ddl intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale: cosa prevede il ddl in Parlamento Il 25 giugno 2025 la Camera ha approvato, con modificazioni, il testo del ddl in materia di intelligenza artificiale trasmesso dal Senato

Intelligenza artificiale: sì della Camera

La Camera il 25 giugno 2025 ha approvato, con modifiche, il testo del ddl trasmesso dal Senato e di iniziativa del Governo in materia di Intelligenza Artificiale. I voti a favore sono stati 136, i voti contrari 94, gli astenuti 5.

Il testo prevede un giro di vite e introduce fattispecie di reato,  confermando l’obbligo dei professionisti di informare i clienti sull’utilizzo dei sistemi di IA.

Cinque gli ambiti in cui il ddl, recante “Disposizioni e deleghe al governo in materia di intelligenza artificiale”, mira ad intervenire. Nel testo è compresa una delega al governo per l’adeguamento al Regolamento UE sull’alfabetizzazione dei cittadini sull’IA e la formazione degli ordini professionali per professionisti e operatori, oltre all’adeguamento, sul fronte penale, di reati e sanzioni per l’uso illecito dell’IA.

Il testo è ora all’esame del Senato per la lettura definitiva.

I cinque ambiti di intervento

Il testo individua criteri regolatori capaci di riequilibrare il rapporto tra le opportunità che offrono le nuove tecnologie e i rischi legati al loro uso improprio, al loro sottoutilizzo o al loro impiego dannoso. Inoltre, introduce norme di principio e disposizioni di settore che, da un lato, promuovono l’utilizzo delle nuove tecnologie per il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e della coesione sociale e, dall’altro, forniscono soluzioni per la gestione del rischio fondate su una visione antropocentrica.

Il testo contiene disposizioni di principio e di settore, si occupa della strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, delinea le funzioni delle Autorità nazionali per l’IA e dedica la parte conclusiva alle disposizioni penali introducendo reati e sanzioni.

Strategia nazionale

Si introduce la Strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, il documento che garantisce la collaborazione tra pubblico e privato, coordinando le azioni della PA in materia e le misure e gli incentivi economici rivolti allo sviluppo imprenditoriale ed industriale.

Dopo il passaggio alla Camera l’articolo 19 prevede ora che la strategia debba essere sottoposta ad approvazione quantomeno biennale dal Comitato interministeriale per la transizione digitale e che in sede di attuazione il Dipartimento per la trasformazione digitale della presidenza del CdM debba sentire la Banca d’Italia, l’Ivass e la Consob.

I risultati del monitoraggio dovranno essere trasmessi annualmente alle Camere.

Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale

Si istituiscono le Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale, disponendo l’affidamento all’Agenzia per lItalia digitale (AgID) e all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) del compito di garantire l’applicazione e l’attuazione della normativa nazionale e UE in materia di AI.
AgID e ACN, ciascuna per quanto di rispettiva competenza, assicurano l’istituzione e la gestione congiunta di spazi di sperimentazione finalizzati alla realizzazione di sistemi di intelligenza artificiale conformi alla normativa nazionale e UE.

Misure di sostegno ai giovani sull’IA

Tra i requisiti per beneficiare del regime agevolativo a favore dei lavoratori rimpatriati rientrerà l’aver svolto un’attività di ricerca nell’ambito delle tecnologie di intelligenza artificiale.
Nel piano didattico personalizzato (PDP) delle scuole superiori per le studentesse e gli studenti ad alto potenziale cognitivo potranno essere inserite attività volte all’acquisizione di ulteriori competenze attraverso esperienze di apprendimento presso le istituzioni della formazione superiore.

Il comma 3 dell’articolo 22 infine promuove l’intervento statale per favorire l’accesso all’intelligenza artificiale con la finalità di migliorare il benessere psicologico e fisico grazie all’attività sportiva.

Professioni intellettuali, giustizia e diritto d’autore

L’uso di sistemi di intelligenza artificiale è consentito nelle professioni per attività strumentali e di supporto, con prevalenza del lavoro intellettuale. E’ obbligatoria la comunicazione chiara e completa al cliente sull’uso di tali sistemi, per tutelare il rapporto fiduciario.

L’uso dell’IA nel settore giustizia deve essere limitato all’organizzazione del lavoro giudiziario e alla ricerca giurisprudenziale e dottrinale. Ai magistrati è riservata l’interpretazione della legge, la valutazione di fatti e prove e l’adozione di provvedimenti.

Le opere create con l’intelligenza artificiale sono protette dal diritto d’autore, a patto che la loro creazione derivi dal lavoro intellettuale.

