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Revoca assenso adozione È ammissibile la revoca dell’assenso all’adozione in casi particolari del proprio figlio minore, inizialmente espresso dal genitore biologico in favore del c.d. genitore di intenzione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il genitore biologico può revocare l’assenso all’adozione del figlio minore in favore del partner con cui ha condiviso il progetto procreativo; la legittimità di tale revoca deve essere peraltro valutata dal giudice esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. – Cass. I, 29 agosto 2023, n. 25436.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la possibilità da parte del genitore biologico di revocare il consenso all’adozione in casi particolari da parte del genitore d’intenzione del minore nato a seguito di p.m.a.

Nel primo e secondo grado era stato respinto il ricorso proposto dalla genitrice d’intenzione contro la revoca del consenso all’adozione in casi particolari espressa da parte della genitrice biologica. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che l’assenso all’adozione dovesse perdurare sino alla data della sentenza e che lo stesso, anche ove già espresso, fosse revocabile. Nel caso di specie, si era accertato che la genitrice naturale del minore aveva revocato il suo assenso all’adozione a seguito della cessazione della convivenza con la ricorrente e che la conflittualità tra le parti era molto elevata.

Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando la violazione dell’art. 44, comma 1, lett. d) e art. 46 della L. 184/1983. In particolare, si affermava che nel consentire la revoca del consenso non si sarebbe tenuto in considerazione il superiore interesse del minore a fondamento del quale è prevista l’adozione in casi particolari.

La Suprema Corte nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha fatto proprio quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162, secondo cui, in tema di adozione in casi particolari, l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, sicché il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure, pur avendo partecipato al progetto di procreazione, abbia poi abbandonato partner e minore. È possibile invece superare la rilevanza ostativa del dissenso ove si rischi di sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.

Nel caso di specie i giudici di merito hanno deciso in ragione del mero riscontro dell’avvenuta revoca dell’assenso da parte del genitore biologico, evidenziando le peculiarità del caso, ma omettendo di prendere in esame il superiore interesse del minore. Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima, svolgendo una nuova valutazione della controversia, sotto il profilo della conformità all’interesse del minore.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162
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Pacchetti turistici e servizi collegati Gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE ostano all’art. 5 della 2015/2302 relativa ai pacchetti turistici e ai servizi turistici collegati, giacché, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, detto articolo non include il diritto, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto,  in caso di circostanze inevitabili e straordinarie?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso impone a un organizzatore di viaggi di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, di tale direttiva. La validità dell’art. 5, par. 1, di detta direttiva alla luce dell’art. 169, par. 1 e par. 2, lett. a), TFUE, in combinato disposto con l’art. 114, par. 3, TFUE, non può pertanto essere rimessa in discussione per il motivo che esso non prevedrebbe di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, della medesima direttiva.

L’art. 12, par. 2, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’applicazione di disposizioni del diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza, in forza dei quali, qualora la risoluzione di un contratto di pacchetto turistico soddisfi le condizioni previste da tale disposizione e il viaggiatore interessato sottoponga al giudice nazionale una domanda di rimborso inferiore a un rimborso integrale, tale giudice non può concedere d’ufficio a detto viaggiatore un rimborso integrale, purché tali disposizioni non escludano che detto giudice possa informare d’ufficio tale viaggiatore del suo diritto ad un rimborso integrale e consentire a quest’ultimo di farlo valere dinanzi ad esso. – CGUE II, 14 settembre 2023, causa C-83/22.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, adita dal Tribunale di primo grado, n. 5 di Cartagena, Spagna, in via pregiudiziale e senza possibilità di pronunciarsi nel merito della controversia, è chiamata a pronunciarsi sulla validità dell’articolo 5 della direttiva (UE) 2015/2302 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2015, alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, nonché sull’interpretazione degli artt. 114 TFUE, 169 TFUE e 15 della direttiva in esame.

Nel primo caso, la Corte di Lussemburgo, ha chiarito che gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano alla validità dell’art. 5 della direttiva (UE) 2015/2302, nonché della legge di recepimento spagnola (Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios y otras leyes complementarias, BOE del 30 novembre 2007, n. 287).

Invero, sebbene, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, dette norme non includano espressamente il diritto, riconosciuto dall’art. 12 della direttiva (UE) 2015/2302, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto, ottenendo il rimborso integrale della somma versata, in caso di circostanze inevitabili e straordinarie che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto, non significa che le stesse lo escludano.

