giurista risponde

Leasing e reato di appropriazione indebita Il reato di appropriazione indebita può dirsi integrato per effetto della mancata restituzione della cosa nonostante la risoluzione del contratto di leasing per omesso pagamento dei canoni? 

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

In relazione allo schema negoziale del contratto di leasing, la condotta di appropriazione indebita si realizza non già per il solo dato del mancato pagamento dei canoni e dell’eventuale previsione pattizia della risoluzione del contratto, essendo necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione e che manifesti l’avvenuta interversione del possesso, comportandosi uti dominus non restituendo il bene senza giustificazione. La conoscenza della volontà del creditore, ove sia affidata alla comunicazione attraverso il mezzo dell’invio di intimazioni mediante il servizio postale, può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova – che grava sulla parte pubblica – della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione. – Cass. pen., sez. II, 12 maggio 2023 n. 34911.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare quali elementi di fatto possano rappresentare la prova dell’effettiva consapevolezza, da parte dell’utilizzatore di un veicolo concesso in leasing, della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione, con conseguente integrazione del dolo del delitto di cui all’art. 646 c.p.

La Corte territoriale aveva condannato il ricorrente per appropriazione indebita, ritenendo che il dolo di tale reato fosse provato dall’invio della raccomandata contenente l’intimazione a restituire il veicolo concesso in leasing, la cui notificazione era avvenuta “per compiuta giacenza” e a cui aveva fatto seguito la mancata restituzione del veicolo senza che l’imputato avesse giustificato l’omesso ritiro del plico.

Questi, dunque, ha proposto ricorso per Cassazione affermando che, in punto di dolo, la condanna fosse viziata da una palese inversione dell’onere probatorio dei fatti costitutivi della responsabilità penale.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25288, secondo cui, ai fini del dolo di appropriazione indebita, è necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione e che manifesti l’avvenuta interversione del possesso; inoltre, laddove il creditore invii intimazioni mediante il servizio postale, tale conoscenza può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova, che grava sulla parte pubblica, della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione.

Peraltro, ove colui che invia la richiesta sia soggetto diverso dall’originario concedente il bene concesso in leasing, il dato del tentativo di consegna di un plico postale inviato da una società che non corrisponde a quella con cui era stato originariamente stipulato il contratto non consente di trarre alcuna inferenza logica sulla consapevolezza del destinatario dell’attinenza di quell’invio al rapporto contrattuale e, in particolare, all’intimazione a restituire il veicolo oggetto del contratto.

Inoltre, non può trovare applicazione in questo contesto alcuna delle presunzioni derivanti dal sistema delle notificazioni mediante il servizio postale, previsto in tema di perfezionamento del procedimento di consegna di atti giudiziari, sistema che non è contemplato per l’invio delle raccomandate ordinarie.

In definitiva, non opera la presunzione di conoscenza stabilita dall’art. 1335 c.c. poiché manca il requisito dell’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario. Ne discende che manca la prova del necessario presupposto dell’elemento soggettivo del reato e tale carenza non può essere superata affidandosi ad un’inversione dell’onere probatorio non consentita in sede penale, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento della sentenza impugnata.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25282;
Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25288
giurista risponde

Criterio rapporto di causalità In base a quale criterio si verifica l’esistenza del rapporto di causalità? Come si atteggia la responsabilità penale nel caso di successione di garanti nella gestione del rischio e nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

Il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

Nelle ipotesi di assunzione di posizioni di garanzia e successione di più garanti nella gestione dei pazienti, è pacifico il principio per cui ciascun garante risponde del rispettivo comportamento doveroso omesso. Qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico.

Ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista. – Cass. pen. IV, 27 giugno 2023, n. 34536.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a individuare il criterio di verificazione dell’esistenza del rapporto di causalità, nonché la configurazione della responsabilità penale nel caso di successione di garanti nella gestione del rischio e nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare.