In ambito sanitario l’intelligenza artificiale migliora il sistema, la prevenzione, la diagnosi e la cura,  nel rispetto ovviamente dei diritti e delle libertà degli individui e dei dati personali.

Per quanto riguarda il lavoro invece l’intelligenza artificiale del essere impiegata per migliorare le condizioni dei lavoratori, la loro salute e la produttività, nel rispetto della dignità, dei diritti inviolabili e della riservatezza.

Disciplina penale

Il testo prevede un aumento della pena per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, per natura o modalità di utilizzo, “abbiano costituito mezzo insidioso, o quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa o aggravato le conseguenze del reato”.

Il testo introduce una circostanza aggravante del delitto di attentati conto i diritti politici dei cittadini (art. 294 c.p.) commessi impiegando l’intelligenza artificiale.

Si punisce l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di IA, atti a indurre in inganno sulla loro genuinità, con la pena da uno a cinque anni di reclusione, se dal fatto deriva un danno ingiusto.
Si introducono circostanze aggravanti speciali per alcuni reati come l’aggiotaggio e la manipolazione del mercato, se commessi con l’impiego dell’intelligenza artificiale.

Sanzionato anche il plagio commesso con l’utilizzo dell’AI.

 

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abigeato

Abigeato: cos’è e come viene punito Abigeato: che cos'è, quando si configura, quale norma del codice penale lo disciplina e come viene punito dalla legge

Cos’è l’abigeato?

L’abigeato è un reato che consiste nel furto di bestiame e che, in passato, era considerato un crimine particolarmente grave nelle società agricole. Ancora oggi, pur essendo meno diffuso, rappresenta un problema in alcune zone rurali, motivo per cui il legislatore ha previsto specifiche sanzioni nel Codice Penale italiano.

Il termine abigeato deriva dal latino “abigere”, che significa “portare via”. Questo reato si configura quando una persona sottrae animali da allevamento con l’intenzione di trarne profitto, sia per la vendita che per l’uso personale. A differenza del furto comune, l’abigeato coinvolge capi di bestiame di proprietà altrui e può avvenire con modalità organizzate, coinvolgendo più soggetti.

Normativa di riferimento

L’abigeato è disciplinato dall’art. 625 n. 8 del Codice Penale, che lo qualifica come un’aggravante del reato di furto. In particolare, il furto di bestiame è considerato più grave perché colpisce direttamente il settore agricolo e zootecnico, danneggiando l’economia locale.

Inoltre, in alcune regioni italiane, esistono normative specifiche volte a contrastare l’abigeato, con misure di sorveglianza e controlli rafforzati nelle aree a rischio.

Quando scatta il reato di abigeato?

L’abigeato si configura quando:

  • viene sottratto un numero significativo (minimo tre) di capi di bestiame (bovini, equini, ovini, suini o altri animali da allevamento);
  • il bestiame è raccolto in gregge lo mandria, e, se trattasi di bovini o equini, anche se non sono raccolti in mandria;
  • il soggetto che si impossessa degli animali li sottrae per trarne profitto per sé o per altri.

Come viene punito  

La pena per l’abigeato dipende dalla gravità del reato:

  • reclusione da 2 a 6 anni e multa fino a 1.500 euro, se il furto è aggravato (art. 625 c.p.);
  • pene più severe se il furto è commesso da un gruppo organizzato o con violenza;
  • sequestro dei mezzi utilizzati per il trasporto degli animali rubati;
  • applicazione di aggravanti ulteriori in caso di ricettazione o vendita fraudolenta del bestiame.

 

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ingresso illegale

Ingresso illegale: legittima la mancata depenalizzazione La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale. Nessuna violazione della delega legislativa

Reato di ingresso e soggiorno illegale

Con la sentenza n. 81/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Firenze in merito alla mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. La questione era stata posta con riferimento all’articolo 76 della Costituzione e all’articolo 3 del decreto legislativo n. 8 del 2016.

Delega legislativa non violata

Secondo la Corte, l’omessa depenalizzazione rappresenta un’ipotesi di “delega in minus”, ovvero una parziale attuazione della delega conferita con la legge n. 67 del 2014. Non essendo stato alterato il disegno complessivo del legislatore delegante, non si configura alcuna violazione dell’articolo 76 della Costituzione.

Depenalizzazione ampia ma selettiva

La Consulta ha sottolineato che la legge di delegazione aveva previsto una depenalizzazione “cieca” e nominativa, rivolta a una vasta gamma di reati. L’omessa attuazione per una singola fattispecie – quella dell’ingresso e soggiorno illegale – non può considerarsi uno stravolgimento del progetto complessivo.

