continuazione tra reati

Continuazione tra reati: la Cassazione chiarisce il concetto di disegno criminoso La Cassazione ha stabilito che la continuazione tra reati richiede un programma criminoso unitario previamente ideato, e non si identifica con uno stile di vita incline al reato

Continuazione tra reati

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29855/2025, è intervenuta sul tema della continuazione tra reati e, in particolare, sull’interpretazione del requisito dell’identità del disegno criminoso previsto dall’articolo 81, comma 2, del Codice penale.

Il Supremo Collegio ha precisato che non è sufficiente la mera reiterazione di condotte illecite per riconoscere la continuazione, ma occorre la prova di un programma criminoso unitario, previamente concepito e voluto dall’autore.

I fatti

Il procedimento riguardava un imputato condannato per una serie di reati commessi in un arco temporale relativamente breve. La difesa aveva invocato l’applicazione del vincolo della continuazione, sostenendo che le condotte fossero espressione di un medesimo disegno criminoso.

I giudici di merito avevano negato la sussistenza della continuazione, rilevando che i reati erano stati commessi in circostanze eterogenee e non riconducibili a un piano unitario. La questione è stata quindi sottoposta al vaglio della Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha ribadito che:

  • l’identità del disegno criminoso implica un programma di condotte illecite previamente ideato e voluto, volto alla realizzazione di più reati;

  • non è sufficiente dimostrare che l’autore abbia una personalità o uno stile di vita incline a delinquere;

  • la continuazione non può essere riconosciuta quando le singole condotte siano frutto di decisioni autonome e indipendenti, assunte di volta in volta senza un progetto unitario.

In tal senso, la Cassazione ha confermato l’orientamento restrittivo volto a circoscrivere l’applicazione dell’istituto.

Il quadro normativo

L’articolo 81, comma 2, cp disciplina la continuazione, stabilendo che chi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso commette più violazioni della legge penale soggiace alla pena prevista per la violazione più grave, aumentata.

La ratio dell’istituto è di natura sia sanzionatoria (attenuare il cumulo delle pene per più reati) sia ricostruttiva (valutare l’unitarietà del disegno criminoso come elemento soggettivo che lega le diverse condotte). Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria richiede una rigorosa verifica dell’esistenza del programma criminoso unitario.

Allegati

estorsione

Minacce di maleficio? È estorsione, non truffa La Cassazione chiarisce che chi minaccia un maleficio commette estorsione se il male prospettato dipende dalla sua volontà

Estorsione e truffa aggravata: come si distinguono

Con la sentenza n. 23947 del 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio chiaro: la minaccia di un maleficio, anche se formulata da un sedicente mago, integra il reato di estorsione e non quello di truffa aggravata. Il discrimine sta nel rapporto di causalità tra la volontà dell’agente e il male paventato.

Secondo la Cassazione, l’estorsione si perfeziona quando l’agente prospetta un male che può determinare o far cessare a suo piacimento, inducendo la vittima a fare o non fare qualcosa.
Diversamente, la truffa aggravata (art. 640 n. 2 c.p.) si configura quando il pericolo rappresentato non dipende dall’agente, ma è un rischio reale o immaginario che la vittima può evitare soltanto attraverso l’azione suggerita dal truffatore.

Il caso del sedicente mago

Nel giudizio esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato aveva minacciato di far ricorrere un mago per infliggere un maleficio alla persona offesa.
La difesa sosteneva che si trattasse di una truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, e che quindi la condotta non potesse essere qualificata come estorsione.

La Cassazione ha rigettato questa impostazione. Infatti, il presunto maleficio non era una circostanza estranea alla volontà dell’imputato, ma un’azione che lo stesso poteva decidere di fare o meno. Di conseguenza, la minaccia costituiva una forma di coercizione.

La differenza decisiva: la disponibilità del male prospettato

Il Collegio ha sottolineato che il punto chiave sta nella disponibilità del male minacciato.
Quando l’evento dannoso dipende, anche indirettamente, dalla volontà dell’agente, si integra il reato di estorsione. In altre parole, chi prospetta un male che può effettivamente provocare esercita un potere coercitivo sulla vittima.

Viceversa, se il pericolo prospettato non è riconducibile all’imputato, ma viene utilizzato come strumento di inganno per indurre un comportamento, la condotta si configura come truffa aggravata.

