conduttore condannato

Conduttore condannato: negare le visite all’immobile costa il risarcimento l Tribunale di Roma ha condannato un conduttore al pagamento di sei mensilità di canone per aver impedito al locatore le visite all’immobile dopo il recesso dal contratto

Conduttore condannato: il caso portato in Tribunale

Conduttore condannato al risarcimento per aver negato le visite all’immobile. La controversia nasce dal recesso esercitato da un conduttore, il quale aveva comunicato l’intenzione di lasciare l’immobile il 30 settembre 2021, ma lo aveva riconsegnato solo il 21 ottobre 2021.
Durante questo periodo, nonostante l’espresso obbligo contrattuale, il conduttore aveva negato le visite all’immobile richieste dal locatore per reperire nuovi inquilini.

La domanda del locatore

Il proprietario chiedeva il risarcimento pari a sei mensilità di canone (1.600 euro ciascuna) per l’impossibilità di locare tempestivamente l’appartamento, oltre al rimborso di ulteriori danni agli interni dell’immobile.

La decisione del Tribunale di Roma

Il giudice, dott.ssa Chiara Salvatori della VI sezione civile, ha ritenuto fondata la domanda del locatore.
In particolare, è stato accertato che:

  • il contratto di locazione, regolarmente sottoscritto dalle parti, prevedeva all’art. 13 l’obbligo del conduttore di consentire due visite settimanali;

  • il documento prodotto dal conduttore, privo di firme e con clausole diverse, non poteva essere considerato;

  • il rifiuto del conduttore non poteva essere giustificato né dall’emergenza sanitaria, né dall’invio di video parziali dell’immobile, che non sostituivano le visite in presenza.

La condanna del conduttore

Il Tribunale ha quindi stabilito che:

  • al conduttore non spettava la restituzione del deposito cauzionale, già rimborsato in via monitoria;

  • l’inadempimento contrattuale giustificava la condanna al risarcimento pari a sei mensilità di canone;

  • il conduttore doveva inoltre farsi carico delle spese di lite.

Il principio ribadito dal giudice

La sentenza sottolinea che il conduttore non può sottrarsi all’obbligo di consentire le visite, trattandosi di una clausola contrattuale vincolante volta a tutelare l’interesse del locatore a non subire vuoti locativi.
Il mancato rispetto di tale obbligo costituisce un inadempimento contrattuale che legittima il risarcimento dei danni.

pagamento dell'assicurazione

Condominio: amministratore responsabile per mancato pagamento dell’assicurazione La Corte d’Appello di Ancona ha stabilito che l’amministratore risponde dei danni se omette il pagamento del premio assicurativo, salvo prova di solleciti ai condòmini

Amministratore condominio e pagamento dell’assicurazione

L’amministratore di condominio ha il dovere di garantire la copertura assicurativa dell’edificio, provvedendo al pagamento dell’assicurazione in modo puntuale. La mancata corresponsione dell’importo dovuto comporta la sospensione della polizza e può determinare la responsabilità personale dell’amministratore per i danni subiti dal condominio.
La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 1001 del 29 luglio 2025, ha ribadito che non è sufficiente invocare la mancanza di fondi: l’amministratore deve dimostrare di aver sollecitato concretamente i condòmini al versamento delle quote necessarie.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Una donna, recandosi in uno studio situato all’interno di un condominio, cadeva sulle scale interne, prive di corrimano e di sistemi antiscivolo. Dopo l’infortunio, avviava una richiesta di indennizzo alla compagnia assicurativa indicata dall’amministratore.
La compagnia rifiutava il pagamento, evidenziando che il premio non era stato saldato e che la copertura era sospesa. Il condominio, citato in giudizio, respingeva ogni responsabilità, attribuendo l’accaduto alla disattenzione della donna e chiedendo la chiamata in causa dell’amministratore per grave inadempimento.

Le difese dell’amministratore e l’esito del giudizio

L’amministratore sosteneva di non aver potuto pagare il premio per assenza di fondi, imputando tale situazione alla morosità di alcuni condòmini. Tentava inoltre di rivalersi su due polizze personali, che però risultavano intestate a lui come persona fisica e non alla società amministratrice, risultando così irrilevanti.

