la denuncia

La denuncia La denuncia: cos'è, la normativa di riferimento, differenze con la querela e l’esposto, e giurisprudenza di rilievo

Cos’è la denuncia?

La denuncia è un atto giuridico formale con il quale una persona (denunciante) porta all’attenzione delle autorità competenti un fatto che ritiene essere un reato, che può essere stato commesso o che sta per essere commesso. È un atto con il quale si porta conoscenza di un crimine alle forze di polizia, al pubblico ministero o, nei casi previsti, anche al giudice.

Essa si distingue dalla querela in quanto non è necessaria che la persona che la presenta sia la parte lesa. La querela infatti è un atto giuridico che viene presentato solo dalla persona danneggiata, la denuncia invece può essere fatta anche da chi ha assistito al reato o ne è venuto a conoscenza in altro modo.

Normativa di riferimento

Questo atto è regolamentato principalmente dal Codice di Procedura Penale e da alcune leggi speciali che riguardano specifici ambiti, come il reato di estorsione, furto, truffa e violenza domestica. Ecco alcuni articoli importanti relativi alla denuncia:

  • 333 codice di procedura penale: stabilisce che chiunque venga a conoscenza di un reato possa denunciarlo alle autorità competenti. La norma prevede inoltre l’obbligo di denuncia per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di un servizio pubblico, non per i soggetti privati, nei casi previsti dalla legge.
  • Art 334 bis del codice di procedura penale esonera dall’obbligo di denuncia gli avvocati e i soggetti indicati dall’articolo 391 bis c.p.p neppure per i reati di cui vengono a conoscenza nel corso delle attività di investigazione svolte.

Come si presenta una denuncia?

La denuncia può essere presentata oralmente o per iscritto. Se la denuncia avviene oralmente, verrà trascritta dalle forze dell’ordine o dall’autorità competente. La forma scritta è preferibile, poiché consente una maggiore chiarezza e consente al denunciante di esprimere dettagli in modo completo.

Le modalità di presentazione possono essere diverse:

  • Presso le forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza): le autorità di polizia sono sempre pronte ad accogliere una denuncia e avviare le indagini.
  • Direttamente al pubblico ministero: tramite la procura della Repubblica, se la denuncia riguarda reati particolarmente gravi o complessi.
  • In via telematica: alcuni reati possono essere denunciati online, tramite i portali dedicati, come quello della Polizia di Stato.

La denuncia deve contenere informazioni precise e dettagliate riguardo al reato e ai fatti che si intendono denunciare. Devono essere forniti tutti i dettagli rilevanti, inclusi i dati delle persone coinvolte, la descrizione dei fatti e, se disponibili, eventuali prove o documenti.

La denuncia anonima

Esiste anche la denuncia anonima, ovvero un atto in cui il denunciante non rivela la propria identità. Sebbene questa forma sia ammessa, ha delle limitazioni. Le autorità infatti, in base al quanto disposto dal comma 3 dell’art. 333 c.p.p non sono obbligate a prendere in considerazione una denuncia anonima, in quanto può risultare difficile da verificare o meno attendibile. Tuttavia, se il contenuto dell’atto porta a informazioni utili e concrete, le autorità possono comunque avviare un’indagine. Viceversa, nel caso in cui la denuncia anonima non fornisca elementi concreti, non obbliga le forze dell’ordine a intraprendere un’azione legale.

Differenza tra denuncia, querela ed esposto

La denuncia è spesso confusa con la querela e l’esposto, ma ci sono alcune differenze fondamentali tra questi atti.

  • Denuncia: è l’atto con cui si segnala alle autorità competenti un reato. Chiunque può denunciare un crimine, anche se non è direttamente coinvolto come parte lesa.
  • Querela: la querela invece è una denuncia fatta solo dalla parte lesa o da chi ha subito il danno direttamente dal reato. La querela è necessaria per procedere legalmente in casi come lesioni, diffamazione o stalking, in quanto sono reati che non sono perseguibili d’ufficio, ma su richiesta della persona danneggiata.
  • Esposto: un esposto, invece, è una segnalazione generica che non implica un atto accusatorio. Serve a far conoscere alle autorità competenti un fatto sospetto o illecito, ma non ha la finalità di avviare un procedimento penale o chiedere la punizione di un responsabile.