Il principio di diritto affermato

La Cassazione ha ribadito che: “La minaccia di un maleficio, anche mediato da terze persone, integra il reato di estorsione quando il male prospettato è suscettibile di essere attuato dall’agente direttamente o indirettamente, in base alla propria volontà.”

Pertanto, il timore ingenerato nella parte offesa discendeva dal potere del ricorrente di decidere se avvalersi o meno del presunto mago.

antiriciclaggio

Antiriciclaggio Terzo settore Antiriciclaggio Terzo settore: obblighi estesi anche agli enti no profit dal Dl Economia n. 95/2025 convertito dalla legge 118/2025

Antiriciclaggio cos’è

Prima di entrare nell’argomento dell’antiriciclaggio Terzo settore ricordiamo che l’antiriciclaggio in generale può essere definito come l’insieme delle attività e delle procedure che le istituzioni finanziarie e altri soggetti regolamentati attuano per prevenire e contrastare il riciclaggio di denaro sporco. Il riciclaggio mira infatti a nascondere l’origine illecita dei fondi, l’antiriciclaggio agisce in senso opposto. Il suo scopo principale infatti  consiste nel rendere l’operato dei criminali non redditizio e rischioso, rendendo impossibile la trasformazione del “denaro sporco” in “denaro pulito” nel sistema economico. L’antiriciclaggio è quindi il sistema di protezione del mondo finanziario, progettato per agire come una barriera contro il denaro proveniente da attività criminali, garantendo l’integrità e la legalità dell’economia globale.

Dl Economia: antiriciclaggio Terzo settore

Il Decreto Legge n. 95/2025, meglio noto come “Decreto Economia”, così come convertito dalla legge n. 118/2025 segna al riguardo un cambiamento epocale per gli Enti del Terzo settore.

Gli ETS infatti vengono formalmente inclusi tra i soggetti vigilati nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Questa novità, in linea con le direttive europee e le raccomandazioni internazionali del Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale, risponde all’esigenza di evitare che il no profit venga usato come canale per operazioni illecite. Il decreto riconosce un ruolo centrale al Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF). Esso diventa infatti il punto di contatto per le richieste internazionali e per il coordinamento delle iniziative di monitoraggio.

Obblighi operativi e documentali: più trasparenza e solidità

Anche gli ETS sono quindi tenuti a rispettare una serie di obblighi operativi e documentali che devono essere proporzionati alla dimensione dell’ente e che comportano responsabilità dirette per gli amministratori, con possibili sanzioni amministrative e penali in caso di mancata conformità.

L’adeguamento a queste nuove regole è sicuramente una sfida, ma anche un’opportunità per gli ETS. La maggiore trasparenza può rafforzare la loro credibilità, facilitare l’accesso a fondi pubblici e privati e proteggerli da infiltrazioni. A tale fine, gli enti possono adottare modelli organizzativi interni (es: manuali antiriciclaggio e sistemi di gestione del rischio) e affidarsi a consulenti specializzati. Investire nella conformità normativa significa infatti evitare sanzioni e garantire la solidità futura dell’organizzazione.

 

Leggi anche: Antiriciclaggio: al via il “grande fratello” europeo

esposto

Esposto Esposto: cos'è, normativa, contenuto e presentazione, l'esposto anonimo, differenze con denuncia e querela e fac simile

Cos’è l’esposto?

L’esposto è una comunicazione formale che un cittadino o un soggetto presenta alle forze di polizia, alla pubblica amministrazione o ad altre autorità competenti per segnalare fatti che potrebbero configurare reati o violazioni della legge. A differenza della denuncia, non ha lo scopo di avviare un’azione penale, ma di informare le autorità competenti circa il possibile verificarsi di un illecito, lasciando alla polizia o al pubblico ministero il compito di valutare e decidere se procedere.

Il termine “esposto” si distingue da “denuncia” e “querela” per la finalità informativa e non accusatoria. Non implica necessariamente una richiesta di punizione o risarcimento da parte di chi lo presenta, ma solo l’informazione su un fatto che si ritiene meriti un approfondimento.

Normativa 

L’esposto non ha una disciplina autonoma nel Codice Penale italiano, ma è regolato dalle leggi generali che disciplinano il diritto alla segnalazione delle condotte illecite. La sua presentazione e gestione sono regolamentate da leggi sulla pubblica sicurezza e sull’amministrazione della giustizia.  L’articolo 1 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Regio Decreto n. 773/1931) prevede infatti che l’autorità di pubblica sicurezza, mediante i suoi ufficiali, interviene, a richiesta dei cittadini, per risolvere bonariamente gli eventuali dissidi tra privati.

