capacità di intendere e di volere e alla capacità di stare in giudizio. Secondo la giurisprudenza consolidata, la richiesta di perizia è ammissibile solo se supportata da concreti elementi di dubbio sull’imputabilità. Nel caso specifico, tali elementi non sono emersi. La documentazione prodotta attestava patologie fisiche, ma non dimostrava che queste avessero compromesso la capacità dell’imputato di partecipare consapevolmente al processo. Inoltre, i problemi di salute citati si erano manifestati ben oltre la data della sentenza di secondo grado e non erano riconducibili al periodo rilevante per il giudizio.

La capacità di stare in giudizio rappresenta un principio fondamentale nel diritto processuale penale. La partecipazione consapevole dell’imputato garantisce il rispetto del diritto di difesa e la legittimità del processo. La sentenza della Corte costituzionale ha introdotto una visione più inclusiva, riconoscendo l’incidenza delle condizioni psicofisiche. Tuttavia, resta fondamentale che tali condizioni siano adeguatamente documentate e rilevanti per il periodo processuale in esame. Sebbene la difesa abbia tentato di dimostrare l’incapacità dell’imputato, le evidenze fornite nel caso di specie non sono state ritenute sufficienti. Dalla sentenza emerge quindi l’importanza di un quadro probatorio solido e puntuale per sollevare dubbi concreti sull’idoneità dell’imputato a partecipare al processo.

 

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giudizio abbreviato

Giudizio abbreviato escluso per i delitti puniti con ergastolo Giudizio abbreviato: la Corte Costituzionale conferma la legittimità dell'art. 438, comma 1-bis del codice di procedura penale

Giudizio abbreviato e delitti puniti con l’ergastolo

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 2/2025, depositata il 17 gennaio 2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale. Tale norma prevede l’inammissibilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, confermando così la scelta del legislatore di escludere per questi reati la possibilità di accedere al rito premiale.

La normativa contestata

L’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., introdotto con modifiche normative recenti, stabilisce che il giudizio abbreviato non può essere richiesto per i delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo.

Questa disposizione, secondo la Corte di assise di Cassino rimettente, violerebbe i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e diritto alla difesa, creando una disparità di trattamento rispetto ad altri imputati che possono accedere ai benefici del rito abbreviato.

Le questioni di legittimità sollevate

Nella specie, la Corte era stata chiamata a giudicare la responsabilità di un imputato per il reato di omicidio aggravato da motivi abietti e futili per il quale è prevista la pena dell’ergastolo. L’imputato aveva chiesto il rito abbreviato e il Gip aveva dichiarato la richiesta inammissibile atteso che il delitto rientrava, appunto, nella previsione di cui all’art. 438, comma 1-bis, c.p.p.

Ciò, secondo la corte rimettente contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., accomunando fattispecie di reato punite con la pena dell’ergastolo con altre che, invece, come nel caso di specie, pervengono a tale pena soltanto in ragione della contestazione delle circostanze aggravanti.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, respingendo le questioni di legittimità, ha affermato che l’art. 438, comma 1-bis, c.p.p. non viola i principi costituzionali invocati.

La Corte ha sottolineato che l’esclusione del rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo è una scelta discrezionale del legislatore, finalizzata a preservare la gravità del trattamento sanzionatorio per i reati più gravi e a garantire il pieno svolgimento del contraddittorio nelle fasi dibattimentali.

Secondo la Corte, inoltre, richiamando un precedente (cfr. sent. n. 163/1992), “l’esclusione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo risponde a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, tenuto conto della particolare rilevanza sociale e morale di tali delitti, nonché della necessità di assicurare un’adeguata valutazione probatoria in sede dibattimentale.”

Per cui non vi è alcuna “ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee”.

appropriazione indebita

Appropriazione indebita trattenere i beni mobili dell’ex marito Appropriazione indebita: scatta il reato per la moglie che deve lasciare l’immobile assegnato e trattiene i beni dell’ex marito

Reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita scatta nel momento in cui l’assegnatario dell’immobile, obbligato, in sede di divorzio, a lasciare l’abitazione, continua a trattenere i beni altrui. La mancata restituzione dei beni dell’ex coniuge presenti nella casa coniugale assegnata durante la separazione, non costituisce infatti automaticamente reato.