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 infatti prevede che gli Stati membri garantiscano che un organizzatore di viaggi fornisca al viaggiatore le informazioni standard mediante il pertinente modulo di cui all’allegato I, parte A o B di tale direttiva, prima che quest’ultimo sia vincolato da un contratto di pacchetto turistico.

Il modulo contiene il riferimento – espresso o mediante collegamento ipertestuale – ai diritti fondamentali di cui i viaggiatori devono essere informati, tra i quali, rientra il diritto di risoluzione del contratto (indicato dal settimo trattino delle parti A e B dell’allegato I) senza corresponsione delle spese di risoluzione, purché in presenza di circostanze inevitabili e straordinarie incidenti sull’esecuzione del pacchetto, così come conferito dall’art. 12, par. 2, della medesima direttiva ai succitati viaggiatori.

In virtù di tale richiamo, alla luce dell’art. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, nonché dell’art. 114, par. 3, TFUE, l’art. 5 della direttiva deve essere interpretato nel senso che non esclude e, dunque, impone, l’obbligo di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, ponendo nel nulla qualsivoglia questione relativa alla validità dello stesso articolo.

Per quanto concerne la seconda questione pregiudiziale, la CGUE statuisce che l’art. 12, par. 2, letto ed interpretato alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, non impedisce l’applicazione di disposizioni di diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza (ex artt. 216 e 218, par. 1, Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil, BOE dell’8 gennaio 2000, n. 7) e che, pertanto, in forza di tali principi, resta precluso al giudice della controversia accordare d’ufficio al ricorrente il rimborso integrale dei pagamenti eccedendo l’importo richiesto dallo stesso, senza che ciò possa ostacolare la tutela effettiva del ricorrente in qualità di consumatore.

La Corte precisa che in virtù del principio di autonomia processuale degli Stati membri nell’assicurare la tutela dei diritti sanciti dalla direttiva (UE), il diritto dell’Unione non può imporre al giudice nazionale di esaminare d’ufficio un motivo vertente sulla violazione di disposizioni dell’Unione ma accorda al giudice stesso la facoltà di agire d’ufficio solo in casi eccezionali, in cui il pubblico interesse esige il suo intervento (CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín, C‑227/08, EU:C:2009:792, punti 19 e 20) oppure l’obiettivo di tutela effettiva dei consumatori non può essere raggiunto (CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance, C‑679/18, EU:C:2020:167, punto 23).

La Corte constata quindi che, data la centralità del diritto di risoluzione conferito dalla direttiva (UE) ex art. 12, par. 2 qualificato come diritto fondamentale (nonché del conseguente diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati) e data la mancata dovuta informazione circa l’esistenza del suo diritto di risoluzione da parte della resistente, la tutela effettiva del diritto richiede che il giudice nazionale possa rilevarne d’ufficio la violazione.

Tale esame d’ufficio è tuttavia subordinato a talune condizioni che, nel caso di specie, e fatta salva la valutazione del giudice spagnolo del rinvio, sembrano essere soddisfatte.

Il giudice del rinvio sarebbe quindi tenuto ad esaminare d’ufficio il diritto di risoluzione, da un lato, informando il viaggiatore di tale diritto e, dall’altro, conferendogli la possibilità di farlo valere nel procedimento giurisdizionale in corso.

Tuttavia l’esame d’ufficio non impone al giudice nazionale di risolvere d’ufficio il contratto di pacchetto turistico di cui trattasi senza spese, conferendo al ricorrente il diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per tale pacchetto.

Un siffatto potere d’ufficio non garantirebbe una tutela effettiva del diritto di risoluzione del consumatore di cui all’art. 12, par. 2, della direttiva e si porrebbe in contrasto con il principio d’iniziativa di parte, sub specie di autonomia del ricorrente nell’esercizio del suo diritto di risoluzione, nonché con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Se la direttiva concedesse al giudice il potere d’ufficio di risolvere il contratto, legittimerebbe di fatto la sostituzione del giudice nell’esercizio di un diritto e di una volontà propri del ricorrente, con il rischio di conseguenze irragionevoli quale l’esercizio del diritto di risoluzione del contratto contro la volontà del ricorrente stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín (C‑227/08, EU:C:2009:792);

CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance (C‑679/18, EU:C:2020:167)

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Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato Nella nozione di caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c. rientra anche la condotta del terzo o dello stesso danneggiato?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo, laddove la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, primo comma, c.c.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente, intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile da parte del custode. – Cass. III, 8 settembre 2023, n. 26209.

