reato abuso ufficio

Abuso d’ufficio addio Nel testo del disegno di legge Nordio, il reato di abuso d’ufficio scompare dal codice penale. La Camera ha approvato in via definitiva il 4 luglio l'articolo 1

DDL Nordio: ok definitivo abolizione dell’abuso d’ufficio

Il disegno di legge Nordio sulla giustizia prevede, tra le varie novità, anche l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Il testo, approvato dal Senato, è stato sottoposto alla Commissione Giustizia della Camera, che ne ha concluso l’esame. Stante il rigetto di tutti gli emendamenti proposti il testo di legge è in Aula dal 24 giugno 2024 nella stessa formulazione approvata dal Senato. Il 4 luglio, Montecitorio ha votato in via definitiva il primo articolo del ddl che abroga uno dei più classici reati contro la PA, l’abuso d’ufficio. Il voto sul resto del testo è atteso per martedì 9 luglio.

Abuso d’ufficio: com’è ora

L’attuale versione letterale dell’articolo 323 del codice penale, che punisce il reato di abuso d’ufficio, prevede che, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un servizio pubblico che nello svolgimento delle sue funzioni o del suo servizio, violando specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dai quali non  residuano margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti dalla legge, procuri intenzionalmente a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale ingiusto ovvero arrechi ad altri un danno ingiusto è soggetto alla pena della reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata qualora il vantaggio o il danno presentino il carattere di rilevante gravità.

Reato plurioffensivo

Il reato di abuso d’ufficio è un reato di tipo plurioffensivo perché il bene giuridico tutelato dalla norma è rappresentato sia dal buon andamento della pubblica amministrazione che dal patrimonio del terzo che viene danneggiato a causa del comportamento del funzionario pubblico. Trattasi di un reato proprio perché è previsto solo se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato al pubblico servizio nello svolgimento della sua attività. Oggetto del reato sono i provvedimenti amministrativi e qualunque specie di atto o di attività posti in essere dal funzionario. L’abuso d’ufficio è un reato di evento e il disvalore si configura nei momenti in cui si produce un ingiusto vantaggio patrimoniale a favore del soggetto agente o un danno ingiusto nei confronti di terzi. Il vantaggio ingiusto è di natura patrimoniale, il danno che viene commesso nei confronti del terzo non viene specificato, per cui può essere rappresentato da una ingiusta aggressione sia alla sfera personale che  patrimoniale della vittima.

Per quanto riguarda l’abusività della condotta il legislatore ha previsto che la stessa si configuri nei momenti in cui il soggetto agente violi norme di legge o di regolamento o l’obbligo di astenersi da situazioni caratterizzate da un conflitto di interessi. L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico.

Ragioni dell’abolizione dell’abuso d’ufficio

Il ddl Nordio n. 808, nella versione approvata dal Senato e presente all’interno del fascicolo dell’iter del 16.06.2024 prevede l’abolizione definitiva del reato di abuso d’ufficio attraverso l’abrogazione dell’art. 323 c.p. che lo contiene.

Il Ministro ritiene che il reato di abuso d’ufficio abbia un’applicazione minimale. Il numero irrisorio delle condanne contrasta con il numero elevato di iscrizioni nel registro degli indagati. Si tratta di uno squilibrio costante nonostante le varie modifiche legislative, anche recenti, finalizzate a dare maggiore determinatezza alla disposizione. A questo deve aggiungersi l’elevato numero di interventi normativi finalizzati a prevenire comportamenti illeciti all’interno del settore pubblico.

Questo complesso sistema di rimedi preventivi e repressivi di natura penale, ma anche disciplinare, contabile, ed erariale, assicurano una protezione completa degli interessi pubblici. L’abolizione del reato consente il recupero di risorse, evitando che il sistema giudiziario si trovi impegnato inutilmente nel perseguire un reato con un numero di condanne irrisorie e che sia il soggetto coinvolto che la pubblica amministrazione subiscano inevitabili ripercussioni derivanti dalla persecuzione penale.

Abuso d’ufficio: pareri contrari all’abolizione

Non tutti ovviamente sono d’accordo nel procedere all’abolizione del reato di abuso d’ufficio per vari motivi. C’è chi ammette che il numero di condanne per il reato di abuso d’ufficio sia in effetti assai ridotto. Questo fenomeno si verifica anche per altri reati, questo però non comporta l’abolizione di tutte le fattispecie criminose che si concludono con un numero esiguo di condanne. Per altri invece, in relazione al reato di abuso d’ufficio, sarebbe stato più opportuno intervenire in modo più misurato, conservando il reato e apportando i correttivi necessari per conciliare la buona fede dei funzionari e dei pubblici ufficiali e il rigore in presenza di fenomeni di corruzione.

decreto carcere sicuro

Decreto carcere sicuro: cosa prevede In vigore il decreto carcere sicuro che vuole rendere il carcere più umano e risolvere i problemi del sovraffollamento. Nel testo anche il rinvio del tribunale della famiglia

Decreto carcere sicuro: più agenti e misure per il sovraffollamento

Nella giornata di mercoledì 3 luglio 2024 il Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministro della giustizia Carlo Nordio e del presidente del consiglio Giorgia Meloni, ha approvato un decreto legge che prevede misure urgenti soprattutto in ambito penitenziario e che rinvia che rinvia di un anno l’entrata in vigore del Tribunale delle persone e della famiglia previsto dalla Riforma Cartabia.