Come e a chi si presenta un esposto

Questa comunicazione può essere presentata a qualsiasi autorità competente che abbia la possibilità di intervenire su quanto segnalato. In particolare, le autorità a cui si può presentare un esposto includono:

  • Forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza) per reati o comportamenti che potrebbero violare la legge.
  • Pubblica amministrazione per segnalare disfunzioni, abusi o irregolarità nell’ambito di procedimenti amministrativi o attività pubbliche.
  • Autorità giudiziaria quando si ritiene che sia necessario un intervento da parte della magistratura.

La comunicazione può essere effettuata in diversi modi:

  • In forma scritta: attraverso una lettera indirizzata alla polizia o all’autorità competente.
  • Di persona: rivolgendosi direttamente agli uffici competenti (ad esempio, una stazione di polizia) dove verrà redatto l’esposto in presenza.
  • Online: in alcune regioni e comuni, è possibile inviare l’esposto tramite portali online istituzionali.

Contenuto 

L’esposto deve seguire una struttura chiara e precisa, che consenta alle autorità competenti di comprendere rapidamente la segnalazione e agire di conseguenza. Di seguito sono riportati gli elementi principali che un esposto deve contenere:

  1. Intestazione: indicazione dell’autorità destinataria (ad esempio, “Alla Polizia di Stato – Commissariato di [nome città]”).
  2. Dati del denunciante: nome, cognome, indirizzo e, se possibile, un recapito telefonico del soggetto che presenta l’esposto.
  3. Descrizione del fatto: una narrazione chiara e concisa dei fatti, indicando in modo preciso il comportamento illecito o sospetto.
  4. Eventuali prove o indizi: se disponibili, devono essere allegati documenti o prove che possano supportare la segnalazione (fotografie, testimonianze, rapporti di perizia, ecc.).
  5. Data e firma: data in cui l’esposto viene redatto e firma del denunciante.

L’esposto anonimo

Un esposto può essere anche anonimo, cioè presentato senza fornire il proprio nome. Questo perchè può risultare meno efficace, poiché le autorità potrebbero avere difficoltà ad approfondire la segnalazione senza conoscere chi l’ha presentata. Se poi l’esposto riguarda un fatto grave, la mancanza di dati identificativi potrebbe ridurre l’efficacia delle attività. La legge tuttavia non impedisce la presentazione di esposti anonimi e in alcuni casi, l’esposto anonimo può anche costituire una forma di protezione per chi teme ritorsioni.

Sul tema si segnala la sentenza del Tar Lazio n. 10268/2018 in cui sottolinea l’importanza istruttoria dell’esposto, anche se presentato in forma anonima. Il Tar ha precisato infatti che una segnalazione fatta da qualcuno che non si è identificato (un “informatore segreto”) può far partire un’indagine. Se la segnalazione descrive i fatti in modo preciso e dettagliato e sembra credibile, le autorità devono verificare di persona quello che è stato detto. L’esposto anonimo può quindi spingere le autorità a fare dei controlli per capire se quello che è stato segnalato è vero.

Differenze tra esposto, denuncia e querela

È importante chiarire le differenze tra esposto, denuncia e querela, poiché, sebbene possano sembrare simili, hanno finalità e implicazioni giuridiche differenti.

  • Esposto: è una segnalazione di un illecito o di un comportamento sospetto, ma senza un intento accusatorio o di perseguire il colpevole. L’esposto ha una funzione puramente informativa.
  • Denuncia: la denuncia è un atto con il quale il cittadino informa le autorità competenti di un reato che ha subito o che ha visto commettere, e che richiede un’azione da parte dell’autorità giudiziaria. La denuncia può essere fatta anche da chi non è direttamente coinvolto nel reato.
  • Querela: la querela è una denuncia formale che viene fatta da una persona che ha subito un reato e che vuole che l’autore venga perseguito. La querela è necessaria per procedere per reati che non sono perseguibili d’ufficio, come ad esempio i reati di lesioni personali, diffamazione, etc.