Differenze con querela ed esposto

Caratteristica Denuncia Querela Esposto
Scopo Segnalare un reato Iniziare un procedimento legale Segnalare un comportamento illecito, senza finalità accusatorie
Obbligo di presentazione Facoltativa  per i privati per reati perseguibili d’ufficio Necessaria per reati procedibili su querela Facoltativa, senza obbligo giuridico
Prosecuzione del reato Può avviare un’indagine d’ufficio Richiede il consenso della parte lesa Non avvia automaticamente un’indagine
Chi può presentarla Chiunque abbia conoscenza di un reato La persona danneggiata dal reato Chiunque, anche senza essere parte lesa

Giurisprudenza sulla denuncia

La giurisprudenza ha trattato vari aspetti di questo atto evidenziando come la stessa sia fondamentale per il buon funzionamento del sistema giuridico:

Cassazione n. 29319/2024: una denuncia anonima non può essere utilizzata come prova in un processo penale. Tuttavia, essa può innescare l’attività investigativa del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria, spingendoli a raccogliere informazioni utili per verificare se vi siano elementi sufficienti per avviare un’indagine formale. In altre parole, la denuncia anonima non ha valore probatorio, ma può servire come spunto per ulteriori accertamenti.

SU Cassazione n. 25932/2008:  una denuncia considerata irregolare e quindi equiparabile a una denuncia anonima, pur non potendo essere utilizzata come prova, può stimolare le indagini del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria. Questo avviene attraverso la raccolta di informazioni che potrebbero portare all’identificazione di un’ipotesi di reato, la quale verrebbe poi approfondita seguendo le procedure legali. In sostanza, anche se la denuncia in sé non ha valore probatorio, può comunque innescare un processo investigativo.

 

Leggi anche: Remissione di querela: guida e modello

notifica pec

Notifica pec fallita per causa ignota: va rinnovata La Cassazione ha chiarito che in caso di notifica pec fallita per causa ignota, la stessa va rinnovata dalla cancelleria

Notifica pec fallita

Notifica PEC non andata a buon fine per causa ignota. Va rinnovata dalla Cancelleria. Questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 8361/2025.

Il caso: notifica PEC non consegnata

La decisione è scaturita dal ricorso di un uomo condannato per stalking dalla Corte d’Appello di Brescia. Il ricorrente ha contestato la validità della notifica dell’avviso di udienza al difensore e quella effettuata presso il domicilio eletto. La causa del fallimento non era chiaramente individuabile. Dagli atti risultava, infatti, che l’avvocato di fiducia non aveva ricevuto nel domicilio elettronico indicato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, risultante – del resto – dal fascicolo d’ufficio come non consegnato al destinatario. Di qui, a suo dire, “poiché non è stata individuata la causa della mancata consegna del messaggio di posta elettronica, non è possibile attribuirgli, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione, alcuna responsabilità per l’omesso recapito del predetto messaggio”.

Per la Corte, le doglianze suscettibili di valutazione unitaria, sono fondate.

Obbligo di ripetizione della notifica

La questione che si pone all’attenzione della S.C. è “se la notifica possa ritenersi valida anche in un’ipotesi come quella considerata, ossia nella quale non sia possibile stabilire se l’omessa consegna sia dipesa dalla responsabilità del destinatario del messaggio (ad es., per problemi correlati alla ‘saturazione’ della relativa cartella) ovvero da quella della Cancelleria” ragiona la Corte. In definitiva, “si tratta di individuare le conseguenze, in punto di validità della notifica dell’atto processuale a mezzo pec, dell’omessa consegna del messaggio inviato dalla cancelleria per una causa rimasta ignota”.
Nella giurisprudenza di legittimità, “è stato sancito il dovere del difensore di controllare il corretto funzionamento della propria casella di posta elettronica, con la conseguenza che, ove la mancata consegna dipenda da un malfunzionamento del sistema, le conseguenze restano a carico del difensore, in virtù della prescrizione espressa dall’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012, che impone il deposito dell’atto in cancelleria (ex multis, Cass. n. 41697/2019)”.