Nel caso di Specie la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello di non accogliere la domanda risarcitoria ex art. 2051 c.c. proposta dal motociclista nei confronti del Comune in relazione alla caduta dal motociclo, avvenuta a causa della presenza di una buca sul manto stradale.

La condotta del danneggiato è risultata imprudente e disattenta al punto tale da integrare il caso fortuito e, di conseguenza, giustificare l’esclusione di responsabilità del Comune in ordine alla caduta.

La prova del caso fortuito è l’unica prova liberatoria che il legislatore ammette in capo al custode, a nulla rilevando la prova della sua diligente custodia.

Pertanto la mancanza di prova relativa alla prevedibilità o meno del fatto dannoso (sub specie caduta dal motociclo) da parte del custode (il Comune) non rileva; ciò che conta è solo la prova dell’esistenza di un caso fortuito, nella specie, integrato dal contegno colposamente disattento del danneggiato, non mero concorrente nell’evento di danno ma autonomo responsabile del danno stesso.

Nel giungere a tale esito la Corte di Cassazione ha strutturato il proprio impianto argomentativo sulla scorta dell’intervento nomofilattico inaugurato dalle storiche sentenze gemelle del 2006 (Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15383 e Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15384) e del 2018 (Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483 e Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477) e terminato con un’ulteriore pronuncia a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943).

Appare opportuno ripercorrere, per punti salienti, l’analisi strutturale condotta dalla giurisprudenza intorno agli artt. 2051 e 1227 c.c. sulla quale si fonda la presente pronuncia e da cui emerge un vero e proprio statuto della responsabilità del custode:

a) preliminarmente, è necessario precisare che il legislatore del 1942 non ha mai fornito una definizione normativa della custodia. Invero l’art. 2051 c.c. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde presente nell’art. 1384, comma 1, Code Napoleon. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia rilevato le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità, rinvenibili dalle fonti romane (vedasi la accezione di diligentia e custodiendae rei).

In ordine alla definizione del concetto di custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c. sono maturati in giurisprudenza due opposti orientamenti: secondo il primo, minoritario, si può definire “custode” colui che usa e sfrutta economicamente la res. Il profitto tratto dal soggetto a seguito dell’utilizzo della cosa, in ragione del principio cuius commoda eius et incommoda, giustifica l’addossamento in capo allo stesso della qualifica di custode e, quindi, della relativa responsabilità.

Invece, in base al secondo orientamento considerato prevalente, è “custode” il soggetto che, a qualsiasi titolo (esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia), conserva un potere di fatto sulla cosa.

Per pervenire ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., dunque, non è sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa ma di un potere di fatto sul bene, in virtù del quale il custode può vigilare, controllare i rischi inerenti alla cosa e intervenire tempestivamente in caso di pericolo per i terzi (ex multis Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422).

Dal momento che la relazione giuridica con la cosa non è una relazione qualificata (come potrebbe essere la relazione esistente in forza di un contratto o di natura proprietaria) ma è una relazione di mero fatto, la stessa non è elemento costitutivo della responsabilità – a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 c.c. – motivo per cui il responsabile ex art. 2051 c.c. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res.

L’applicazione dell’art. 2051 c.c. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria).

b) È quindi “ormai indiscutibile” che la responsabilità ex 2051 c.c. sia di natura oggettiva e non presunta (o semioggettiva). È una responsabilità da relazione in quanto, ciò che rileva quale presupposto ai fini della configurazione della stessa, è l’esistenza di una mera relazione di custodia tra il soggetto e il bene.

Invero il criterio di imputazione della responsabilità individuato dall’art. 2051 c.c., prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché non rilevano la pericolosità o le caratteristiche intrinseche della cosa custodita così come non rileva la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza eventualmente commesse dal custode (rilevante solo ai fini della fattispecie di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c. c.), salvo che la deduzione delle stesse non sia diretta soltanto a sostenere la prova del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso.

c) Sul custode, invece, grava l’onere della prova liberatoria sub specie di prova dell’esistenza del caso fortuito, a nulla rilevando la prova della diligenza o, a contrario, dell’assenza di colpa del custode stesso.

