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Codice Rosso: ok a braccialetto elettronico e a distanza minima La Corte Costituzionale ha legittimato le nuove disposizioni sul divieto di avvicinamento nei reati di genere, ossia l'obbligo di braccialetto elettronico e la distanza minima di 500 metri dalla persona offesa

Codice Rosso e divieto di avvicinamento

Codice Rosso: la Consulta ha dichiarato infondati i dubbi sulla distanza minima di 500 metri e sull’obbligo di braccialetto elettronico, chiarendo però che l’impossibilità tecnica del controllo remoto non può risolversi in un automatismo cautelare a sfavore dell’indagato.

Le qlc sull’art. 282-ter, commi 1 e 2, c.p.p.

Con la sentenza n. 173, depositata oggi, 4 novembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nei riguardi dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”).

Il rimettente ha censurato tali modifiche normative, inerenti la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, poiché esse, prescrivendo la distanza minima di 500 metri e l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico, avrebbero reso la misura stessa troppo rigida, in contrasto con il principio di individualizzazione e con la riserva di giurisdizione in materia di restrizione della libertà personale, avendo inoltre la novella stabilito che, qualora l’organo di esecuzione accerti la «non fattibilità tecnica» del controllo remoto, il giudice debba imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.

Braccialetto elettronico e distanza minima

La Corte ha sottolineato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere, e che la distanza minima di 500 metri corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.

Il giudice delle leggi ha osservato altresì che, sebbene negli abitati più piccoli la distanza di 500 metri possa rivelarsi stringente, l’indagato ne riceve un aggravio sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita; mentre, ove rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. consente al giudice di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo flessibilità alla misura. «A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato» – afferma dunque la Corte – «si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue».

Il controllo da remoto

In riferimento poi alla riscontrata impossibilità tecnica del controllo elettronico, evenienza oggettivamente non imputabile all’indagato, la Corte evidenzia come la norma censurata possa interpretarsi in senso costituzionalmente adeguato, sicché il giudice, in tal caso, non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di idoneità, necessità e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).

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reato di stalking

Il reato di stalking Il fenomeno dello stalking: nozione, natura, fondamento della riforma, elementi strutturali del reato, procedibilità

Stalking: terminologia e definizione

Reato di stalking: con il termine inglese «stalking» vengono indicate una serie di azioni, ripetute nel tempo, che hanno caratteri di sorveglianza e di controllo, di ricerca di contatto e/o di comunicazione e che suscitano nel destinatario ansia, preoccupazione e timore.

Il termine, privo di un esatto corrispettivo nella lingua italiana, in inglese ha origine venatoria ed è particolarmente efficace nel descrivere il comportamento, tipico del cacciatore, del seguire, braccare e cacciare una preda.

Al di fuori dell’ambito venatorio, esso indica quei comportamenti molesti, o addirittura francamente persecutori, descritti anche in ambiti diversi da quello delle relazioni di coppia (si veda ad esempio, il noto fenomeno dello star-stalking). Quelli tipicamente più gravi e oggetto di maggiore attenzione sono, tuttavia, quelli messi in atto da ex partner a seguito dell’interruzione di una relazione intima; nel caso specifico questi comportamenti si inscrivono, spesso, in una vera e propria patologia della relazione in cui il «persecutore», che non è riuscito a elaborare la separazione e il lutto della perdita, persiste nel tentativo di entrare in contatto con l’ex partener e/o di spiare e controllare la sua vita.

Fanno tipicamente parte di questi comportamenti molesti, e configurano quindi il fenomeno dello stalking, le richieste ripetute e insistenti di parlare o di avere appuntamenti con l’ex partner, l’invio di lettere, messaggi, telefonate o regali indesiderati, il seguire e controllare gli spostamenti del partner, gli appostamenti sotto casa, fuori dal lavoro o da scuola. Si tratta di comportamenti che di per sé potrebbero anche non configurarsi come reati. Ai fini della configurazione del reato di stalking ciò che li rende minacciosi e persecutori è il fatto di essere ripetuti, insistenti e indesiderati al punto da spaventare la vittima che ne è oggetto.

Lo stalking è stato inquadrato negli studi di psicologia anche come sindrome del molestatore assillante: si tratta di una definizione che risale al 1912: fu uno studioso francese, Gaetan Gratian de Clérambault , che parlò di questa sindrome ed in particolare descrisse l’erotomane come individuo affetto da delirio erotico mosso da gelosia.

Abbiamo studi molto sedimentati sullo stalking, anche in Italia, ad esempio il Modena Stalking Group, che non è un complesso musicali, ma è un gruppo di associazioni che sono raccordate tra loro e che da tempo si occupano in generale della violenza contro le donne ed in particolare del fenomeno dello stalking . In una delle ultime pubblicazioni del Modena Stalking Group, sono contenuti una serie di contributi da parte studiosi di scienze psichiatriche i quali descrivono il comportamento dello stalker che può essere veramente il più vario: si va dal pedinamento al furto d’identità della persona offesa, all’ordinare per suo conto e in suo nome beni oppure lo screditamento della persona sul luogo di lavoro fino a comportamenti più violenti; c’è tutta una escalation di violenza che va dalle lettere minatorie all’uccisione degli animali domestici, alle minacce verso i familiari, insomma c’è una gamma veramente infinita di comportamenti, non necessariamente tra loro omogenei e non necessariamente di per sé costituenti reato.

Il fenomeno dello stalking in tempi più ravvicinati è stato conosciuto soprattutto per la notorietà delle vittime, spesso si tratta di personaggi del mondo dello spettacolo; così, ad esempio, David Caruso l’attore più conosciuto della serie televisiva americana CSI, nella quale interpreta l’investigatore di polizia Horatio Caine. È rimasto vittima di ripetute molestie da parte di una fan di nazionalità austriaca, che poi venne condannata a sette mesi di prigione dal tribunale di Innsbruck. A questa decisione si è arrivati dopo che la presunta fan aveva inviato 120 lettere, tra cui una in cui lo minacciava di morte semplicemente perché Caruso non le aveva rilasciato un autografo. Ed infatti la California è il primo Stato che si è dotato di una legislazione antistalking nel 1990, poi, mano mano, tutti gli altri Stati si hanno adottato analoghe previsioni legislative anche in Europa.

Le dimensioni del fenomeno

Dall’indagine multiscopo «Sicurezza delle donne» condotta dall’ISTAT, emerge che nel nostro Paese le donne che hanno subito comportamenti persecutori dal marito, dal convivente o dal fidanzato quando si stavano separando da lui o dopo la separazione sono 2 milioni 77 mila.

Su base nazionale risulterebbe che circa il 20% delle donne hanno subito, almeno una volta nella vita, persecuzioni assimilabili allo stalking. Questo dato è confermato dal Centro antipedinamento di Roma secondo cui nella sola capitale il 21% della popolazione è stata vittima, almeno una volta nella vita, di stalking. Questi dati, ci danno ovviamente un quadro generale della situazione; è importante infatti considerare il cosiddetto «numero oscuro», ossia di tutti i casi in cui la molestia assillante non è stata segnalata alle autorità o denunciata.

I volontari dell’Osservatorio Nazionale Stalking (ONS) hanno monitorato 14 regioni, somministrando ed analizzando 8.400 questionari. L’analisi delle variabili socio demografiche ha evidenziato un’assoluta trasversalità del fenomeno. Nello specifico, anche questa analisi conferma l’importante, e per certi versi allarmante, dato sull’incidenza dello stalking sulla popolazione femminile italiana.

Le ragioni di una riforma: inadeguatezza normativa preesistente

Da più parti era avvertita la necessità di adeguare il nostro ordinamento alla realtà dei rapporti sociali ed interpersonali conseguenti all’evoluzione della società italiana.

In particolare sia da parte del mondo dei giuristi (dottrina e giurisprudenza) sia da parte di associazioni varie di cittadini è stato rilevato che alcuni comportamenti particolarmente odiosi ed invasivi dell’altrui sfera privata non sono adeguatamente sanzionati.

Ci si riferisce a vari atteggiamenti tenuti da soggetti i quali per i più svariati motivi turbano la tranquillità privata delle persone attraverso atti di molestia compiuti anche con mezzi telematici o informatici.

L’inadeguatezza dell’attuale normativa si evince chiaramente dalla lettura della vigente norma sanzionatoria prevista dal codice penale all’art. 660 il quale sotto la rubrica della molestia o disturbo alle persone punisce alcuni comportamenti che debbono presentare alcuni anacronistici requisiti sotto il profilo soggettivo determinati dalla petulanza o altro biasimevole motivo, e sotto il profilo oggettivo dall’essere commessi in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Così è stata ravvisata dalla giurisprudenza per esempio la molestia di cui all’art. 660 c.p.:

  • in un continuo e pressante tallonamento con la vettura da parte dell’autore del reato nei confronti del veicolo della vittima;
  • le proposte di appuntamenti galanti non gradite dall’interlocutrice chiamata da un anonimo per telefono;
  • un pedinamento puro e semplice;
  • il continuo e insistente corteggiamento di una donna, chiaramente non gradito;
  • colui che assillando la parte offesa con ossessivi riferimenti alle abitudini sessuali di questa compie una serie di telefonate dal tono confidenziale;
  • azioni di disturbo ravvisate nella condotta dell’ex fidanzato della persona offesa, che rivolge frasi e atteggiamenti di corteggiamenti per ore, intrattenendosi alla presenza di altri avventori all’interno di un locale pubblico dove la stessa lavorava.

La stessa collocazione della norma tra le contravvenzioni, la previsione punitiva di questa (arresto fino a 6 mesi o ammenda fino a 516 euro), l’inserimento tra le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica, rendono la fattispecie punitiva assolutamente desueta.

La norma di cui all’art. 660 c.p. in realtà ha una dimensione e una ispirazione assolutamente illiberale e poliziesca, privilegiando la tutela dell’ordine pubblico; occorre, invece, modificare la scala dei valori, privilegiando il principio personalistico: in sostanza non è la tutela della persona che deve porsi come strumento per assicurare l’ordine e la tranquillità alla collettività ma al contrario è la garanzia della tranquillità a livello collettivo che deve assicurare il verificarsi delle condizioni necessarie e preliminari al godimento della tranquillità personale.

Altri delitti che venivano utilizzati per sanzionare le condotte oggi punite come atti persecutori erano la violenza privata e il reato di minaccia, delitti per loro natura istantanei, non sempre tuttavia configurabili nelle condotte di stalking, perché se noi lo esaminiamo dal punto di vista fattuale il comportamento dell’autore di atti persecutori può essere il più vario e il più disomogeneo e non necessariamente i singoli atti debbono o possono costituire reato ai sensi delle vecchie norme (artt. 612, 610, 594, 595 c.p.).

Il rafforzamento della tutela, allo stato insufficiente, va inquadrato in un più ampio discorso che presuppone la rimeditazione dei principi e degli strumenti di tutela della vita privata e della riservatezza della persona in un contesto caratterizzato, come quello attuale, da molteplici possibilità di aggressione: si pensi, per esempio, al grado di penetrazione nell’intimità personale che si attua attraverso le risorse informatiche. Di qui la necessità di riaffermare, con forza, il diritto di ogni persona a non subire, nel contatto con gli altri, interferenze tali che alterino in modo rilevante la sua tranquillità personale e la sfera di vita privata senza essere sorrette da esigenze di ordine sociale.

In buona sostanza si tratta di garantire a ciascuno la possibilità di filtrare e selezionare il contatto con gli altri rispetto ad alcune manifestazioni gratuite, fastidiose o superflue che spesso si è costretti a subire.

Legislazione italiana: il D.L. n. 11/2009, convertito in l. n. 38/2009

L’art. 7 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, ha introdotto nel codice penale, tra i delitti contro la libertà morale, il nuovo delitto di atti persecutori, collocato dopo l’art. 612 c.p. Il cd. stalking, si sostanzia in un comportamento reiterato consistente in minacce o molestie. Scopo dichiarato della nuova fattispecie è quello di evitare che i comportamenti persecutori possano degenerare in fatti ben più gravi (quali la violenza sessuale e l’omicidio), se non tempestivamente controllati e ridimensionati. La norma ha carattere residuale: essa, infatti non troverà applicazione qualora nei fatti sia configurabile un reato più grave.

La nuova legge in materia di atti persecutori costituisce un sistema integrato di tutela, in quanto la tematica dello stalking viene trattata non soltanto dal punto di vista del diritto penale sostanziale, ma il legislatore ha creato un vero e proprio microsistema integrato di tutela, perché accanto alle norme di diritto penale sostanziale, e cioè all’art. 612bis c.p., ha previsto anche una serie di norme procedurali, per esempio:

  • introducendo una nuova figura di misura cautelare all’art. 282ter c.p.p.;
  • ha previsto una serie di facilitazioni per l’assunzione della prova, in particolare per quanto riguarda l’incidente probatorio;
  • ha previsto un sistema anche di prevenzione attraverso la procedura di ammonimento, che è un atto amministrativo del Questore;
  • ha previsto una serie di norme a tutela della vittima attraverso oneri e obblighi di informazione e di sostegno anche socio-sanitario nei confronti della vittima;
  • ha previsto infine una tutela di natura civilistica attraverso l’ampliamento degli ordini di protezione.

L’oggetto giuridico della tutela

Il delitto previsto dall’art. 612bis c.p. rientra tra i reati contro la persona ed in particolare tra i delitti contro la libertà morale.

Il concetto di tranquillità personale

Il concetto di tranquillità personale, che costituisce l’oggetto giuridico che tutela la nuova fattispecie delittuosa, va qui precisamente delineato: esso riflette la personalità del singolo nel momento statico di chiusura agli altri a fronte di quelle interferenze e intrusioni che legittimano la chiusura del soggetto e il rispetto del suo diritto a non essere aggredito nella propria solitudine.

È fin troppo ovvio che tale concetto presuppone il riconoscimento della possibilità di scelta e di selezione dei condizionamenti esterni e si pone come estrinsecazione della personalità individuale garantendo alla stessa l’isolamento da influenze perturbatrici.

È evidente che la lesione o messa in pericolo della tranquillità personale può sfociare in una aggressione alla libertà individuale, personale o morale del soggetto stesso, violando il processo di autodeterminazione del singolo ovvero, in casi estremi, può addirittura risolversi in un attentato alla sua integrità psicofisica.

Sulla scorta di questi principi teorici il D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009 ha introdotto all’art. 612bis c.p. una nuova fattispecie di reato che, sul piano più strettamente concreto tutela il singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita procurando spesso ansie, preoccupazioni, paure, che le attuali norme non sono idonee a prevenire.

A mero titolo di esempio si possono ricordare i tanti atteggiamenti tenuti da soggetti un tempo legati da vincoli affettivi poi venuti meno successivamente (relazioni sentimentali interrotte, convivenze di fatto allorché uno dei due soggetti non voglia più continuare il precedente rapporto ecc.).