Il decreto legge n. 92/2024, nominato “carcere sicuro” è stato pubblicato in Gazzetta il 4 luglio per entrare in vigore il giorno successivo, e prevede tutta una serie di misure dedicate al personale penitenziario e ai detenuti.

Assunzioni polizia penitenziaria

Prevista l’assunzione di 1000 unità per rinforzare il corpo della polizia penitenziaria e lo scorrimento delle graduatorie per assumere vice ispettori e vicecommissari. Incrementato anche il personale che opera in ambito penitenziario e minorile.

Misure per un “carcere più umano”

Il decreto istituisce  un elenco di strutture residenziali in grado di accogliere i detenuti che devono reinserirsi socialmente una volta scontata la pena, ma che sono privi di un’abitazione e di condizioni sia sociali che economiche in grado di consentirgli un sostentamento.

Si interviene anche sui benefici e sui trattamenti previsti per i detenuti, con particolare riferimento alle regole sui colloqui telefonici. Salgono da 4 a 6 le telefonate mensili concesse ai detenuti con la possibilità di un ulteriore aumento che deve essere deciso dal direttore carcerario se utile al trattamento del carcerato.

Il decreto dedica inoltre particolare attenzione al reinserimento dei detenuti in società. Il pubblico ministero sarà tenuto a indicare nel dettaglio, all’interno dell’ordine di esecuzione della pena, le detrazioni previste dalle norme sulla liberazione anticipata. In questo modo il detenuto ha subito contezza del termine finale della pena da scontare sia con le detrazioni che senza le detrazioni previste dalla legge. Nello stesso provvedimento il pubblico ministero deve anche avvisare il condannato che, la mancata partecipazione al processo di rieducazione, comporterà la non applicazione delle detrazioni.

Il magistrato di sorveglianza sarà inoltre obbligato a verificare d’ufficio la presenza dei requisiti necessari per la concessione dei benefici premiali (semilibertà, affidamento in prova, detenzione domiciliare o analoghi).

Minori e tossicodipendenti nelle comunità

I minori e i tossicodipendenti verranno trasferiti dalle carceri alle comunità per porre rimedio al sovraffollamento carcerario ma anche perché i minori e i tossicodipendenti presentano problematiche particolari e necessitano di cure particolari.

Trasferimento detenuti stranieri

In virtù degli accordi intercorsi con alcuni Stati stranieri molti dei detenuti verranno trasferiti nelle carceri dei loro paesi. Si stima che su 20.000 stranieri detenuti in Italia, un quarto o addirittura la metà potrebbero lasciare le nostre carceri per finire di scontare la pena nel loro paese di provenienza.

Niente giustizia riparativa al 41-bis

Novità anche per i detenuti  al 41 bis, il carcere destinato a terroristi e mafiosi. Per loro nessun accesso alla giustizia riparativa.

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guida senza patente reato

Guida senza patente: nessun reato se c’è misura di prevenzione La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73 del Codice Antimafia nella parte in cui prevede come reato la guida senza patente per soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale

Guida senza patente

“La persona sottoposta a misura di prevenzione personale, al pari di ogni altra, che guidi senza patente perchè revocata o sospesa per precedenti violazioni del codice della strada, ne risponde come illecito amministrativo e non già come reato”. Così la Corte costituzionale (con la sentenza n.116/2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73 cod. antimafia nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida, si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni di disposizioni del codice della strada.

La questione di legittimità costituzionale

Il Tribunale di Nuoro ha sollevato la questione nell’ambito di un giudizio instaurato nei confronti di una persona destinataria, in via definitiva, dalla misura di prevenzione dell’avviso orale semplice (art. 3, comma 4, cod. antimafia) imputata del reato di cui all’art. 73 cod. antimafia, per aver guidato una autovettura senza patente, in quanto in precedenza, sospesa con provvedimento prefettizio per guida in stato di ebbrezza.

Violato l’art. 25 Cost.

La Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 25 Cost., affermando che la disposizione censurata, “incriminando colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, guidi senza patente in quanto revocata o sospesa, anche nei casi in cui la revoca o la sospensione del titolo abilitativo alla guida conseguano non già all’applicazione della misura di prevenzione, ma alla precedente violazione di disposizioni del codice della strada ( nel caso di specie, di quella sui limiti di tasso alcolemico del conducente), non è compatibile con il principio di offensività dopo che, in generale, il reato di guida senza patente, o con patente sospesa o revocata, è stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo”.

La Corte ha sottolineato che la previsione di una fattispecie penale che abbia, come presupposto, una qualità della persona che non si riflette su una maggiore pericolosità o dannosità condotta, dà luogo ad una inammissibile responsabilità penale cosiddetta d’autore.

Nella sentenza si è altresì evidenziato che alcuna giustificazione, anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, “può ascriversi a un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito dal legislatore per tutti gli altri soggetti, per i quali la medesima condotta rileva non già come reato, ma quale illecito amministrativo (salvo il caso della recidiva nel biennio)”.

La decisione

In conclusione, per effetto della riduzione dell’ambito applicativo della fattispecie penale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità, si riespande quella prevista dal codice della strada (art. 116, comma 15) per la guida senza patente, o con patente sospesa o revocata con conseguente applicazione dell’ordinaria sanzione amministrativa.

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avvocati reato diffamazione

Avvocati: non è reato dare del pezzente alla controparte Per la Cassazione non c'è reato di diffamazione, in quanto il vocabolo non incide sulla reputazione del destinatario

Reato di diffamazione

Non c’è diffamazione se durante l’udienza un avvocato definisce “pezzente” la controparte. Il vocabolo, peraltro usato in una reazione di stizza percepita solo dai legali, non è idoneo ad incidere sulla reputazione del destinatario. Così la quinta sezione penale, con sentenza n. 25026-2024 accogliendo senza rinvio il ricorso dell’imputato perchè il fatto non costituisce reato.

La vicenda

Nella vicenda, un avvocato ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che ne ha confermato l’affermazione di responsabilità, statuita in primo grado dal giudice di pace, in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di un processo civile, in presenza di più persone, in danno della parte civile costituita nel processo penale, la parola “pezzente”.

Secondo il legale, la parola “”pezzente” non avrebbe valenza diffamatoria e il fatto non integrerebbe il reato contestato, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali che avrebbero escluso la sua sussistenza in presenza di espressioni di contenuto più triviale. Difetterebbe comunque la prova del dolo generico del reato di diffamazione perchè l’intento dell’imputato sarebbe stato solo quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato e va pronunciata sentenza di annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste. La doglianza circa “l’inosservanza della legge penale con riferimento alla portata intrinsecamente offensiva dell’espressione utilizzata e sotto questo profilo, anche nell’ambito dell’esercizio del potere officioso attribuito al giudice dall’art. 129 comma 1cod. proc. pen. – ritiene il collegio – che colga nel segno”.

Nel caso di specie, per la S.C., difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione, che attiene alla “tutela del bene giuridico della reputazione, intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile”.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata in tema di diffamazione richiede, invero, che “la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento (sez. 5, n. 5654 del 19/10/2012)”.
Nella specie, invece, la parola “pezzente” è stata pronunciata dall’imputato isolatamente, in modo improvviso ed occasionale, al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico, in occasione di un non meglio precisato
riferimento, emerso nel corso di un’udienza di una controversia civile, ad una denuncia per truffa che la parte civile costituita nel processo penale, avrebbe presentato nei suoi confronti. La parola è stata udita dai due patrocinatori della parte civile, che, dopo aver chiesto ed ottenuto di apprendere a chi fosse rivolta, l’hanno comunicato a quest’ultimo, che ha formalizzato querela. La sentenza impugnata si è limitata, assertivamente, a chiosare che il termine usato possederebbe indiscussa pregnanza offensiva.

Nessun effetto lesivo

Per i giudici di piazza Cavour, invece, “non è possibile cogliere l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio-culturale circostante. In altre parole, al di là dell’avvenuta percezione, da parte dei due avvocati, dell’esternazione verbale, non è ravvisabile, alla lettura delle proposizioni delle decisioni di merito, indicatore alcuno e soprattutto appagante della idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, ad incidere sulla reputazione del destinatario di essa, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera”.

Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.

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caso Siri Consulta

Caso Siri: l’intervento della Consulta La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal tribunale di Roma nel "caso Siri"

Il caso Siri

La deliberazione del 9 marzo 2022, con cui il Senato della Repubblica ha negato l’autorizzazione richiesta dal Tribunale di Roma all’utilizzo delle intercettazioni riguardanti Armando Siri, senatore all’epoca dei fatti, è stata annullata, perché adottata in contrasto con l’art. 68, terzo comma, della Costituzione. All’origine del conflitto, deciso con la sentenza n. 117/2024 depositata il 2 luglio 2024, dalla Corte Costituzionale, vi era la richiesta del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma di utilizzare in giudizio otto intercettazioni, captate sull’utenza di un soggetto non parlamentare, che hanno coinvolto l’allora senatore Siri.