Il possesso dei beni durante la separazione può quindi essere considerato lecito, purché i beni stessi facciano parte del corredo della casa coniugale. Se però sopravviene l’obbligo legale di liberare l’immobile, la volontà di non restituire i beni configura un illecito penale. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 47057/2024.

Reato trattenere i beni mobili dell’ex coniuge

La Corte di Appello di Catania ha confermato una sentenza del Tribunale di Ragusa del 2020. La condanna riguardava un caso di appropriazione indebita da parte di una donna nei confronti dell’ex coniuge. La donna aveva trattenuto beni di pregio appartenenti all’ex marito, che facevano parte dell’arredamento della loro ex casa coniugale.

La ricorrente per opporsi alla condanna si è rivolta alla Corte di Cassazione, sostenendo due punti principali. Ha contestato la tardività della querela presentata dall’ex marito e ha invocato l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale, che esclude la punibilità per reati tra coniugi non separati legalmente. La difesa ha sostenuto anche che l’ex marito era consapevole, già dal 2009, dell’intenzione della donna di non restituire i beni. Inoltre, ha affermato che il presunto reato si sarebbe verificato quando il matrimonio era ancora in vigore, quindi prima del divorzio del 2015.

Inapplicabile l’art. 649 c.p. se la coppia è divorziata

La Corte di Cassazione però ha giudicato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le motivazioni della difesa per diversi motivi.

La proprietà dei beni contestati non era mai stata messa in discussione. Il possesso dei beni però era stato inizialmente attribuito alla donna, in quanto parte dell’arredamento della casa coniugale assegnata a lei durante il divorzio. Il comportamento della donna non ha quindi configurato il reato di appropriazione indebita fino all’estate del 2017.

Nel corso di questo anno però la donna ha asportato i beni dalla casa coniugale e li ha consegnati a un antiquario per la vendita. Questo comportamento è stato ritenuto il primo atto concreto di appropriazione indebita. Di questi fatti l’ex marito è venuto a conoscenza solo nell’agosto 2017, la querela, presentata il 16 agosto 2017, è stata quindi tempestiva.

La Corte ha respinto anche l’applicazione dell’articolo 649 del codice penale. Il reato è stato commesso in effetti dopo il divorzio, quindi non rientra nei casi di non punibilità previsti dalla norma. Dalla sentenza emerge in conclusione che l’appropriazione indebita di beni mobili rappresenta un reato perseguibile anche tra ex coniugi, soprattutto quando il comportamento illecito avviene dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.

 

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custodia cautelare

Custodia cautelare: vietato pubblicare l’ordinanza Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il decreto che vieta la pubblicazione delle ordinanze nel corso delle indagini preliminari

Custodia cautelare: divieto pubblicazione ordinanza

Il Consiglio dei ministri interviene sulla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Il 9 dicembre 2024, per attuare gli impegni comunitari, il CdM ha infatti approvato in via definitiva il decreto legislativo che adegua la legge italiana alla Direttiva UE 2016/343, attraverso l’attuazione dell’art. 4 della legge di delegazione europea n. 15/2024.

Ordinanza di custodia cautelare: finalità del divieto

Il testo di legge approvato vuole perseguire diversi obiettivi:

  • integrare quanto già previsto dal decreto legislativo n. 188/2021;
  • garantire la piena attuazione della presunzione di innocenza contemplata dall’art. 27 della Costituzione “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”;
  • rafforzare il diritto di presenza nei procedimenti penali.

Articolo 114 c.p.p: divieto di pubblicazione di atti e immagini

Per garantire in modo più efficace la presunzione di innocenza del soggetto indagato o imputato in un procedimento penale il testo interviene sull’articolo 114 del codice di procedura penale, che contiene il divieto di pubblicazione di atti e di immagini dei procedimenti penali.