La natura plurioffensiva del reato di atti persecutori

Molestie gravi possono provenire anche da rapporti di vicinato o dai nuovi rapporti telematici ed informatici; si pensi, ad esempio, all’invasione dei messaggi di posta elettronica o ai social media (facebook, tik-tok, instagram ecc.) spesso non graditi sulle proprie utenze cellulari (s.m.s., m.m.s, whatsapp ecc.). Si tratta di nuovi comportamenti antisociali rispetto ai quali la tutela finora prestata non appare adeguata alle nuove esigenze di riservatezza e di tranquillità come dianzi precisati. È evidente che noi abbiamo diritto di scegliere con chi avere rapporti, abbiamo un diritto ad autodeterminarci e di selezionare con chi avere rapporti e con chi non averli. Questa è la frontiera del diritto nella società moderna.

Il reato di stalking offende proprio questo bene giuridico, cioè mette in discussione la mia possibilità di scegliere con chi avere contatti, con chi avere rapporti, quindi tutela il diritto di ogni persona a non subire nel contatto con gli altri interferenze tali che alterino in modo rilevante la sua tranquillità personale e la sfera di vita privata senza essere sorrette da esigenze di ordine sociale. Ciascuno quindi deve avere il diritto di filtrare e selezionare il contatto con gli altri, escludendo tutte le manifestazioni con le quali non voglia ovviamente avere contatti. Non è dunque soltanto – a badarci bene – il concetto della libertà morale, ma occorre far riferimento anche ai concetti di riservatezza e, in casi estremi, anche a quello di incolumità personale, e ciò in quanto la condotta può estrinsecarsi anche in minacce alla incolumità della persona offesa o dei suoi familiari o delle persone a lei legate da vincoli affettivi.

Possiamo allora concludere che il reato in esame abbia natura plurioffensiva in quanto diversi sono i beni protetti seppure tutti riconducibili ai diritti della personalità

Il nuovo delitto previsto dall’art. 612bis c.p.

La norma in esame punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Soggetto attivo

Sotto il profilo criminologico lo stalker è una persona che non riesce ad accettare l’abbandono del partner o di altra figura significativa e che cerca di ristabilire il rapporto interrotto, oppure un individuo che nutre un rancore per una causa estranea ad un rapporto affettivo, ma dovuta ad un altro tipo di rapporto (di lavoro, professionale ecc.). In altri casi lo stalker è un molestatore sessuale, che individua l’oggetto del suo desiderio nella vittima (anche sconosciuta) ed effettua una serie di tentativi di approccio.

In ogni caso trattasi di delitto comune che può essere commesso da chiunque.

Il reato di atti persecutori può essere commesso anche da una pluralità di soggetti in concorso fra loro. La Giurisprudenza della Cassazione ha, infatti, stabilito che in tema di atti persecutori, ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato, ha rilevanza il comune movente, che pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti persecutori e la sua dimensione plurisoggettiva, intesa come volontà comune di concorrere nel reato. (Fattispecie in cui il contributo di ciascuno degli imputati, componenti del medesimo nucleo familiare, alla realizzazione delle condotte criminose era originato dal comune risentimento nutrito nei confronti delle persone offese per le infamanti accuse mosse contro uno di essi) (Sez. 5, sent. 2675 del 24-1-2022 (ud. 18-10-2021) rv. 282772-01).

Soggetto passivo

Soggetto passivo del delitto di atti persecutori può essere chiunque; il delitto può essere commesso ai danni di più persone e non necessariamente la vittima dei comportamenti minacciosi coincide con la vittima dello stalking.

Integra il delitto di atti persecutori (art. 612bis c.p.), la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi, arrecando offesa a diverse persone di genere femminile abitanti nello stesso edificio, provocano turbamento a tutte le altre (Sez. 5, sent. 20895 del 25-5-2011 (ud. 7-4-2011) rv. 250460).

Integra il delitto di atti persecutori il porre in essere una condotta minacciosa o molesta nei confronti di soggetti diversi dalla vittima, ancorché ad essa legati da un rapporto qualificato, ove l’autore del fatto agisca nella consapevolezza che la stessa certamente sarà posta a conoscenza della sua attività intrusiva e persecutoria, volta a condizionarne indirettamente le abitudini di vita così da determinare, quale conseguenza voluta, l’impossibilità o, comunque, la difficoltà per la persona offesa di trovare un lavoro o di frequentare un determinato luogo.

Le condotte moleste possono essere dirette verso soggetti che siano legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, da intendersi non in senso formale, ma come idoneità della relazione interpersonale, secondo l’id quod plerumque accidit, a giustificare il verificarsi dell’evento di danno anche nei riguardi della persona offesa (Sez. 5, sent. 43384 del 26-10-2023 (ud. 16-10-2023) rv. 285271-01).

Qualora gli atti persecutori siano posti in essere nei confronti di più soggetti passivi, si configura una pluralità di reati, eventualmente unificati dalla continuazione, atteso che le condotte determinano differenti eventi e offendono distinte vittime.

Natura: reato abituale

A proposito del concetto di reiterazione, molti autori hanno qualificato nelle prime note di commento gli atti persecutori come reato abituale; in realtà si può avanzare qualche dubbio sulla piena coincidenza fra i concetti di reiterazione e di abitualità, perché l’abitualità presuppone una pluralità di azioni (più di due) che si attuino in un tempo ben definito, ben determinato .

Se noi guardiamo le altre legislazioni, nessuna fa cenno a quante volte debba reiterarsi la molestia o la minaccia, ad eccezione della normativa inglese, la quale prevede che siano sufficienti almeno due episodi perché si verifichi il reato di stalking.

Uno studio abbastanza serio ed importante del gruppo di Mullen e Pathé sulla sindrome del molestatore assillante ha invece ritenuto che deve trattarsi di atti ripetuti per almeno 10 volte e perduranti nello spazio di tempo di almeno 4 settimane, e che tali atti devono consistere in sgraditi tentativi di avvicinarsi o di comunicare con la vittima .

La giurisprudenza, invece, non ha dubbi circa la natura abituale del reato. Secondo la Suprema Corte di cassazione si tratta di un reato abituale, che si caratterizza proprio per la ripetitività della condotta e che trova proprio in questa la ragione di una autonoma incriminazione rispetto ai singoli episodi di minaccia, molestie o di violenza privata, perché è in essa che si manifesta l’offesa penale. Ad avviso, peraltro, della costante giurisprudenza della Cassazione (da ultimo, Cass. V, 19-7-2018, n. 33842) integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612bis c.p. anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la «reiterazione» richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. Deve, dunque, escludersi che tale delitto, proprio in quanto necessariamente abituale, sia configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia, neppure unificando o ricollegando la stessa ad episodi pregressi oggetto di altro procedimento penale attivato nella medesima sede giudiziaria, atteso il divieto di bis in idem (Cass. V, 20-11-2014, n. 48391).

È configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Cass. V, 15-9-2016, n. 38306).

Il delitto di atti persecutori è, altresì, configurabile anche quando le condotte di violenza o minaccia integranti la «reiterazione» criminosa siano intervallate da un prolungato lasso temporale (Cass. V, 4-8-2021, n. 30525).

Integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di «sms» e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti «social network» (ad esempio «facebook»), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, sent. 32404 del 30-8-2010 (cc. 16-7-2010) rv. 248285).

Elemento oggettivo: la condotta

La condotta può consistere nella minaccia o molestia che può avvenire in qualsiasi modo anche, ad esempio con mezzi telematici o informatici, al cui abuso possono conseguire nuove forme di pesanti interferenze nella vita privata. Rientrano sotto la tutela della norma anche quella vastissima area di illeciti che vengono oggi commessi a mezzo del telefono (si pensi, ad esempio, agli SMS, agli MMS o all’avvento dei video telefoni o comunque dei messaggi visivi), ovvero ancora alle molestie che attraverso la rete di internet e i vari social network (facebook, twitter, istagram) si attuano con relativa violazione della privacy. Peraltro non vi dovrebbero essere problemi di duplicazione di norme in quanto gli attentati previsti dall’art. 615bis c.p. (Interferenze illecite nella vita privata) tutelano l’inviolabilità del domicilio ma non quello della persona. Infatti l’art. 615bis c.p. riguarda l’indebita acquisizione o divulgazione di notizie sulla vita privata, ma non le molestie o il disturbo arrecati al soggetto, indipendentemente da tali acquisizioni o divulgazioni.

Minaccia

Per il concetto di minaccia si rinvia all’ampia produzione dottrinaria e giurisprudenziale formatasi in ordine alla previsione dell’art. 612 c.p. Si riportano di seguito alcune massime esplicative della interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Suprema Corte al concetto di minaccia.

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 612 c.p. minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole o da altri per lui nella persona o nel patrimonio (Cass. 12-8-1986, n. 8275).

Il delitto di minaccia può attuarsi con qualsiasi mezzo o comportamento idoneo a incutere timore, senza che sia necessario l’uso di parole intimidatorie (Cass. 5-10-1982, n. 8627).

Sussiste il reato di cui all’art. 612 c.p. anche se le minacce non sono rivolte direttamente al soggetto passivo, ma a persona a lui legata da relazioni di parentela, di amicizia e di lavoro, con la certezza che di esse egli venga a conoscenza. (Fattispecie relativa a ritenuta sussistenza del reato, ritenuta inaccoglibile la tesi difensiva fondata sul rilievo che, non essendo state percepite le frasi minacciose direttamente dalla persona offesa, bensì dalle sue impiegate e per via telefonica, sarebbe venuta meno ogni loro carica intimidatrice) (Cass. 24-6-1985, n.  6289).

Per la sussistenza del delitto di minaccia non è sufficiente la prospettazione di un male futuro, essendo altresì necessario che il verificarsi del detto male dipenda dalla volontà dell’agente. (Nella fattispecie, la Corte ha escluso che potesse ravvisarsi minaccia nelle parole dell’imputato, il quale si era limitato ad affermare che il figlio aveva problemi psichici e che aveva «preso una fissazione» per la persona offesa, contro la quale avrebbe anche potuto puntare un coltello) (Cass. 11-6-1999, n. 7571).

Ai fini della configurazione del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, essendo solo necessario che questa sia venuta a conoscenza anche tramite altre persone, a condizione che ciò avvenga in un contesto per il quale si ritenga che l’agente abbia avuto la volontà di produrre l’effetto intimidatorio. (Fattispecie in cui la minaccia sia stata pronunciata a persona legata al soggetto passivo da relazioni di amicizia e lavoro) (Cass. 22-9-2003, n. 36353).

In tema di minaccia, anche un mero comportamento può presentare i connotati della minaccia, in quanto, da un lato, la condotta si inserisca in un contesto reiterato di espressioni di inequivoco contenuto minaccioso e, dall’altro, esso risulti oggettivamente caratterizzato da atteggiamenti marcatamente minacciosi (Nella specie, l’agente sostava lungamente con l’autovettura sotto l’abitazione della vittima e, sporgendosi dal finestrino, la chiamava a gran voce affinché fosse sentito da tutto il vicinato) (Cass. 12-12-2004, n. 556).

Ai fini della configurabilità del reato di minaccia (art. 612 c.p.), si richiede la prospettazione di un male futuro ed ingiusto – la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente – che può derivare anche dall’esercizio di una facoltà legittima la quale, tuttavia, sia utilizzata per scopi diversi da quelli per cui è tipicamente preordinata dalla legge; non è, peraltro, necessario che il bene tutelato dalla norma incriminatrice sia realmente leso, essendo sufficiente che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale (Cass. 6-2-2004, n. 4633).

Anche le frasi intimidatorie pronunziate in forma condizionata integrano il delitto di minaccia, a meno che l’intimidazione, espressa in detta forma, sia intesa non già a restringere la libertà psichica del minacciato, bensì a prevenire un’azione illecita del medesimo, rappresentandogli tempestivamente quale reazione legittima il suo comportamento potrebbe determinare (Cass. 3-5-1973, n. 3338).

Non integrano il delitto di minaccia le locuzioni intimidatrici espresse in forma condizionata quando siano dirette, non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, ma a prevenirne un’azione illecita o inopportuna e siano rappresentative della reazione legittima determinata dall’eventuale realizzazione di dette azioni. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha escluso che l’espressione «se vedi Attilio digli che se si appoggia alla mia macchina in modo provocatorio io l’ammazzo» integri il delitto di minaccia, avuto riguardo al contesto in cui era stata proferita concernente soggetti adusi ad utilizzare messaggi convenzionali, tali da escludere la serietà della frase minatoria, costituente una sorta di avvertimento condizionato alla ostentazione di un comportamento provocatorio) (Cass. 20-7-2007, n. 29390).

Molestie

Per quanto riguarda le molestie in particolare un aiuto alla ampia casistica della giurisprudenza ci viene anche dal nostro ordinamento europeo che seppure il più delle volte non in maniera tassativa, precettiva per il nostro ordinamento statuale, ha comunque adottato sul tema una sorta di catalogo definitorio.

In particolare il Consiglio, nella delibera, la numero 2006/54 della Comunità Europea, a proposito dell’attuazione del principio di pari opportunità e di parità di trattamento tra uomini e donne ha dato una definizione sia delle molestie che delle molestie sessuali, ritenendo che per molestia si intende una situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona, avente lo scopo di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

Per molestia sessuale invece si intende la situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Quanto, invece al concetto di molestia, si riportano di seguito alcuni orientamenti giurisprudenziali formatisi in sede di interpretazione dell’art. 660 c.p.

Ai fini della sussistenza del reato previsto dall’art. 660 c.p., la molestia o il disturbo devono essere valutati con riferimento alla psicologia normale media, in relazione cioè al modo di sentire e di vivere comune. Nell’ipotesi in cui il fatto sia oggettivamente molesto o disturbatore è pertanto irrilevante che la persona offesa non abbia risentito alcun fastidio. (Nella specie trattavasi di continuo e pressante tallonamento con la vettura da parte dell’autore del reato nei confronti del veicolo della vittima) (Cass. 24-9-1984, n. 7355).

Nella generica dizione di cui all’art. 660 c.p. «col mezzo del telefono» sono compresi anche la molestia e il disturbo recati con altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza (citofono ecc.) (Cass. 30-6-1978, n. 8759).

Ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), integrano la condotta ivi prevista le proposte di appuntamenti galanti non gradite dalla interlocutrice chiamata da un anonimo per telefono e, pertanto, palesemente rivolte a molestare le persone (Cass. 25-11-1992, n. 11336).

Il fatto del pedinamento, puro e semplice, non basta ad integrare gli estremi dell’azione molesta punita dall’art. 660 c.p., anche se interferisce nell’altrui sfera di libertà e pure se non è gradito alla persona che lo subisce. Per rientrare nella previsione della fattispecie legale il pedinamento, infatti, deve concretarsi in un’azione pressante, indiscreta e impertinente (Cass. 2-10-1978, n. 11846).

Il continuo, insistente corteggiamento, chiaramente non gradito, di una donna, che si estrinsechi in ripetuti pedinamenti e in continue telefonate, realizza non solo l’elemento materiale del reato di cui all’art. 660 c.p., ossia «la molestia», ma altresì la sua componente psicologica, in quanto la relativa condotta è rivelatrice di «petulanza» oltreché di «motivo biasimevole» (Sez. 1, sent. 6905 dell’11-6-1992 (ud. 28192) rv. 190546).