Tali intercettazioni sono state effettuate, nell’ambito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo a carico di alcuni imprenditori attivi nel settore delle energie rinnovabili, in un momento antecedente all’emersione di indizi di reità a carico del medesimo senatore, per un’ipotesi di corruzione.

Il Senato, in particolare, rileva la Corte, aveva ritenuto: “a) che, per le prime due captazioni (effettuate il 15 maggio 2018), non sussistesse il requisito della “necessità probatoria” richiesta, per l’autorizzazione successiva all’utilizzo delle intercettazioni, dall’art. 6 della legge n. 120 del 2004; b) che le restanti sei (effettuate tra il 17 maggio e il 6 agosto 2018) dovessero essere qualificate come ‘indirette’, perché l’autorità inquirente, potendo prevedere – dopo i primi contatti – le future interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale, avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva prevista dall’art. 4 della medesima legge”.

Diniego del Senato

Nell’accogliere il ricorso, la Corte costituzionale ha stabilito, innanzi tutto, che il diniego del Senato in merito alla sussistenza della necessità probatoria in relazione alle intercettazioni captate il 15 maggio 2018 «ha menomato le attribuzioni del Giudice ricorrente, in quanto ha preteso di valutare autonomamente le condotte ascritte al parlamentare, anziché operare un vaglio, nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, sulle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni».

Quanto, poi, alla prevedibilità delle interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale successive al 15 maggio 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto delle autorità inquirenti fosse, in questo caso, del tutto occasionale, non sussistendo «alcuno degli elementi sintomatici che inducono a ritenere che il reale obiettivo delle autorità preposte alle indagini fosse quello di accedere indirettamente alle comunicazioni» in questione; ciò tanto più, ha precisato la Corte, ove si consideri che il mutamento della direzione degli atti di indagine si sarebbe avuto solo in un momento successivo a quello in cui le intercettazioni – di cui è stata richiesta l’utilizzazione in giudizio – sono state effettuate, vale a dire al momento dell’iscrizione del senatore Siri nel registro degli indagati (avvenuta nel settembre 2018).

Conflitto di attribuzioni

Di conseguenza, la Corte ha ritenuto sussistente la menomazione delle attribuzioni del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, in relazione al non corretto esercizio, da parte del Senato della Repubblica, del potere a questi assegnato dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in relazione alla qualificazione delle intercettazioni successive al 15 maggio come aventi natura indiretta. La Corte ha, tuttavia, stabilito che, limitatamente a tali captazioni, la richiesta di autorizzazione avanzata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma necessiti ora di una nuova valutazione, da parte del Senato della Repubblica, in ordine alla «sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge».

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obbligo mantenimento e carcere

Il mantenimento non viene meno col carcere La Cassazione ricorda che lo stato di detenzione carceraria non rappresenta una causa di forza maggiore che consente di non corrispondere il mantenimento ad ex e figli

Obbligo di mantenimento e carcere

Lo stato di detenzione in carcere non è certo una scriminante per la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento all’ex coniuge e ai figli, poichè la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato. Lo ha stabilito la prima sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 12478-2024.

La vicenda

Nella vicenda, è il marito a ricorrere innanzi al Palazzaccio avverso la sentenza d’appello che aveva confermato a suo carico l’addebito della separazione, con affidamento esclusivo dei figli alla madre nonchè l’obbligo di contribuire al mantenimento degli stessi e della ex. L’uomo lamenta, tra le tante doglianze, che la circostanza incontestata di essere detenuto presso la casa circondariale non prestando alcuna attività lavorativa, non può che far restare sospeso ogni obbligo di mantenimento. A supporto richiama la stessa giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 31651/2019) secondo la quale “lo stato di detenzione dell’obbligato, può configurarsi quale scriminante a condizione che li periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti e  l’obbligato non abbia percepito comunque dei redditi”.

La giurisprudenza della Cassazione

Per la Cassazione, il motivo è infondato e va respinto.

Infatti, la giurisprudenza menzionata dalla Cassazione penale, con riferimento allo stato di detenzione, “non esclude affatto la debenza dell’obbligo contributivo ma pone in discussione soltanto l’accertamento se tutto ciò comporti la scusabilità penale della condotta astrattamente criminosa”. Infatti, come osservato da Cass. Sez. 6, Sentenza n. 41697 del 15/09/2016: “In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perdura per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato”.