Conferma anche dalla Commissione giustizia

A rafforzare l’orientamento della Corte, la sentenza richiama il parere espresso a suo tempo dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati. Quest’ultima aveva osservato che la scelta del Governo costituiva un mancato esercizio della delega limitato a un singolo e autonomo punto, privo di incidenza sull’efficacia generale della riforma.

notifica regolare

Notifica regolare non garantisce conoscenza effettiva del processo Notifica regolare e processo ignoto: la Cassazione chiarisce i limiti della conoscenza effettiva

Notifica regolare e processo ignoto

Notifica regolare e processo ignoto: con la sentenza n. 16899/2025, la sesta sezione penale della Cassazione è tornata a esaminare il delicato rapporto tra regolarità formale della notifica dell’atto di citazione a giudizio e la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato, ribadendo un principio cardine in materia di diritto alla difesa: “La regolarità della notifica dell’atto di citazione in giudizio non implica necessariamente la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato”.

Il caso esaminato

Nel caso specifico, l’imputato era stato giudicato in contumacia a seguito della notifica, formalmente regolare, dell’atto di citazione in giudizio presso il domicilio eletto. Tuttavia, lo stesso imputato aveva successivamente dedotto di non aver mai avuto conoscenza effettiva del procedimento e di non aver potuto esercitare il proprio diritto di difesa.

La Corte di merito aveva ritenuto sufficiente, ai fini della validità del processo, la sola regolarità formale della notifica, rigettando la richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione.

La decisione della Cassazione

La Sesta Sezione, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha censurato la decisione del giudice di merito, ricordando che il diritto alla difesa, sancito dall’art. 24 Cost. e dagli articoli 6 e 14 della Convenzione EDU, non può essere ridotto al rispetto formale delle regole procedurali, ma impone che l’imputato sia posto concretamente in condizione di conoscere e partecipare al processo.

Secondo la Corte, la notifica “regolare” non garantisce automaticamente la conoscenza effettiva del processo da parte del destinatario. È necessario verificare in concreto se l’imputato abbia avuto effettiva consapevolezza dell’instaurazione del procedimento, specie nei casi di elezione di domicilio risalente o presso terzi, situazioni che possono determinare un’informazione solo apparente.

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tribunale per i minorenni

Tribunale per i minorenni: 8 euro per ogni e-mail con copie digitali Il Ministero della giustizia chiarisce i costi per il rilascio di copie digitali nei procedimenti minorili: 8 euro per ogni email inviata, 25 euro per copie audio-video

Costi copie digitali nei procedimenti minorili

Con provvedimento del 10 giugno 2025, la Direzione generale degli affari interni del Dipartimento per gli affari di giustizia, tramite il canale Filo Diretto, ha fornito risposta a un quesito sollevato dal Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari in merito all’applicazione dei diritti di copia nei procedimenti penali minorili.

Assenza del fascicolo informatico e problematiche

Il Tribunale per i minorenni di Bari ha evidenziato come, in assenza del fascicolo penale informatico e del relativo applicativo gestionale (TIAP), la trasmissione telematica degli atti richieda una preventiva scansione manuale dei documenti. Questa attività, particolarmente onerosa in termini di tempo e risorse umane, non è attualmente valorizzata nei diritti forfettari previsti per la copia degli atti.

Applicazione dell’art. 269-bis del Dpr n. 115/2002

La Direzione generale ha chiarito che trova piena applicazione l’articolo 269-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207 (legge di Bilancio 2025), anche in assenza del fascicolo informatico.

In particolare, è stato stabilito che:

  • Per ogni richiesta di rilascio e invio per via telematica (email o PEC) di copie digitali di atti e documenti relativi a procedimenti penali minorili, si applica un diritto forfettario di 8 euro per ogni singolo invio, indipendentemente dal numero di pagine trasmesse.

  • Tale importo è previsto dalla tabella allegato n. 8 del d.P.R. n. 115/2002.

Copie di file audio e video: il diritto forfettario

Sebbene non oggetto diretto del quesito, la Direzione ha confermato che anche per la riproduzione di file audio o video su supporti informatici (come chiavette USB, CD o DVD), si applica un diritto di copia forfettario pari a 25 euro.