Se la colpa rilevasse, il custode si libererebbe ogni qualvolta riuscisse a provare che, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.

d) Il caso fortuito, così come definito dalla succitata sentenza delle Sezioni Unite, è rappresentato da un fatto causale naturale o un fatto del terzo, estraneo alla sfera soggettiva del custode e connotato dai caratteri di imprevedibilità ed inevitabilità da intendersi dal punto di vista oggettivo e della regolarità causale (adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.

Questo è confermato dalla circostanza per cui, le modifiche improvvise della struttura della cosa, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, si trasformano in nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere.

Occorre, in altre parole, effettuare un giudizio di probabilità per dimostrare che quell’evento è frutto di un fatto del tutto imprevedibile in base all’id quod plerumque accidit (la comune esperienza).

Sul punto la presente pronuncia interviene al fine di precisare che, sul piano della struttura della fattispecie, il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo.

Ciò significa che il caso fortuito è la causa diretta e esclusiva dell’evento, senza alcun coinvolgimento di fattori soggettivi o colpevoli.

e) Invece la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, comma 1, c.c.), i quali possono rappresentare la causa principale del danno (rilevanza causale esclusiva) o possono contribuire insieme al caso fortuito all’evento dannoso (rilevanza causale concorrente), dando vita ad un concorso tra causa umana e causa naturale.

Anche le condotte umane suddette devono possedere i caratteri di imprevedibilità e inevitabilità, intesi da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o adeguata) ovvero presentarsi come oggettivamente imprevedibili da parte del custode.

A tal fine, il comportamento del danneggiato che entri in interazione con la cosa e risulti colposo, può atteggiarsi in ordine di crescente di gravità integrando, alternativamente, o un mero concorso causale colposo (in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1) o un fatto idoneo a recidere il nesso causale tra cosa e danno e, di conseguenza, escludere la responsabilità del custode (integrando un caso fortuito ex art. 2051 c.c.).

La Cassazione ha infatti osservato che quanto più è possibile evitare la situazione di pericolo attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato tanto più l’incidente deve considerarsi l’effetto del comportamento del danneggiato, fino ad escludere ogni responsabilità del custode.

Se, da un lato, il rapporto tra cosa e custode è improntato al principio di precauzione – per cui egli deve sempre predisporre tutte le misure affinché il bene sia reso inoffensivo – dall’altro lato, i soggetti che vengono in contatto con la cosa devono, del pari, adottare tutta le misure di normale diligenza richieste dalla situazione specifica.

Il dovere generale di ragionevole cautela in capo al danneggiato costituisce espressione del generale dovere di solidarietà, ex art. 2 Cost.

Quanto più il danneggiato può prevedere e superare la situazione di possibile danno attraverso l’adozione delle normali cautele richieste dalle circostanze, tanto più il comportamento imprudente dello stesso deve considerarsi dotato di incidenza causale nella causazione del danno.

Il comportamento imprudente del danneggiato può addirittura giungere ad interrompere il nesso eziologico tra cosa custodita ed evento dannoso tutte le volte in cui sia prevedibile in astratto ma imprevedibile in concreto da parte del custode (ovvero sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale).

Quindi la solidarietà, letta come dovere di cautela rispetto alla situazione concreta ed entro la normale diligenza valutabile in base al canone della proporzionalità, condiziona il grado di incidenza causale che ha il comportamento del danneggiato sull’evento dannoso e, quindi, sulla responsabilità del custode.

f) La sentenza ha il pregio di chiarire che il fondamento della responsabilità per danno da cose in custodia, intesa come responsabilità oggettiva, riposa su elementi di fatto individuati tanto in positivo (l’accertamento di un danno giuridicamente rilevante, la prova di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).

Pertanto, nonostante la presenza della buca sul manto stradale, la condotta imprudente del motociclista è risultata idonea a interrompere il nesso di causalità tra la cosa (il manto stradale maltenuto) e il danno (caduta del motociclista) così escludendo qualsivoglia responsabilità in capo al Comune (custode del bene), a nulla rilevando la negligenza tenuta dal Comune nella manutenzione della strada.