Differenze chiave

Caratteristica

Esposto

Denuncia

Querela

Scopo

Segnalare un fatto illecito

Iniziare un’indagine su un reato

Richiedere l’azione penale per un reato

Accusa diretta

No

Risultato

Segnalazione all’autorità competente

Avvio di un procedimento penale

Azione legale contro il colpevole

Autore

Chiunque

Chiunque, anche non parte lesa

Solo parte lesa

Fac-simile  

Ecco un esempio di come dovrebbe essere strutturato un esposto:

Alla Polizia di Stato
[Indirizzo del Commissariato]

Oggetto: Esposto per segnalazione di comportamento sospetto.

Io sottoscritto/a [nome e cognome], nato/a a [città], il [data di nascita], residente a [indirizzo], telefono [numero],
espongo quanto segue:

Il giorno [data], ho assistito a un comportamento sospetto da parte di una persona che si trovava in [descrizione del luogo]. La persona in questione [descrizione del comportamento], il che mi ha fatto sospettare che potesse trattarsi di un reato, in particolare [tipo di reato sospettato]. Al momento del fatto, ho notato [eventuali dettagli aggiuntivi].

Allego [eventuali prove o testimonianze].

Chiedo che le autorità competenti possano verificare i fatti segnalati.

Data, [firma del denunciante]

errore di fatto

Errore di fatto nel diritto penale Errore di fatto nel diritto penale: cos'è, art. 47 c.p, conseguenze, differenze dall’errore di diritto, errore di fatto nel processo

Errore di fatto nel diritto penale: definizione 

L’errore di fatto o sul fatto è una figura giuridica rilevante nel diritto penale italiano, in grado di incidere sulla responsabilità penale dell’agente. Disciplinato dall’art. 47 del Codice Penale, l’errore sul fatto può escludere l’elemento soggettivo del reato, rendendo il comportamento penalmente irrilevante nei casi previsti dalla legge.

Cos’è l’errore di fatto secondo il codice penale

L’art. 47 c.p. stabilisce che l’errore sul fatto esclude la punibilità quando ricade su un elemento essenziale del fatto di reato. Più precisamente, il primo comma della norma prevede che:

“L’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente.”

In altre parole, se l’agente, per un errore, ignora o fraintende un elemento essenziale della fattispecie criminosa (ad esempio: crede che l’oggetto che prende sia suo e non altrui), l’elemento soggettivo del reato non si perfeziona e l’illecito penale non sussiste.

Esempio pratico

Un soggetto prende un ombrello convinto che sia il proprio. In realtà, appartiene a un’altra persona. Se si dimostra che l’errore è effettivo e scusabile, il soggetto non potrà essere punito per furto, poiché manca l’elemento soggettivo del reato.

Differenza tra errore di fatto ed errore di diritto

Nel diritto penale si distinguono categorie di errore, che producono effetti giuridici differenti:

1. Errore di fatto

È l’errore che ricade su una circostanza oggettiva della condotta o della situazione: ad esempio, l’identità di una persona, la proprietà di un bene, la presenza di un elemento del reato. Ha rilievo solo se incide sull’elemento soggettivo del reato (art. 47, comma 1, c.p.).

2. Errore di diritto

È l’errore che ricade su una norma giuridica, ossia sulla convinzione errata circa la liceità o illiceità della propria condotta. È regolato dall’art. 5 c.p., che afferma:

“Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale.”

Tuttavia, come previsto dal comma 3 dell’art 47 “L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato.”

Le conseguenze dell’errore di fatto

Le principali conseguenze dell’errore di fatto nel diritto penale sono:

  • esclusione della punibilità: se l’errore riguarda un elemento essenziale del fatto, il reato non è punibile (art. 47 c.p.).
  • non esclusione della punibilità se l’errore è determinato da colpa: l’errore di fatto determinato da colpa non esclude la punibilità se il reato è perseguibile dalla legge come delitto colposo (art. 47, comma 1, c.p.).

L’errore di fatto nel processo: il ricorso straordinario in Cassazione

L’errore di fatto ha rilevanza anche in sede processuale, in particolare nel ricorso straordinario per Cassazione ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. Il condannato può infatti chiedere la correzione:

  • dell’errore di fatto commesso dalla Cassazione nei provvedimenti pronunciati dalla stessa, che può essere rilevabile anche d’ufficio entro 90 giorni dalla deliberazione;
  • dell’errore materiale  commesso dalla Corte nei provvedimenti pronunciati dalla stessa, che può essere rilevato anche d’ufficio dalla stessa Cassazione in ogni momento e senza il rispetto di formalità particolari.