Possibilità di rilascio cartaceo

Resta salva, come già ricordato nel provvedimento del 5 marzo 2025, la possibilità per l’utente di richiedere copie cartacee, per le quali continua ad applicarsi il tradizionale sistema di calcolo dei diritti di copia, commisurati al numero di pagine richieste.

tutela animali

Tutela degli animali: pene più severe per legge In Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 1° luglio la legge in materia di tutela degli animali. Ecco cosa prevede

Tutela degli animali: legge in vigore dal 1° luglio

Dopo l’approvazione definitiva del 29 maggio scorso da parte del Senato, la nuova legge n. 82/2025 che mira a a rafforzare la tutela degli animali, in linea con la riforma dell’articolo 9 della Costituzione, che riconosce la protezione degli animali come valore fondamentale, è approdata in Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore dal 1° luglio 2025.

Il testo introduce numerose modifiche al codice penale, intensificando le sanzioni per i reati contro gli animali e prevedendo nuove misure di prevenzione e contrasto.

Queste modifiche rappresentano un passo avanti nella tutela giuridica degli animali, con pene più severe, nuove aggravanti e misure preventive. Le legge sottolinea il riconoscimento degli animali come esseri senzienti e introduce strumenti concreti per combattere la crudeltà e promuovere il loro benessere.

Sanzioni penali più elevate a tutela degli animali

L’articolo 1 modifica il Titolo IX-bis del Libro II del codice penale, riformulando il titolo in “Dei delitti contro gli animali”. Questo cambiamento elimina il riferimento al “sentimento per gli animali”, concentrandosi sulla tutela diretta degli animali come esseri senzienti. Ecco un riepilogo delle principali modifiche introdotte:

Organizzazione di spettacoli con sevizie (art. 544-quater)

La pena pecuniaria passa da 3.000-15.000 euro a 15.000-30.000 euro. Verrà inoltre punito anche chi, al di fuori dei casi di concorso, si limita a partecipare a questi spettacoli e manifestazioni.

Combattimenti tra animali (art. 544-quinquies)

La reclusione per questo reato aumenta da 1-3 anni a 2-4 anni. La pena per i partecipanti, in precedenza limitata ai proprietari degli animali, si estende a chiunque partecipi ai combattimenti (reclusione 3 mesi-2 anni e multa 5.000-30.000 euro).

Uccisione di animali (art. 544-bis)

La reclusione sale da 4 mesi-2 anni a 6 mesi-3 anni, con l’aggiunta di una multa di 5.000-30.000 euro.

Aggravante: sevizie o sofferenze prolungate sono punite con reclusione da 1 a 4 anni e una multa 10.000-60.000 euro.

Maltrattamento di animali (art. 544-ter)

La reclusione passa da 3-18 mesi a 6 mesi-2 anni, la multa (5.000-30.000 euro) diventa obbligatoria e si estende l’aggravante in caso di somministrazione di sostanze dannose agli animali.

Uccisione o danneggiamento di animali altrui (art. 638)

Chi, senza necessità, uccide o rende inservibili o comunque deteriora tre o più animali raccolti in gregge o in mandria, ovvero compie il fatto su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria, verrà punito con la pena della reclusione minima di un anno e massima di 4 anni.

Abbandono di animali (art. 727)

La multa minima passa da 1.000 a 5.000 euro. L’ammenda resta invece fissata nella misura massima di 10.000 euro.

Protezione della fauna selvatica (art. 727-bis)

Per l’uccisione, la cattura e la detenzione di esemplari di specie animali selvatiche protette la reclusione aumenta da 1-6 mesi a 3 mesi-1 anno. La multa invece passa da 4.000 a 8.000 euro.

Distruzione di habitat protetti (art. 733-bis)

Per chi distrugge o deteriora un habitat all’interno di un sito protetto la reclusione passa da un massimo di 18 mesi a 3 mesi-2 anni, mentre la multa minima diventa 6.000 euro.

Aggravante comune (art. 544-septies)

Viene introdotta un’aggravante a effetto comune per i reati di cui agli articoli 544 bis c.p, 544 ter c.p, 544 quater c.p, 544 quinquies c.p e 638 c.p, commessi in presenza di minori, nei confronti di più animali, o con diffusione attraverso strumenti telematici.

Misure preventive e procedurali a tutela degli animali

La legge tutela la salute psico fisica-degli animali, introducendo   importanti novità anche sotto il profilo procedurale.

Sequestro e confisca di animali

Gli animali vittime di reato non potranno essere abbattuti o ceduti fino alla sentenza definitiva. Il nuovo art. 260-bis del codice di procedura penale regola il sequestro, consentendo l’affidamento degli animali a enti, associazioni o privati dietro cauzione. Chi commette reati abituali contro gli animali potrà essere soggetto a misure di prevenzione previste dal codice antimafia.

Responsabilità amministrativa di enti e società

L’introduzione dell’art. 25-undevicies nel decreto legislativo 231/2001 prevede sanzioni specifiche per gli enti coinvolti in reati contro gli animali.