Per tale ragione la Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943; Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483;
Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477; Cass. III, 6 luglio 2006, 15383;
Cass. III, 6 luglio 2006, e 15384; Cass., Sez. Un., 11 novembre 1991, n. 12019;
Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422
Difformi:      Cass. III, 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. III, 14 marzo 2006, n. 5445;
Cass. III, 20 febbraio 2006, n. 3651
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Assicurazione sulla vita ed eredi legittimi Il contratto di assicurazione sulla vita recante la designazione generica degli “eredi legittimi” comporta l’inclusione – quali beneficiari delle polizze assicurative – solo degli eredi per chiamata diretta o anche degli eredi per rappresentazione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Nel contratto di assicurazione sulla vita la designazione generica degli “eredi legittimi” come beneficiari comporta l’inclusione, tra i medesimi, pure degli eredi per rappresentazione ed ha, inoltre, come effetto che, a ciascuno di essi, spettino gli interessi corrispettivi sin dalla morte del de cuius (fino alla data dell’avvenuta corresponsione). – Cass. III, 21 agosto 2023, n. 24951.

La Suprema Corte, nel rigettare i primi due motivi scrutinati in conformità con quanto affermato dalle Sezioni Unite con sent. 30 aprile 2021, n. 11421, chiarisce preliminarmente che, quale che sia la forma scelta tra quelle ex art. 1920, comma 2, c.c., per la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita (contratto, dichiarazione scritta, testamento) e quale che sia il “titolo” della chiamata all’eredità (“diretta” ovvero “per rappresentazione”), ciò che consente di fruire del beneficio previsto è la qualità di erede “legittimo”, senza ulteriori specificazioni.

Nello specifico è da considerarsi “legittima” l’ottava erede, subentrata per rappresentazione in forza dell’art. 1412, comma 2, c.c., al proprio dante causa, a sua volta erede della contraente ma a questa premorta.

Il subentro per rappresentazione, in luogo di un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, è reso possibile in virtù della assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte, alla categoria del contratto a favore di terzi.

Demistificando la tesi delle ricorrenti, tesa a qualificare il diritto del beneficiario alla corresponsione del dovuto quale un diritto “personale’’ acquisito ex contractu e non di natura ereditaria, la Corte ha invece ribadito il principio, già enunciato a Sezioni Unite, secondo cui la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita è qualificabile come un atto inter vivos con effetti post mortem.

Sicché, anche laddove il contratto di assicurazione non menzioni esplicitamente gli eredi beneficiari (legittimi e/o testamentari), qualora le leggi o le disposizioni testamentarie applicabili rendano chiari i soggetti che avranno diritto all’eredità, l’assicuratore dovrà effettuare il pagamento in conformità con queste disposizioni.

Infatti, il termine «eredi», enunciato nella designazione, ha lo scopo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, prescindendo dall’effettiva vocazione; pertanto, la generica individuazione degli “eredi” quali beneficiari, ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente.

In questi casi, inoltre, la prestazione assicurativa è qualificabile come obbligazione soggettivamente complessa che vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, rappresentata dal contratto; sicché, salvo che non sia diversamente previsto dal contratto stesso, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale, il cui pagamento potrà essere esatto da ciascuno pro quota nei confronti dell’assicuratore.

Per tale ragione la Cassazione ha rigettato i primi motivi di ricorso, negando l’esclusione dalla categoria di eredi-beneficiari l’ottava erede per rappresentazione e, quindi, ripristinando la divisione del quantum assicurato in otto quote in luogo di sette.

Al contrario, la Corte ha ritenuto di accogliere la terza censura – con conseguente assorbimento della quarta – tesa a denunciare il vizio ricostruttivo, reiterato dalle corti territoriali, della disciplina giuridica degli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) indebitamente contaminata da elementi strutturali (l’imputabilità colpevole nel ritardo) propri della diversa disciplina degli interessi moratori (art. 1224 c.c.).

A causa del predetto vizio di interpretazione della disciplina, la società assicurativa ha illegittimamente trattenuto le somme delle polizze assicurative sul rilievo che la (assente) individuazione dei beneficiari delle somme fosse impedita dalla mancata trasmissione di un atto notorio identificativo degli eredi.