Di recente la Cassazione nella sentenza n. 3755/2024 ha chiarito che: l’errore di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p è un errore percettivo che si verifica quando, durante la lettura degli atti processuali, la Corte commette una svista o un equivoco. Questo errore deve influenzare il processo decisionale, portando a una sentenza diversa da quella che sarebbe stata emessa se i fatti fossero stati percepiti correttamente. In pratica, è come se la Corte “vedesse male” ciò che è scritto negli atti, e questo “errore di visione” alteri il risultato finale. Ne consegue che il ricorso straordinario per errore di fatto non è ammissibile se l’errore della  Cassazione è di tipo valutativo. Questo significa che se la Corte ha correttamente compreso i fatti, ma ha formulato un giudizio o una valutazione diversa da quella sperata dalla parte, non si può parlare di un errore percettivo. Il ricorso in conclusione è possibile solo quando l’errore riguarda la percezione oggettiva dei fatti, non la loro interpretazione o valutazione.

 

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cubo di rubik

Cubo di Rubik è opera dell’ingegno La Cassazione ribadisce che il cubo di Rubik resta protetto dal diritto d’autore come opera dell’ingegno, anche dopo l’annullamento del marchio 3D da parte della Corte Ue

Cubo di Rubik: la vicenda giudiziaria

La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 27641/2025, ha confermato la condanna di una donna per violazione della legge sul diritto d’autore (art. 171, comma 1, lett. a), legge n. 633/1941).
L’imputata era stata riconosciuta responsabile della riproduzione e della commercializzazione di 21 cubi di Rubik e oltre 63.000 stickers raffiguranti personaggi Disney.

La difesa aveva sostenuto che, a seguito della decisione della Corte di giustizia europea che aveva escluso la registrazione del marchio tridimensionale del cubo, non vi fosse più alcuna tutela.

La posizione della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto l’argomento difensivo, chiarendo che l’impossibilità di registrare il marchio non incide sulla protezione accordata dal diritto d’autore.
Il cubo di Rubik è qualificabile come opera dell’ingegno ai sensi della legge n. 633/1941, la quale tutela la creatività e lo sfruttamento economico delle opere, indipendentemente da formalità legate a marchi o brevetti.

Il Collegio ha richiamato precedenti giurisprudenziali in materia, come:

  • Cass. n. 45735/2016 (magliette con personaggi animati);

  • Cass. n. 17218/2011 (portacellulari con immagini di cartoni animati).

Il rapporto con le decisioni europee

La Cassazione ha giudicato “inconferente” il richiamo della difesa all’annullamento del marchio da parte della Corte Ue.
In linea con questo orientamento, anche il Tribunale Ue (sentenza 9 luglio 2025, C-1170/23, Spin Master v. EUIPO) e il Tribunale di Venezia (ordinanza 30 aprile 2025) hanno riconosciuto che il cubo può essere tutelato come opera di design industriale.

La valutazione sugli stickers Disney

Oltre al cubo di Rubik, la sentenza affronta la questione della riproduzione di stickers raffiguranti personaggi Disney. La Corte ha ritenuto provata la violazione sulla base della testimonianza degli operanti, evidenziando come la riproduzione fosse fedele e idonea a integrare il reato.

Esclusa la tenuità del fatto

La Cassazione ha infine respinto la richiesta di proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Il numero considerevole dei prodotti sequestrati è stato ritenuto sufficiente per escludere tale possibilità.

La sentenza n. 27641/2025 ribadisce un principio fondamentale: la tutela penale del diritto d’autore non dipende dalla registrazione di un marchio o da un brevetto, ma dalla qualificazione dell’opera come frutto della creatività intellettuale.
Il cubo di Rubik, pur privo di marchio tridimensionale registrabile, resta dunque protetto come opera dell’ingegno.

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scambio elettorale politico mafioso

Scambio elettorale politico mafioso Scambio letterale politico-mafioso: guida al reato che punisce l'accettazione di voti promessi da appartenenti ad associazioni mafiose

Scambio elettorale politico mafioso: cos’è

Il delitto di scambio elettorale politico mafioso è un reato cruciale nella lotta contro le infiltrazioni mafiose nella vita democratica del Paese. Esso è previsto e punito dall’articolo 416 ter del Codice penale.