In primo grado, i due imputati sono stati condannati dal Tribunale per omicidio colposo. Infatti, nonostante alla vittima fosse stata diagnosticata un’emorragia cerebrale con “iniziale idrocefalo”, e sebbene il dirigente medico in servizio presso il reparto di neurochirurgia avesse richiesto un’angiografia urgente già il giorno successivo al ricovero, circostanza di cui era informato anche il primario facente funzioni, l’esame angiografico veniva eseguito solo a distanza di tempo, facendo scaturire plurime complicazioni da cui derivava lo stato di coma e, successivamente, il decesso della paziente. Il ritardo nell’esame angiografico derivava dalla circostanza per cui l’ospedale presso cui i due medici prestavano servizio non disponeva di un reparto attrezzato per eseguire lo stesso, e a tal fine sussisteva una convenzione con un ospedale vicino che, tuttavia, non consentiva l’intervento d’urgenza; ciononostante, il Tribunale ravvisava la colpa dei due medici per non essersi attenuti alle linee guida adeguate al caso di specie, che prescrivevano l’esame d’urgenza nonostante le carenze tecniche dell’ospedale. Nonostante la convenzione con l’ospedale vicino non consentisse l’intervento d’urgenza, a giudizio del Tribunale, avrebbe dovuto disporsi il trasferimento della paziente presso una struttura sanitaria in grado di far fronte alla patologia in atto.

La Corte territoriale, invece, ha assolto il dirigente medico in quanto non era stato dimostrato che questi avesse avuto l’affidamento esclusivo della paziente medesima, mentre confermava la condanna del primario f.f., che avrebbe dovuto provvedere tempestivamente al trasferimento della paziente per eseguire l’intervento di embolizzazione.

Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale, ritenendo comunque sussistente la posizione di garanzia in capo al dirigente medico, che dunque sarebbe stato erroneamente assolto, nonché il primario f.f., che, invece, ha negato la propria responsabilità. Questi, in particolare, ha lamentato erronea applicazione dell’art. 40 c.p. relativamente all’asserita efficacia causale della condotta ascrittagli, consistita nella tardiva esecuzione dell’esame angiografico in rapporto all’evento morte, e alla mancata dimostrazione dell’assenza del decorso di fattori causali alternativi. Inoltre, ha lamentato l’esclusiva dipendenza della condanna dalla qualifica apicale rivestita, prescindendo del tutto dalla concreta presa in carico e gestione del paziente, unica circostanza di grado di fondare l’imputazione penale.

La Suprema Corte, rigettando il ricorso del primario, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2021, n. 16843, secondo cui il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, a sua volta calibrato su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Nel caso di specie, il mancato tempestivo espletamento dell’intervento di angiografia con embolizzazione si pone come effettivo antecedente causale al complessivo scadimento delle condizioni cliniche della paziente, sino alla morte della stessa.

Il ricorso del Procuratore Generale, invece, viene accolto. La sentenza della Corte d’appello, nel ritenere che il dirigente medico non avesse ricevuto l’incarico di seguire in via esclusiva l’evoluzione della paziente, non si è uniformata al principio di diritto stabilito da Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 6405, secondo cui, in caso di successione diacronica di garanti, ognuno risponde del rispettivo comportamento doveroso omesso. Inoltre, in caso di cooperazione multidisciplinare, ogni sanitario è tenuto non solo al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, bensì anche all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, eventualmente ponendo rimedio a errori evidenti e non settoriali (Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2011, n. 46824). Inoltre, non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, in quanto il principio di equivalenza delle cause fa persistere la responsabilità del primo.