Il Tribunale di primo grado respingeva la domanda della danneggiata, ritenendola esclusivamente responsabile. La Corte d’Appello, invece, riformava la decisione:

  • riconosceva un concorso di colpa (60% alla donna ai sensi dell’art. 1227 c.c., 40% al condominio ex art. 2051 c.c.);

  • condannava l’amministratore a risarcire il condominio per il mancato pagamento del premio, ritenuto un grave inadempimento contrattuale.

Omesso pagamento dell’assicurazione: il principio di diritto

La Corte ha sottolineato che l’amministratore non può giustificarsi con generiche affermazioni di mancanza di liquidità. È necessario dimostrare di aver intrapreso tutte le iniziative idonee a reperire le somme, compresi solleciti scritti e azioni nei confronti dei morosi. Nel caso esaminato, era stata rinvenuta solo una diffida a un singolo condòmino, senza alcun riferimento alla necessità di coprire il premio assicurativo.

Questo orientamento è coerente con la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 2831/2021), che afferma la responsabilità dell’amministratore quando la scopertura assicurativa derivi dall’omesso pagamento dei premi.

certificato di abitabilità

Certificato di abitabilità: niente risarcimento dopo l’acquisto La Cassazione conferma: il certificato di agibilità ottenuto dopo il rogito esclude il danno al compratore. Nessuna vendita aliud pro alio se l’immobile è poi regolarizzato

Certificato di abitabilità e regolarizzazione post-vendita

La mancanza del certificato di abitabilità al momento del rogito non configura automaticamente un danno risarcibile per l’acquirente, se il venditore provvede successivamente alla regolarizzazione. A ribadirlo è la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 19923/2025, che conferma l’orientamento consolidato in materia.

Il caso

La vicenda trae origine da un contratto di compravendita immobiliare stipulato nel 2013, in cui l’acquirente aveva scoperto solo in un momento successivo che l’immobile non era munito del certificato di abitabilità. Nel 2016, la stessa aveva promosso azione giudiziaria chiedendo la riduzione del prezzo e il risarcimento di danni patrimoniali e non patrimoniali.

Il Tribunale ha ritenuto la domanda improcedibile per decorso dei termini, ma la Corte d’appello, pur dichiarandola procedibile, ha rigettato la richiesta nel merito, riconoscendo che il certificato era stato rilasciato nel 2014, quindi in epoca successiva ma utile a sanare il vizio originario.

Nessuna vendita aliud pro alio: prevale la regolarizzazione

La Corte di cassazione ha condiviso il giudizio dei giudici di merito, escludendo la configurabilità della vendita di aliud pro alio, cioè la consegna di un bene diverso da quello pattuito. «La sanatoria dell’originaria irregolarità – si legge nell’ordinanza – ha escluso la sussistenza del danno da non commerciabilità del bene», non rilevando la sola mancanza formale del certificato al momento della vendita, in assenza di difetti sostanziali o ostacoli permanenti alla commerciabilità.

Il danno da mancata agibilità va provato

La semplice assenza del certificato non comporta automaticamente un danno. La Corte ricorda che il danno, per essere risarcibile, deve essere allegato e dimostrato nel concreto: ad esempio, una perdita di valore del bene, spese necessarie per sanare la situazione o difficoltà nel rivendere l’immobile.

Nel caso concreto, nessuna prova in tal senso è stata fornita dall’attrice, che ha quindi visto respingere definitivamente le proprie pretese.

L’agibilità è elemento rilevante, ma non assoluto

La Cassazione ribadisce un principio ormai consolidato: l’agibilità è sì un elemento essenziale ai fini della commerciabilità dell’immobile, ma la sua assenza non è sufficiente a integrare un inadempimento del venditore, se è possibile la regolarizzazione successiva e se l’acquirente non dimostra un concreto pregiudizio subito.

Spese per cornicioni

Condominio: spese per cornicioni escluse dal riparto del terrazzo La Corte d’appello di Genova chiarisce che le spese per cornicioni e ponteggi non rientrano nel regime di riparto dell’art. 1126 c.c., ma si applica il criterio generale dei millesimi

Cornicioni e ponteggi fuori dal riparto ex art. 1126 c.c.

Spese per cornicioni: la Corte d’appello di Genova, con la sentenza n. 927/2025, ha escluso l’applicazione dell’articolo 1126 del Codice civile alle spese sostenute per il rifacimento di cornicioni aggettanti e ponteggi, precisando che tali elementi non costituiscono parte del lastrico solare ma beni comuni da ripartirsi secondo il criterio generale dei millesimi di proprietà, ai sensi dell’art. 1123 c.c. 