Anche la più recente pronuncia della Sez. 6 n. 13144 del 01/03/2022 afferma che: “In tema di violazione degli
obblighi di assistenza familiare, lo stato di detenzione dell’obbligato non può considerarsi causa di forza maggiore giustificativa dell’inadempimento, in quanto la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato, ma può rilevare ai fini della verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato”.

La decisione

Alla luce dei richiamati principi, il ricorso per la S.C. è del tutto infondato e va respinto, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.

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Come cambia il processo in Cassazione: in vigore il decreto In vigore dal 30 giugno, il decreto legge che prevede interventi urgenti sulle infrastrutture, lo sport e soprattutto sul procedimento penale in Cassazione

Decreto legge processo penale, investimenti e sport

Il Governo ha approvato il 24 giugno 2024 un decreto legge recante disposizioni urgenti per le infrastrutture, gli investimenti di interesse strategico, il processo penale e lo sport. Il decreto n. 89/2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed è in vigore dal 30 giugno.

Ecco le principali novità:

Processo penale più efficiente

Il decreto interviene sugli articoli 610 “Atti preliminari” e 611 “Procedimento” del codice di procedura penale per rendere il processo penale in Cassazione più efficiente, prevedendone l’applicazione ai ricorsi che verranno presentati dopo il 30 giugno 2024.

Stop alle udienze pubbliche

La prima modifica riguarda gli atti preliminari del ricorso in Cassazione e in particolare il comma 5 dell’articolo 610 c.p.c che in base alla nuova formulazione assume il seguente tenore: “Almeno trenta giorni prima della data dell’udienza, la cancelleria ne dà avviso al procuratore generale e ai difensori, indicando che il ricorso sarà deciso in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, salvo il disposto dellarticolo 611”.

Stop quindi alle udienze pubbliche in questa fase del giudizio, il ricorso in Cassazione sarà deciso in Camera di Consiglio senza le parti e non più in udienza, fatto salvo quanto previsto dal successivo articolo 611 c.p.c

Termini ridotti

Dopo questo nuovo periodo il decreto aggiunge il seguente “Nei procedimenti da trattare con le forme previste dallarticolo 127 il termine è ridotto ad almeno venti giorni prima delludienza.”  Nei procedimenti da trattare in camera di consiglio il termine viene portato ad almeno 20 giorni prima dell’udienza.

Camera di consiglio

La modifica che interviene sull’art. 611 c.p.p che si occupa del procedimento in Camera di Consiglio, prevede invece l’aggiunta al comma 1 del periodo in grassetto: “La corte provvede sui ricorsi in camera di consiglio. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’articolo 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie senza la partecipazione del procuratore generale e dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell’udienza il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica. Nei procedimenti da trattare con le forme previste dallarticolo 127 i termini per presentare motivi nuovi e memorie sono ridotti a dieci giorni e per presentare memorie di replica a tre giorni.” Ridotti quindi anche i termini per la presentazione di motivi nuovi e memorie.

Richieste irrevocabili

Il primo periodo del comma 1 ter è invece sostituito dal seguente: “Le richieste di cui al comma 1-bis sono irrevocabili e sono presentate alla cancelleria dal procuratore generale o dal difensore abilitato a norma dell’articolo 613 entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza ovvero di quindici giorni liberi prima dell’udienza nei procedimenti da trattare con le forme previste dall’articolo 127”.

Con questa modifica si riducono invece i termini per la richiesta di trattazione in pubblica udienza o per la richiesta di trattazione in camera di consiglio con la loro partecipazione per la decisione sui ricorsi previsti dal comma 1 bis alle lettere a) e b).

Soppresso infine il comma 1-quinquies che prevede i termini per la notifica o la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza nei procedimenti da trattare in Camera di Consiglio.

Infrastrutture di interesse strategico e sport

Quanto alle infrastrutture, la prima parte della bozza del decreto prevede, all’interno del titolo 1, diversi interventi sui settori di carattere strategico.

Si provvede a disciplinare l’aggiornamento dei piani economici e finanziari per le concessioni autostradali, si vuole garantire l’operatività tempestiva alla società che si occupa della costruzione del ponte sullo stretto di Messina, si razionalizzano compiti e funzioni dei commissari straordinari. Il decreto vuole dare un nuovo impulso al completamento delle opere della rete transeuropea dei trasporti, consentire l’avvio della operatività dell’Autorità per la laguna di Venezia, assicurare la realizzazione e il completamento delle opere stradali, idriche e delle ferrovie regionali, s accelerare gli interventi di bonifica nel sito di Cogoleto Stoppani, intervenire in materia di reperimento e stoccaggio della CO2 istituendo un comitato ad hoc, sostenere gli interventi strutturali della regione Liguria e il completamento del Polo universitario di Ingegneria e rafforza infine l’operatività della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e dei teatri di Bari.