Nel caso di specie, ferma restando la responsabilità del primario, il dirigente medico era gravato da una posizione di garanzia nella gestione della paziente, derivante dalla presa in carico della stessa. Poiché questi aveva prescritto un esame che sapeva non eseguibile presso l’ospedale, avrebbe dovuto assicurarsi della effettiva adozione delle necessarie misure perché l’esecuzione dell’angiografia fosse posta in essere, senza fare affidamento sull’operato del primario. Ne deriva l’accoglimento del ricorso del Procuratore Generale e la necessità di nuovo giudizio da parte della Corte territoriale circa la posizione del dirigente medico.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2021, n. 16843;
Cass. pen., sez. IV, 12 maggio 2021, n. 24895;
Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 24372;
Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 6405;
Cass. pen., sez. IV, 2 ottobre 2018, n. 1175;
Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2011, n. 46824
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Art. 2 c.p. e metodo mafioso Qual è la portata dell’art. 2 c.p. in relazione alle modifiche del regime di procedibilità disposta dalla L. 4 maggio 2023, n. 60, per i reati aggravati dal “metodo mafioso”?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

Il regime di procedibilità d’ufficio per i reati aggravati dall’art. 416bis.1 c.p., introdotto dalla L. 24 maggio 2023, n. 60, non può produrre effetti sui fatti commessi prima della sua entrata in vigore. – Cass. VI, 8 agosto 2023, n. 34518.

La pronuncia in esame si esprime in merito all’applicabilità dell’art. 2 c.p. in caso di mutamento nel tempo del regime di procedibilità, con particolare riferimento alla procedibilità d’ufficio dei reati aggravati dal “metodo mafioso”, novità introdotta dalla L. 24 maggio 2023, n. 60.

L’art, 1. comma II, della legge in parola, entrata in vigore il 16 luglio 2023 e recante “norme in materia di procedibilità d’ufficio e di arresto in flagranza”, esclude la procedibilità a querela in presenza di determinate aggravanti, tra le quali quella del metodo mafioso, prevista dall’art. 416bis.1 c.p.; l’intervento legislativo è realizzato aggiungendo al citato articolo del codice penale un ultimo comma, ai sensi del quale “per i delitti aggravati dalla circostanza di cui al primo comma si procede sempre d’ufficio”.

Nel caso al vaglio della Suprema Corte, gli imputati avevano proposto ricorso per cassazione deducendo l’improcedibilità per difetto di querela in ordine al reato di cui all’art. 393 c.p., benché aggravato dall’art. 416bis.1 c.p.; la persona offesa, invero, aveva sporto denuncia-querela dopo i tre mesi previsti dalla legge rispetto al fatto e, secondo i ricorrenti, la contestazione dell’aggravante, sia al momento del fatto che in quello della decisione, non incideva sulla procedibilità del reato.

La Cassazione, accogliendo il ricorso e disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, aderisce all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che risolve positivamente il problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p. in caso di mutamento nel tempo del regime della procedibilità a querela alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità.

Il principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo, infatti, opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie, essendo inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto.

L’intervento normativo che ha introdotto un regime di maggiore afflittività per chi commette reati aggravati ex art. 416bis.1 c.p. opera con esclusivo riferimento a condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore, sicché la modifica in peius del regime di procedibilità non può produrre effetti su preesistenti situazioni, la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 9 gennaio 2020, n. 14987; Cass., sez. II, 17 aprile 2019, n. 21700
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Peculato e truffa aggravata: differenze Quale elemento differenzia il delitto di peculato da quello di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

A differenziare le due figure criminose è il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso quale diretta conseguenza dell’inganno; il peculato presuppone il legittimo possesso per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri. – Cass. VI, 4 agosto 2023, n. 34517. 

Nella fattispecie al vaglio della Sesta Sezione, l’imputato aveva indotto in errore curatore e giudice delegato che, secondo la prevista procedura, avevano compiuto in favore dell’agente l’atto di disposizione patrimoniale consistente nella liquidazione dei crediti relativamente simulati insinuati al fallimento.

La Corte d’Appello aveva riconosciuto la sussistenza, nel caso di specie, degli elementi necessari alla realizzazione della fattispecie di cui agli artt. 48 e 314 c.p., e non invece di truffa aggravata, in ragione della qualifica di pubblico ufficiale del giudice delegato e del curatore fallimentare, così come della loro disponibilità del bene oggetto di appropriazione, aderendo all’orientamento di legittimità in base al quale la responsabilità dell’autore mediato ex art. 48 c.p. si configura anche in relazione ai reati c.d. propri, in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa; alla luce di tale ricostruzione, invero, risponde di peculato anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Cass. 1 gennaio 1996, n. 4411).