Cosa prevede l’articolo 416 ter c.p

La norma stabilisce che chiunque accetta la promessa di voti da parte di soggetti appartenenti ad associazioni mafiose (ai sensi dell’art. 416-bis c.p.) o tramite le modalità tipiche del metodo mafioso, in cambio di denaro, di altre utilità, o della disponibilità a soddisfare gli interessi dell’associazione, è punito con la stessa pena prevista per l’associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), ovvero la reclusione da 10 a 15 anni.. La medesima pena si applica anche a chi promette tali voti. Se il politico che ha accettato la promessa viene eletto, la pena è aumentata della metà, e in caso di condanna scatta sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Bene giuridico tutelato

Il bene giuridico tutelato da questa fattispecie non è solo l’ordine pubblico, ma anche il sistema democratico, con particolare riferimento al libero esercizio del diritto di voto, elemento fondamentale della sovranità popolare.

I soggetti dello scambio elettorale politico mafioso

Il soggetto attivo del reato può essere di due tipi. Da un lato, c’è chi accetta la promessa di voti, un “reato comune” che può essere commesso da “chiunque” purché non sia un membro dell’associazione mafiosa stessa (che annullerebbe il carattere sinallagmatico dello scambio). Sebbene il reato sia incentrato sul fenomeno elettorale, non è richiesta la qualifica formale di candidato, anche se l’effettiva elezione costituisce un’aggravante.

Dall’altro lato, c’è il procacciatore di voti. Originariamente, si richiedeva l’uso del “metodo mafioso”. La riforma del 2019 ha affiancato a questa ipotesi quella in cui la promessa provenga da soggetti appartenenti ad associazioni mafiose, anche per contrastare il fenomeno delle “mafie silenti” dove l’intimidazione è meno evidente. Anche in questo caso si tratta di un reato comune, poiché può essere commesso anche da chi non è un associato, ma agisce con metodi mafiosi.

Il soggetto passivo del reato invece è soprattutto lo Stato e, secondo parte della dottrina, anche l’ente territoriale interessato dalle elezioni.

Condotta criminosa: in cosa consiste

La condotta criminosa consiste nell’accordo tra il candidato e i soggetti mafiosi (o che agiscono con metodo mafioso), direttamente o tramite intermediari. In virtù di questo patto, i soggetti si impegnano a procurare voti in cambio di denaro, altre utilità, o la disponibilità del politico a soddisfare gli interessi della mafia.

Oggetto dello scambio elettorale politico mafioso

Come specificato anche dalla sentenza della Cassazione n. 23810/2025 “Il reato di scambio elettorale politico mafioso ha per oggetto la – promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis- e si consuma con la mera stipulazione dell’intesa illecita.”

Tipologia di reato

È un reato di pericolo, perché è sufficiente la “promessa” di procurare voti, non è richiesto l’effettivo procacciamento o l’erogazione di denaro. Le vicende successive all’accordo non incidono sul perfezionamento del reato, ma possono aggravarne la pena. Per “altra utilità” si intendono tutti i vantaggi, economici o meno, diversi dal denaro (es. posti di lavoro, appalti, provvedimenti amministrativi).

Elemento soggettivo dello scambio  elettorale politico mafioso

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico: la volontà dell’accordo delittuoso. Il reato è istantaneo e si consuma nel momento dell’accettazione della promessa da parte del politico e della formulazione della promessa da parte del procacciatore di voti, indipendentemente dalla loro realizzazione. Essendo un reato di pericolo, non è configurabile il tentativo.

Aggravante a effetto speciale

Infine, il comma 3 dell’art. 416-ter c.p. prevede un’aggravante a effetto speciale che aumenta la pena della metà se il politico, a seguito dell’accordo mafioso, viene effettivamente eletto. Questa circostanza, pur rilevante, è spesso complessa da dimostrare in giudizio, soprattutto nel determinare l’effettivo impatto del contributo mafioso sul risultato elettorale.

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autoriciclaggio

Autoriciclaggio: reato anche con il solo versamento in banca La Cassazione afferma che basta il deposito in banca di denaro illecito per integrare il reato di autoriciclaggio

Autoriciclaggio: basta il semplice deposito in banca

Secondo la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25348/2025, integra il reato di autoriciclaggio anche la condotta consistente nel versamento in banca di somme di denaro provenienti da reato, senza necessità di ulteriori operazioni complesse.