Il titolo II contiene le norme sugli investimenti di interesse strategico rappresentanti dagli investimenti nel Continente africano, dall’attuazione del Piano Mattei e dalla internazionalizzazione delle imprese italiane.

Per quanto riguarda, infine, lo sport il decreto prevede la proroga di un anno della soppressione del vincolo relativo ai tesseramenti giovanili.

reato resistenza pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale Il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 del codice penale. Differenze con il reato di violenza e minacce e rassegna giurisprudenziale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale sanziona chi si oppone all’azione di un pubblico ufficiale (o del privato che, richiesto, gli presti assistenza) nel momento in cui quest’ultimo sta compiendo un atto del proprio ufficio.

Nel concetto di resistenza sono ricompresi, come vedremo tra breve, quei comportamenti che mirano a impedire il compimento dell’atto di ufficio, e questa circostanza vale a distinguere il reato di resistenza da quello di violenza o minaccia a pubblico ufficiale.

I caratteri del reato: violenza e minacce

A norma dell’art. 337 del codice penale, per aversi resistenza a pubblica ufficiale occorre che l’opposizione a quest’ultimo debba avere i caratteri della violenza o minaccia.

A questo riguardo, è opportuno precisare quando ricorrano tali caratteri, per comprendere quando si possa configurare il reato in oggetto. Ad esempio, la semplice fuga da un agente di polizia intenzionato ad eseguire controlli non integra resistenza, non ricorrendo violenza né minaccia.

Diversamente, se la fuga è accompagnata da minacce e da violenza – ad esempio, il tentativo di forzare con la propria auto un posto di blocco o l’esecuzione di manovre tese a impedire l’inseguimento in auto e foriere di pericolo per gli inseguitori – si ha resistenza a pubblico ufficiale, poiché si crea ostacolo al compimento degli atti da parte degli agenti, indipendentemente dall’esito di tale azione (Cass. pen. n. 5459/20).

La giurisprudenza sull’art. 337 c.p.

Altre pronunce giurisprudenziali ci aiutano a definire meglio i contorni di tale concetto.

Resistenza passiva

Ad esempio, la Corte di Cassazione, VI sez. penale, con sentenza n. 6604/22, ha chiarito, nel solco di pacifica giurisprudenza legittimità (cfr., tra tante, Cass. sez. VI, n. 10136/13), che la semplice resistenza passiva non vale a integrare il reato di cui all’art. 337 c.p., con tale locuzione intendendosi, ad esempio, l’atto del semplice divincolarsi del soggetto fermato dall’agente di polizia, attraverso l’uso di gesti di moderata violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.

Parimenti, non fa resistenza il soggetto fermato dal pubblico ufficiale che si appoggi al telaio dell’auto della polizia per cercare di non essere condotto all’interno del veicolo (Cass. sez. VI, 6069/2015: si tratta di un altro esempio di resistenza passiva).

In definitiva, per integrarsi resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., occorre che il soggetto intenda porre in atto un condizionamento diretto dell’azione del pubblico ufficiale, opponendosi ad essa con violenza e minaccia e con lo scopo di impedirla.

La minaccia

In ogni caso, non è sempre facile ricostruire i confini di tale condotta; quanto alla minaccia, ad esempio, essa non deve essere generica, ma ingiusta, per quanto non necessariamente diretta verso la persona del pubblico ufficiale, né su una cosa. Si pensi, ad esempio, che la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la resistenza a pubblico ufficiale in un caso in cui il soggetto fermato ha minacciato di darsi fuoco, non ritenendo la Corte necessaria una minaccia diretta o personale, essendo sufficiente una minaccia morale tale da costituire ostacolo all’azione del pubblico ufficiale (Cass. 26869/17).

Differenza tra resistenza a p.u. e violenza ex art. 336 c.p.

Il criterio per distinguere il reato di resistenza a pubblico ufficiale da quello di violenza o minaccia ai danni dello stesso (art. 336 c.p.) è quello temporale, in quanto la resistenza si configura quando si cerca di impedire un atto del pubblico ufficiale mentre questi lo sta compiendo, mentre il reato di violenza o minaccia si configura quando queste ultime sono perpetrate prima che il pubblico ufficiale compia il proprio atto d’ufficio o di servizio (cfr, Cassazione, Vi sez. pen., n. 37749/10).

Esimente al reato di resistenza a pubblico ufficiale

Va ricordato, infine, che il reato in oggetto è escluso quando la resistenza sia conseguenza di un’azione arbitraria del pubblico ufficiale che ecceda i limiti delle proprie attribuzioni (v. Cass. pen., n. 18841/2011, secondo cui tale esimente ricorre, ad esempio, quando la perquisizione personale sia disposta dal pubblico ufficiale in assenza degli elementi normativamente previsti che la giustifichino).