La Suprema Corte, dopo aver ricostruito l’acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla applicabilità della fattispecie induttiva ex art. 48 c.p. al reato di peculato, conclude affermando di non condividere quanto affermato dai giudici del merito.

La Corte d’Appello, invero, aveva aderito al diffuso orientamento giurisprudenziale, secondo cui è configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’art. 48 c..p, quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento; questo principio deriva dal fatto che nelle cd. “procedure complesse”, come ad esempio le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’art. 314 c.p. – è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Secondo tale indirizzo interpretativo, il frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’art. 314 c.p. indica come presupposto della condotta illecita «il possesso o comunque la disponibilità» del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità», cosicché il pubblico agente che “co-detiene” la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene (Cass., 1 febbraio 2018, n. 10762).

Secondo la Cassazione, il principio di diritto ora espresso non pertiene alla fattispecie oggetto del procedimento in esame, in cui il soggetto agente consegue il bene soltanto per la condotta decettiva posta in essere nei confronti degli organi del fallimento. Al soggetto agente, in questo caso, non può ascriversi alcun compossesso giuridico dei beni del fallimento, né diretto né mediato.

A supporto di quanto affermato, la Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale a mente del quale è configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p., e non quello di peculato, quando l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata„ nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. La differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa è l’effetto della condotta illecita. È al rapporto tra possesso, da un lato, ed artifizi e raggiri, dall’altro, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata (Cass. 4 aprile 2014, n. 31243).

A differenziare le due figure criminose, pertanto, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti.

La Suprema Corte conclude sottolineando che il principio affermato dall’orientamento da essa patrocinato, con riferimento alla qualità pubblicistica del soggetto agente, a maggior ragione, trova applicazione quando questi, come nel caso esaminato, è estraneo alla funzione pubblicistica e solo con la frode entra in possesso del bene altrui, di cui ha la disponibilità il pubblico ufficiale in ragione del suo ufficio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2021, n. 40595; Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 31243
Difformi:      Cass. pen., sez.VI, 15 aprile 2013, n. 39039
giurista risponde

Diffamazione a mezzo stampa e detenzione In quali casi è giustificata l’applicazione della pena detentiva al reato di diffamazione a mezzo stampa?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

In relazione al delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ai fini dell’applicazione della pena detentiva, il giudice dovrà valutare se la condotta rientra nella nozione di eccezionale gravità del fatto che, in base a quanto disposto dalla sentenza della Corte costituzionale 150/2021, ricorre nel caso di diffusione di discorsi d’odio e di campagne di disinformazione. – Cass. V, 26 luglio 2023, n. 32603.

La decisione in commento analizza preliminarmente il rapporto tra diritto di cronaca e reato di diffamazione per poi soffermarsi sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 595 c.p., commesso a mezzo stampa.

La Suprema Corte, in primis, sottolinea che il diritto di cronaca, che può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato e della bontà della fonte per esigenze di velocità, presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, e, pertanto, non ricorre quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere un’ attenta verifica di tutte le fonti disponibili.

Tale principio di diritto comporta che, laddove il giornalista dia conto di vicende giudiziarie, su di esso incombe l’obbligo di accertare e rappresentare compiutamente lo sviluppo degli esiti processuali delle stesse.

La Quinta Sezione, in secondo luogo, esprimendosi in merito alla tematica del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ribadisce quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. 150/2021.

In particolare, ripercorrendo quanto statuito dalla Consulta, la Cassazione evidenzia che l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della dimostrabile ed oggettiva falsità dei fatti ad essa addebitati.

Nella citata sentenza, la Corte Costituzionale, da un lato, aveva affermato l’illegittimità della pena cumulativa, detentiva e pecuniaria, prevista per reprimere i fatti di diffamazione, chiarendo entro quali limiti è invece legittima la previsione della pena alternativa e, dall’altro, – tenendo presente il quadro del confronto tra il diritto alla libertà di espressione dei giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica e la reputazione del singolo, diritto inviolabile suscettibile di essere gravemente compromesso da aggressioni illegittime compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità che impattino sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica dei soggetto aggredito – non ha escluso in assoluto l’applicazione della sanzione detentiva, ma a condizione che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.