La decisione

Nel caso di specie, tuttavia, l’omessa consegna del messaggio trasmesso dalla cancelleria a mezzo posta elettronica certificata è rimasta ignota. E ciò in quanto la preminente importanza che, anche nella giurisprudenza costituzionale, è attribuita al diritto di difesa dell’imputato rispetto al principio della ragionevole durata del processo, comporta che, “nelle ipotesi di incertezza circa la responsabilità dell’omesso perfezionamento del procedimento notificatorio, questo non possa considerarsi validamente compiuto”.
“Il che impone alla cancelleria, in un caso siffatto, concludono dal Palazzaccio, “la rinnovazione della notifica, trattandosi, peraltro, di un adempimento semplificato proprio dalla possibilità di utilizzare l’agile strumento della posta elettronica certificata”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

Allegati

cane dall'indole diffidente

Cane dall’indole diffidente al guinzaglio anche nell’area dedicata La Cassazione chiarisce che a prescindere da taglia e razza, il cane dall'indole diffidente va tenuto al guinzaglio anche nell'apposita area sgambamento

Cane dall’indole diffidente: guinzaglio obbligatorio

La quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9620/2025, ha stabilito che anche nelle zone appositamente attrezzate per lo sgambamento, un cane dall’indole diffidente deve essere condotto con guinzaglio e museruola. Questo obbligo si applica indipendentemente dalla razza e/o dalla taglia. Si tratta, infatti, di una regola di prudenza che il proprietario deve rispettare per garantire la sicurezza di persone e animali.

Il caso: responsabilità del proprietario per lesioni colpose

Nel caso esaminato dalla S.C., il Tribunale aveva confermato la condanna della proprietaria di un pitbull per il reato ex art. 590 c.p. per aver cagionato alla vittima, entrata all’interno dell’area cani insieme al suo cucciolo di piccola taglia, lesioni personali colpose.

La condanna era stata motivata dalla mancata adozione di misure di sicurezza per imprudenza, imperizia e negligenza da parte della proprietaria, che, pur consapevole dell’indole diffidente dell’animale, non lo aveva assicurato al guinzaglio né dotato di museruola lasciandolo libero di circolare all’interno dell’area cani.

La donna ricorreva innanzi al Palazzaccio, lamentando che nelle aree appositamente attrezzate, i cani possono essere condotti senza guinzaglio e senza museruola, mentre tali accorgimenti vanno adottati per i cani di indole aggressiva. Da ciò deriva che nessun obbligo giuridico fosse configurabile a suo carico, non essendo certificato che il cane potesse essere definito ex ante come aggressivo, né potendo estendersi le limitazioni previste per gli animali aggressivi a quelli descritti come diffidenti.

La responsabilità del proprietario e le regole di condotta

Tuttavia, la Suprema Corte ha rigettato le argomentazioni della difesa, sottolineando che la natura colposa della condotta del ricorrente, “è da ricondurre all’inosservanza di norme cautelari afferenti al governo e alla conduzione dei cani”. Norme “volte a prevenire, neutralizzare o ridurre i rischi per la pubblica incolumità, specificamente declinate in relazione alle potenzialità lesive dell’animale, con richiamo alla norma di cui all’art. 672 c.p., che sanziona a livello amministrativo l’incauta custodia di animali e che positivizza il generale dovere di diligenza e prudenza che l’ordinamento pone in capo a chiunque abbia il dominio di un animale dotato di capacità lesiva”. Sancendo “l’assunzione di una posizione di garanzia rispetto alla possibilità del verificarsi di eventi dannosi, corredata da una serie di obblighi, divieti e modelli comportamentali la cui violazione determina responsabilità giuridica a vari livelli (amministrativo, civile e penale)”.