Il contenzioso: terrazzo ad uso esclusivo e spese contestate

Il caso nasce dalla contestazione, da parte di un condomino, della delibera condominiale con cui erano state approvate le spese per il rifacimento del lastrico solare ad uso esclusivo. Il condomino riteneva errato il criterio di riparto utilizzato per il cornicione e i ponteggi, ritenendo che anche queste spese dovessero seguire il regime speciale previsto dall’articolo 1126 c.c.: un terzo a carico dell’utente esclusivo, due terzi a carico degli altri condòmini.

Il condominio, invece, aveva applicato tale criterio solo al lastrico, ritenendo che cornicione e ponteggi non fossero strutturalmente o funzionalmente connessi alla copertura e quindi soggetti al criterio ordinario dell’art. 1123 c.c. 

Il giudizio di primo grado

Il tribunale ha dato ragione all’attore, annullando la delibera. Ha considerato che tutti gli interventi – terrazzo, cornicione e ponteggi – fossero funzionalmente collegati e dovessero quindi essere ricondotti unitariamente al regime di cui all’art. 1126 c.c., trattandosi di un’unica operazione di manutenzione straordinaria su una superficie ad uso esclusivo.

La decisione della Corte d’appello: criteri da distinguere

La Corte di Appello di Genova, investita dell’impugnazione, ha parzialmente riformato la sentenza. Ha riconosciuto che il cornicione aggettante è un elemento architettonico autonomo con funzione decorativa e protettiva delle facciate, qualificabile come parte comune ex art. 1117 c.c..

Di conseguenza, anche i ponteggi necessari per il suo rifacimento non possono essere ricondotti alla funzione di copertura del terrazzo, né considerati accessori a quest’ultimo in senso stretto. Pertanto, per entrambi gli interventi si applica il criterio proporzionale di cui all’art. 1123 c.c.

Ponteggi: uso misto non modifica la regola

Il fatto che i ponteggi possano aver agevolato anche i lavori sul terrazzo non è sufficiente per modificarne il regime di riparto. L’uso promiscuo non li trasforma in elementi funzionali al lastrico: resta prevalente la loro connessione diretta al rifacimento del cornicione, che ha una natura diversa rispetto al terrazzo.

Riparto differenziato in base alla funzione

Secondo la Corte, non è corretto applicare automaticamente l’art. 1126 c.c. a tutte le opere contestuali al rifacimento di una terrazza. È necessario valutare la funzione specifica di ogni elemento, distinguendo quelli strutturalmente o funzionalmente connessi alla copertura (che rientrano nel riparto speciale) da quelli comuni e autonomi, per i quali resta fermo il criterio generale dei millesimi di proprietà.

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certificato di abitabilità

Il certificato di abitabilità   Certificato di abitabilità: definizione, evoluzione normativa dell'istituto fino alla segnalazione certificata di agibilità

Certificato di abitabilità: cos’è

Il certificato di abitabilità fino agli anni ’90, veniva rilasciato se l’immobile era salubre dal punto di vista igienico sanitario. L’articolo 221 del Regio Decreto n. 1265/1934 subordinava a questo documento infatti l’uso residenziale degli edifici.

Alle Unità Sanitarie Locali spettava il compito di verificare le condizioni igienico-sanitarie delle abitazioni.

Certificato di abitabilità: evoluzione normativa

Con il d.P.R. n. 425/1994, la disciplina dell’abitabilità e quella dell’agibilità si uniscono.

Il certificato di abitabilità attestante la salubrità dell’immobile non basta più per la legalità d’uso. Il decreto richiede anche il certificato di collaudo e la dichiarazione di conformità del direttore dei lavori.

Il d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) muta poi il nome certificato di abitabilità in

certificato di agibilità, rendendolo un titolo unico per tutte le destinazioni d’uso, che viene rilasciato in presenza della sicurezza statica, salubrità, risparmio energetico, accessibilità e conformità urbanistica dell’immobile.

Da certificato di abitabilità, a quello di agibilità fino alla SCA

Nel 2013 si verifica un’importante fusione normativa. Nasce la Segnalazione Certificata di Agibilità (SCA), un documento cruciale per l’uso legittimo di ogni immobile. Questo documento unisce infatti i concetti di “abitabilità” e “agibilità”, cancellando la distinzione tra usi residenziali e non residenziali.