Tali cautele si identificano nell’enucleazione di due categorie di casi nei quali le offese recate alla vittima possano qualificarsi come di “eccezionale gravità”, sicché la tutela del soggetto passivo della diffamazione acquisti una preminenza tale da rendere costituzionalmente e convenzionalmente compatibile la condanna al carcere per il reato di cui all’art. 595 c.p.

La prima categoria, ispirata alla giurisprudenza della Corte EDU, identifica come meritevoli della pena detentiva i discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori; la seconda categoria è ricondotta alle ipotesi che attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi», le quali, qualora l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta, finiscono col rappresentare esse stesse un pericolo per la democrazia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 25 giugno 2021, n. 28340; Corte cost. 12 luglio 2021, n. 150
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Fecondazione ovulo e termine revoca consenso È costituzionalmente legittimo l’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, in relazione da un lato, agli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso»?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

L’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, viola, da un lato, gli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, gli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». – Corte cost. 24 luglio 2023, n. 161.

Nel caso di specie la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo L. 40/2004 che nel disciplinare il consenso informato della coppia all’accesso alla pratica di procreazione medicalmente assistita, ne prevede la revoca fino al momento della fecondazione dell’ovulo.

La questione trae origine dalle sentenze della Corte Costituzionale (Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151 e Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96) che avrebbero fatto venir meno il sostanziale divieto di crioconservazione, sicché la norma sull’irrevocabilità del consenso si troverebbe oggi ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire non più necessariamente «nell’immediatezza della formazione dell’embrione» (formulazione ancora contenuta all’art. 14, comma 3, L. 40/2004) ma anche «a distanza di anni» e, quindi, in una situazione profondamente mutata.

Poiché l’art. 5, comma 1, della L. 40/2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», nell’ipotesi in cui «venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto», dovrebbe ritenersi sempre possibile la revoca del consenso.

Secondo il giudice rimettente la norma censurata contrasterebbe da un lato, con il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore (artt. 2 e 117 Cost., con quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU) e dall’altro, con gli artt. 3 e 13 Cost. poiché, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, la suddetta disciplina normativa irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà», determinando anche una disparità di trattamento tra i genitori intenzionali, potendo, infatti, la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, che non potrebbe esserle imposto in quanto lesivo della sua integrità psicofisica.

La norma sospettata si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 32, comma 2, Cost., giacché assoggetterebbe l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio.

La questione relativa alla violazione del principio di uguaglianza viene ritenuto infondata.

La situazione in cui versa la donna è, infatti, profondamente diversa da quella dell’uomo: come ha correttamente rilevato l’Avvocatura generale dello Stato, dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica.

Proprio tale eterogeneità di situazioni conduce a escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento di questa Corte, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili».

Infondate sono anche le censure relative agli artt. 2 e 3 Cost.

Va innanzitutto precisato che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso.

Inoltre, va precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della L. 40/2004 ha una portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio che comporta un’assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione.

Va poi considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti, in primo luogo attinenti alla donna. Essa, infatti, è sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi; al prelievo dell’ovocita, nel caso di fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo; ad ulteriori trattamenti farmacologici e analisi; nonché interventi medici, successivi alla fecondazione.

L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione.

Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna ha portato questa Corte a ritenere «insindacabile» la «scelta politico-legislativa» di lasciarla «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito, precisando «che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare, all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna»

Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione: la PMA, infatti, «mira a favorire la vita» (Corte cost. 9 aprile 2014, n. 162), volendo assistere la procreazione – cioè, la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia.

Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella L. 40/2004, dai ricordati artt. 8 e 9.

Del resto, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale talmente determinante da far preferire la non vita.