Nella sentenza di primo grado si è, con chiarezza, “affermata la violazione di regole di generica prudenza considerando che, in presenza di un altro animale nell’area di sgambamento nonché del relativo accompagnatore, la proprietaria del cane avrebbe dovuto fronteggiare la situazione con maggiore cura e cautela attuando una vigilanza stretta e una presenza dominante sul cane” aggiungono gli Ermellini.

“Il giudice di appello ha, per altro verso, addebitato all’imputata di aver lasciato il cane libero di circolare all’interno dell’area cani nonostante si trattasse di cane di indole da lei stessa definita ‘diffidente’ e nonostante un estraneo avesse manifestato l’intento di avvicinarsi e accarezzarlo”.

La “culpa in vigilando”

In definitiva, per la Cassazione, “la culpa in vigilando del proprietario del cane è stata correttamente identificata quale violazione di una regola cautelare non positivizzata desumibile da una massima di esperienza, legata non tanto alla razza del cane quanto piuttosto alla eventualità che un cane diffidente reagisca in maniera aggressiva all’avvicinamento di terzi estranei”. Si tratta di argomenti coerenti con il principio secondo il quale “in tema di colpa, allorquando risulti ex ante l’inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto a osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l’evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (cfr. Cass. n. 32899/2021)”.

Da qui il rigetto delle doglianze avanzate dall’imputata nel ricorso che, tuttavia, viene accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Roma in diversa persona fisica per nuovo giudizio sul punto.

Allegati

ore d'aria al 41-bis

Ore d’aria al 41-bis: limite di due ore illegittimo Ore d’aria nel regime 41-bis: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo il limite di due ore

Ore d’aria nel regime 41-bis

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 30/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), primo periodo, della legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui imponeva un limite massimo di due ore al giorno per la permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale.

Ore d’aria nel 41-bis: cosa cambia dopo la sentenza?

La decisione della Corte Costituzionale è nata da una questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale non ha messo in discussione l’intero regime differenziato 41-bis, ma ha esaminato un aspetto specifico della normativa: il diritto dei detenuti a trascorrere tempo all’aperto.

Con questa pronuncia, la permanenza all’aria aperta per i detenuti in regime speciale – non sottoposti a sorveglianza particolare – torna a essere regolata dall’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario, che prevede:
Un minimo di quattro ore al giorno all’aperto.
La possibilità di riduzione a due ore solo per giustificati motivi.

Un trattamento ingiustificato

La Corte ha sottolineato che nel regime 41-bis le ore d’aria vengono trascorse all’interno del gruppo di socialità, un piccolo gruppo di detenuti (massimo quattro persone), accuratamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria. Pertanto, la riduzione delle ore di permanenza all’aperto non offre alcun vantaggio in termini di sicurezza, che è già garantita dalla separazione dei gruppi e dalle misure di controllo adottate.

La restrizione, invece, risulta irragionevole e lesiva del principio di umanità della pena, poiché limita in misura sproporzionata la possibilità per i detenuti di beneficiare di aria e luce naturale, senza apportare benefici concreti alla collettività.

Verso un trattamento più conforme ai diritti umani

Secondo la Corte, l’estensione del tempo all’aperto per i detenuti del 41-bis rappresenta un passo avanti nel rispetto della dignità umana, contribuendo a migliorare le condizioni di detenzione non solo in termini oggettivi, ma anche nella percezione dei detenuti.

procura speciale

Procura speciale all’avvocato: deve emergere la volontà di patteggiare La Cassazione chiarisce che la procura speciale all'avvocato anche se ampia non prova automaticamente la volontà dell'imputato di patteggiare

Procura speciale avvocato e patteggiamento

La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 6214/2025, ha chiarito che la procura speciale conferita al difensore non prova automaticamente la volontà dell’imputato di patteggiare.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, il GIP applicava la pena concordata a un imputato, per come proposta dal suo difensore, nel corso delle indagini preliminari. L’imputato, in udienza rendeva dichiarazioni spontanee, sostenendo di non aver prestato il proprio consenso consapevole. Essendo agli arresti domiciliari e non avendo avuto colloqui diretti col difensore, l’uomo dichiarava di non aver mai condiviso l’intenzione di patteggiare.