Alla base della decisione vi è la considerazione che, essendo il denaro un bene fungibile, il solo deposito presso un istituto bancario determina automaticamente una sostituzione del denaro illecito con quello “pulito”, poiché l’istituto ha l’obbligo di restituire al cliente non le stesse banconote, ma un equivalente economico (tantundem).

Tracciabilità e titolarità formale non escludono il reato

Nel caso esaminato, l’imputato – condannato a 3 anni di reclusione e 7mila euro di multa – aveva sostenuto la tracciabilità delle operazioni bancarie (tra cui acquisto titoli, trasferimenti tra conti e operazioni immobiliari), ritenendo che l’assenza di un mutamento della titolarità formale escludesse l’intento dissimulatorio.

La Suprema Corte ha respinto questa tesi, affermando che non è necessario un occultamento totale: basta qualsiasi attività concretamente idonea anche solo ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indipendentemente dalla tracciabilità apparente delle operazioni.

L’effetto dissimulatorio delle operazioni bancarie

Le “plurime e articolate” operazioni effettuate dall’imputato sono state considerate dalla Corte indicative di un disegno strategico volto alla reimmissione dei proventi illeciti nel circuito economico. Acquisti di titoli azionari, trasferimenti tra conti deposito e impieghi immobiliari rappresentano una trasformazione progressiva della somma iniziale, con effetti dissimulatori evidenti.

La Cassazione ha ricordato che è irrilevante la mancanza di dispersione del denaro e la persistenza della stessa intestazione dei conti: ciò che rileva è la difficoltà concreta nell’identificare l’origine del denaro, elemento che distingue il godimento personale (non punibile) da una condotta penalmente rilevante.

Il concetto di “attività speculativa” e il richiamo all’art. 648-ter.1 c.p.

La Corte ha fatto riferimento anche alla formulazione estensiva dell’art. 648-ter.1 c.p., che include attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Il concetto di “attività speculativa”, volutamente non tipizzato dal legislatore, ricomprende ogni operazione economica svolta per trarne un profitto, anche se apparentemente lecita, ma che in realtà consente l’infiltrazione di capitali illeciti nell’economia legale.

Si tratta quindi di azioni che, pur formalmente lecite, alterano il mercato e mascherano la provenienza del denaro, rendendolo apparentemente legittimo.

Quando l’autoriciclaggio non è punibile

La Cassazione ha precisato che l’unica circostanza in cui non si configura autoriciclaggio è quella in cui l’autore utilizzi direttamente il profitto del reato presupposto per un consumo personale o un uso che non comporti ostacoli alla tracciabilità.

Nel caso contrario, anche il semplice impiego in operazioni che ostacolano, anche solo parzialmente, l’individuazione della fonte illecita integra il reato.

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ricorso per saltum

Ricorso per saltum: il ricorso immediato in Cassazione Ricorso per saltum: cos'è, come è disciplinato, come funziona, quali sono gli esiti possibili, vantaggi e svantaggi

Ricorso per saltum: cos’è

Il sistema processuale penale italiano prevede diversi strumenti per contestare le decisioni del giudice. Tra questi, spicca il ricorso immediato in Cassazione, noto anche come ricorso “per saltum”. Questo strumento consente a una parte di impugnare direttamente una sentenza di primo grado davanti alla Corte di Cassazione, saltando il tradizionale giudizio di appello. La giurisprudenza richiede però l’accordo di tutte le parti.

L’articolo 569 del codice di procedura penale 

La norma che disciplina il ricorso per saltum nei processi penali è l’articolo 569 c.p.p, che così dispone:

1. La parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione.

2. Se la sentenza è appellata da una delle altre parti, si applica la disposizione dell’articolo 580. Tale disposizione non si applica se, entro quindici giorni dalla notificazione del ricorso, le parti che hanno proposto appello dichiarano tutte di rinunciarvi per proporre direttamente ricorso per cassazione. In tale caso, l’appello si converte in ricorso e le parti devono presentare entro quindici giorni dalla dichiarazione suddetta nuovi motivi, se l’atto di appello non aveva i requisiti per valere come ricorso.

3. La disposizione del comma 1 non si applica nei casi previsti dall’articolo 606 comma 1 lettere d) ed e). In tali casi, il ricorso eventualmente proposto si converte in appello.

4. Fuori dei casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado, la corte di cassazione, quando pronuncia l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata a norma del comma 1, dispone che gli atti siano trasmessi al giudice competente per l’appello.”