Infine, per ciò che concerne la violazione dell’art. 8 CEDE, la Corte Costituzionale richiama la stessa giurisprudenza della Corte Edu intervenuta a vagliare la compatibilità convenzionale del diritto inglese il quale, contrariamente a quello italiano, riconosce la revocabilità del consenso dell’uomo fino all’impianto dell’embrione nell’utero. In tal caso la Corte Edu, rilevando l’assenza di un comune consenso europeo sul punto ha rimarcato l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel risolvere un dilemma a fronte del quale qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell’una o dell’altra parte, concludendo per l’insussistenza di motivi per ritenere che la soluzione adottata dal legislatore inglese avesse superato il margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU.

In conclusione, la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte.

giurista risponde

Diritti di abitazione e uso coniuge separato I diritti di abitazione e uso spettano al coniuge separato senza addebito?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare. – Cass. II, 26 luglio 2023, n. 22566.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la spettanza al coniuge separato senza addebito del diritto di abitazione ed uso di cui all’art. 540, comma 2, c.c.

Quest’ultimo consiste in un diritto personale di godimento riconosciuto al coniuge superstite, la cui ratio si individua nella necessità di garantire allo stesso la permanenza nella c.d. “casa familiare” in modo da evitare un significativo mutamento del proprio aspetto personale.

Tali attribuzioni vengono qualificati dalla giurisprudenza come prelegati, ossia legati (in questo caso ex lege) a favore dell’erede ed a carico dell’eredità.

In relazioni ad essi si è posto il problema della loro spettanza in favore del coniuge separato senza addebito, nonostante la parificazione normativa, in punto successorio, tra la posizione dello stesso e quella del coniuge non separato.

Secondo un primo orientamento, infatti, per “casa familiare” si dovrebbe intendere la sola la casa di residenza comune al momento dell’apertura della successione.

Ai sensi di una seconda tesi, invece, oggetto dei diritti di abitazione e di uso dovrebbe essere l’ultima casa che fu di residenza comune, benché in un tempo precedente all’apertura della successione, ed i mobili che la corredavano.

Infine, secondo un terzo orientamento la “casa familiare” andrebbe vista nella residenza comune dei due coniuge id in cui quello superstite si trovi ancora al momento di apertura della successione. A tale soluzione, tuttavia, è stato rimproverato di introdurre una disparità di trattamento nei confronti del coniuge senza prole o che vi abbia rinunziato all’assegnazione della casa familiare per ragioni legittime o al quale per qualsiasi motivo, il giudice non abbia attribuito il diritto di abitazione.

Appare dunque preferibile la tesi che esclude che la residenza familiare debba ancora essere in atto al momento dell’apertura della successione, posto che da un lato, la norma non annovera tra i presupposti per l’attribuzione dei diritti in esame la convivenza fra i coniugi e, dall’altro, l’art. 548 c.c. è chiaro nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato.

In un tale contesto, l’unico fattore ostativo al riconoscimento del diritto di abitazione e d’uso al coniuge superstite si ha solo qualora il medesimo, dopo la separazione, abbia abbandonato l’abitazione o questa avesse perso ogni collegamento con la destinazione familiare.

In tali ipotesi, infatti, viene meno la stessa esigenza che sorregge l’istituto in esame, ossia la perpetrazione dell’habitat familiare e la tutela dell’assetto di vita goduto durante il rapporto di coniugo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass., sez. II, 12 giugno 2014; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22456
giurista risponde

Rinuncia azione di riduzione e donazione La rinuncia all’azione di riduzione può integrare una donazione indiretta?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La rinuncia del coniuge all’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima può comportare un arricchimento nel patrimonio della figlia beneficiata, nominata erede universale, tale da integrare gli estremi di una donazione indiretta se corra un nesso di causalità diretta tra donazione e arricchimento. – Cass., sez. II, ord. 28 luglio 2023, n. 23036.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare se la condotta di colui che rinuncia all’azione di riduzione possa o meno integrare una donazione indiretta, ossia quegli atti di liberalità in cui l’intento donativo viene raggiunto con un diverso negozio avente autonoma struttura e funzione, e che sono sottoposte allo stesso regime sostanziale delle donazioni dirette.