Il reato di molestie telefoniche commesso assillando la parte lesa con ossessivi riferimenti alle abitudini sessuali di questa non è escluso dal fatto che l’interlocutore (nel caso di specie una donna) assuma con il molestatore, al fine di raccogliere elementi utili per individuare l’autore delle telefonate, un tono confidenziale rivolgendogli del tu e consentendo a questi di fare altrettanto poiché tale comportamento non può essere interpretato come di acquiescenza o comunque attenuare nell’autore delle molestie la consapevolezza della illiceità della propria condotta (Cass. 25-1-1997, n. 512).

La disposizione di cui all’art. 660 c.p. punisce la molestia commessa col mezzo del telefono, e quindi anche la molestia posta in essere attraverso l’invio di short messages system (SMS) trasmessi attraverso sistemi telefonici mobili o fissi, i quali non possono essere assimilati a messaggi di tipo epistolare, in quanto il destinatario di essi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario (Cass. 17-2-2004, n. 28680).

La pluralità di azioni di disturbo costituisce elemento costitutivo del reato di cui all’art. 660 c.p. e non può, quindi, essere riconducibile all’ipotesi di reato continuato (Cass. 24-3-2004, n. 14512).

Integra il reato di molestie, la condotta di continuo ed insistente corteggiamento, che risulti non gradito alla persona destinataria, in quanto tale comportamento è oggettivamente caratterizzato da petulanza. (Nel caso di specie l’imputato, ex fidanzato della persona offesa, le aveva rivolto frasi ed atteggiamenti di corteggiamento per ore, intrattenendosi alla presenza di altri avventori all’interno del locale pubblico dove la stessa lavorava come cameriera, nonostante le espresse e ripetute rimostranze della vittima) (Cass. 18-5-2007, n. 19438).

Vediamo ora i più recenti orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di atti persecutori.

Rientra nella nozione di molestia, quale elemento costitutivo del reato, qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente il reato di atti persecutori nelle condotte reiterate di inoltro alla persona offesa di post dal contenuto molesto o palesemente minaccioso, nell’appostamento effettuato nei pressi della dimora dei suoi genitori e nella grave aggressione fisica perpetrata in loro danno, tali da determinare nella stessa un perdurante e grave stato d’ansia) (Sez. 5, sent. 1753 del 17-1-2022 (ud. 16-9-2021) rv. 282426-01).

Costituiscono molestie, elemento costitutivo del reato, le azioni reiteratamente promosse in sede civile (nella specie, ventitré in dieci anni), in base ad un’unica ragione contrattuale, da un asserito creditore che si era precostituito titoli esecutivi fondati su atti da lui falsificati e si era avvalso, quindi, di fatti consapevolmente inventati in funzione dell’unilaterale e ingiustificata modifica aggravativa della posizione del debitore, realizzata con abuso del processo, atteso che la falsificazione dei titoli e la reiterazione dell’azione giudiziaria risulta causativa di uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612bis c.p. (Sez. 5, sent. 17171 del 21-4-2023 (cc.  16-1-2023) rv. 284399-02).

Rientrano nella nozione di molestie anche le condotte che, pur non essendo direttamente rivolte alla persona offesa, comportino subdole interferenze nella sua vita privata. (Fattispecie in cui l’imputato aveva distribuito, all’interno dei bagni di più autogrill, volantini contenenti offerte sessuali falsamente provenienti dalla vittima con indicazione del suo numero telefonico e del suo indirizzo, da cui erano derivate richieste alla stessa di prestazioni sessuali da parte di sconosciuti) (Sez. 5, sent. 25248 dell’1-7-2022 (ud. 12-5-2022) rv. 283369).

Integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di «sms» e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti «social network» (ad esempio, «facebook»), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, sent. 32404 del 30-8-2010 (cc. 16-7-2010) rv. 248285).

La reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Fattispecie relativa a provvedimento de libertate) (Sez. 5, sent. 17698 del 7-5-2010 (cc. 5-2-2010) rv. 247226.

Gli eventi

Le minacce o le molestie devono presentare il carattere dell’idoneità:

  • a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero
  • a ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da relazione affettiva ovvero
  • tali da costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita.

Una situazione psichica di difficile dimostrazione, in luogo della idoneità della condotta a determinare tale evento.

Non si tratta di un reato di pura condotta ma è necessario un evento di danno o di pericolo: deve conseguire al comportamento minaccioso, molesto o comunque perturbante la lesione o la messa in pericolo della libertà morale o personale ovvero dell’integrità psicofisica della persona offesa.

Dunque non è necessario che si verifichi un danno alla salute, ma è sufficiente che si produca una semplice alterazione del normale equilibrio fisico psichico del soggetto che non necessariamente trasmodi in una malattia. Il concetto di integrità psicofisica è, infatti, più ampio di quello, di salute psicofisica, avendo riguardo alla sfera complessiva della personalità e non soltanto ad una alterazione misurabile con criteri medico-legali.

Il delitto di atti persecutori ha, dunque, natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo (Sez. 5, sent. 3781 dell’1-2-2021 (ud. 24-11-2020) rv. 280331-01). Si tratta in sostanza di un reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea ad integrarlo (Sez. 5, sent. 34015 del 22-6-2010).

Primo evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura

È stata criticata, sotto il profilo della tassatività, la scelta di accentrare la tipicità dell’illecito sulla realizzazione di un evento, consistente in uno stato di ansia o di paura.

In merito alla nozione di ansia noi abbiamo una letteratura medica che ci dice che cosa è lo stress e ce lo quantifica e qualifica; tale stato tra l’altro deve essere grave e perdurante.

In giurisprudenza si afferma che il perdurante e grave stato di ansia o di paura, costituente uno dei tre possibili eventi del delitto di atti persecutori, è configurabile in presenza del destabilizzante turbamento psicologico di una minore determinato da reiterate condotte dell’indagato consistite nel rivolgere apprezzamenti mandandole dei baci, nell’invitarla a salire a bordo del proprio veicolo e nell’indirizzarle sguardi insistenti e minacciosi (Cass. 12-1-2010, n. 11945).

Ma la paura che cos’è? La paura è un concetto affidato alla soggettività del percettore e dunque di carattere estremamente soggettivo, perché è legata alla nostra sfera emozionale, alla nostra sensibilità, che varia da persona a persona: ciò che può far paura a me può non far paura assolutamente ad un’altra persona e viceversa.

L’evento tipico del «perdurante e grave stato di ansia o di paura», che consiste in un profondo turbamento con effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non può risolversi in una sensazione di mero fastidio, irritazione o insofferenza per le condotte minatorie o moleste subìte (Cass. V, 21-1-2021, n. 2555).

Il riferimento alla gravità è stato ritenuto elemento di ulteriore indeterminatezza. La prova del prodursi di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve, dunque, essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. VI, 3-12-2014, n. 50746; Cass. V, 7-4-2017, n. 17795).

Come si fa ad accertare lo stato di ansia o di paura?

È sempre necessaria una perizia sulla vittima? In realtà non sempre lo stato di ansia e di paura si traduce in una patologia medicamente accertabile attraverso una perizia. È però evidente che qualora vi sia una documentazione medica che certifica lo stato di ansia e di paura, il giudice avrà a disposizione un elemento di valutazione, perché i centri antiviolenza, molto meglio del perito o del certificato del pronto soccorso sanitario, fanno un percorso di osservazione della vittima e possono accertare effettivamente se sussistano danni che la persona offesa ha subito a seguito degli atti persecutori. Pertanto ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612bis c.p.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (così Cass. 10-1-2011, n. 16864). Un grave e perdurante stato di turbamento emotivo è idoneo ad integrare l’evento del delitto di atti persecutori, per la cui sussistenza è sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, sent. 8832 del 7-3-2011 (cc. 1-12-2010). La prova del grave e perdurante stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante, ovvero aggravino una preesistente situazione di disagio psichico della persona offesa (Sez. 5, sent. 7559 del 2-3-2022 (ud. 10-1-2022) rv. 282866-01).

Secondo evento: «ingenerare un fondato timore»

Anche l’esegesi di questa parte della norma in esame pone problemi di interpretazione. In particolare ci si chiede quando un timore possa dirsi fondato. È fondato il timore che sia idoneo a cagionare la messa in pericolo o la lesione dell’incolumità.

Altra questione problematica si rinviene nel concetto di «persona legata affettivamente alla vittima». Chi è la persona legata affettivamente? È quella legata da un vincolo di amicizia, è quella con la quale io convivo o ho una comunanza di vita, è il mio conoscente occasionale, è il mio compagno di viaggio?

La giurisprudenza della S.C. ha ritenuto che le condotte moleste possono essere dirette verso soggetti che siano legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, da intendersi non in senso formale, ma come idoneità della relazione interpersonale, secondo l’id quod plerumque accidit, a giustificare il verificarsi dell’evento di danno anche nei riguardi della persona offesa (Sez. 5, sent. 43384 del 26-10-2023 (ud. 16-10-2023) rv. 285271-01).

Terzo evento: «costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita»

Che cosa si intende per abitudini di vita?

Anche questo è un concetto la cui definizione appare alquanto problematica, perché l’abitudine di vita sussiste sicuramente se io cambio lavoro, se io cambio città, quindi se trasferisco il mio domicilio. Ma se per esempio io ho il guardone di fronte, il quale ogni mattina si mette alla finestra e mi disturba perché mi vede mentre io in pigiama prendo il caffè e quindi sono costretto o a vestirmi o ad oscurare la finestra e quindi cambio in qualche modo una mia abitudine di vita, possiamo dire che questo è un cambio di abitudine di vita rilevante?

Naturalmente l’esempio è paradossale, ma serve a far capire come in realtà questo è un concetto sul quale bisogna riflettere, perché non qualsiasi abitudine di vita evidentemente sarà tale da integrare l’evento così come è previsto.

La giurisprudenza della S.C. ha dettato i seguenti principi interpretativi:

  • ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (Cass. V, sent. 29872 del 6-7-2011 (cc. 19-5-2011) rv. 250399;
  • ai fini della individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, quale elemento integrativo del delitto, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate (Cass. V, 9-6-2014, n. 24021; Cass. V, 6-3-2018, n. 10111);
  • l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa può essere anche transitorio, ma non occasionale (Cass. V, 6-5-2021, n. 17552);
  • l’evento, consistente nell’alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura indotto nella persona offesa, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell’ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa (Cass. VI, 1-3-2021, n. 8050).

L’alterazione o il cambiamento delle abitudini di vita, che costituisce uno dei possibili eventi alternativi contemplati dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 612bis c.p., non è integrato dalla percezione di transitori disagi e fastidi nelle occupazioni di vita della persona offesa, ma deve consistere in una costrizione qualitativamente apprezzabile delle sue abitudini quotidiane (Cass. V, sent. 1541 del 14-1-2021 (cc. 17-11-2020) rv. 280491-01.

Elemento soggettivo

Nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Cass. V, 26-10-2015, n. 43085, nonché Cass. I, 15-10-2020, n. 28682); il dolo, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Cass. V, 8-5-2014, n. 18999).

Consumazione e tentativo

Il delitto di atti persecutori, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di «stalking» non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Sez. 5, sent. 3781 dell’1-2-2021 (ud. 24-11-2020) rv. 280331-01).

Stabilire il momento della consumazione del delitto di atti persecutori è importante perché da quel momento decorre sia il termine di prescrizione del reato che il termine per proporre la querela (a meno che non ci si trovi di fronte ad una delle ipotesi di perseguibilità di ufficio).

Come già detto, il delitto è un reato abituale proprio, per la cui commissione è necessaria la realizzazione di più atti di minaccia o molestie.

Si è affermato in giurisprudenza che, nel delitto in esame, che è reato abituale e si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione, in mancanza di una specifica contestazione, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale, cosicché non si configura violazione del principio del ne bis in idem in caso di nuova condanna per fatti successivi alla data della prima pronuncia (Cass. V, 8-5-2017, n. 22210, nonché Cass. V, 8-6-2020, n. 17350).

Nel medesimo senso, si afferma che il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di stalking non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Cass. V, 1-2-2021, n. 3781).

Si afferma che il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l’abitualità del reato né inficia la continuità delle condotte, quando sussista l’oggettiva e complessiva idoneità della condotta a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in una delle forme descritte dall’art. 612bis c.p. (Cass. V, 13-11-2019, n. 46165, nonché Cass. V, 5-6-2020, n. 17240). Inoltre, il delitto è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento (Cass. V, 21-2-2019, n. 7899).

La consumazione del reato in esame prescinde dal momento iniziale di realizzazione delle condotte, assumendo, invece, a tal fine significato il comportamento complessivamente tenuto dal responsabile, sicché la competenza per territorio deve essere determinata in relazione al luogo in cui il comportamento stesso diviene riconoscibile e qualificabile come persecutorio ed in cui, quindi, il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica, in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dall’art. 612bis c.p. (Cass. V, 24-1-2020, 3042).

Da ultimo, si è affermato che il delitto di atti persecutori ha natura di reato abituale e di danno che si consuma con la realizzazione di uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612bis c.p., conseguente al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, così che, nell’ipotesi di «contestazione aperta», il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi, senza necessità di modifica dell’originaria imputazione, anche a fatti verificatisi successivamente alla presentazione della denunzia-querela e accertati nel corso del giudizio, non determinandosi una trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale da ingenerare incertezza sull’oggetto dell’imputazione e da pregiudicare il diritto di difesa (Cass. V, 21-5-2020, n. 15651).

Nel medesimo senso, si è affermato che il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di stalking non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Cass. V, 1-2-2021, n. 3781).

Il reato è compatibile con il tentativo. In particolare, si è ritenuto configurabile il tentativo del delitto di atti persecutori in quanto, trattandosi di reato di evento, è logicamente e giuridicamente possibile che alla commissione della condotta, ossia degli atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare uno degli eventi tipici di cui all’art. 612bis c.p., siano essi di danno o di pericolo, non segua l’effettiva causazione degli stessi (Cass. 18-1-2021, n. 1943).

Le circostanze aggravanti

La norma dell’art. 612 bis c.p. prevede due specifiche aggravanti:

  • la prima ad efficacia comune, se il fatto è commesso dal coniuge, anche legalmente separato o divorziato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

Sull’originario impianto normativo di questa aggravante è intervenuto il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013 (provvedimento noto come decreto anti-femminicidio e violenza di genere). In particolare, si è provveduto ad estendere il novero delle ipotesi aggravate al fatto commesso dal coniuge in costanza di vincolo matrimoniale con la vittima (in precedenza l’aggravante era connessa allo stato di legale separazione o divorzio del medesimo, la qual cosa riduceva in modo significativo i margini di applicabilità dell’aggravante, in relazione ad un reato di frequentissima ricorrenza intraconiugale).

In sede di riforma della previsione, si è, altresì, attribuito rilevo aggravante al fatto commesso nell’ambito di relazioni affettive in atto (in precedenza rilevavano solo i legami pregressi fra reo e persona offesa; la relazione affettiva, peraltro, assume rilievo se produce l’insorgere di un rapporto di abituale frequentazione, tale da generare sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale: ciò in quanto è parso opportuno evitare il rischio di indefinibili interpretazioni estensive dell’aggravante). Sostanzialmente analogo a tale correttivo è quello che ha interessato il delitto di violenza sessuale aggravata (di cui si è detto esaminando l’art. 609ter, ed al cui esame si rinvia).