Al contrario, ex art. 1282 c.c. i crediti di somme di denaro producono interessi ipso iure solo se liquidi ed esigibili ovvero se il credito è determinato o determinabile in base a parametri predefiniti ed oggettivi (così anche Cass. III, 12 settembre 2014, n. 19266).

I crediti spettanti agli “eredi legittimi” del de cuius – beneficiari della polizza dalla stessa stipulata – sono divenuti esigibili da parte di costoro, dal momento della verificazione dell’evento della morte, sicché gli interessi corrispettivi competevano loro senza che fosse rilevante stabilire come dovesse compiersi la ripartizione fra di essi.

Dare rilievo al momento in cui si è avuta puntuale cognizione degli eredi significherebbe valorizzare, quale presupposto giuridico di liquidità ed esigibilità del credito indennitario, una circostanza esterna al contratto, successiva al suo perfezionamento e riconducibile a un comportamento arbitrario del debitore (denegato rilievo alla prodotta dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà) in aperta violazione degli artt. 1252 e 1383, cc.; circostanza che, afferendo all’esecuzione di un pagamento esigibile, avrebbe rilevanza con riferimento ad eventuale debenza di interessi moratori.

Tuttavia, il rilievo attribuito alla suddetta circostanza ingenera un’indebita commistione di discipline, produttiva di conseguenze giuridiche fuorvianti: gli interessi moratori, seppure trovino il proprio fondamento nel contratto o nella legge in base all’art. 1282 cc. e nella esigibilità del credito così come gli interessi corrispettivi, si differenziano da questi presupponendo in aggiunta la mora ovvero un ritardo qualificato dalla costituzione in mora e assolvendo ad una funzione eminentemente risarcitoria, non di mera controprestazione.

Per le ragioni sopra esposte, la Corte ha ritenuto di accogliere il ricorso in relazione al terzo motivo e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 aprile 2021, n. 11421; Cass. III, 12 settembre 2014, n. 19266
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Interesse ad agire dei comitati di scopo È inammissibile per carenza di interesse il ricorso di opere in corso di progettazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato risponde positivamente. – Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 2023, n. 5104.

La quarta Sezione del Consiglio di Stato evidenzia che, nel caso in cui non vengano dedotti vizi propri degli atti oggetto di impugnativa, ma censure relative all’assetto urbanistico di un’area e al pregiudizio ambientale che si produrrebbe qualora il progetto acquisito tramite gara dovesse essere approvato, deducendo una lesione riguardante “l’interesse ad una buona qualità dell’aria, alla fruibilità del verde pubblico ed alla tranquillità di quartiere”, riconducibile ad una variante al Piano regolatore generale comunale, presupposto necessario ai fini dell’insediamento delle opere, ancora in corso di progettazione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse poiché la lesione dedotta dai ricorrenti non è ancora concretamente ipotizzabile.

Con riguardo alla vicenda in esame, il ricorso è stato promosso da un Comitato di Scopo denominato e da altri soggetti, contrari alla realizzazione di un Parco in una località, sostenendo l’impossibilità di destinare lo standard minimo di verde previsto in quell’area su altre aree del quartiere ovvero in aree adiacenti.

giurista risponde

Annullamento provvedimenti cautelari o disciplinari Sono restituibili le retribuzioni in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti cautelari o disciplinari?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, in caso di annullamento giurisdizionale di provvedimenti cautelari o disciplinari l’amministrazione datrice di lavoro è tenuta alla restituzione in integrum. – Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 25 maggio 2023, n. 367.

I Giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia evidenziano che, colgono nel segno le censure articolate dall’appellante avverso la decisione di prime cure, secondo cui l’Amministrazione, in attuazione del giudicato di annullamento della sanzione della sospensione irrogata, non avrebbe potuto rinnovare il procedimento disciplinare per le medesime condotte, sebbene per giungere alla irrogazione di una sanzione meno afflittiva, avendo il giudice amministrativo escluso in radice la loro rilevanza disciplinare e la conseguenziale responsabilità dell’incolpato.