Il giudice riteneva che la sua dichiarazione non fosse rilevante. L’imputato adiva il Palazzaccio, deducendo che la volontà di accedere al patteggiamento, formulata dal primo avvocato, il cui mandato era stato revocato, era viziata.

La natura personalissima dell’assenso al patteggiamento

Per Gli Ermellini, il ricorso è fondato.

La Corte ha ribadito che, pur essendo l’accordo non ritrattabile una volta concluso, la volontà di patteggiare è un “atto personalissimo”. Al punto che, “nel caso di contestuale presenza in udienza del difensore e dell’imputato che manifestino volontà
diverse circa l’accesso al rito, si è ritenuto che debba prevalere la volontà di quest’ultimo”.

La rilevanza della volontà dell’imputato risulta anche dalla scelta del legislatore di prevedere che, “nell’ipotesi in cui la richiesta di applicazione di pena sia stata avanzata esclusivamente dal procuratore speciale con atto scritto o all’udienza in assenza dell’imputato, il giudice, per accertare la volontarietà della richiesta o del consenso, può disporre la comparizione dell’imputato (art. 446, comma 5, c.p.p.)”.

La decisione

Nel caso in esame, la richiesta di patteggiamento risulta essere stata effettuata
nel corso delle indagini preliminari dal difensore munito di una procura speciale,
strutturata in modo “aspecifico”. La stessa, infatti, era riferita in generale «ad ogni stato e grado del procedimento, compreso quello davanti agli organi di sorveglianza».
Tali caratteristiche, scrivono i giudici, “rendono l’atto non sufficientemente chiaro in ordine al suo valore di ‘delega’ al difensore per definire il processo con il patteggiamento”. E, dunque “per consentire di ritenere che la volontà del ricorrente fosse proprio quella di volere accedere a tale rito alternativo”.
In conclusione, la S.C. ritiene che la struttura della procura, che non risulta specificamente ed esclusivamente diretta a consentire al difensore di concludere il procedimento con l’accesso al rito ex artt. 444 e ss. c.p.p., unitamente alle dichiarazioni rese dal ricorrente, indichino che lo stesso non sia stato posto nelle condizioni di scegliere consapevolmente il rito alternativo.
La sentenza impugnata, pertanto, è annullata senza rinvio.

 

Leggi gli altri articoli di diritto penale

Allegati

rapina a mano armata

Il reato di rapina a mano armata Il reato di rapina a mano armata nel diritto penale italiano: quando si configura, la pena prevista e la giurisprudenza

Rapina a mano armata: art. 628 codice penale

La rapina a mano armata rappresenta una forma aggravata del reato di rapina, disciplinato dall’articolo 628 del Codice Penale italiano. Questo delitto si configura quando un individuo, mediante l’uso di un’arma, sottrae con violenza o minaccia un bene mobile altrui, al fine di trarne profitto per sé o per altri.

Quando si configura la rapina a mano armata

La rapina a mano armata si concretizza quando l’autore del reato utilizza un’arma per intimidire la vittima e ottenere la consegna del bene desiderato. L’arma può essere di vario tipo, inclusi oggetti atti a offendere che, per le loro caratteristiche, possono incutere timore nella vittima.

Pene previste per la rapina a mano armata

La legge italiana prevede pene severe per chi commette una rapina a mano armata. In particolare, l’articolo 628, terzo comma, n. 1) del Codice Penale stabilisce una reclusione da sei a venti anni e una multa da 2.000 a 4.000 euro. Questa sanzione è più elevata rispetto a quella prevista per la rapina semplice, a causa dell’uso dell’arma che aumenta la pericolosità del reato e l’allarme sociale.

Il caso della pistola giocattolo

La giurisprudenza ha chiarito che l’aggravante dell’uso dell’arma si applica anche quando l’arma utilizzata è una pistola giocattolo, purché questa non sia immediatamente riconoscibile come tale. In altre parole, se la pistola giocattolo appare reale e incute timore nella vittima, l’aggravante è configurabile. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39253/2021, ha ribadito questo principio, affermando che l’aggravante sussiste quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso a uno strumento che appare come un’arma da sparo. La riconoscibilità dipende sia alle circostanze oggettive dell’ambiente che incidono sulla visibilità dei segni presenti sul giocattolo come il tipico tappo rosso e caratteristiche similari, sia dalla percezione che la vittima ha avuto di quei segni specifici.