Circa il concetto di relazione affettiva, la giurisprudenza della S.C. ha ritenuto che la «relazione affettiva» tra autore del reato e persona offesa, pur se non intesa necessariamente soltanto come «stabile condivisione della vita comune», postula quantomeno la sussistenza, da verificarsi in concreto, di un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione, costituendo l’abuso o l’approfittamento di tale legame il fondamento della ratio di aggravamento della disposizione in esame (Sez. 5, sent. 21641 del 19-5-2023 (ud. 2-3-2023) rv. 284696-01).

Ulteriore, significativa, innovazione si è tradotta nell’attribuire specifico rilievo aggravante al cd. cyber-stalking, realizzato, cioè, mediante strumenti informatici o telematici. Si è, peraltro, osservato come gli strumenti telematici presuppongano quelli informatici, dunque non possano porsi come alternativi (del resto, è con la telematica che può commettersi il reato, in quanto le persecuzioni sono realizzabili solo mediante comunicazione).

Rileva, dunque, l’invio di messaggi sms o di posta elettronica e l’impiego di social network, che propalando contenuti verbali ed immagini in maniera indefinita, possono tradursi in strumenti di persecuzione almeno molesta. Taluni hanno, peraltro, espresso dubbi sull’opportunità di considerare aggravate condotte persecutorie «a distanza» (quali quelle telematiche) rispetto a quelle commesse mediante contatto diretto con la vittima;

  • la seconda ad effetto speciale (la pena è aumentata fino alla metà) se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della L. 5-2-1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

La ratio di questa aggravante consiste nell’accentuare l’oggettivo disvalore penale della fattispecie in conseguenza della particolare «vulnerabilità» di talune potenziali vittime del reato in esame, meritevoli, dunque, di tutela penale «rafforzata», ovvero delle modalità oggettive (l’uso di armi) o soggettive (travisamento) della condotta posta in essere.

Viene prevista una ulteriore aggravante anch’essa ad efficacia comune e nel caso in cui il reato venga commesso da chi è stato ammonito dal Questore.

Ulteriore aggravante per l’art. 612bis c.p. è stata prevista dalla L. 168/2023 se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato adottato l’ammonimento.

Quindi la condotta è aggravata ed è procedibile d’ufficio qualora il soggetto, già ammonito per uno dei reati indicati, tra i quali il delitto di atti persecutori (nell’ambito della violenza domestica) commetta uno qualunque di tali reati (nell’ambito della violenza domestica) nei confronti della stessa persona offesa o di altra vittima. La ratio è chiara: prevedere apposite misure per prevenire ulteriori condotte di violenza domestica, intesa non solo come violenza ai danni di una vittima specifica (ipotesi usuale), ma come condotta delittuosa che ben può essere posta in essere ai danni di altre persone offese, generalmente donne, come risulta dalla concreta esperienza.

Rapporti con altri reati

Svariati problemi sono sorti dalla comparazione fra il reato di atti persecutori e gli altri reati con i quali può eventualmente concorrere; problemi acuiti dalla clausola di salvezza contenuta nella norma in esame secondo la quale prevede l’applicabilità del delitto di atti persecutori salvo che il fatto non costituisca più grave reato.

Così ad esempio è stato ritenuto che il delitto di cui all’art. 612bis c.p. possa concorrere con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) avendo oggetto giuridico diverso, mentre restano assorbiti solo quei fatti che, pur costituendo astrattamente di per sé reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti di esso e non anche quelli che eccedano tali limiti, dando vita a responsabilità autonoma e concorrente (Cass. V, 18-5-2016, n. 20696). Si è altresì ritenuto che il delitto di atti persecutori possa concorrere con quello di diffamazione, anche quando nelle modalità della condotta diffamatoria si esprimono le molestie reiterate costitutive del reato previsto dall’art. 612bis c.p. (Sez. 5, sent. 49288 dell’11-12-2023 (ud. 15-11-2023) rv. 285559-01), e con quello di violenza privata, non sussistendo tra di essi un rapporto strutturale di specialità unilaterale ai sensi dell’art. 15 c.p., dal momento che il delitto di cui all’art. 612bis c.p., diversamente dal primo, non richiede necessariamente l’esercizio della violenza e contempla un evento come l’alterazione delle abitudini di vita della vittima di ampiezza molto maggiore rispetto alla costrizione della vittima ad uno specifico comportamento, che basta ad integrare il delitto previsto dall’art. 610 c.p. (Cass. V, 22-5-2019, n. 22475).

Spesso risulta problematica la distinzione fra il reato di atti persecutori e quello di maltrattamenti in famiglia. La S.C. ha indicato alcuni parametri distintivi, quali ad esempio, la cessazione della convivenza more uxorio. Ha infatti stabilito la S.C. che il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di «famiglia» e di «convivenza» di cui all’art. 572 c.p. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa, sicché è configurabile l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612is, comma 2, c.p., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall’imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa (Sez. 6, sent. 31390 del 19-7-2023 (ud. 30-3-2023) Rv. 285087-01). In altro arresto giurisprudenziale, tuttavia, si sostiene che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta «persona della famiglia» fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. (In motivazione la Corte ha precisato che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, c.c.) (Sez. 6, sent. 45400 del 29-11-2022 (ud. 30-9-2022) rv. 284020-01). In altro arresto la S.C. ha addirittura ritenuto configurabile il concorso fra i due reati, affermando che è configurabile il concorso fra i reati di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale, nonostante la persistente condivisa genitorialità. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori) (Sez. 6, sent. 10626 del 24-3-2022 (ud. 16-2-2022) rv. 283003-02).

La norma, si distingue, altresì, dalla contravvenzione prevista dall’art. 660 c.p. perché non richiede la commissione in luogo pubblico o aperto al pubblico, né tantomeno i requisiti soggettivi della petulanza o altro biasimevole motivo: si tratta di una fattispecie a dolo generico.

Pertanto anche la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) può concorrere con il delitto di atti persecutori e ciò in quanto ai fini della configurazione del delitto di atti persecutori, le reiterate molestie non devono essere commesse necessariamente in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come invece previsto per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (Cass. V, 24-3-2016, n. 12528). Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p. consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Cass. VI, 30-7-2020, n. 23375; nel medesimo senso, Cass. V, 26-4-2021, n. 15625).

Rapporto fra stalking e omicidio aggravato ex art. 576 c. 1, n. 5.1), c.p.

Particolarmente discusso è il rapporto fra il reato di atti persecutori e l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p., il quale prevede la pena dell’ergastolo se il fatto omicidiario è cagionato dall’autore del delitto di atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa.

L’omicidio del soggetto perseguitato si presenta, infatti, nell’esperienza giudiziaria come il risultato estremo, ma purtroppo non infrequente, dell’intento di annullamento della personalità della vittima; e quindi si integra compiutamente nella complessiva direzione finalistica del fatto, come peraltro sottolineato nei rammentati lavori preparatori.

L’aggravante di cui all’art. 576, comma 1, n. 5.1) venne introdotta proprio dal D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009.

Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, chiamata a dirimere il contrasto giurisprudenziale formatosi, che può così sintetizzarsi: «Se, in caso di omicidio commesso dopo l’esecuzione di condotte persecutorie poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa, i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p. concorrano tra loro o sia invece ravvisabile un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p.».

In proposito, va ricordato che l’art. 84, comma 1, c.p. esclude l’applicazione delle disposizioni sul concorso di reati quando «la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato». Quindi, condizione imprescindibile per la ravvisabilità della figura del reato complesso è l’interferenza fra le norme incriminatrici su un fatto oggettivo, comune agli ambiti applicativi delle stesse. La ratio di tale previsione è quella di evitare una duplicazione della risposta sanzionatoria per gli stessi fatti in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, necessità che si manifesta «segnatamente nel rapporto fra il reato complesso e gli altri reati che lo compongono, contraddistinti da un contesto unitario, nell’ambito del quale maggiormente risalta la possibilità di una sproporzione nel cumulo di pene previste per fatti inseriti nella stessa azione criminosa».

L’intenzione del legislatore era nell’occasione chiaramente espressa dall’intento di affrontare con adeguato rigore sanzionatorio un fenomeno criminale notoriamente ricorrente ed ingravescente nella realtà attuale, ossia il verificarsi di fatti omicidiari in danno di vittime di atti persecutori da parte degli stessi autori di tali atti. Orbene, in questa prospettiva la ratio della previsione si individua nella risposta ad un fatto complessivo visto come meritevole di aggravamento per la sua oggettiva valenza criminale, ossia lo sviluppo omicidiario di una condotta persecutoria, con l’effetto di sanzionare tale aggravamento con la massima pena dell’ergastolo; nel quale, pertanto, tale condotta è intranea nella sua fattualità alla struttura della disposizione circostanziale. La fattispecie in esame presenta, in conclusione, le caratteristiche strutturali del reato complesso circostanziato, che include il reato di atti persecutori in una specifica forma aggravata del reato di omicidio.

Non vi è dubbio infatti che, se l’intento legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale gli atti persecutori e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono altresì in una prospettiva finalistica unitaria.

Dunque secondo la Corte nomofilattica il reato di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p., commesso a seguito di quello di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, integra, in ragione della unitarietà del fatto, un reato complesso circostanziato ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p. (così SS.UU. sent. 38402 del 26-10-2021 (ud. 15-7-2021) rv. 281973).

E ciò in quanto la norma per l’omicidio aggravato assorbe integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612bis c.p. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa.

Le Sezioni Unite hanno anche evidenziato come per il caso del reato complesso circostanziato, nel rapporto fra omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p. e delitto di atti persecutori, affinché il secondo sia assorbito nel primo, occorre che debbano sussistere oltre agli «elementi strutturali esplicitamente indicati dalla norma, anche un ulteriore elemento sostanziale, costituito dall’unitarietà del fatto che complessivamente integra il reato riconducibile a questa fattispecie», aggiungendo che il concetto di unitarietà «si presenta come articolato non solo nella contestualità dei singoli fatti criminosi sussunti della fattispecie assorbente, ma anche nella loro collocazione in una comune prospettiva finalistica».

La procedibilità

Il delitto è punito normalmente a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi, allungato al doppio di quello ordinario previsto dall’art. 124 c.p. (tre mesi).

Si procede d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della L. 5-2-1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto procedibile di ufficio. La procedibilità di ufficio è inoltre prevista quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi dell’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009.

L’art. 1 della nuova L. 168/2023 ha inoltre modificato l’art. 3 della L. 119/2013, prevedendo al comma 5quinquies che si procede d’ufficio per il reato di cui all’art. 612bis c.p. anche quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

A proposito della procedibilità di ufficio in caso di ammonimento da parte del questore, la S.C. ha statuito che ai fini della procedibilità d’ufficio per il caso in cui l’agente sia destinatario di ammonimento del questore, non è necessario che vi sia coincidenza tra i fatti oggetto di segnalazione e i fatti di rilevanza penale, in quanto i presupposti di intervento dell’autorità amministrativa si differenziano da quelli dell’autorità giudiziaria sia sul piano della ricognizione dei fatti che lo legittimano, sia in relazione alle modalità del loro accertamento. (In motivazione, la Corte ha precisato che i fatti oggetto di ammonimento possono assumere rilievo penale qualora, nonostante lo stesso, siano seguiti da condotte espressione del medesimo comportamento molesto) (Sez. 5, sent. 1035 del 13-1-2022 (ud. 30-9-2021) rv. 282732-01).

Sulla procedibilità del reato di atti persecutori aveva già inciso il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013, con correttivi oggetto di scelte e ripensamenti in sede di conversione. In particolare, il decreto si era limitato a sancire che la querela proposta dovesse essere irrevocabile, in ragione dei rischi cui poteva essere esposta la vittima del reato, possibile obiettivo di ulteriori minacce e violenze finalizzate ad ottenere, per l’appunto, il ritiro della querela. La legge di conversione ha, invece, rimesso in discussione tale opzione normativa, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni. In tale ottica, si è ripristinata la revocabilità della querela, salvo che nel caso in cui il reato sia stato realizzato mediante minacce reiterate gravi (quelle, cioè perpetrate nei modi di cui all’art. 612, comma 2, c.p.), ma si è posta la condizione che la remissione sia esclusivamente «processuale». In proposito, ha precisato la Cassazione che deve ritenersi idonea ad estinguere il reato in esame anche la remissione di querela effettuata davanti a un ufficiale di polizia giudiziaria, e non solo quella ricevuta dall’autorità giudiziaria, atteso che l’art. 612bis, comma 4, c.p., laddove fa riferimento alla remissione «processuale», evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p. (Cass. IV, 21-4-2016, n. 16669; Cass.V, 25-1-2021, n. 3034). La S.C. ha altresì statuito che ai fini dell’irrevocabilità della querela, non è necessario che la gravità delle reiterate minacce sia oggetto di specifica contestazione, non costituendo una circostanza aggravante, ma una modalità di realizzazione della condotta, incidente sulla revocabilità della querela. (In motivazione, la Corte ha precisato che la gravità delle minacce è demandata alla valutazione del giudice e deve essere comunque ricavabile dalla compiuta descrizione della condotta nell’imputazione) (Sez. 5, sent. 34412 del 4-8-2023 (ud. 11-5-2023) rv. 284992-01).

Ai fini della proposizione della querela per il delitto di atti persecutori, il termine inizia a decorrere dalla consumazione del reato, che coincide alternativamente con «l’evento di danno» consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con «l’evento di pericolo» consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto (Cass. V, 23-4-2015, n. 17082).

Il problema della consumazione del reato è legato alla querela, che può essere proposta nel termine (lungo) di 6 mesi, ma da quando decorre questo termine? In altri termini quando si consuma il reato di stalking?

Il problema posto non è di poco rilievo e implica anche la considerazione e qualificazione che devono ricevere eventuali ulteriori episodi di stalking verificatisi dopo la proposizione della querela.

Se si ritiene che nel momento in cui viene proposta querela il reato si è consumato, i successivi comportamenti dovrebbero considerarsi come un post factum non punibile (conseguenza questa davvero aberrante), né sembrerebbe possibile utilizzare la categoria della continuazione di cui all’art. 81 c.p., perché, trattandosi di atti persecutori (pluralità di atti) che devono possedere il requisito della reiterazione, è del tutto evidente la incompatibilità ontologica con l’istituto della continuazione, vale a dire con un reato che si consuma in più occasioni più volte.

Se quindi il reato si è già consumato prima della proposizione della querela, i successivi comportamenti pur astrattamente rientranti nel paradigma dell’art. 612bis c.p. dovrebbero considerarsi come un post factum non punibile, a meno che non sia nel frattempo intervenuta una sentenza quanto meno di primo grado la cui emanazione consentirebbe di poter contestare un nuovo reato di stalking.

È del tutto evidente che questo (paradossale) ragionamento non possa essere condivisibile, come parimenti non condivisibile ed arbitrario appare porre un limite temporale alla consumazione del reato (tot comportamenti in tot tempo), dovendosi, invece, ritenere che il reato di stalking si consuma e si reitera fino all’ultimo atto che viene consumato, per cui se dopo la proposizione della querela c’è un altro atto di stalking ovviamente questo entrerà in contestazione anche con quello precedente alla querela.