In estrema sintesi il testo di legge, soprannominato “legge bavaglio” dagli organismi di rappresentanza dei giornalisti, prevede il divieto di pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino al termine delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare.

Questo perchè le ordinanze cautelari sono quei sempre il risultato di una valutazione sommaria del PM nella fase delle indagini preliminari, che si caratterizzano per l’assenza di contraddittorio.

Emendamento “Costa”

Il provvedimento adottato non rappresenta una novità assoluta. L’emendamento al disegno di legge di delegazione europea è stato soprannominato “Costa” dal nome del proponente Enrico Costa. In base a questo emendamento, se un soggetto viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare si potrà procedere solo alla pubblicazione delle seguenti informazioni:

  • riassunto dell’atto giudiziario;
  • nome del destinatario dell’ordinanza;
  • ragioni dell’emissione del provvedimento.

Custodia cautelare: divieto di pubblicazione nella proposta di legge 2022

Il deputato Costa è lo stesso che il 29 novembre 2022 aveva presentato una proposta di legge (C. 653) alla Camera dei deputati contenente “Modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, in materia di pubblicazione delle ordinanze che dispongono misure cautelari.”

La proposta, che interveniva sull’articolo 114 c.p.c, prevedeva, in un unico articolo  le seguenti modifiche: “a) al comma 2, le parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292 » sono soppresse; b) al comma 7 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, fatta eccezione per lordinanza indicata dallarticolo 292, della quale è consentita esclusivamente la pubblicazione del nome e cognome del destinatario del provvedimento e dei delitti per i quali si procede.”

Nel discorso di presentazione della proposta il deputato denunciava l’eccessiva leggerezza con cui troppo spesso vengono disposte le misure cautelari e l’impiego delle stesse come forma “mascherata” di anticipazione della pena. La pubblicazione di queste ordinanze sui giornali di conseguenza viene percepita dall’opinione pubblica come una “sentenza di condanna” anticipata, che genera confusione, soprattuto se l’indagato non viene poi ritenuto responsabile.

Per evitare queste storture è necessario quindi impedire la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelari fino a quando non siamo concluse le indagini preliminari o l’udienza preliminare. Per questo nella proposta di legge il deputato limitava la pubblicazione alle informazioni indispensabili rappresentate dal nome e cognome del destinatario e dal delitto per il quale si doveva procedere.

 

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censura corrispondenza al 41-bis

Censura corrispondenza al 41-bis: quali limiti Non si può censurare tout court la corrispondenza al 41-bis senza l'applicazione graduale del solo visto di controllo

Carcere duro e corrispondenza

Censura corrispondenza al 41-bis: è inapplicabile senza l’applicazione graduale dello strumento ordinario del visto di controllo. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41191/2024 accogliendo il ricorso di un detenuto in regime detentivo speciale.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli ha confermato, in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 18 ter ord. pen., il provvedimento in tema di limiti alla ricezione e visto di corrispondenza emesso dalla Corte di Assise di Appello di Napoli nei confronti di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. pen.
Secondo il Tribunale le limitazioni alla ricezione di quotidiani dell’area geografica di provenienza del detenuto, così come il limite alla possibilità di inoltrare o ricevere (in via generale) missive da qualsiasi altro soggetto sottoposto al regime differenziato di cui all’art.41 bis ord. pen. sono del tutto legittime, in riferimento alle finalità perseguite dal regime differenziato.

Il ricorso

Avverso detta decisione l’uomo ha proposto ricorso per cassazione – nelle forme di legge – deducendo erronea applicazione di legge e assenza di motivazione.
La critica difensiva si dirige alla parte della decisione relativa al divieto «generalizzato» di scambi epistolari con soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen. In proposito, si osserva che la legge non consente un simile divieto «preventivo e generalizzato», quanto la sottoposizione al «visto di controllo», dunque ad una attività di analisi dei contenuti delle missive, a chiunque dirette.