La giurisprudenza, per ciò che concerne gli atti di rinuncia, ha più volte affermato come gli stessi possano integrare donazioni indirette.

Il principio è in particolare stato ribadito con riguardo alla rinuncia abdicativa di un diritto reale minore, come l’usufrutto, che pur si estingue con la morte del titolare ma che, se estinto anticipatamente per rinuncia, ispirata da animus donandi, del nudo proprietario, si risolve nel conseguimento da parte del dominus dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe stato sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza (Cass., sez. II, 30 ottobre 1997, n. 1311). O, ancora, con riguardo alla rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto”, ritenuta donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione (Cass., sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819).

Nel caso in esame, tuttavia, la Corte di Appello ha escluso che a tali tipi di donazioni indirette possano essere ricondotti i casi di rinuncia dell’azione di riduzione, avendo questa ad oggetto beni di cui il soggetto non è mai stato proprietario, mancando dunque degli elementi essenziali tipici della donazione tra i quali l’impoverimento del donante.

Tale assunto non è condiviso dalla Corte di Cassazione.

La Corte distrettuale oblitera la circostanza che le donazioni indirette “hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”.

Da ciò discende che lo stesso concetto di impoverimento del donante non va necessariamente inteso come attuale depauperamento patrimoniale, ma assume connotati più ampi, tali da ricomprendere il mero consapevole esercizio – sorretto da intento liberale – della possibilità di arricchire il proprio patrimonio, in favore della parte che da tale azione ne sarebbe risultata impoverita.

giurista risponde

Danno non patrimoniale e limiti tabelle milanesi Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, è possibile superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Costituisce principio consolidato quello per cui, in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, il giudice possa discostarsi dai limiti tabellari, purché tale operazione sia adeguatamente motivata in modo da giustificare tale “personalizzazione”. – Cass. III, 11 luglio 2023 n. 19731.

La vicenda scaturisce dalle riportate lesioni gravi ed invalidità permanente, a seguito delle quali i congiunti del danneggiato presentano richieste risarcitorie da lesione del rapporto parentale. Il giudice di prime cure riconosce la fondatezza delle relative domande, e tale conclusione viene confermata dalla Corte d’appello, benché la stessa proceda a ridurre il quantum debeatur risarcitorio, censurando il superamento in primo grado dei limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi.

La Suprema Corte viene quindi chiamata a pronunciarsi in relazione alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., per essersi in secondo grado erroneamente censurato l’aumento effettuato dal giudice di prime cure nella liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale, sul presupposto dell’impossibilità di superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi. Tale doglianza viene ritenuta fondata, nella parte in cui si osserva che la liquidazione equitativa del danno consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, per cui il giudice deve dar conto del peso attribuito a ciascuno di essi in motivazione, ossequiando i principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Per ciò, ove il giudice non indichi le ragioni dell’operato apprezzamento né richiami gli specifici criteri adottati nella liquidazione, si incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione che in quello di violazione dell’art. 1226 c.c.

Più nello specifico, l’assunto per cui non è possibile superare i limiti delle tabelle milanesi è in diritto errata: in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, infatti, il giudice ben può discostarsi dai limiti tabellari, ma tale operazione deve essere supportata da un’adeguata motivazione, la quale renda manifeste le circostanze – anomale ed irripetibili (e provate dalla parte danneggiata) – che hanno richiesto una “personalizzazione” in aumento rispetto ai limiti tabellari, che renderebbero altrimenti inidonea la liquidazione rispetto all’entità del danno patito.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello, che dovrà procedere ad una nuova liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale.

giurista risponde

Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e caparra A fronte della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, è possibile condannare al pagamento del doppio della caparra, di cui all’art. 1385, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, in quanto fondata su fatto non imputabile ai contraenti, dà luogo solo agli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo divenute indebite le prestazioni rese. Essa non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra, giacché ciò presuppone l’inadempimento. – Cass. II, 31 luglio 2023, n. 23209.