L’obiettivo primario della SCA consiste nell’attestare la conformità di un edificio o unità immobiliare a standard elevati. Tali standard includono condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico e adeguata installazione degli impianti.

La SCA inoltre verifica la conformità dell’opera al progetto originale e, dove richiesto, il rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale. In sintesi, garantisce che ogni immobile rispetti rigorosi requisiti normativi.

Le recenti modifiche del decreto “Salva Casa” (d.l. 69/2024) hanno semplificato ulteriormente il processo. Hanno escluso la nuova agibilità per lavori interni non alteranti, hanno ammesso l’agibilità parziale per singole unità autonome e hanno eliminato la sanzione pecuniaria per la mancata agibilità, sebbene rimangano conseguenze civili e urbanistiche.

SCA: quando è obbligatoria

Il Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380-2001) stabilisce le linee guida generali per la presentazione della SCA. Le normative regionali e comunali possono poi implementare queste direttive. La SCA è necessaria per le nuove costruzioni e per le ricostruzioni totali o parziali. Si richiede anche per sopraelevazioni e interventi su edifici esistenti.

Queste opere però devono potenzialmente influire sulle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità o risparmio energetico. Perfino le sanatorie, che regolarizzano interventi abusivi rientranti in queste categorie, richiedono la presentazione della SCA. Le amministrazioni locali definiscono poi specifici interventi soggetti a questa dichiarazione.

Chi la presenta

Possono presentare la SCA il titolare del permesso di costruire, il soggetto che ha presentato la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA), i loro successori e gli aventi causa.

Nella pratica, un professionista abilitato, come un ingegnere, geometra, architetto o perito edile, solitamente deposita la SCA.

Come si presenta

Il deposito avviene presso lo Sportello Edilizia e Urbanistica entro 15 giorni dalla comunicazione di fine lavori. Alcuni comuni permettono di indicare la fine lavori direttamente nella SCA. Il Comune può anche disporre che vengano eseguite delle ispezioni, tramite la ASL, entro 180 giorni dal deposito per verificare i requisiti.

Validità della SCA

La SCA non ha una durata, quindi non scade e non necessita di essere rinnovata. Tuttavia, è necessaria una nuova segnalazione se intervengono modifiche. Queste modifiche per devono influenzare la sicurezza, l’igiene, la salubrità o il risparmio energetico dell’immobile.

Mancata presentazione: sanzioni

Il Decreto SCIA 2 (D.Lgs. n. 222/2016) ha abolito il rilascio del certificato da parte del Comune.

Ora, la SCA è un’autocertificazione presentata dal proprietario o dal costruttore.

La mancata presentazione comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da 77 a 464 euro.

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revoca dell'amministratore

Revoca amministratore di condominio solo con gravi irregolarità accertate Il Tribunale di Pescara conferma: l’amministratore condominiale può essere revocato solo in caso di gravi violazioni documentate e dannose per il condominio

Revoca amministratore di condominio solo per motivi seri

Revocato amministratore: non bastano disaccordi, sospetti o ritardi lievi per ottenere la revoca giudiziale dell’amministratore di condominio. È quanto afferma il Tribunale di Pescara con un decreto camerale pubblicato il 26 giugno 2025, che richiama un principio consolidato: l’intervento del giudice in ambito condominiale deve essere eccezionale e motivato da irregolarità gravi, specifiche e dimostrabili, tali da compromettere la corretta amministrazione e danneggiare l’interesse collettivo.

Il caso

Il procedimento è stato avviato da un gruppo di condòmini che avevano invocato la revoca ex art. 1129 c.c. per una serie di presunte irregolarità attribuite all’amministratore. Tra le accuse: ritardi nelle convocazioni, mancata esecuzione di delibere, difficoltà nell’accesso alla documentazione, irregolarità fiscali, scarsa trasparenza nella comunicazione su procedimenti legali e altro ancora. Tuttavia, nessuna delle doglianze è risultata fondata o tale da giustificare l’intervento giudiziario.

Assemblee convocate nei termini legali

Il tribunale ha chiarito che, sebbene talvolta non rispettati i tempi regolamentari interni, i ritardi non hanno superato il limite di 180 giorni stabilito dall’art. 1130, n. 10 c.c. e non hanno inciso sul diritto dei condòmini ad esercitare un controllo effettivo sulla gestione. Dunque, non si configurano come gravi irregolarità.