Limitazioni alla corrispondenza epistolare

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. “La disposizione di legge di cui all’art. 18 ter ord.pen. consente sia «limitazioni» alla corrispondenza epistolare che la «sottoposizione» al visto di controllo, sì da inibire forme di possibile prosecuzione o realizzazione di attività illecita. lI testo dell’articolo 41 bis ord. pen, in rapporto alla finalità di prevenire contatti con l’ambiente criminale di provenienza, indica come contenuto «necessario» del provvedimento applicativo la «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza».” Del resto, il soggetto sottoposto al 41-bis ha contatti con gli altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (parimenti sottoposti al regime differenziato).
Pertanto, osservano ancora i giudici, “non appare del tutto in linea con il contenuto delle disposizioni di legge, pur in un contesto di maggior tutela dei profili di sicurezza come è quello del regime differenziato, prevedere in assoluto e in via generale un «divieto» di corrispondenza epistolare tra soggetti – tutti – sottoposti al regime differenziato, posto che proprio il contenuto «strutturale» della disposizione di cui all’art. 41 bis ord. pen. induce a ritenere che lo strumento di controllo tipico è rappresentato dal «visto di censura», con verifica caso per caso del contenuto della comunicazione”.

La decisione

Le ‘limitazioni’ di cui all’art. 18 ter comma 1 lettera a), in riferimento al tema della corrispondenza, “è da ritenersi, dunque – concludono dal Palazzaccio annullando il provvedimento impugnato – che possano essere adottate solo in presenza di specifiche esigenze di sicurezza, da motivarsi in modo stringente, che rendano – in ipotesi – non sufficiente lo strumento ordinario del visto di censura”. Parola al giudice del rinvio.

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Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante della pubblicità Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante delle pubblicità, la chat conserva una sua riservatezza, non è un sito o un social media

Diffamazione su una chat di WhatsApp

Esclusa la diffamazione aggravata dal mezzo della pubblicità del messaggio offensivo su una chat di WhatsApp. Lo ha stabilito la sentenza n. 42783/2024 della Corte di Cassazione. La decisione ha stabilito infatti che l’invio di un messaggio offensivo su una chat di WhatsApp non comporta automaticamente l’applicazione dell’aggravante del “mezzo di pubblicità”. La sentenza chiarisce che l’uso di piattaforme come WhatsApp, anche se coinvolge numerosi partecipanti, non equivale a una comunicazione pubblica. La riservatezza intrinseca di queste chat limita la diffusività del messaggio e impedisce l’applicazione automatica di aggravanti legate alla pubblicità.

Militare assolto dal reato di diffamazione

Il caso di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda un militare, accusato di aver diffamato una collega tramite un commento offensivo inviato a una chat WhatsApp denominata “181 ESEMPIO”, composta da 156 membri. Per l’accusa il numero di iscritti configura l’aggravante del “mezzo di pubblicità”, rendendo il reato procedibile d’ufficio. Tuttavia, il giudice di primo grado ha assolto l’imputato per “particolare tenuità del fatto” ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale.

La Corte Militare d’Appello ha confermato la condanna, sostenendo la natura pubblica della comunicazione nella chat. Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell’imputato ha sollevato tre punti: erronea identificazione della persona offesa, contraddittorietà nella qualificazione dell’offesa e impropria applicazione della legge riguardo alla presunta “pubblicità” del messaggio.

Aggravante della pubblicità inapplicabile

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso in merito all’errata applicazione dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Secondo i giudici, una chat WhatsApp, seppur con numerosi iscritti, conserva una dimensione riservata e non può essere equiparata a strumenti come social network o siti web pubblici. La decisione si basa su un’analisi dettagliata delle caratteristiche tecniche della piattaforma. La sentenza distingue infatti i mezzi di comunicazione in grado di raggiungere un pubblico indeterminato dagli strumenti più circoscritti come le chat private.