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale è procedibile d’ufficio – cioè senza necessità di querela – ed è sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni.

giurista risponde

Messaggi via social e reato di molestie L’invio di messaggi tramite le piattaforme Instagram e Facebook integra gli estremi di cui all’art. 660 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

L’espressione “col mezzo del telefono” dell’art. 660 c.p. deve essere riferita all’uso delle linee telefoniche e non del telefono quale dispositivo elettronico in quanto tale. Nel rispetto del principio di legalità, dunque, l’equiparazione tra un sistema di messaggistica telematica disponibile tramite smartphone e il sistema di comunicazioni tradizionali effettuate col mezzo del telefono non si giustifica, anche in ragione del fatto che l’invasività della comunicazione improvvisa dipende da una scelta del soggetto che la riceve, il quale può disattivare le notifiche. – Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033.

Il reato di molestia integrato col mezzo del telefono è, di recente, stato esaminato dalla giurisprudenza, chiamata a verificare la compatibilità con la condotta descritta dalla fattispecie del comportamento dell’agente che, tramite Facebook, ha cercato di mettersi in contatto con i figli naturali, contattando persone a loro vicine, ivi compresi i genitori adottivi.

A seguito della condanna è stata contestata la qualificazione giuridica del fatto, che, pur concretizzatosi avvalendosi delle linee telefoniche, non si sostanzia nella condotta di molestia o di disturbo alle persone descritta dalla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Il predetto illecito punisce una condotta molesta dell’agente idonea a turbare la persona offesa, la cui sfera personale viene ad essere invasa e perturbata improvvisamente, senza alcuna possibilità di limitare o bloccare l’ingerenza altrui.

Per quanto concerne la molestia adoperata col mezzo del telefono, tale condotta è stata oggetto di continui mutamenti nel corso del tempo in ragione del progresso tecnologico, succedendosi una serie di orientamenti.

Sebbene in un primo momento con tale espressione si è inteso lo strumento di comunicazione tradizionale agganciato alla rete telefonica, si è poi passati a considerare tale anche il dispositivo mobile e lo smartphone. Ciò che connota la molestia telefonica è l’impossibilità della persona offesa di arginare la condotta lesiva dell’agente, giacché non era possibile limitare il traffico telefonico. Invero con l’avvento di apparecchiature telefoniche sempre più sofisticate e con la diffusione di strumenti alternativi, ma idonei alla comunicazione telefonica, come i tablet, si è rappresentata la possibilità di filtrare le telefonate e i messaggi ricevuti mediante sistemi di blocco de traffico in entrata.

Tale considerazione ha comportato una rilettura del mezzo telefonico da intendersi alla stregua di linea telefonica, di rete mobile di telecomunicazione, anche al fine di evitare che la fattispecie divenisse anacronistica. Da questo ultimo punto di vista si è assistito al graduale confronto della giurisprudenza con varie ipotesi di molestia telematica, che hanno contribuito a ridisegnare l’assetto della fattispecie.

Punto di partenza della speculazione della Cassazione sono state le comunicazioni di posta elettronica. Premesso che la comunicazione epistolare era già stata distinta da quella telefonica, sul punto si è precisato che il principio di stretta legalità e di tipizzazione impedisce che l’interpretazione dell’espressione “col mezzo del telefono” possa essere dilatata sino a comprendere anche le modalità di comunicazione asincrona, quale l’invio di messaggi di posta elettronica, poiché differiscono dagli sms che costringono il destinatario, sia de auditu che de visu, a percepirli con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, arrecandosi disturbo al destinatario (Cass. pen., sez. III, 28680/2004).

Un successivo orientamento ha sostenuto che anche l’invio di un messaggio di posta elettronica può realizzare in concreto una diretta e sgradita intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, allorquando il destinatario non possa impedirne la percezione e la comunicazione sia accompagnata da un avvertimento acustico, che ne indichi l’arrivo in forma petulante, con un’intensità tale da condizionare la tranquillità del ricevente (Cass. pen.,, sez. I, 36799/2011).

“Col mezzo del telefono” va, pertanto, inteso come rete telefonica e l’art. pe c.p. sanziona le condotte moleste perpetrate mediante una comunicazione di carattere invasivo cui il destinatario non può sottrarsi (Cass. pen., sez. I, 24510/2010).

Con specifico riguardo alla messaggistica istantanea, ossia di messaggi Whatsapp, si è affermato che l’interazione indesiderata si ha ogniqualvolta assieme al segnale acustico di notifica si accompagni l’anteprima del testo. Sarebbe irrilevante la circostanza che il destinatario di messaggi non desiderati possa evitarne la ricezione, senza compromettere la propria libertà di comunicazione, escludendo o bloccando il contatto indesiderato, poiché un simile comportamento preventivo si traduce comunque in una limitazione del destinatario.