Giurisprudenza rilevante

Oltre alla sentenza sopra citata, è importante menzionare altre pronunce che hanno affrontato il tema della rapina a mano armata:

  • Cassazione Penale n. 32473/2024: in relazione all’aggravante dell’arma nel reato di rapina a mano armata tutti i partecipanti, inclusi gli autori materiali e coloro che hanno fornito assistenza necessaria (i cosiddetti basisti), sono responsabili anche del reato di porto illegale di armi e della relativa circostanza aggravante. Questo perché l’ideazione del crimine include l’uso delle armi e il loro porto abusivo, necessari per realizzare la minaccia o la violenza tipiche di tale reato.
  • Cassazione Penale n. 35953/2022: per la configurabilità dell’aggravante dell’arma in un delitto circostanziato, è sufficiente che il reo sia visibilmente armato, senza necessità che l’arma venga effettivamente impugnata per minacciare. L’aggravante sussiste quando l’arma è portata in modo tale da incutere timore, lasciando presagire un suo possibile utilizzo come strumento di violenza o minaccia per costringere la vittima a sottostare alle intimazioni.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati al reato di rapina 

ddl intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale: cosa prevede la nuova legge Il 20 marzo 2025 il Senato ha approvato in via definitiva il ddl in materia di intelligenza artificiale, tra le novità il pacchetto giustizia e le disposizioni penali

Intelligenza artificiale: è legge

Il Senato ha approvato il 20 marzo 2025, in via definitiva, il ddl di iniziativa del Governo in materia di Intelligenza Artificiale, prevedendo un giro di vite e introducendo fattispecie di reato, oltre all’obbligo dei professionisti di informare i clienti sull’utilizzo dei sistemi di IA.

Cinque gli ambiti in cui il ddl, recante “Disposizioni e deleghe al governo in materia di intelligenza artificiale”, mira ad intervenire. Nel testo è compresa una delega al governo per l’adeguamento al Regolamento UE sull’alfabetizzazione dei cittadini sull’IA e la formazione degli ordini professionali per professionisti e operatori, oltre all’adeguamento, sul fronte penale, di reati e sanzioni per l’uso illecito dell’IA.

I cinque ambiti di intervento

Il testo individua criteri regolatori capaci di riequilibrare il rapporto tra le opportunità che offrono le nuove tecnologie e i rischi legati al loro uso improprio, al loro sottoutilizzo o al loro impiego dannoso. Inoltre, introduce norme di principio e disposizioni di settore che, da un lato, promuovano l’utilizzo delle nuove tecnologie per il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e della coesione sociale e, dall’altro, forniscano soluzioni per la gestione del rischio fondate su una visione antropocentrica.

Il testo contiene disposizioni di principio e di settore, si occupa della strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, delinea le funzioni delle Autorità nazionali per l’IA e dedica la parte conclusiva alle disposizioni penali introducendo reati e sanzioni.

Strategia nazionale

Si introduce la Strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, il documento che garantisce la collaborazione tra pubblico e privato, coordinando le azioni della PA in materia e le misure e gli incentivi economici rivolti allo sviluppo imprenditoriale ed industriale.

I risultati del monitoraggio vengono trasmessi annualmente alle Camere.

Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale

Si istituiscono le Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale, disponendo l’affidamento all’Agenzia per l’Italia digitale (AgID) e all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) del compito di garantire l’applicazione e l’attuazione della normativa nazionale e UE in materia di AI.
AgID e ACN, ciascuna per quanto di rispettiva competenza, assicurano l’istituzione e la gestione congiunta di spazi di sperimentazione finalizzati alla realizzazione di sistemi di intelligenza artificiale conformi alla normativa nazionale e UE.