Per indirizzo giurisprudenziale consolidato (Cons. Stato, sez. II, 21 gennaio 2022, n. 394; Id., 16 marzo 2022, n. 1854) in caso di annullamento giurisdizionale di provvedimenti cautelari o disciplinari che hanno comportato effetti negativi sul rapporto di servizio del pubblico dipendente, sia in termini giuridici che economici, l’Amministrazione datrice di lavoro è tenuta alla restitutio in integrum, di talché il dipendente ha diritto a vedersi attribuire la retribuzione per i periodi di lavoro non prestato a causa dell’illegittima sospensione o interruzione del rapporto di servizio.

Nel caso di specie, è pacifico che l’appellante sia stato riammesso in servizio dopo l’annullamento del provvedimento di destituzione, ma – in ossequio all’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato – avrebbe dovuto percepire tutte le retribuzioni per i periodi in cui il suo rapporto di lavoro è stato illegittimamente sospeso in virtù dei provvedimenti di sospensione cautelare e disciplinare e, successivamente, interrotto con il provvedimento di destituzione (da esse potendo detrarsi, ossia compensarsi, unicamente gli importi corrispondenti alle sanzioni pecuniarie successivamente inflitte al ricorrente e non annullate in questa sede; nonché, ovviamente, gli importi degli assegni alimentari che furono pagati al dipendente durante i periodi di sospensione).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. II, 21 gennaio 2022, n. 394; Id., 16 marzo 2022, n. 1854;
Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 16 luglio 2015, n. 539
giurista risponde

Regime escussione cauzione provvisoria È possibile l’incameramento della cauzione provvisoria quale conseguenza automatica dell’esclusione automatica di un operatore economico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

La V Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione. – Cons. Stato, sez. V, ord. 7 giugno 2023, n. 5618.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione sulla compatibilità col diritto dell’Unione Europeo di una norma interna che prevede l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico.

In particolare, se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU., l’art. 6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli gli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a una norma interna che preveda l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario della gara.

giurista risponde

Estensione validità temporale offerta RTI È possibile l’estensione della validità temporale dell’offerta presentata dall’R.T.I. modificando in riduzione la compagine del raggruppamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato con ordinanza ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione. – Cons. Stato, Sez. V, ord., 16 giugno 2023, n. 5950.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di giustizia sulla compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea della disciplina interna (delle disposizioni del D.Lgs. 163/2006) sulle modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di imprese, nella parte in cui detta disciplina è nel senso della esclusione, in caso di scadenza del termine di validità dell’offerta originariamente presentata da un raggruppamento temporaneo di imprese costituendo, della possibilità di ridurre, all’atto dell’estensione della validità temporale della medesima offerta, la originaria compagine del raggruppamento.

Più nel dettaglio, i Giudici di Palazzo Spada hanno rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE:

a) “se la direttiva 2004/18/CE, gli artt. 16 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a norme interne (artt. 11 comma 6, 37 commi 8, 9, 10, 18 e 19, 38, comma 1, lett. f) del D.Lgs. 163/2006) che escludono, in caso di scadenza del termine di validità dell’offerta originariamente presentata da un raggruppamento temporaneo di imprese costituendo, la possibilità di ridurre, all’atto dell’estensione della validità temporale della medesima offerta, la originaria compagine del raggruppamento; in particolare, se tali disposizioni nazionali siano compatibili con i principi generali del diritto dell’Unione europea di libera iniziativa economica ed effetto utile, nonché con l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”;

b) “se la direttiva 2004/18/CE, gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU, l’art. 6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a norme interne (artt. 38, comma 1, lett. f), 48 e 75 del D.Lgs. 163/2006) che prevedano l’applicazione della sanzione d’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di servizi, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario dell’affidamento medesimo”.

Per quanto attiene alla prima questione pregiudiziale, il Consiglio di Stato ha chiarito che l’esclusione del raggruppamento si profila quale atto dovuto, sia in quanto violativo del principio di immodificabilità del RTI – qualora non sia dimostrata la sussistenza di esigenze organizzative dell’intero raggruppamento a base del recesso esercitato dal singolo operatore aderente al raggruppamento – sia laddove il recesso si profili come operato con finalità elusiva, in quanto volto a evitare una sanzione di esclusione della gara per difetto dei requisiti in capo al componente del RTI che viene meno per effetto dell’operazione riduttiva. Inoltre, il combinato disposto degli artt. 11, comma 6, 37, commi 8, 9, 10, 18 e 19 e 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. 163/2006, come interpretati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, costringendo i componenti del RTI a rimanere vincolati all’offerta presentata per un periodo indefinito di tempo, anche in caso di plurime scadenze della sua vincolatività, in presenza di gare complesse di lunga durata – con la sola possibilità di non conferma dell’offerta da parte di tutti gli originari componenti del RTI – è apparso al Collegio di dubbia compatibilità con il principio di libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea secondo cui “è riconosciuta la libertà di impresa, conformemente al diritto dell’unione e alle legislazioni e prassi nazionali” nonché con i principi di proporzionalità di cui all’art. 52 della medesima Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE.