La diffusività della messaggistica istantanea e la sua invasività costituiscono il fulcro delle riflessioni da ultimo maturate dalla giurisprudenza, che ha superato il precedente orientamento con cui si estendeva l’applicazione della fattispecie fino a ricomprendervi anche i casi in cui il destinatario potesse essere avvertito con sistemi di alert e preview e potesse procedere al blocco dell’utenza molesta.

Si è osservato che tanto l’attivazione di sistemi di blocco della ricezione di messaggi quanto della installazione di meccanismi di notifica ed anteprima del messaggio non dipendono, invero, dalla volontà dell’agente, bensì da quella del destinatario dei messaggi. La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all’interazione immediata con il mittente e di porre un filtro alla comunicazione rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva e più vicina a quella epistolare.

Ne consegue che i comportamenti molesti perpetrati tramite messaggi inviati con Instagram e Facebook, le cui notifiche possono essere attivate per scelta libera dal soggetto che li riceve non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 cod. pen., in quanto non commesso “col mezzo del telefono”, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680
Difformi:      Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021, n. 37974; Cass pen., sez. I, 23 luglio 2021, n. 28959

Avvocati assolti per le offese alla controparte Le offese contenute negli scritti difensivi non sono punibili se riguardano l’oggetto della causa, non occorre che siano vere o necessarie

Offese negli scritti difensivi

Le offese non necessarie e non vere, anche se non giustificabili in ambito processuale-civilistico, rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 598 cod. pen., purché relative all’oggetto della controversia. L’art. 598 cod. pen. consente la massima libertà nel diritto di difesa e per l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 cod. pen. sono necessarie due condizioni: le offese devono riguardare l’oggetto della causa o del ricorso pendente dinanzi all’autorità giudiziaria o amministrativa e devono avere una rilevanza funzionale per le argomentazioni a sostegno della tesi o per l’accoglimento della domanda. Non è necessario che le offese contengano un minimo di verità o che la verità sia deducibile dal contesto. L’interesse tutelato è la libertà di difesa in relazione logica con la causa, indipendentemente dalla fondatezza dell’argomentazione. La causa di non punibilità è applicabile anche quando le espressioni ingiuriose non sono né necessarie né decisive per l’argomentazione, l’importante è che siano inserite nel contesto difensivo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20520-2024.

Diffamazione aggravata: avvocati assolti

La Corte d’Appello di Venezia conferma l’assoluzione di due avvocati dall’accusa di diffamazione aggravata (art. 595, secondo comma, cod. pen.).

Gli imputati erano stati accusati di aver offeso la reputazione di un notaio per mezzo di un atto di citazione in revocatoria in cui gli stessi avevano sostenuto che le azioni giudiziali del pubblico ufficiale avevano provocato ai genitori sofferenze tali da cagionare la morte della madre del notaio stesso, deceduta invece a causa di una caduta accidentale.

Nel presentare ricorso per Cassazione il notaio ritiene erronea l’applicazione dell’art. 598 cod. pen., perché l’offesa non era pertinente all’oggetto dell’azione giudiziaria, ma mirava solo a ledere la sua reputazione. Lo stesso rileva inoltre la presenza di vizi di motivazione sulla esimente dell’art. 598 cod. pen., evidenziando la mancanza di nesso funzionale tra l’offesa e l’azione giudiziale.

Libertà di difesa: offese negli scritti difensivi non sono punibili

La Corte di Cassazione però respinge il ricorso perché infondato. Le censure si concentrano sull’errata applicazione dell’esimente prevista dall’art. 598 cod. pen. e vengono esaminate congiuntamente.

L’articolo 598 c.p, che si occupa delle offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati davanti  alle autorità amministrative e giudiziarie, per finalità di rilievo nella presente causa, dispone che “1. Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.”

L’art. 598 c.p.

Dalla lettera della norma emerge che l’art. 598 cod. pen. protegge la libertà di difesa, coprendo gli atti funzionali a questo diritto anche se offensivi, purché inseriti nel contesto difensivo.

Lo stesso ricorrente ha ricordato che la non punibilità prevista dall’articolo 598 cod. pen. richiede la sussistenza di due soli requisiti, ossia che le offese riguardino l’oggetto della causa o del ricorso presentato davanti all’autorità giudiziarie o amministrativa e che le stesse siano funzionali alla tesi difensiva prospettata.

Non è necessario neppure che le offese siano veritiere o strettamente necessarie, le stesse devono essere correlate alla causa e questo principio è stato applicato dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto le frasi degli imputati funzionali alla difesa dei loro clienti.

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