Nessuna inosservanza delle delibere

In relazione al mancato adeguamento delle tabelle millesimali, è stato evidenziato che il tema non era stato formalmente posto all’attenzione dell’amministratore e che l’interessato aveva avviato in autonomia un tentativo di mediazione, poi abbandonato. Questo ha portato il giudice a escludere un interesse reale e concreto sulla questione.

Trasparenza documentale confermata

Quanto al presunto diniego di accesso agli atti condominiali, il tribunale ha accertato che l’amministratore aveva risposto alle richieste del ricorrente, garantendo la consultazione dei documenti. Le accuse di opacità sono state quindi rigettate per assenza di riscontri oggettivi.

Contestazioni generiche e prive di rilevanza

Altre lamentele, come l’utilizzo di diserbanti maleodoranti o la gestione dell’impianto di videosorveglianza, sono state considerate generiche o non supportate da prova, quindi del tutto inidonee a fondare un provvedimento di revoca.

Revoca dell’amministratore è misura residuale e proporzionata

Nelle motivazioni, il tribunale ha richiamato anche precedenti della Corte di cassazione (tra cui Cass. n. 10844/2020 e n. 1405/2007), che qualificano la revoca giudiziale dell’amministratore come strumento eccezionale, attivabile solo in presenza di violazioni gravi e dannose. Errori formali, divergenze interpretative o incomprensioni non bastano a giustificare l’interruzione forzosa dell’incarico.

Equilibrio tra controllo e funzionalità amministrativa

Infine, la decisione sottolinea un ulteriore principio: l’attività gestionale dell’amministratore non può essere paralizzata da richieste pretestuose o vessatorie. Il diritto dei condòmini all’informazione e al controllo deve essere esercitato in modo proporzionato e responsabile, senza trasformarsi in un ostacolo sistematico all’efficienza amministrativa.

cambio nome condominio

Cambio nome condominio: serve l’unanimità Il Tribunale di Catanzaro chiarisce che per modificare denominazione e codice fiscale del condominio serve il consenso unanime dei condòmini

Modifica denominazione condominiale con l’unanimità

Cambio nome condominio: cambiare la denominazione e il codice fiscale di un condominio non è un atto amministrativo ordinario. Secondo la sentenza n. 1480/2025 del Tribunale di Catanzaro, pubblicata il 7 luglio 2025, una delibera condominiale che dispone tali modifiche senza l’assenso unanime dei condòmini è da considerarsi annullabile.

Il giudice ha evidenziato che, in assenza di uno scioglimento formale dell’ente di gestione, non è possibile sostituire il condominio esistente con uno nuovo semplicemente mutandone il nome o il codice fiscale.

Natura giuridica del condominio e limiti decisionali

Il condominio rappresenta una comunione forzosa dotata di una propria autonomia organizzativa, ma non ha personalità giuridica. È strutturato come un ente gestito dall’assemblea dei condòmini, la quale può adottare decisioni vincolanti per tutti, ma nel rispetto delle norme di legge e del regolamento.

Alcune decisioni – come la modifica del nome del condominio o la richiesta di un nuovo codice fiscalenon sono demandabili alla sola maggioranza, ma richiedono il consenso di tutti i partecipanti, poiché incidono sull’identità stessa dell’ente e possono essere interpretate come una costituzione ex novo di un diverso soggetto gestionale.

Cambio nome condominio: il caso esaminato dal Tribunale

Nel caso portato all’attenzione del Tribunale, una condomina ha impugnato una delibera con cui l’assemblea aveva cambiato denominazione e codice fiscale del condominio. L’operazione era motivata da uno stato di abbandono gestionale, dovuto alla prolungata assenza di un amministratore. Alcuni condòmini avevano quindi proceduto autonomamente a convocare un’assemblea per “rinnovare” la gestione.

Tuttavia, la delibera è stata adottata senza il consenso totalitario, senza indicazione dei millesimi, e con la partecipazione di soggetti privi di legittimazione, tra cui un delegato di persona estranea al condominio. Questi elementi hanno compromesso la validità formale e sostanziale della decisione.

Le motivazioni della decisione

Il Tribunale ha chiarito che modifiche così incisive – come la variazione della denominazione e del codice fiscale – alterano l’identità dell’ente condominiale. Si tratta di un atto che non può essere deliberato a maggioranza, ma che richiede la unanimità dei consensi, essendo assimilabile, di fatto, alla creazione di un nuovo condominio.