Con riferimento alla seconda questione pregiudiziale, il Collegio evidenzia che in ragione dell’entità e assoluta rilevanza del sacrificio patrimoniale imposto a parte appellante, per la stessa l’escussione delle cauzioni provvisorie verrebbe ad acquisire i connotati di una sanzione cui non può che necessariamente riconoscersi carattere penale, secondo l’accezione cristallizzata nell’interpretazione della Corte EDU: l’automatico incameramento delle garanzie provvisorie integrerebbe gli estremi di una evidente violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, ord., 20 ottobre 2014, n. 5167; Id., 9 ottobre 2014, n. 5030;
Id., 9 luglio 2014, n. 3496, 3498 e 3499
giurista risponde

Risarcimento danno per mancata aggiudicazione gara La revoca degli atti di gara, quale atto di autotutela, comporta l’interruzione del nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, interrompe il nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti dall’impresa aggiudicataria. – Cons. Stato, sez. III, 23 giugno 2023, n. 6208.

Preliminarmente è opportuno precisare che l’irragionevolezza di un provvedimento di revoca non può essere desunta dalla difesa, effettuata dalla p.a. in giudizio, degli atti revocati, attesa la diversità tra il soggetto che è tenuto a difendere, in giudizio, le scelte già adottate dalla p.a., esercitando il ministero del difensore, e gli organi di amministrazione attiva, tenuti invece ad adeguare l’assetto provvedimentale alle mutevoli valutazioni circa la sua aderenza al quadro dei fatti e degli interessi rilevanti venuto a determinarsi nella realtà socio-economica.

Per quanto attiene alla revoca degli atti di gara da parte della stazione appaltante, quale atto di autotutela, essa comporta l’interruzione del nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti dall’impresa aggiudicataria in quanto la situazione giuridica che può essere tutelata sotto il profilo del risarcimento risulta unitaria, di conseguenza qualora l’interesse a conseguire l’aggiudicazione dell’appalto sia paralizzato a seguito dell’atto di autotutela che abbia posto nel nulla il procedimento di evidenza pubblica, e quest’ultimo sia risultato legittimo sotto il profilo giuridico così come da valutazione del giudice amministrativo, il predetto provvedimento di revoca non potrà essere posto a fondamento di una pretesa risarcitoria per perdita di opportunità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6820
giurista risponde

Nullità sentenza primo grado per motivazione apparente Può dichiararsi nulla la sentenza di primo grado per motivazione apparente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato si esprime sulla nullità di una sentenza di primo grado per motivazione apparente. – Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2023, n. 6309.

Il Consiglio di Stato ha affermato che: «È nulla, per motivazione apparente, la sentenza in cui si faccia riferimento, in modo assolutamente vago e generico, alle “circostanze” relative all’affidabilità professionale dell’operatore economico, le cui dichiarazioni sarebbero state omesse o non sarebbero state correttamente vagliate dalla stazione appaltante, senza mai indicarle specificamente e analiticamente, o quanto meno senza connotarne il contenuto distintivo, nemmeno in modo riassuntivo, sintetico o allusivo».

I Giudici di Palazzo Spada hanno accolto l’appello, ricordando il principio espresso dall’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen. 10 e 11/2018), secondo cui costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Dunque, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto delle previsioni costituzionali di cui all’art. 111, comma 5, Cost.

Nel caso in esame, il riferimento del tutto vago alle “circostanze” relative all’affidabilità professionale ha portato in secondo grado le parti a riproporre integralmente le deduzioni nel merito formulate in primo grado, elencando tutte le vicende rilevanti. Pertanto, si è determinata di fatto la trasformazione del giudizio di appello in un iudicium novum. Di qui, il carattere apparente della motivazione e dunque l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice di primo grado.