La decisione scaturisce da un’articolata trattativa per una vendita immobiliare, in cui la stipulazione del preliminare viene accompagnata dalla dazione di una caparra, che culmina nel recesso del promittente venditore per inadempimento della controparte, a cui questa reagisce con le domande giudiziali di inadempimento del preliminare, risarcimento e versamento del doppio della caparra. Il giudice di prime cure dichiara l’impossibilità dell’esecuzione dei contratti preliminari e tale statuizione, non oggetto di alcun motivo di gravame in appello, passa in giudicato. In appello, invece, si pronuncia la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

La Suprema Corte osserva come non possa che reputarsi giuridicamente scorretta, nonché intrinsecamente contradditoria, la decisione di secondo grado.

L’art. 1385, comma 2, c.c. stabilisce che i meccanismi speculari di ritenzione della caparra e di pretesa del suo doppio (a seconda della parte) trovano fondamento nell’inadempimento della controparte, mentre il comma successivo stabilisce che, se la parte non inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, allora il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.

Osserva la Suprema Corte come il diritto di recesso sia una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, che presuppone un inadempimento della controparte connotato dagli stessi caratteri richiesti da quello che giustifica la risoluzione giudiziale: in ambo i casi, a fronte di tale presupposto si ha la caducazione ex tunc degli effetti del contratto. Per ciò, il recesso (con ritenzione della caparra) è legittimamente esercitato se l’inadempimento è di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., nonché gravemente colpevole e cioè imputabile ex artt. 1218 e 1256 c.c. (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553). Ciò posto, l’interazione da attenzionare non è quella fra recesso e risoluzione, ma quella fra incamerare la caparra (o il suo doppio) ed instaurare un giudizio per ottenere un maggiore risarcimento. La vera antinomia è, insomma, fra azione di risarcimento ordinaria e ritenzione della caparra (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553): la finalità della liquidazione immediata, forfettaria e stragiudiziale della pretesa alla sola caparra viene esclusa dalla pretesa giudiziale al risarcimento del maggior danno da risarcire (e provare). Alla stregua di ciò, una domanda principale di risoluzione contrattuale correlata a una richiesta risarcitoria nei limiti della caparra altro non è che una domanda di accertamento del recesso.

Dalla risoluzione del contratto per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) va distinta la risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1256 e 1463 c.c., dato che tale impossibilità non è imputabile al debitore e paralizza la domanda di adempimento, determinando nei contratti a prestazioni corrispettive l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione di diritto (Cass. 28 gennaio 1995, n. 1037). Risoluzione per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) e risoluzione per impossibilità sopravvenuta hanno presupposti e natura diversi: la prima ha carattere sanzionatorio, tende a una pronuncia costitutiva e si fonda sul comportamento doloso o colpevole della parte; la seconda tende ad una pronuncia di accertamento e si fonda su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti. La non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione comporta l’estinzione dell’obbligazione, mentre l’imputabilità determina la conversione dell’obbligazione di adempimento in quella di risarcimento del danno e, se il contratto è a prestazione corrispettive, dà altresì luogo all’azione di risoluzione per inadempimento (Cass. 22 dicembre 1983, n. 7580).

Se, come nel caso di specie (la relativa statuizione è passata in giudicato), si afferma l’impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione del contratto, allora perdono significato tutte le questioni relative al comportamento delle parti, e residuano i soli obblighi restitutori generati dal venir meno del vincolo contrattuale, essendo divenuta indebita la ritenzione delle prestazioni eseguite. Da ciò consegue che, se è stata versata caparra confirmatoria, la condanna non può che vertere sulla restituzione della stessa, e non del suo doppio.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: pur a fronte della – coperta da giudicato – risoluzione del contratto preliminare per impossibilità sopravvenuta della prestazione, infatti, essa ha confermato una statuizione di condanna al pagamento del doppio della caparra che, avendo una natura risarcitoria (anche se limitata nel quantum), postula invece l’accertamento dell’inadempimento.