Misure di sostegno ai giovani sull’IA

Tra i requisiti per beneficiare del regime agevolativo a favore dei lavoratori rimpatriati rientrerà l’aver svolto un’attività di ricerca nell’ambito delle tecnologie di intelligenza artificiale.
Nel piano didattico personalizzato (PDP) delle scuole superiori per le studentesse e gli studenti ad alto potenziale cognitivo potranno essere inserite attività volte all’acquisizione di ulteriori competenze attraverso esperienze di apprendimento presso le istituzioni della formazione superiore.

Professioni intellettuali, giustizia e diritto d’autore

L’uso di sistemi di intelligenza artificiale è consentito nelle professioni per attività strumentali e di supporto, con prevalenza del lavoro intellettuale. E’ obbligatoria la comunicazione chiara e completa al cliente sull’uso di tali sistemi, per tutelare il rapporto fiduciario.

L’uso dell’IA nel settore giustizia deve essere limitato all’organizzazione del lavoro giudiziario e alla ricerca giurisprudenziale e dottrinale. Ai magistrati è riservata l’interpretazione della legge, la valutazione di fatti e prove, e l’adozione di provvedimenti.

Le opere create con l’intelligenza artificiale sono protette dal diritto d’autore, a patto che la loro creazione derivi dal lavoro intellettuale.

Disciplina penale

Il testo prevede un aumento della pena per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, per natura o modalità di utilizzo, “abbiano costituito mezzo insidioso, o quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa o aggravato le conseguenze del reato”.

Si punisce l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di IA, atti a indurre in inganno sulla loro genuinità, con la pena da uno a cinque anni di reclusione se dal fatto deriva un danno ingiusto.
Si introducono circostanze aggravanti speciali per alcuni reati nei quali l’utilizzo di sistemi di IA abbia una straordinaria capacità di propagazione dell’offesa.

 

Leggi anche gli altri articoli in materia di IA

intercettazioni telefoniche

Intercettazioni telefoniche: per legge fino a 45 giorni Intercettazioni telefoniche: è legge il ddl che ha fissato a 45 giorni il termine di durata massimo, salvo eccezioni

Intercettazioni telefoniche: durata

La Camera dei deputati nella giornata di mercoledì 19 marzo 2025 ha approvato in via definitiva la legge che impone il limite massimo di 45 giorni per le intercettazioni telefoniche. Il provvedimento, già passato al Senato, ha ottenuto 147 voti favorevoli, 67 contrari e un astenuto. Ora manca solo la promulgazione per l’entrata in vigore ufficiale.

Durata limitata con eccezioni

La nuova norma stabilisce che le intercettazioni non possano superare il tetto di 45 giorni. Tuttavia, se emergono elementi concreti e specifici che ne rendano indispensabile la prosecuzione, il limite può essere esteso con un’esplicita motivazione. Questa regola si applica a tutte le operazioni di ascolto, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge.

Il provvedimento prevede deroghe infatti per i reati di criminalità organizzata  e minacce telefoniche.

Modifiche al codice di procedura penale

Il provvedimento modifica l’articolo 267 del codice di procedura penale, introducendo il limite temporale alle intercettazioni. Inoltre, l’articolo 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 viene aggiornato per escludere dall’applicazione del nuovo limite a reati gravi.

Cosa cambia nelle intercettazioni telefoniche

La nuova legge rappresenta un cambiamento significativo nella disciplina delle intercettazioni. Se da un lato introduce un controllo più stringente sulle operazioni investigative, dall’altro solleva dubbi sulla sua efficacia nel contrastare i reati più gravi. Il dibattito resta aperto tra chi la considera una misura di garanzia e chi, invece, teme un indebolimento delle indagini giudiziarie.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alle intercettazioni

arresti domiciliari

Arresti domiciliari Arresti domiciliari: definizione, normativa, applicazione, differenze con la custodia cautelare e sentenze della Cassazione

Cosa sono gli arresti domiciliari?