Questa conclusione è confortata dalla interpretazione giurisprudenziale della Corte di cassazione. Quest’ultima, infatti, ha ritenuto che il carattere del delitto di atti persecutori, quale reato abituale improprio, a reiterazione necessaria delle condotte, rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere anche dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende anche a queste ultime, poiché, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato (Cass. V, 3-10-2016, n. 41431).

La procedura di ammonimento (D.L. 11/2009, conv. in l. 38/2009)

L’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009 prevede una speciale procedura di carattere amministrativo che conduce ad una misura preventiva atta ad anticipare la tutela della persona offesa: si tratta dell’ammonimento.

Fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’art. 612bis c.p., introdotto dall’art. 7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.

Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.

La pena per il delitto di cui all’art. 612bis c.p. è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

Si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’art. 612bis c.p. quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

All’art. 8 della legge istitutiva dello stalking è stata introdotta una speciale procedura di competenza dell’autorità di P.S., che può adottare prima dell’instaurazione del procedimento penale, qualora la persona offesa prima di proporre la querela esponga i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore. Questi, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.

Fra i compiti specifici dell’autorità di P.S., infatti, all’art. 1 del T.U. di P.S. è previsto il bonario componimento dei dissidi privati.

Con il provvedimento di ammonimento, il Questore invita il soggetto denunciato ad astenersi dai comportamenti delittuosi di molestia o disturbo.

Deve ritenersi che il soggetto ammonito abbia comunque facoltà di difendersi anche in questa sede presentando memorie o deduzioni.

Se nonostante la diffida formale il soggetto denunciato continua nei suoi comportamenti, è previsto un aggravamento della pena prevista per il reato di atti persecutori.

L’ammonimento, in sostanza, dovrebbe avere una immediata efficacia dissuasiva e potrebbe, peraltro, risolvere i casi meno gravi.

Si tratta di una procedura che ha valore e forza di atto amministrativo con specifiche funzioni di natura preventiva, il cui esito, però, viene preso in considerazione in sede di procedimento penale.

In altri disegni di legge proposti anche nelle precedenti legislature l’istituto in esame era sottoposto ad autorizzazione da parte del Pubblico Ministero. Tale autorizzazione nel D.L. in esame è stata eliminata e ciò in quanto si tratta di una misura di carattere preventivo che ha natura amministrativa i cui effetti poi si riverberano nel procedimento penale e pertanto non vi era alcuna necessità di prevedere l’autorizzazione del P.M.: infatti un processo di giurisdizionalizzazione avrebbe poi comportato la convalida della misura da parte dell’A.G. (GIP) con il relativo regime delle impugnazioni (riesame, cassazione) assimilandola, in buona sostanza, ad una ulteriore misura coercitiva che avrebbe appesantito inutilmente l’istituto che, invece, mantenendosi nell’alveo della mera prevenzione, meglio risponde allo scopo cui è diretto di costituire un agevole e veloce strumento per impedire situazioni di pericolo.

I provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, possono essere revocati su istanza dell’ammonito, non prima che siano decorsi tre anni dalla loro emissione, valutata la partecipazione del soggetto ad appositi percorsi di recupero presso gli enti di cui al comma 5bis e tenuto conto dei relativi esiti. Quest’ultima disposizione è stata introdotta dall’art. 1 della L. 168/2023 che ha modificato in tal senso l’art. 3 del D.L. 14-8-2013, n. 93, conv. in L. 15-10-2013, n. 119.

L’art. 1 della L. 168/2023 modifica l’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009:

  1. a) ampliando l’ambito di applicabilità (comma 1), per cui l’ammonimento richiesto dalla persona offesa, prima di proporre querela, riguarda non solo l’art. 612bis c.p. (atti persecutori), ma anche l’art. 612ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti i seguenti delitti), indipendentemente dall’essere stati commessi nell’ambito della violenza domestica;
  2. b) prevedendo effetti sostanziali e procedurali quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del citato articolo e (innovativamente) anche se la persona offesa è diversa da quella per cui è stato già adottato l’ammonimento (commi 3 e 4):
  • le pene sono aumentate, trattasi di aggravante comune, perciò con aumento fino a un terzo ex art. 64, comma 1, c.p.;
  • si procede d’ufficio.

Va affrontata infine la problematica relativa alla facoltà della persona ammonita di esercitare la propria difesa sin dalla fase preventiva: questi potrà eventualmente presentare memorie o deduzioni: ciò anche al fine di evitare che denunce infondate possano avere seguito.

La procedura di ammonimento prevista dalla L. 119/2013

La procedura di ammonimento è stata prevista anche dalla successiva L. 119/2013. Anche su tale disposizione ha inciso l’art. 1 della L. 168/2023 (Rafforzamento delle misure in tema di ammonimento e di informazione alle vittime) che interviene sull’ammonimento applicato dal questore nella materia in esame sulla base di due diverse normative:

 

  • il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013, che prevede l’ammonimento applicato d’ufficio dal questore per condotte di violenza domestica, attraverso un procedimento avviato dalle forze dell’ordine in presenza di condotte riconducibili all’art. 582, comma 2, c.p. (lesioni personali punibili a querela della persona offesa) ovvero all’art. 581 (percosse, anch’esse punibili a querela), consumate o tentate, nell’ambito, appunto, di violenza domestica espressamente definita;
  • il D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, che prevede l’ammonimento applicato dal questore su richiesta della persona offesa del delitto di cui all’art. 612bis (atti persecutori) perseguibile a querela, richiesta che può essere presentata fino a che non è proposta la querela, di cui si è detto prima.

La nozione di violenza domestica

Il legislatore prevede che ai fini della procedibilità d’ufficio o della sussistenza dell’aggravante, il nuovo reato debba essere commesso nell’ambito della violenza domestica, conseguentemente richiama espressamente la nozione contenuta nell’art. 1, comma 1, secondo periodo. Tale definizione, originariamente prevista solo «Ai fini del presente articolo» si espande all’area del diritto penale, dovendo accertarsi se il reato (ai fini della procedibilità e della contestazione dell’aggravante) sia riferibile alla violenza domestica.

La violenza domestica è un fenomeno che si verifica all’interno di una coppia spostata o convivente. In senso più ampio invece, si manifesta all’interno della famiglia, legittima o di fatto. Non rileva che il legame sia di tipo eterosessuale o omosessuale.

Secondo l’art. 3 della Convenzione di Istanbul «l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

Una definizione ampia che arriva a ricomprendere anche rapporti passati senza convivenza e non di coppia. Ne sono un esempio quello tra genitori e figli, fratello e sorella e tra familiari di generazioni diverse. Non sono quindi esclusi dal fenomeno i bambini e gli anziani.

La Convenzione di Istanbul riconosce che la violenza domestica colpisce le donne in misura decisamente sproporzionata. Essa tuttavia si rivolge anche a quegli uomini, che in determinati contesti possono essere vittime di gesti violenti. La Convenzione include inoltre i bambini testimoni di episodi di violenza domestica tra le vittime del fenomeno.

Definizione di violenza domestica per la legge italiana

Una definizione più ristretta rispetto quella contenuta nella Convenzione di Istanbul è quella dell’art. 3 del D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013. Detto articolo dispone che si intendono per violenza domestica, uno o più atti gravi, ovvero non episodici, o commessi in presenza di minorenni, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare (o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva), indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Le nuove disposizioni relative all’ammonimento d’ufficio

L’art. 1 della L. 168/2023 modifica in più parti la disciplina dell’ammonimento applicabile d’ufficio dal questore. Assumono rilievo in questa sede alcune modifiche.

Le modifiche all’art. 3, comma 1, D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013

Plurime le modifiche apportate dall’art. 1 della L. 168/2023 all’art. 3 del D.L. citato:

  1. a) viene ampliato l’ambito di applicabilità, per cui l’ammonimento può essere emesso (d’ufficio) per i seguenti delitti, tentati o consumati (alcuni perseguibili d’ufficio, altri a querela, perciò in quest’ultimo caso indipendentemente dalla presentazione della querela), ritenuti reati spia che richiedono un immediato intervento per interrompe la violenza:

1) art. 581 c.p. (percosse), già previsto in precedenza;

2) art. 582 c.p., indipendentemente dalle diverse ipotesi previste nella versione previgente (in precedenza il riferimento era al solo comma 2, lesioni personali perseguibili a querela);

3) art. 610 c.p. (violenza privata);

4) art. 612, comma 2, c.p. (minaccia aggravata);

5) art. 612bis c.p. (atti persecutori);

6) art. 612ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti);

7) art. 614 c.p. (violazione di domicilio);

8) art. 635 c.p. (danneggiamento).

  1. b) è estesa la nozione di violenza domestica, nell’ambito della quale devono essere commessi i delitti su indicati per consentire l’ammonimento.

Per espressa dizione normativa, si intendono commessi nell’ambito della violenza domestica: uno o più atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica gravi ovvero non episodici o (a seguito della modifica) commessi in presenza di minorenni, che si verificano: all’interno della famiglia o del nucleo familiare, o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Viene ripresa, come ricordato in precedenza, la nozione di violenza domestica prevista dalla Convenzione di Istanbul.

  1. c) sono previsti, innovativamente, effetti sostanziali e procedurali quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica (come su definita), da soggetto già ammonito ai sensi del citato articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per cui è stato già adottato l’ammonimento:
  • le pene sono aumentate; trattasi di aggravante comune, perciò con aumento fino a un terzo ex art. 64 c.p. (comma 5quater);
  • si procede d’ufficio, nei casi in cui è prevista la perseguibilità a querela (comma 5quinqunquies).

Quindi la condotta è aggravata ed è procedibile d’ufficio qualora il soggetto, già ammonito per uno dei reati indicati (nell’ambito della violenza domestica) commetta uno qualunque di tali reati (nell’ambito della violenza domestica) nei confronti della stessa persona offesa o di altra vittima. La ratio è chiara: prevedere apposite misure per prevenire ulteriori condotte di violenza domestica, intesa non solo come violenza ai danni di una vittima specifica (ipotesi usuale), ma come condotta delittuosa che ben può essere posta in essere ai danni di altre persone offese, generalmente donne, come risulta dalla concreta esperienza e dalla relazione della commissione femminicidio che individua una recidiva dell’85%.

Naturalmente l’informazione sull’esistenza di un ammonimento in atto dovrà essere fornita dalla polizia giudiziaria all’atto della trasmissione della notizia di reato acquisendola dal Sistema Informativo di Indagine, anche verificando, se necessario, presso la questura l’operatività dell’ammonimento.

violenza sessuale

La violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) Le forme di violenza sessuale previste dal legislatore traggono origine dalla riforma epocale avvenuta con la legge n. 66/1996

Il reato di violenza sessuale

L’art. 609bis, sotto la generica rubrica «violenza sessuale», prevede e punisce come reato:

  • il fatto di chi, con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali; il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, traendo in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In forza di tale previsione è possibile distinguere due tipi di violenza sessuale: una violenza sessuale posta in essere mediante azione diretta (violenza, minaccia, abuso di autorità) sulla persona offesa; e una violenza sessuale posta in essere mediante induzione (comma 2).

Il problema della responsabilità per omissione

Occorre ricordare, quanto alla possibilità di rispondere di violenza sessuale per omissione, che la giurisprudenza ha giustamente affermato che il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psico-fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate:

a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento;

b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul «garante»;

c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento (in tal senso, Cass. 30-1-2008, n. 4730). Si è, per converso, escluso che sussista tale obbligo di garanzia a carico dei nonni (Cass. 27-9-2011, n. 34900).

Violenza sessuale mediante azione diretta: soggetto attivo e passivo

Il comma 1 dell’art. 609bis prevede il fatto di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

Soggetto attivo del reato può essere «chiunque»: si tratta, pertanto, di un reato comune, ed in particolare, di un reato ad esecuzione personale, in quanto l’autore principale è sempre il soggetto che compie l’atto sessuale con la vittima; nel caso in cui la violenza, minaccia od abuso di autorità siano opera di un terzo sarà configurabile un concorso di persona nel reato (artt. 110 e ss. c.p.).

In ordine al soggetto passivo, il legislatore non opera alcuna restrizione, né di sesso, né di altra natura: può trattarsi di qualunque essere umano, uomo o donna.

Nell’ambito dei soggetti tutelati, rientrano anche:

  • il coniuge: il concetto di violenza sessuale, come già quello di violenza carnale, non è, infatti, suscettibile di connotazioni diverse tra estranei o nei rapporti tra coniugi, godendo, senza alcun dubbio, anche il coniuge del diritto (insopprimibile ed inviolabile) di disporre liberamente del proprio corpo a fini sessuali. Ed in tal senso si è espressa, in modo constante la giurisprudenza della Cassazione, sostenendo, fra l’altro che, in tema di violenza sessuale, l’esistenza di un rapporto di «coniugio» non esclude, di per sé, la configurabilità del reato, dovendo ritenersi, alla luce di quanto stabilito dall’art. 143 c.c. in materia di diritti e doveri dei coniugi, che non sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali come mero sfogo dell’istinto sessuale anche contro la volontà dell’altro coniuge, tanto più in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e violenze, ponendosi queste in contrapposizione rispetto ai sentimenti di rispetto, affiatamento e vicendevole aiuto e solidarietà fra le cui espressioni deve ricomprendersi anche il rapporto sessuale (Cass. 8-10-2007, n. 36962). E ciò anche quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali;
  • il soggetto dedito alla prostituzione: le condizioni e le qualità personali della persona offesa non legittimano la riconduzione del fatto all’ipotesi di minore gravità, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale trova eguale riconoscimento nei confronti di chiunque, a prescindere dal motivo e dal numero dei rapporti usualmente intrattenuti (Cass. 18-1-2017, n. 2469).

Soggetto passivo può essere unicamente un essere umano vivente: ne consegue che:

  • la cd. necrofilia (sfogo di libidine commesso con cadaveri) esula dall’ambito dell’art. 609bis, e può assumere rilievo penale unicamente nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 410 c.p. (vilipendio di cadavere);
  • i rapporti sessuali con animali esulano, a loro volta, dall’ambito dell’art. 609bis e possono assumere rilievo penale unicamente nell’ambito delle fattispecie previste dagli artt. 638 (uccisione o danneggiamento di animali altrui) e 544ter c.p. (maltrattamento di animali).

L’elemento oggettivo: violenza, minaccia od abuso

Sotto il profilo oggettivo assumono rilievo la violenza, minaccia od abuso di autorità poste in essere per costringere la vittima al compimento di un atto sessuale non voluto.

La violenza consiste nell’esercizio di una qualsiasi forza fisica, anche se non spinta al massimo della brutalità ed irresistibilità, diretta a vincere la resistenza opposta della vittima. Ed infatti integra il requisito oggettivo della condotta violenta non solo quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (Cass. 14-7-2010, n. 27273). In altri termini la condotta vietata consiste sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso.

La minaccia, a sua volta, consiste nel manifestato proposito di arrecare un danno alla vittima, ad altre persone o alle cose, al fine di coartare la volontà della vittima e farle accettare l’atto voluto di mira dall’agente.

Rientra nella nozione di minaccia impiegata dall’art. 609bis c.p. anche la prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata al conseguimento dell’ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendosi per tale via un profitto ingiusto e contra ius.