Divieto di catene

Sarà vietato tenere gli animali legati con catene o strumenti simili, salvo esigenze documentate. La violazione sarà punita con una multa da 500 a 5.000 euro.

Traffico illecito di animali da compagnia

La reclusione aumenta a 4-18 mesi e la multa da 6.000 a 30.000 euro. Sanzioni più severe sono previste per l’introduzione illecita di animali sul territorio nazionale.

Banca dati dei reati contro gli animali

Sarà creata una sezione specifica nella banca dati delle Forze di polizia, con il coinvolgimento del Ministero dell’Ambiente per il coordinamento.

Divieto di commercio di pellicce di gatti domestici

Sarà vietato utilizzare a fini commerciali pelli e pellicce della specie Felis catus.

 

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reati fiscali

Reati fiscali, tenuità del fatto se il debito è quasi estinto La Cassazione riconosce la tenuità del fatto per chi, pur indagato per reati fiscali, ha quasi integralmente estinto il debito

Reati fiscali e tenuità del fatto

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22076/2025, ha ribadito un importante principio in materia di reati fiscali: l’elevato grado di collaborazione del contribuente con l’amministrazione finanziaria può giustificare l’applicazione dell’art. 131-bis c.p., che disciplina la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ciò vale soprattutto quando l’autore del reato ha versato quasi per intero l’importo contestato.

La vicenda

La questione riguarda una contribuente, legale rappresentante di una società, imputata per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.lgs. 74/2000). Secondo l’accusa, l’imputata aveva inserito in dichiarazione elementi passivi fittizi per evadere l’IVA.

Condannata in primo grado dal Tribunale di Salerno il 12 marzo 2024, la sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello. La difesa, nel ricorso per Cassazione, ha però evidenziato che l’imputata aveva già versato 95.500 euro su un debito complessivo di circa 97.000 euro, lamentando il mancato riconoscimento della tenuità del fatto.

Il principio affermato

Per la Suprema Corte, il comportamento successivo alla commissione del reato — nella specie il versamento quasi integrale del debito — costituisce un indice rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p. La valutazione della particolare tenuità deve tenere conto della parte residua del debito ancora da saldare e dell’impegno concreto e attuale al pagamento.

Secondo i giudici, se la parte versata copre la quasi totalità del dovuto, tale condotta assume particolare rilevanza sotto il profilo collaborativo e può prevalere sull’offensività originaria del fatto.

Collaborazione e recupero prevalgono sulla punizione

La Cassazione sottolinea che negare rilevanza a tali comportamenti finirebbe per svuotare di significato la riforma dell’art. 13 del D.lgs. 74/2000, orientata a privilegiare il recupero delle somme evase rispetto alla sola finalità punitiva. Il diritto penale tributario moderno, in questa prospettiva, è volto a incentivare la regolarizzazione spontanea, anche parziale, dei debiti tributari.

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spese processuali

Spese processuali anche se il reato è prescritto La sentenza della Cassazione chiarisce che la prescrizione non evita la condanna dell’imputato alle spese della parte civile

Spese processuali e prescrizione

Con la sentenza n. 18619/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in materia di spese processuali in caso di estinzione del reato per prescrizione, affermando che l’imputato può essere comunque condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, anche se non vi è stata pronuncia di colpevolezza.

Il fatto

Nel caso esaminato, il tribunale di merito aveva dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nonostante ciò, il giudice aveva condannato l’imputato al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile costituitasi nel processo. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, venendo meno l’accertamento della responsabilità penale, non vi fosse legittimazione a imporre il pagamento delle spese a suo carico.

La motivazione della Corte

La Cassazione ha rigettato il ricorso e ha riaffermato che:

“Nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può comunque essere condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile, non essendo la prescrizione indice di soccombenza”.

Secondo la Corte, la prescrizione non implica una pronuncia di assoluzione né tantomeno una valutazione favorevole in ordine alla fondatezza delle difese dell’imputato. Anzi, nel processo penale, la decisione di non proseguire per intervenuta estinzione del reato non impedisce al giudice di decidere sulle spese processuali, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti.

Il principio di diritto affermato

Il principio sancito dalla sentenza è il seguente:

Anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può essere condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, soprattutto quando quest’ultima si sia costituita tempestivamente e la sua pretesa risarcitoria non sia risultata temeraria o strumentale.

Ciò si fonda sull’interpretazione sistematica dell’art. 541 c.p.p., secondo cui il giudice, nel disporre la condanna alle spese, può tener conto dell’andamento processuale e delle risultanze probatorie, pur senza emettere un giudizio di responsabilità.

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diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

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