Gli arresti domiciliari sono una misura cautelare personale di tipo coercitivo prevista dal Codice di procedura penale. Consistono nell’obbligo per l’indagato o l’imputato di rimanere presso il proprio domicilio o da altro luogo di privata dimora stabilito dal giudice, in attesa del processo o di ulteriori sviluppi processuali. L’obiettivo della misura deve essere identificato con la volontà di limitare la libertà personale dell’imputato quando sussistono esigenze cautelari, evitando la detenzione in carcere.

Normativa di riferimento sui domiciliari

La disciplina si trova nel Libro IV, Titolo I, Capo II del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento sono:

  • 284 c.p.p.: disciplina generale degli arresti domiciliari.
  • 275 c.p.p.: principi di adeguatezza e proporzionalità delle misure cautelari.
  • 276 c.p.p.: sostituzione e cumulo con altre misure cautelari.
  • 303 c.p.p.: durata massima degli arresti domiciliari.

Quando si applicano gli arresti domiciliari

Gli arresti domiciliari possono essere disposti dal giudice per le indagini preliminari (GIP) o dal giudice procedente in presenza di tre condizioni fondamentali:

Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).

Esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.), tra cui:

  • Pericolo di fuga;
  • Rischio di reiterazione del reato;
  • Possibile inquinamento delle prove.

Adeguatezza della misura: gli arresti domiciliari devono risultare idonei rispetto alla custodia cautelare in carcere, in base al principio di extrema ratio.

Reati per cui si applicano

Gli arresti domiciliari possono essere concessi per una vasta gamma di reati, ma generalmente si applicano per reati di media gravità, o nei casi in cui l’imputato non abbia precedenti o non rappresenti un pericolo per la collettività. Alcuni esempi:

  • Furto e truffa aggravata (artt. 624 e 640 c.p.).
  • Stupefacenti (spaccio di lieve entità) (art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90).
  • Violenza privata (art. 610 c.p.).
  • Lesioni personali gravi (art. 582 c.p.).
  • Corruzione e concussione (artt. 318-319 c.p.).

Durata degli arresti domiciliari

La durata massima di questa misura è regolata dall’art. 303 c.p.p. e varia a seconda della pena detentiva massima. Questo articolo stabilisce che il termine massimo è:

  • di sei anni nei procedimenti per reati puniti con l’ergastolo o con una pena detentiva superiore a venti anni;
  • di quattro anni per i reati la cui pena detentiva massima non supera i venti anni;
  • di due anni per i reati con una pena detentiva massima fino a sei anni.

Differenze con la custodia cautelare in carcere

Entrambe le misure sono misure cautelari coercitive, ma con importanti differenze:

Caratteristica Arresti Domiciliari Custodia Cautelare
Luogo di esecuzione Domicilio o luogo indicato dal giudice Carcere
Grado di restrizione Limitato, con eventuale permesso di uscita per motivi lavorativi o sanitari Massimo, con privazione totale della libertà
Presupposti Necessaria una valutazione di idoneità rispetto alla custodia in carcere Disposta nei casi più gravi o quando gli arresti domiciliari sono insufficienti
Applicabilità Reati meno gravi o imputati senza precedenti Reati più gravi e pericolo concreto

 

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha chiarito in diverse pronunce i criteri di applicazione:

Cassazione n. 18035/2022: chi è agli arresti domiciliari commette reato se si allontana oltre un chilometro dal percorso autorizzato, eludendo così i controlli. Per configurare il dolo di evasione, è sufficiente essere consapevoli della misura restrittiva e agire volontariamente per violarla.

Cassazione n. 20026/2022: annullata l’ordinanza che imponeva gli arresti domiciliari a un medico per non aver somministrato il vaccino ai pazienti, sottolineando l’importanza del principio di proporzionalità nelle misure cautelari. Eccessiva la detenzione domiciliare, l’interdizione dalla professione è sufficiente a prevenire la reiterazione del reato.

Cassazione SU n. 7635/2022: la sottoposizione dell’imputato ai domiciliari per altra causa, debitamente documentata o comunicata al giudice procedente in qualsiasi momento, costituisce un impedimento legittimo a comparire. Di conseguenza, il giudice è tenuto a rinviare l’udienza e a disporre la traduzione dell’imputato.

 

Leggi anche: Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento

furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

Allegati