Come visto l’abuso di autorità costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609bis c.p. Ad avviso della Cassazione, esso presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. Sez. Un. 1-10-2020, n. 27326). Naturalmente, perché possa parlarsi di abuso di autorità, occorre che l’atto sessuale non sia stato voluto dalla vittima ma che l’abusante abbia approfittato della propria condizione di superiorità per indurre la persona offesa a subire. In altri termini l’abuso di autorità deve determinare una vera e propria costrizione al compimento degli atti sessuali.

Si pone anche il problema di stabilire se la relazione di dipendenza tra il soggetto agente e la vittima debba essere attuale (sussistente, cioè, al momento dell’atto sessuale), o possa essere anche cessata, purché si protragga il timore riverenziale provocato dalla stessa relazione: se, tuttavia, si ha riguardo agli elementi che costituiscono la fattispecie oggetto di incriminazione, ed alla ratio della stessa che va individuata nel possibile timore riverenziale che può ingenerarsi nella vittima, risulta chiaro che la relazione di dipendenza non attuale non assumerà alcun rilievo, soltanto se essa sia venuta meno anche di fatto, se, cioè, il soggetto agente non conserva alcun potere concreto sulla vittima.

Per quanto riguarda il problema della necessità, o meno, che la relazione di dipendenza che origina l’abuso intercorra tra l’autore del fatto e la vittima, si impone il rilievo che ben potrà, in concreto, l’abuso essere posto in essere per favorire il compimento di un atto sessuale tra la vittima ed un terzo: rileva, pertanto, non soltanto la relazione diretta (quella intercorrente tra il soggetto agente e la persona offesa), ma anche quella indiretta (sussistendo, in tal caso, una ipotesi di concorso di persone nel reato, tra il soggetto che abusa della propria autorità, ed il terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla vittima).

È opportuno precisare che, qualora l’abuso sia rivolto in danno di persona sottoposta a limitazioni della libertà personale, si versa nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 609ter, comma 1, n. 4).

Sia la violenza, sia la minaccia, sia l’abuso di autorità devono essere tali da poter concretamente coartare la volontà della persona offesa.

In particolare, la violenza e la minaccia devono essere poste in essere con connotati che ne esteriorizzino la gravità e la serietà. L’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale vanno esaminate non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva (di tempo, di luogo) e soggettiva (personalità del soggetto attivo e della vittima); sicché anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza.

L’atto sessuale

Il concetto di «atto sessuale» costituisce una delle più importanti innovazioni apportate dalla nuova normativa.

La precedente disciplina era incentrata sulla distinzione tra:

  • congiunzione carnale, che si ha ogni qualvolta avvenga una qualsiasi compenetrazione, anche abnorme, tra organi genitali, ovvero tra un organo genitale ed un altro organo: la nozione ricomprendeva sia il coito anale che quello orale;
  • atti di libidine violenti, che si concretizzano in ogni forma di contatto corporeo (pur non inerente agli organi genitali, o a parti nude del corpo), diversa della penetrazione, che, per le modalità con cui si svolge, costituisca inequivoca manifestazione di ebbrezza sessuale.

Proprio in virtù di tale distinzione, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti di volta in volta oggetto di indagine, assumeva in passato decisivo rilievo l’accertamento della qualità dell’atto compiuto (e cioè il quantum di penetrazione, la completa congiunzione carnale, o l’atto idoneo a procurare una diversa soddisfazione sessuale): ciò giustificava odiose indagini (ed odiose domande, poste da taluni difensori con spregio assoluto di ogni etica professionale, e più ancora morale), che costringevano le vittime a raccontare (e ricordare) la sequenza di oltraggiose infamie subìte; il processo si risolveva, spesso, in un ulteriore supplizio per la vittima, tratta al cospetto di imputati talora arroganti e sprezzanti (le cronache processuali sono piene di simili episodi).

Avuto riguardo alla diversa oggettività giuridica del reato di violenza sessuale (che, nella nuova configurazione, offende la libertà individuale della vittima), oltre che all’esigenza di toglier rilievo a distinzioni atte ad offendere ulteriormente la dignità della vittima, il legislatore ha incentrato il disvalore della nuova fattispecie nel compimento di un atto sessuale non voluto dalla vittima.

Il concetto di atto sessuale, definibile come ogni condotta che si concretizza nella manifestazione esteriore di un istinto sessuale ricomprende, pertanto, sia la congiunzione carnale (ed, in particolare, ogni forma, anche abnorme, di coito) sia gli atti di libidine, e, quindi, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.

La fattispecie criminosa di violenza sessuale è integrata, pur in assenza di un contatto fisico diretto con la vittima, quando gli «atti sessuali», quali definiti dall’art. 609bis c.p., coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e siano finalizzati ed idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. In giurisprudenza si è giunti ad affermare che, in tema di reati contro la libertà sessuale, gli atti sessuali «non convenzionali» possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la durata degli stessi (Cass. 26-11-2021, n. 43611). Quanto al bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima (Cass. 23-10-2019, n. 43423).

In conclusione, dunque, ed alla luce anche della più recente giurisprudenza, possiamo affermare che devono includersi nella nozione di atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica; tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica: la prevalenza dell’aspetto oggettivo e non di quello soggettivo, come avveniva in precedenza per gli atti di libidine, discende dalla differente collocazione e dal diverso bene giuridico protetto dai reati introdotti dalla L. 15-2-1996, n. 66 rispetto a quelli in precedenza contemplati dal codice del 1930.

Non è richiesto, per la sussistenza del reato, che gli atti sessuali siano compiuti dall’autore della violenza: come ha precisato la giurisprudenza, infatti, la condotta vietata dall’art. 609bis comprende, se connotata da costrizione, sia ogni forma di congiunzione carnale tra autore del reato e soggetto passivo, sia qualsiasi atto che offende in modo diretto ed univoco la libertà sessuale della vittima (requisito oggettivo), attraverso l’eccitazione dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del suo istinto sessuale (requisito soggettivo); di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche quando il soggetto attivo, al fine del soddisfacimento del proprio piacere sessuale, costringa due soggetti diversi, da considerare entrambi soggetti passivi, a compiere o subire atti sessuali solo tra loro.

Il dissenso della persona offesa

È opportuno ricordare che il dissenso della persona offesa al compimento dell’atto sessuale è elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609bis (al pari di quelli dianzi indicati). Ciò significa che il consenso del partner non assume il ruolo di elemento scriminante ex art. 50 c.p. ma esclude la tipicità del fatto. In altre parole l’atto sessuale con persona consenziente fa si che il soggetto agente non compia una violenza sessuale scriminata, ma tenga una condotta diversa da quella tipica.

Al riguardo, la giurisprudenza ha ricordato che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso (in tal senso, Cass. 21-1-2008, n. 4532).

Ad avviso della Cassazione, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude, come detto, la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass. 4-3-2022, n. 7873). Si è, altresì, affermato che l’assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l’assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso, rende configurabile, nei suoi confronti, il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all’art. 609bis, comma 1, c.p. e non quello di violenza sessuale per induzione di cui all’art. 609bis, comma 2, c.p. (Cass. 4-3-2022, n. 7873).

L’elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo è richiesto il dolo generico caratterizzato dalla volontà dell’atto sessuale, con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto.

Tra questi, come si è detto, rientra (oltre che la violenza sessuale, la minaccia, l’abuso di autorità) il dissenso della persona offesa: ne consegue che l’erroneo convincimento che il partner sia consenziente, integrando gli estremi dell’errore sul fatto che costituisce reato, ex art. 47, comma 1, esclude la punibilità dell’agente in quanto esclude il dolo necessario. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui l’errore sul consenso della persona offesa sia determinato da colpa, in quanto il reato di cui all’art. 609bis non è previsto dalla legge come delitto colposo.

Qualora, invece, il soggetto agente ignori l’esistenza del consenso del partner e, dunque, creda per errore di compiere una violenza sessuale, trova applicazione l’art. 49, comma 1, c.p. (cd. reato putativo) in forza del quale è esclusa la punibilità per il reato erroneamente ritenuto esistente, fermo restando la punibilità per un diverso reato (ad esempio, violenza o minaccia) del quale concorrano gli elementi costitutivi (art. 49, comma 3).

In giurisprudenza si afferma che, in tema di violenza sessuale, costituendo il dissenso della persona offesa un elemento costitutivo, sia pure implicito, della fattispecie, necessario perché sussista la condotta tipica, l’errore su di esso rileva come errore di fatto, sicché incombe sull’imputato l’onere di fornire la prova del relativo assunto (Cass. 31-1-2022, n. 33326).

Consumazione e tentativo

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 609bis è sufficiente il compimento dell’atto sessuale come prima inteso, risultando priva di rilievo l’eventuale concupiscenza (emissio seminis) o soddisfazione che può derivarne.

Nessun dubbio può nutrirsi sulla configurabilità del tentativo: è opportuno tener presente, però, che, a seguito dell’unificazione, nel più ampio concetto di atto sessuale, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, sarà configurabile il tentativo in presenza di atti che, pur diretti all’atto sessuale, non si concretizzino in alcun approccio fisico, pur se sia stata già posta in essere la violenza, la minaccia o l’abuso di autorità.

In tal senso, in giurisprudenza si afferma che è configurabile il tentativo del reato previsto dall’art. 609bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l’agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima (Cass. 24-3-2022, n. 10626). Si è ritenuto il tentativo, altresì, nella condotta di colui che, all’esplicito rifiuto di consumare un rapporto sessuale, reitera più volte la richiesta ponendo in essere violenze o minacce che, sebbene non comportino una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, siano comunque chiaramente finalizzate a vincerne la resistenza (Cass. 14-10-2015, n. 41214). In sintesi, ai fini dell’integrazione del tentativo di reati a sfondo sessuale sono necessarie, sul piano soggettivo, l’intenzione dell’agente di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e, sul piano oggettivo, l’idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, anche, eventualmente, ma non necessariamente, attraverso contatti fisici, sia pure di tipo superficiale e-o fugace, non indirizzati verso zone cd. erogene (Cass. 1-6-2011, n. 21840).

La violenza sessuale presunta

Il comma 2 dell’art. 609bis disciplina due fattispecie di violenza sessuale mediante induzione (o, come talvolta è chiamata nella prassi, violenza sessuale presunta), poste in essere (non secondo generici e non definiti comportamenti idonei a suggestionare la volontà della vittima, bensì) secondo modalità specificamente descritte e che sono:

  • l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • l’aver tratto in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In entrambe le figure la persona offesa consente all’atto sessuale, ma il suo consenso è viziato dall’inganno o dall’abuso che il soggetto agente compie giovandosi dello stato di inferiorità fisica o psichica della stessa persona offesa: in esse, quindi, il consenso si configura quale elemento strutturale della fattispecie criminosa, e non può essere conseguentemente valutato quale circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, n. 5) (concorso del fatto doloso della persona offesa).

Esaminiamo le due forme di induzione:

a) L’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima

La prima delle due forme di induzione fa riferimento, con formulazione generica, ad una strumentalizzazione di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, da qualunque causa siano esse state cagionate, anche se si tratta di causa indipendente dal fatto del colpevole, purché le stesse siano sussistenti al momento dell’atto sessuale: non sussisterà alcun reato nel caso di «intervalla insaniae», in cui cioè la persona offesa, pur fisicamente o psichicamente inferma, abbia riacquistato per intero il pieno possesso delle proprie capacità fisiche e psichiche, prestando validamente il proprio consenso all’atto sessuale nel corso di un «lucido intervallo».

In giurisprudenza si afferma che tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti a norma dell’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una posizione vulnerabile della vittima, indipendentemente dall’esistenza di patologie mentali, comprese quelle determinate da credenze esoteriche in grado di suggestionare la persona offesa, delle quali l’agente approfitti spingendo o convincendo quest’ultima ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto (Cass. 11-11-2020, n. 31512). Quanto all’induzione, in particolare, si è affermato che essa si realizza anche quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. 3-6-2010, n. 20766).

Questo speciale stato non deve, tuttavia, assumere rilievo soltanto sotto un profilo astratto, ma va posto in necessario raffronto con la situazione di fatto concretamente esistente al momento dell’atto sessuale, con riferimento sia al contesto esterno nel quale i fatti sono inseriti (per accertare l’eventuale esistenza di modifiche intervenute nel tempo, che abbiano causato una positiva evoluzione della personalità della vittima, eliminando la condizione di inferiorità psichica), sia alla persona del soggetto agente (onde accertare se quest’ultimo abbia, o meno, avuto consapevolezza dell’esistenza di una condizione di menomata resistenza della vittima).

In un esaustivo pronunciamento in materia, in sintesi, la Cassazione ha avuto modo di affermare che per la sussistenza del reato di cui all’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p., è necessario accertare che:

1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto;

2) il consenso dell’atto sia viziato da tale condizione;

3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi;

4) il consenso sia frutto dell’induzione;

5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato;

6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedano (Cass. 23-11-2018, n. 52835).

Tra i casi di inferiorità fisiopsichica ben possono rientrare, secondo una consolidata giurisprudenza che la dottrina recente ritiene ancor oggi valida:

  • lo stato di tossicodipendenza, in quanto il soggetto, pur di procurarsi gli stupefacenti, è disposto a qualsiasi azione, anche cedere il proprio corpo (Cass. 6173/1999);
  • l’assunzione di psicofarmaci (cosiddetti tranquillanti), quando da esso derivi una sospensione della attenzione e dei poteri di controllo che renda il soggetto medesimo incapace di normale resistenza all’azione del colpevole ed a quest’ultimo consenta di commettere violenza carnale (Cass. 624/1996);
  • l’assunzione di una quantità di bevande alcoliche tale da determinare un evidente indebolimento psichico di cui era pienamente consapevole il soggetto attivo per essere stato presente all’assunzione delle bevande stesse (Cass. 39800/2016).

b) L’inganno mediante sostituzione di persona

La fattispecie di cui al n. 2) dell’art. 609bis fa riferimento al caso, tradizionalmente discusso in dottrina, in cui il soggetto agente, attraverso l’impiego di mezzi fraudolenti, si sostituisca alla persona in relazione alla quale soltanto la vittima avrebbe prestato il consenso all’atto sessuale (si pensi al caso di chi, avvalendosi dell’oscurità, approfitti di una donna sostituendosi al di lei marito).

Si ritiene (AMBROSINI) che la «sostituzione di persona» di cui parla la norma è quella tipica prevista dall’art. 494; ne consegue che integra la fattispecie in esame l’attribuirsi falsamente la qualità di «medico» per compiere atti lascivi su una donna.

Elemento soggettivo

Vale quanto detto per il comma 1 dell’art. 609bis. Va solo precisato che per le ipotesi in esame il soggetto deve essere consapevole della particolare condizione della vittima (per il n. 1) o deve volere l’inganno (per il n. 2).

Pena ed istituti processuali per le due figure di violenza sessuale

Per effetto dei correttivi al sistema sanzionatorio, dovuti alla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso»), la pena è la reclusione da sei a dodici anni (ante riforma era la reclusione da cinque a dieci anni), pena diminuita in misura non eccedente i due terzi nei casi di minore gravità. L’arresto in flagranza è obbligatorio (facoltativo nelle ipotesi di minore gravità), ed il fermo consentito. Si procede a querela della persona offesa (d’ufficio nei casi previsti dall’art. 609septies, comma 4, nonché in presenza delle aggravanti di cui agli artt. 270bis.1, comma 1 e 416bis.1, comma 1 c.p.) e la competenza spetta al Tribunale collegiale.