Ricorso per saltum: come funziona?

Dalla lettura dell’articolo 569 c.p.p emerge che chi ha il diritto di appellare una sentenza di primo grado può presentare, in via alternativa, il ricorso immediato per Cassazione. Questa opzione si applica però solo alle sentenze che normalmente sarebbero appellabili. Le sentenze inappellabili, infatti, si possono impugnare solo con il ricorso ordinario per Cassazione.

Il ricorso per saltum non può però pregiudicare i diritti delle altre parti a un processo su tre gradi. Difatti se una parte propone ricorso immediato in Cassazione e le altre parti appellano la medesima sentenza, il ricorso”per saltum” si trasforma in appello. Questa conversione avviene secondo l’articolo 580 c.p.p.

Alle altre parti però non può essere negato il diritto di riflettere sulla convenienza del ricorso “per saltum”. Se, entro quindici giorni dalla notifica del ricorso, tutte le parti che hanno proposto appello dichiarano di voler rinunciare, l’appello si converte in ricorso. In questo caso però le parti devono presentare nuovi motivi entro quindici giorni dalla dichiarazione, se l’atto di appello iniziale non rispettava i requisiti necessari per valere come un ricorso in Cassazione.

Ricorso immediato: in quali casi non si applica

Il ricorso “per saltum” però non è sempre possibile. Esso non si può utilizzare se i motivi di impugnazione riguardano:

  • la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta durante l’istruzione dibattimentale;
  • la mancanza, la contraddittorietà o l’illogicità manifesta della motivazione. Questo vale quando il vizio emerge dal testo del provvedimento o da altri atti specificamente indicati.

In queste situazioni, il ricorso “per saltum” eventualmente proposto si trasforma in appello.

Esiti possibili del ricorso per saltum

La Cassazione può accogliere il ricorso o rigettarlo.

Quando lo accoglie è regola che disponga l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice dell’appello, fuori dai casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado.

Se invece la Cassazione rigetta il ricorso, la sentenza di primo grado impugnata viene confermata.

Vantaggi e svantaggi

Il ricorso “per saltum” offre il vantaggio di far risparmiare tempo e ridurre i costi.

Tuttavia, presenta anche degli svantaggi. Le parti perdono l’opportunità di presentare nuovi argomenti o prove in un eventuale secondo grado di giudizio.

Da precisare infine che il ricorso “per saltum” si ammette generalmente solo per motivi di diritto. Si può contestare cioè la corretta applicazione delle norme, mentre non si può ricorrere per questioni relative all’acquisizione o alla valutazione delle prove.

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diffamazione militare

Diffamazione militare: inammissibile la qlc sulla pena detentiva La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sull’art. 227 del codice penale militare di pace. Il giudice non era chiamato ad applicare la pena e mancava la motivazione sulla rilevanza

La Consulta si pronuncia sulla pena per la diffamazione militare

Con la sentenza n. 127/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli in merito all’articolo 227 del codice penale militare di pace, che prevede la pena detentiva per il reato di diffamazione militare, senza contemplare un’alternativa pecuniaria.

Il nodo giuridico: pena detentiva e libertà di espressione

Secondo il giudice rimettente, la previsione esclusiva della reclusione per il reato di diffamazione militare sarebbe in contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La Corte EDU, infatti, ha più volte affermato che la pena detentiva per la diffamazione è sproporzionata, a meno che non si tratti di discorsi d’odio o incitamento alla violenza.

La decisione: la questione è prematura e irrilevante

La Corte costituzionale ha respinto la questione per inammissibilità, senza entrare nel merito.
La motivazione principale è che la censura era prematura e priva di rilevanza concreta: il giudice che ha sollevato la questione non era chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato, trattandosi solo di udienza preliminare, e non vi era un’applicazione immediata della norma censurata.

Mancanza di motivazione sull’esercizio del diritto sindacale

La Corte ha inoltre rilevato d’ufficio un ulteriore vizio di inammissibilità: l’ordinanza di rimessione non ha motivato adeguatamente la rilevanza della norma impugnata alla luce del contesto sindacale in cui si era verificata la condotta contestata.
Non è stato spiegato se e come l’attività sindacale potesse configurare l’esercizio di un diritto, e quindi costituire causa di giustificazione, con possibile esclusione della punibilità.