L’assenza di scioglimento formale e la mancanza dell’assenso di tutti i condòmini rendono l’atto illegittimo e annullabile, anche se motivato da esigenze pratiche o gestionali.

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spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate? Serve la prova dell’urgenza La Cassazione chiarisce che il condomino che anticipa spese urgenti per la cosa comune ha diritto al rimborso solo se dimostra l'urgenza

Spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate: con l’ordinanza n. 16351/2025, la seconda sezione civile della Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il condomino che anticipa spese per la conservazione della cosa comune senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea ha diritto al rimborso solo se dimostra l’urgenza dell’intervento, ai sensi dell’art. 1134 c.c. 

Il caso concreto

Il caso in esame riguardava condomini dell’ultimo piano che avevano anticipato lavori urgenti per la riparazione della copertura e dell’impianto di smaltimento delle acque meteoriche, gravemente deteriorati. Le somme anticipate superavano l’importo minimo, richiedendo un rimborso dagli altri condomini. 

Urgenza, non mera necessità

La Cassazione ha confermato che non basta la necessità dei lavori: è necessario dimostrare che essi non potevano essere differiti. L’urgenza si configura quando ritardare l’intervento avrebbe potuto provocare un danno, anche potenziale, alla cosa comune o alla sicurezza delle persone.

La Suprema Corte ha ribadito che l’urgenza va valutata secondo il criterio del “buon padre di famiglia”, considerando l’indifferibilità e l’impossibilità di avviso agli altri. 

Onere della prova: a carico del condomino

Spetta al condomino che chiede il rimborso dimostrare:

  1. le condizioni pericolose o degradanti della parte comune;

  2. l’indifferibilità dei lavori;

  3. l’impossibilità di coinvolgere tempestivamente l’amministratore o l’assemblea. 

Senza tali elementi, il diritto al rimborso non sussiste.

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impianto antincendio

Condominio: obbligo impianto antincendio Impianto antincendio: in quali casi sono obbligatori i dispositivi antincendio in condominio, il CPI e il ruolo dell'Amministratore

Impianto antincendio in condominio

La presenza di un impianto antincendio all’interno di un condominio non è sempre obbligatoria, ma dipende da precise condizioni strutturali e operative. L’obiettivo principale della presenza di eventuali obblighi è di garantire la sicurezza di tutti gli abitanti, valutando i rischi presenti e adottando le soluzioni più adeguate. Le norme vigenti stabiliscono quando è necessario dotare l’edificio di estintori, idranti e altri sistemi di protezione, e chi deve farsi carico delle relative spese.

Estintori obbligatori

La legge impone l’obbligo di installare estintori solo in determinate situazioni, come previsto dal D.M. 246/1987 e dal Testo Unico sulla Sicurezza (Decreto legislativo n. 81/2008).

Tali dispositivi devono essere presenti, ad esempio, nei locali tecnici (come centrali termiche o spazi con materiali combustibili), nelle autorimesse chiuse o sotterranee, nei vani degli ascensori se indicato dalla valutazione del rischio, e nelle aree comuni con pericoli specifici (come depositi di carburanti o quadri elettrici generali).

Inoltre, se nel condominio lavorano dipendenti come portieri o addetti alle pulizie, l’edificio è assimilato a un luogo di lavoro e gli estintori vanno installati su ogni piano.

Gli estintori devono rispettare  però precisi standard tecnici (almeno classe 21A 89BC) e devono essere collocati lungo le vie di fuga o nei pressi di potenziali fonti di incendio.

Idranti obbligatori: in quali casi?

In alcune circostanze però, gli estintori non sono sufficienti a garantire un’adeguata protezione.

Per edifici che superano i 24 metri di altezza antincendio o per autorimesse con una superficie superiore ai 300 mq, è obbligatoria infatti anche l’installazione di impianti fissi antincendio con idranti a muro o naspi rispettosi degli standard UNI EN 671-1 e 671-2. Anche centrali termiche di grande potenza o autorimesse di grandi dimensioni (più di 300 mq) possono richiedere tali sistemi.