L’attenuante di cui all’art. 609bis, comma 3

La circostanza attenuante prevista nel comma 3 dell’art. 609bis consente, nei casi di minore gravità, una riduzione della pena da applicare, nella misura massima di due terzi.

Si tratta di una circostanza attenuante:

  • speciale (in quanto prevista solo per i reati in oggetto);
  • oggettiva (concernendo casi di minore gravità, da individuare avendo riguardo alla natura, l’oggetto, la specie, i mezzi, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione, od anche la gravità del danno: essa, come tale, ai sensi dell’art. 118 c.p., in caso di concorso di persona nel reato, risulterà applicabile a tutti i concorrenti per il solo fatto di sussistere);
  • obbligatoria (sussistendo i presupposti per la sua concessione, il giudice dovrà necessariamente operare la diminuzione di pena, conservando ampia discrezionalità soltanto in ordine alla quantificazione della diminuzione, da un terzo a due terzi);
  • ad effetto speciale (ex art. 63, comma 3, c.p.), comportando una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo della pena base;
  • ad efficacia comune (operando la diminuzione rispetto alla pena base);
  • compatibile con il tentativo (art. 56 c.p.): in proposito, si è affermato in giurisprudenza che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità nel tentativo di violenza sessuale, non si deve tenere conto dell’azione effettivamente compiuta dall’agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà (Cass. 18-4-2017, n. 18793).

Il vero problema che pone l’attenuante in esame è quello di dare un contenuto concreto all’espressione «minore gravità» usata dal legislatore e, quindi, di individuare parametri oggettivi cui ancorare la maggiore o minore gravità del fatto.

In concreto, ed alla luce dell’esperienza dottrinaria e giurisprudenziale maturata con riguardo ad analoghe figure, può ritenersi che ai fini della concessione dell’attenuante per i «casi di minore gravità» dovrà considerarsi il nocumento che il reato, ove consumato, avrebbe cagionato alla persona offesa, in rapporto all’oggetto materiale del reato stesso, ed al grado di compressione dell’altrui libertà personale (sessuale) che avrebbe caratterizzato il reato consumato, senza aver riguardo all’effetto conseguente al mero fatto materiale del tentativo; ricorrono, quindi, gli estremi per l’applicazione dell’attenuante in esame in tutti quei casi in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà personale (sessuale) della vittima sia stata compressa in maniera meno grave (ad esempio, l’atto sessuale compiuto fruendo dell’iniziale consenso del partner nonostante la successiva ed immotivata revoca del consenso stesso).

Più volte chiamata ad esprimersi in merito al senso da attribuire alla locuzione «minore gravità», la Cassazione ha avuto modo di affermare quanto segue: il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto non è impedito dalla commissione di una pluralità di episodi illeciti in danno di diverse persone offese, la cui libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave (Cass. 20-6-2016, n. 25434); la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non è determinante ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità (Cass. 2-5-2013, n. 19033); non può essere concessa nell’ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo peraltro incompatibile logicamente con la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. 15-11-2007, n. 42111); ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della «minore gravità» non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Cass. 6-3-2009, n. 10085); l’attenuante di cui all’art. 609bis, ultimo comma, c.p. non può essere di per sé esclusa per la sussistenza di una o più circostanze aggravanti, occorrendo in tal caso valutare se queste ultime, in relazione al bene giuridico tutelato, incidano sui parametri che rilevano ai fini dell’accertamento della minore gravità del fatto, costituiti dal grado di compressione della libertà sessuale subito dalla vittima e dalla consistenza del danno arrecatole (Cass. 19-2-2020, n. 6502); in tema di violenza sessuale, non è di ostacolo al riconoscimento della circostanza attenuante speciale del fatto di minore gravità di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., il fatto che il reato sia commesso da un docente, all’interno di un istituto scolastico, in danno di allievi, posto che l’abuso di autorità è già stato considerato dal legislatore come elemento integrativo della fattispecie incriminatrice, nonché ai fini della procedibilità d’ufficio del reato (Cass. 30-5-2023, n. 35303); in tema di violenza sessuale, il riconoscimento dell’attenuante della minore gravità, nel caso di più fatti in continuazione ai danni della medesima persona offesa minorenne, richiede che ogni singolo fatto sia inquadrato in una valutazione globale, posto che anche un fatto, ritenuto di modesta gravità se valutato singolarmente, può, ove replicato, comportare un aggravamento di intensità della lesione del bene giuridico così da comportare l’esclusione dell’attenuante speciale (Cass. 24-11-2022, n. 9308); in tema di reati sessuali, non ricorre l’attenuante della minore gravità del fatto, di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, trattandosi di condotta che, profanando gravemente la sfera sessuale della vittima, determina uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale (Cass. 17-12-2021, n. 23078); in tema di violenza sessuale, anche in caso di solo sopravvenuto dissenso della vittima al rapporto sessuale è legittimo il diniego della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, quando, per i mezzi, le modalità esecutive della condotta, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, e le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, si realizzi una significativa compromissione della libertà sessuale (Cass. 22-1-2020, n. 16440).

La violenza sessuale aggravata (artt. 609ter e duodecies)

L’art. 609ter (oggetto di numerosi correttivi succedutisi nel tempo) prevede, nei suoi due commi, una serie di circostanze aggravanti.

In particolare il comma 1, dispone che la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi:

  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore;
  • con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa.

Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’arma, è necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire (Cass. 26-2-2021, n. 7754). Quanto all’uso di sostanze narcotiche, si verifica quando lo stato di incoscienza della vittima sia stato provocato mediante la somministrazione di farmaci anestetici allo scopo di consentire all’agente di porre in essere la condotta vietata;

  • da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricati di pubblico servizio;
  • su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale;

Tale circostanza include anche le ipotesi nelle quali lo stato del soggetto passivo non discenda da un potere pubblicistico ed abbia natura illecita, comprensiva del sequestro di persona.

  • nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto;
  • all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa;
  • nei confronti di donna in stato di gravidanza;
  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.

Sussiste «relazione affettiva» quando il soggetto attivo possieda o abbia posseduto determinate qualità soggettive che, indipendentemente sia dalla convivenza con la vittima, sia dalla stabilità e/o durata della «relazione», facilitino il delitto consentendo all’agente lo sfruttamento del rapporto di fiducia della vittima nei suoi confronti e l’accesso violento o abusivo nella sfera più intima di quest’ultima;

  • se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività.

Sia questa aggravante, che la successiva, introdotte dal D.Lgs. 4-3-2014, n. 39, costituiscono la traduzione normativa di taluni dei precetti contenuti nell’art. 9 della direttiva 2011/93/ UE, sostitutiva della decisione quadro 2004/68/ GAI, nel quale gli Stati destinatari si impegnano ad adottare le misure necessarie affinché possano essere considerate figure circostanziali dei delitti oggetto della direttiva il fatto che «[…] d) il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24-10-2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata; […] g) il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave»;

  • se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

La figura prevede due distinte ipotesi, di cui solo la seconda prende in considerazione l’età della vittima, limitandosi la prima a considerare le «violenze gravi», a prescindere dal fatto che la vittima del reato sia maggiorenne o minorenne;

  • se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Tale configurazione aggravata rientra fra le novità disciplinari dovute alla L. 23-12-2021, n. 238 (nota come Legge europea 2019-2020). Nello specifico, la modifica appare volta a recare attuazione a quanto previsto nell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale dispone che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Ai sensi del comma 2 della medesima previsione, la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata della metà se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici. La pena è raddoppiata se i fatti di cui all’art. 609bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci.

Si evidenzia che l’aggravante in commento è stata oggetto di numerosi correttivi, il più recente dei quali operato dalla L. 19-7-2019, n. 69, cd. «Codice rosso». La prima delle modifiche effettuate si traduce in un correttivo di coordinamento rispetto all’incremento sanzionatorio della fattispecie di riferimento (la violenza sessuale, ex art. 609bis, la cui risposta sanzionatoria, come visto, è stata elevata, passando dalla reclusione da cinque a dieci anni alla reclusione da sei a dodici anni). Di qui l’esigenza di richiamare direttamente la figura-base e prevederne un aumento di pena. Inoltre, attraverso le coordinate innovazioni concernenti la prima e la quinta di tali previsioni, si è, poi, disposto che la violenza sessuale commessa dall’ascendente, dal genitore anche adottivo o dal tutore sia sempre aggravata, a prescindere dall’età della vittima (prima del correttivo era aggravata solo la violenza commessa da questi soggetti in danno di minorenne, per tal via ritenendo di apprestare una maggior tutela nell’ambito delle relazioni familiari, spesso sede di turpi episodi criminosi del genere tipizzato dalla norma). Si è, infine, provveduto ad una rimodulazione delle aggravanti quando la violenza sessuale sia commessa in danno di minore. Si prevede, infatti, un aumento di pena progressivamente maggiore, quanto meno elevata sia l’età della vittima (un terzo della pena-base della violenza sessuale per gli infradiciottenni, la metà per gli infraquattordicenni ed il doppio per coloro che non abbiano compiuto i dieci anni). Prima del correttivo, si prevedeva esclusivamente una aggravante per il fatto commesso in danno di minore di anni dieci.

Per effetto, infine, dell’art. 609duodecies (introdotto dal decreto del 2014 di cui si è appena detto) la violenza sessuale, ma anche le fattispecie di reato di cui agli artt. 609quater, quinquies, octies ed undecies, sono aggravate (con incremento di pena non eccedente la metà) se commesse con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche (per tal via disincentivando l’impiego della telematica quale strumento di approccio alle vittime).

Si è affermato in giurisprudenza che, in tema di reati sessuali, è configurabile l’aggravante dell’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di acceso alle reti telematiche, di cui all’art. 609duodecies c.p., nel caso in cui l’agente ponga in essere una qualsiasi azione volta a rendere maggiormente difficoltosa la propria identificazione, eludendo le normali modalità di riconoscimento (Cass. 23-11-2022, n. 44453).

 

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lotta alla violenza genere

Lotta alla violenza di genere: diventa materia scolastica Il ddl 1813 all'esame della Camera prevede l'introduzione dell'educazione al contrasto della violenza nei confronti delle donne tra le materie scolastiche

Educazione contrasto alla violenza di genere a scuola

La lotta alla violenza di genere entra a scuola. Il ddl-1813 all’esame della commissione cultura della Camera prevede infatti “l’introduzione dell’educazione al contrasto della violenza nei confronti delle donne” quale materia scolastica, attraverso la modifica dell’art. 3 della legge n. 92/2019.

Iter proposta di legge

La pdl Semenzato ed Altri, recante “modifiche all’art. 3 della legge n. 92/2019, concernenti l’introduzione dell’educazione al contrasto della violenza nei confronti delle donne nonché l’insegnamento dell’educazione finanziaria nell’ambito dell’insegnamento dell’educazione civica”, è stata presentata nell’aprile scorso e assegnata alla VII Commissione Cultura in sede referente di Montecitorio, avendo ricevuto già il parere delle altre commissioni.

Violenza di genere e educazione finanziaria nell’educazione civica: le motivazioni

La pdl n. 1813 reca quale obiettivo quello di continuare nel “percorso intrapreso all’interno degli istituti scolastici, prevedendo che l’insegnamento scolastico dell’educazione civica assuma come riferimento il tema dell’educazione al contrasto di ogni forma di violenza nei confronti delle donne, quello dell’educazione finanziaria, l’autonomia economica del singolo familiare o convivente, con l’adozione di provvedimenti che incidano profondamente nella cultura delle nuove generazioni, attraverso un’azione positiva volta a sviluppare nella formazione degli studenti il rispetto dei princìpi di eguaglianza, pari opportunità e dignità nei rapporti di coppia”.
La violenza di genere, infatti, si legge ancora nella relazione alla proposta, passa anche per “la violenza economica – che – affonda le proprie radici in un terreno di pregiudizi patriarcali e culto dei ruoli di genere che in una società equa, moderna e civile non possono essere tollerati”. La scuola rappresenta “l’ambiente privilegiato per lo sviluppo della consapevolezza di quanto sia importante raggiungere e mantenere una autonomia economica, rompendo gli schemi della famiglia tradizionale, ed è il punto di riferimento prioritario attraverso cui far veicolare i messaggi chiave e avvicinare i futuri adulti al tema della indipendenza economica da assicurare al singolo nel nucleo familiare o nelle convivenze di fatto”.

Per quanto concerne, invece, l’educazione all’autonomia finanziaria, il principale obiettivo “è quello di attivare un processo virtuoso al fine di avere cittadini informati, attivi, responsabili e consapevoli che la libertà di scelta, in presenza di crisi familiari, presuppone una indipendenza economica”.

Il testo della proposta di legge

la pdl si compone di un unico articolo, il quale dispone che:

“1. All’articolo 3 della legge 20 agosto 2019, n. 92, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, lettera f), dopo le parole: «contrasto delle mafie» sono aggiunte le seguenti: «e di ogni forma di violenza nei confronti delle donne»;

b) al comma 2, dopo le parole: «e l’educazione finanziaria» sono inserite le seguenti: «, anche nel rispetto dell’indipendenza economica del singolo familiare o convivente»”.

domiciliari per il marito

Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento La Cassazione conferma la misura degli arresti domiciliari al marito che non rispetta il divieto di avvicinamento anche se la moglie lo segue di propria volontà

Arresti domiciliari

Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento anche se la moglie lo segue di propria volontà perché sono ancora legati sentimentalmente. Così la prima sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 25002/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltanissetta con funzione di riesame rigettava la richiesta dell’imputato avverso l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, in relazione al reato di cui all’art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 perché, essendo sottoposto alla misura della Sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune per la durata di due anni, con l’ulteriore prescrizione del divieto di avvicinarsi a oltre i duecento metri alla moglie, in ogni luogo in questa si trovi, violava la misura, accompagnandosi alla predetta.

L’indagato ricorre in Cassazione contestando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, tenuto conto che la coniuge lo avrebbe avvicinato volontariamente, stante il perdurare del rapporto sentimentale tra i due, con il fine di aiutare perché affetto da patologia oncologica documentata.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile sotto plurimi aspetti.

Intanto premettono i giudici, “in sede di riesame, non risultano contestati i gravi indizi di colpevolezza ma solo l’inadeguatezza della misura cautelare applicata con l’ordinanza genetica (ove il Tribunale chiarisce che il riesame proposto non specificava i motivi e che, all’udienza camerale, il difensore si era limitato a sottolineare l’inadeguatezza della misura cautelare applicata in considerazione della condotta della moglie). Con il ricorso, invece, se ne contesta la sussistenza”.
Orbene, sottolinea la S.C., “secondo la giurisprudenza di legittimità cui il Collegio aderisce, non è ammissibile prospettare, in sede di ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale con funzione di riesame, questioni non devolute in ordine ai gravi indizi di colpevolezza (Sez. 3, n. 41786 del 26/10/2021, Gabbianelli, Rv. 282460 – 02)”.
In ogni caso, proseguono da piazza Cavour, “la motivazione sulla sussistenza dei gravi indizi dell’ordinanza impugnata non è manifestamente illogica ma, anzi, esauriente e completa”. Il Tribunale, peraltro, esamina la deduzione circa il presunto carattere volontario della condotta della persona offesa, ne registra la presenza nell’occasione accertata nel palazzo di giustizia e in altra precedente occasione quando questa è stata trovata a bordo di un ciclomotore condotto da indagato. “L’ordinanza, con ragionamento non affetto da illogicità manifesta – concludono -, prende in considerazione lo stato di fatto, valuta le dinamiche interne alla coppia, descrivendole come non ancora sufficientemente delineate, alla stregua delle indagini svolte, quanto ai rapporti di forza tra le parti e, soprattutto, evidenzia che lo stesso indagato aveva ammesso di non aver mai rispettato la misura in atto, manifestando espresso e totale disinteresse rispetto all’osservanza degli obblighi impostigli”. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso.