Aggravante della pubblicità configurabile su social e siti web

Nelle piattaforme social, come Facebook, la diffusione di contenuti può teoricamente raggiungere un numero indefinito di utenti, configurando una “pubblicità” che giustifica l’applicazione dell’aggravante. Nel caso delle chat WhatsApp, invece, il messaggio è accessibile solo agli iscritti, i quali devono essere stati precedentemente accettati nel gruppo. Questa caratteristica preserva un elemento fondamentale di riservatezza, anche se il numero di membri può essere elevato. La Cassazione sottolinea che la diffusione di un messaggio all’interno di un gruppo chiuso non determina automaticamente la “perdita di riservatezza”. Con l’esclusione dell’aggravante, il reato contestato al militare è procedibile solo su querela di parte e non d’ufficio. La mancanza di una querela valida ha quindi portato all’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello, rendendo improcedibile il caso.

 

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reato di truffa

Reato di truffa accodarsi all’auto davanti per non pagare Telepass Reato di truffa: integrato anche quando ci si accoda all’automobile che precede nella pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio 

Reato di truffa non pagare i pedaggi autostradali

Il reato di truffa punito dall’art. 640  c.p, rappresenta una fattispecie complessa che si configura anche quando, come nel caso di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 42760/2024, con più azioni dello stesso disegno criminoso, un soggetto compie più passaggi autostradali alla guida della propria auto accodandosi al veicolo che lo precede sulla pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio.

Il caso analizzato dagli Ermellini offre spunti di riflessione sulle dinamiche di questo reato, anche in relazione a provvedimenti cautelari e alla disponibilità dei beni strumentali.

Sequestro preventivo del mezzo

Il Giudice di primo grado si pronuncia su un caso di presunta truffa connessa al mancato pagamento di pedaggi autostradali. L’indagato, attraverso una serie di condotte illecite reiterate, avrebbe infatti evitato di pagare i pedaggi accodandosi ai veicoli sulla corsia riservata al Telepass. Questo comportamento, configurato come reato di truffa, è accompagnato dal sequestro preventivo dell’autovettura utilizzata per commettere il reato.

Istanza di dissequestro dell’auto dell’acquirente

Nella vicenda però è coinvolto anche un terzo soggetto, che ha acquistato l’auto utilizzata dall’indagato per commettere il reato e che per questo ha presentato istanza di dissequestro del mezzo. L’uomo, a supporto della sua domanda, sostiene la regolarità della compravendita e la sua estraneità al reato. Il Tribunale però rigetta la richiesta. Per l’autorità giudiziaria il contratto rappresenta un possibile espediente per eludere il vincolo reale sul bene.

Nessun contratto di comodo per l’acquisto dell’auto

La decisione viene portata all’attenzione della Corte di Cassazione. Il ricorrente sostiene che la compravendita era avvenuta in buona fede e prima che l’indagato fosse consapevole delle accuse a suo carico. La difesa denuncia un apparato motivazionale insufficiente e illogico del provvedimento con cui si è deciso di mantenere il sequestro, contestando la definizione del contratto come un accordo “di comodo”. Nell’impugnazione il ricorrente sottolinea inoltre l’assenza di trascrizione nei registri pubblici, da cui dovrebbe conseguire l’invalidazione del sequestro.

Sequestro opponibile al terzo

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, riaffermando alcuni principi giuridici fondamentali.

  • In materia di ricorsi contro provvedimenti cautelari reali, è possibile sollevare solo questioni di legittimità e non di merito. Nel caso in esame, le contestazioni avanzate si riferiscono invece soprattutto al merito della valutazione del Tribunale, quindi non esaminabili in sede di legittimità.
  • Il sequestro può essere opposto anche al terzo acquirente se emergono elementi che dimostrano la strumentalità del contratto rispetto al reato.
  • La mancata trascrizione del vincolo non influisce sulla validità del sequestro, poiché tale formalità ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva.

Il caso richiama l’attenzione su fenomeni di micro-criminalità, come l’elusione dei pedaggi autostradali, che possono assumere rilevanza penale e comportare conseguenze significative, inclusa la perdita della disponibilità di beni apparentemente estranei al reato.

 

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