Impianto antincendio: l’amministratore

L’amministratore condominiale ha un ruolo chiave nella gestione della sicurezza dell’edificio condominiale. Egli deve promuovere la valutazione del rischio incendio, soprattutto in presenza di lavoratori, ma è consigliabile farlo anche in loro assenza per definire le misure preventive e proteggere i residenti.

Responsabilità condivisa

Garantire la sicurezza antincendio è un dovere continuo che richiede attenzione, investimenti e collaborazione tra amministratori e condomini, accompagnati da una corretta informazione e formazione sugli eventuali comportamenti da adottare in caso di emergenza.

Certificato di Prevenzione Incendi (CPI)

Il CPI, rilasciato dai Vigili del Fuoco, certifica la conformità dell’immobile alle normative antincendio. È obbligatorio per edifici oltre i 24 metri di altezza, autorimesse con superficie superiore ai 300 mq, centrali termiche e depositi di gas. L’amministratore deve presentare una SCIA antincendio e aggiornare il certificato ogni cinque anni.

Spese e manutenzione dispositivi e impianto antincendio 

I costi per i dispositivi antincendio nelle aree comuni devono essere suddivisi tra tutti i condomini in base ai millesimi. Se invece riguardano spazi privati, paga solo chi li utilizza. La manutenzione segue la normativa UNI 9994-1:2024 e prevede controlli periodici, revisioni e collaudi, con aggiornamento del cartellino di manutenzione su ogni dispositivo.

 

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auto abbandonata

Auto abbandonata in condominio? È rifiuto speciale da rimuovere Il Tribunale di Chieti conferma: un’auto in stato di abbandono nel parcheggio condominiale è un rifiuto speciale. Il proprietario va obbligato alla rimozione e allo smaltimento

Auto abbandonata in condominio

Con la sentenza n. 46/2025, il Tribunale di Chieti – sezione distaccata di Ortona ha stabilito che un’auto abbandonata in un’area condominiale, priva di targa e assicurazione, costituisce un rifiuto speciale ai sensi della normativa ambientale. Tale situazione configura un uso illecito del bene comune, lesivo del diritto degli altri condòmini alla pari fruizione dello spazio.

Il giudice ha quindi condannato il proprietario alla rimozione del mezzo a proprie spese, autorizzando il condominio ad agire in via sostitutiva in caso di inadempimento.

Il caso concreto

Il procedimento è stato avviato da un condominio che lamentava la presenza pluriennale di un’auto inutilizzata nel parcheggio comune, in evidente stato di degrado, senza targa né copertura assicurativa.

La vettura non era mai stata rimossa nonostante i ripetuti solleciti, privando gli altri condòmini del legittimo utilizzo dello spazio. Da qui la richiesta giudiziale di accertamento della natura di “veicolo fuori uso” e l’obbligo di rimozione.

Profili ambientali: il veicolo come rifiuto speciale

Il tribunale ha applicato la disciplina prevista dal Dlgs 209/2003 sui veicoli fuori uso e dal Dlgs 152/2006, Testo Unico Ambientale. Queste norme qualificano come rifiuto speciale un’auto che:

  • sia in stato di abbandono;

  • sia priva di elementi identificativi (come la targa);

  • non sia più utilizzabile e non presenti segni di manutenzione o utilizzo.

Secondo la giurisprudenza citata (tra cui Cass. pen. n. 11030/2015), un veicolo può essere considerato fuori uso anche in area privata, se si dimostra la volontà del proprietario di disfarsene.

Violazione del diritto d’uso comune

Il giudice ha inquadrato la condotta della proprietaria dell’auto anche dal punto di vista civilistico, richiamando l’articolo 1102 c.c., che disciplina l’uso delle parti comuni.

La sosta illimitata ed esclusiva del veicolo è stata interpretata come occupazione abusiva dello spazio comune, lesiva del principio di uso paritario tra condòmini. La sentenza ribadisce che nessun condomino può arrogarsi un diritto esclusivo su una parte comune a danno degli altri.

Le prove e la condanna

La decisione si è fondata su documentazione fotografica, visure PRA e dati assicurativi, che hanno dimostrato l’effettivo stato di abbandono del mezzo.

Il tribunale ha condannato la proprietaria:

  • a rimuovere il veicolo a proprie cure e spese;

  • a smaltirlo secondo le norme sui rifiuti speciali;

  • in caso di inerzia, ha autorizzato il condominio a procedere direttamente, con diritto di rivalsa sulle spese sostenute.

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