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Allegati

donne vittime di violenza

Donne vittime di violenza: la guida in 8 passi Dal numero verde al reddito di libertà, l'INPS fa il punto sui servizi e le prestazioni per le vittime di stalking, violenza o abusi

Donne vittime di violenza

Dal numero verde al Reddito di Libertà: le informazioni sui servizi e sulle prestazioni INPS per le vittime di stalking, violenza o abusi in una guida pubblicata online dallo stesso istituto di previdenza. La guida in otto passi per le donne vittime di violenza offre informazioni sui servizi e sulle prestazioni INPS per le donne vittime di stalking, violenza o abusi che abbiano o meno denunciato questi atti al numero verde 1522 per essere poste sotto la tutela dei Centri antiviolenza.

Numero verde 1522

Quando una donna si sente minacciata può chiamare il numero verde 1522, disponibile gratuitamente sia da rete fissa che mobile. Questo servizio offre supporto in italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo ed è esposto anche presso gli Uffici relazioni con il pubblico delle sedi INPS.

Astensione dal lavoro e congedo indennizzato

È una tutela riconosciuta alle lavoratrici inserite nei percorsi di protezione, che possono avvalersi di un’astensione dal lavoro per un periodo massimo di 90 giorni nell’arco temporale di tre anni.

Possono beneficiarne le:

  •  lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato;
  •  lavoratrici con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa;
  • apprendiste, operaie, impiegate e dirigenti con un rapporto di lavoro in corso all’inizio del congedo;
  •  lavoratrici agricole;
  •  lavoratrici domestiche;
  • lavoratrici autonome.

La domanda di congedo indennizzato per donne vittime di violenza può essere presentata online all’INPS dalle donne lavoratrici inserite nei percorsi di protezione.

ISEE per donne protette

Le donne inserite nei programmi di protezione dei Centri antiviolenza possono richiedere l’ISEE che non comprenda il reddito dell’altro genitore, nei casi in cui questi sia escluso dalla potestà genitoriale sui figli o sia soggetto a provvedimento di allontanamento dalla residenza familiare.

Reddito di Libertà

È una prestazione che sostiene l’autonomia e l’emancipazione delle donne vittime di violenza con un contributo fino a 400 euro mensili per 12 mensilità. La domanda può essere presentata al comune di residenza, direttamente o tramite un rappresentante legale.

Assegno di Inclusione (ADI)

L‘Assegno di Inclusione è un sostegno economico e di inclusione sociale per i nuclei familiari in condizione di svantaggio, comprese le vittime di violenza di genere. È necessario comprovare la situazione economica e partecipare a un percorso personalizzato di inclusione sociale e lavorativa.

pratiche di mutilazione

Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili Nozione e oggetto giuridico del reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili ex art. 583bis c.p.

Il reato ex art. 583-bis c.p.

Il reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili è previsto e punito ai sensi dell’art. 583bis, il quale dispone che risponde penalmente: “a) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (comma 1); b) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al comma 1, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente (comma 2)”.

Legge n. 7/2006

Trattasi di fattispecie introdotta dalla L. 9-1-2006, n. 7, nel novero di un complesso di misure finalizzate a «prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine» (art. 1, L. 7/2006 cit). Configurando una ipotesi speciale del delitto di lesione personale, con essa condivide l’oggetto giuridico, essendo posta a tutela dell’incolumità della persona (cui va aggiunto l’interesse statuale all’integrità fisica e psichica dei cittadini). Con tale norma il legislatore mira, infatti, alla repressione di condotte lesive degli apparati connessi alla funzione sessuale, dunque gravemente pregiudizievoli dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo, della sua dignità personale, nonché della stessa vita di relazione.

Il reato negli altri Paesi europei

L’opportunità di tale intervento legislativo è, altresì, evidenziata dal fatto che già altri Paesi europei hanno provveduto ad introdurre fattispecie ad hoc (ad esempio, in Svezia, sin dal 1983, è sanzionata penalmente qualsiasi forma di mutilazione dei genitali femminili, pur se solo con un massimo di due anni di reclusione, ma con una pena maggiore se dalla mutilazione deriva pericolo di morte; in Gran Bretagna, sin dal 1985, costituisce reato, fra l’altro, «tagliare, infibulare o in qualsiasi modo mutilare le grandi e piccole labbra in tutto o in parte e la clitoride»). Il ripudio di tali inammissibili aggressioni dell’integrità fisica è, peraltro, ricavabile, in modo più o meno chiaro e cogente, dalle previsioni normative di numerose dichiarazioni, patti e convenzioni internazionali, ratificati in Italia, fra le quali la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1969), la Convenzione contro la tortura (1984), la Convenzione contro ogni forma di discriminazione contro le donne (1979, nota con l’acronimo «Cedaw»), cui vanno aggiunti la Dichiarazione ed il Programma di azione adottati a Pechino il 15-9-1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, nonché, a livello di legislazione «interna», gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, alla cui attuazione è «consacrata» la L. 7/2006. Tale provvedimento è, altresì, in linea con quanto affermato dal Parlamento europeo nel settembre 2001, considerando le mutilazioni genitali come «gravissima lesione della salute fisica, mentale e riproduttiva delle donne e delle bambine», ed invitando gli Stati membri a considerarle come «reato all’integrità della persona».

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 1

Il comma 1 della previsione in commento sanziona penalmente il cagionare una mutilazione di organi genitali femminili, specificando (per vero pleonasticamente) che la condotta rileva penalmente solo ove non trovi giustificazione in esigenze terapeutico-curative della vittima.

È lo stesso comma 1 a precisare che, nel concetto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» rientrano «la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo».

Secondo le definizioni mutuate dalla scienza medica tradizionale, la clitoridectomia (o escissione), chiamata anche in arabo Tahara (purificazione) o Khefad (riduzione), consiste nella rimozione dell’intero clitoride e delle adiacenti labbra. L’infibulazione (dal latino fibula, spilla), è, invece, una mutilazione genitale femminile praticata in molte società di stampo patriarcale dell’Africa, del sud della penisola araba e del sud-est asiatico. Con tale pratica (nota anche come escissione faraonica) il clitoride viene rimosso insieme alle piccole labbra e parte delle grandi (circa i 2/3), ed al termine dell’operazione, l’apertura viene ricucita con una sutura o con spine, lasciando solo un piccolo spazio per il passaggio delle urine e del sangue mestruale. Trattasi, come evidente, di una pratica che, se pur saldamente ancorata in talune tradizioni culturali, è totalmente inammissibile in ordinamenti i cui precetti pongono al centro di ogni previsione la salvaguardia dell’integrità e della dignità dell’individuo, specie se si considera che i rapporti sessuali, attraverso questa pratica, vengono impossibilitati fino alla defibulazione (che in queste culture, viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio), che dopo ogni parto viene effettuata una nuova infibulazione per ripristinare la situazione prematrimoniale, e che la pratica dell’infibulazione faraonica ha lo scopo di conservare e di indicare la verginità al futuro sposo e di rendere la donna una specie di oggetto sessuale incapace di provare piacere nel sesso.

Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui vengono realizzate le orride mutilazioni di cui alla norma. Quanto all’elemento soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, richiedendosi esclusivamente la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte produttive delle mutilazioni, a prescindere dalle finalità perseguite concretamente dal reo.

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 2

La norma completa la tutela della sfera genitale femminile sanzionando penalmente chiunque cagioni lesioni ad organi genitali femminili diverse da quelle prima descritte, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, al fine di menomare le funzioni sessuali, anche in tale ipotesi (come detto, ovviamente) al di fuori del caso in cui sussistano esigenze terapeutico-curative.

Nel tentativo, peraltro, di configurare in tale fattispecie una ipotesi «speciale» di lesione personale, il legislatore ne ha riprodotto la equivoca struttura oggettiva, sanzionando le lesioni (agli organi genitali femminili, elemento specializzante) da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente. Anche in tale occasione, dunque, è possibile elevare le critiche mosse dalla migliore dottrina (Antolisei, Mantovani) e dalla prevalente giurisprudenza, in relazione all’analogo disposto dell’art. 582 c.p. Dalla lettura di tale ultimo articolo, infatti, sembra ipotizzarsi la necessità di un duplice evento naturalistico: la lesione organica conseguente alla condotta umana, e la malattia fisica o mentale in conseguenza dell’evento-lesione. In realtà, si obiettò che l’evento è unico, e consiste nella malattia corporea o mentale conseguente alla condotta criminosa.

È possibile, dunque, concludere che tale comma sia diretto a sanzionare chiunque cagioni una qualunque alterazione anatomico-funzionale a carico degli organi genitali femminili, che comporti la necessità di un processo di reintegrazione curativa, sia pur di breve durata. L’adesione alla tesi dell’unicità dell’evento, consistente, appunto, nella malattia, consente, altresì, di dedurre che la condotta criminosa (a differenza della fattispecie di cui al comma 1) non debba necessariamente consistere in una azione violenta, e debba (come la fattispecie-madre di lesioni) considerarsi configurabile anche in forma omissiva impropria.

Quanto al momento consumativo, si identifica con il prodursi dell’evento naturalistico della fattispecie, consistente nella malattia.

Quanto al tipo di malattia cagionabile, si è osservato che, se il riferimento alla patologia mentale ha un senso rispetto alle lesioni personali comuni, difficilmente è configurabile in relazione ad una fattispecie nella quale si richiede il prodursi di una malattia ad organi genitali, se non quale conseguenza ulteriore rispetto alla patologia «corporea».

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto, a differenza della configurazione di cui al comma 1, è punibile a titolo di dolo specifico, richiedendosi la coscienza e volontà di cagionare la lesione, al fine di menomare le funzioni sessuali (finalità il cui mancato conseguimento non incide sulla consumazione del reato, rispetto al quale, come detto, rileva esclusivamente il prodursi della malattia). Poco opportuna, sotto il profilo interpretativo, appare, inoltre, la previsione di una circostanza attenuante ad effetto speciale, sancita dall’ultimo periodo del comma in esame, per il caso in cui la lesione sia di lieve entità, in quanto rimette al giudice una non agevole (dunque potenzialmente disuniforme) valutazione, contrapposta alla «chiarezza» delle nozioni «comuni» di lesione lieve o lievissima, connesse alla durata della patologia prodotta, evincibili dall’art. 582 c.p.

Circostanze aggravanti

Il comma 3 della norma in commento prevede due configurazioni aggravate delle fattispecie appena descritte, consistenti nel caso in cui il fatto sia commesso a danno di un minore o per fini di lucro.

Totalmente condivisibile risulta tale opzione normativa, se si ha riguardo del fatto che, eccettuati rari casi posti in essere su donne in età «da marito» ed, addirittura, su neonate, l’età tipica per praticare le mutilazioni di cui alla norma oscilla dai 6 ai 10 anni, e che la sussistenza nell’agente di un becero animus lucrandi, in luogo degli, sia pur inammissibili, intenti derivanti da convincimenti ideologico-religiosi, rende ancor più socialmente intollerabile la realizzazione di tali pratiche, fondando l’aggravio sanzionatorio.

Inoltre, a seguito dei correttivi effettuati sull’art. 585 c.p. dal cd. «Pacchetto sicurezza» (L. 15-7-2009, n. 94), il delitto in commento è aggravato se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 576 c.p. (pena aumentata da un terzo alla metà) e dall’art. 577 c.p. (pena aumentata fino a un terzo), come anche nel caso in cui il fatto sia commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite.

Pene e istituti processuali

La pena, per l’ipotesi di cui al comma 1, è la reclusione da 4 a 12 anni; per la fattispecie di cui al comma 2 è la reclusione da 3 a 7 anni (ridotta fino a due terzi in caso di lesione di lieve entità, ed incrementata di un terzo nell’ipotesi aggravata.

La pena accessoria di cui al comma 4

Dispone il comma 4 dell’articolo in esame (neointrodotto dalla L. 172/2012) che la condanna, anche se patteggiata, per il reato in commento comporta, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, rispettivamente la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale e l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. Tale disposto non costituisce previsione inedita (salvo che per il riferimento alla pena patteggiata), ma trova corrispondenza nell’art. 602bis (conseguentemente soppresso).

L’art. 583-ter c.p.

Ai sensi dell’art. 583ter, la condanna contro l’esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti dall’art. 583bis importa la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da tre a dieci anni (per tal via energicamente stigmatizzando, quasi con un «marchio di infamia», quanti si rendano responsabili delle lesioni in oggetto, ad un tempo suggellando plasticamente la gravità del reato e neutralizzando il reo). Della sentenza di condanna è data comunicazione all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (evidentemente in vista dell’applicazione di sanzioni disciplinari; si tenga, infatti, conto del fatto che l’art. 50 del Codice di deontologia medica, nel precludere al medico ogni forma di collaborazione, partecipazione o semplicemente presenza al compimento di atti di tortura o di trattamenti crudeli, disumani o degradanti, vieta, altresì, espressamente al medico di praticare qualsiasi forma di mutilazione sessuale femminile).

Aspetti procedurali

La fattispecie di cui al comma 1 è di competenza del Tribunale collegiale, mentre quella di cui al comma 2 del Tribunale monocratico. Si procede d’ufficio, l’arresto in flagranza è facoltativo ed il fermo consentito (salvo che per la seconda ipotesi attenuata).

Infine, l’ultimo comma dell’art. 583bis estende l’applicabilità delle relative disposizioni al caso in cui il fatto sia commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia.

 

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Revenge porn: come fare una segnalazione Revenge porn: come funziona il servizio di segnalazione online del Garante Privacy per prevenire il fenomeno del Revenge porn

Segnalazione Revenge Porn

Revenge porn: il Garante Privacy ha reso disponibile il servizio online per effettuare una segnalazione, oltre ad un’utile scheda informativa per prevenire e difendersi da questo tipo di fenomeni proteggendo e gestendo correttamente i propri dati personali.

Cos’è il revenge porn

Il revenge porn, si ricorda, consiste nell’invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione, da parte di chi li ha realizzati o sottratti e senza il consenso della persona cui si riferiscono, di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati. Tale diffusione avviene di solito a scopo vendicativo (ad esempio per “punire” l’ex partner che ha deciso di porre fine ad un rapporto amoroso), per denigrare pubblicamente, ricattare, bullizzare o molestare. Si tratta quindi di una pratica che può avere effetti drammatici a livello psicologico, sociale e anche materiale sulla vita delle persone che ne sono vittime.

Protezione dati personali

La prima e più importante forma di difesa, ricorda il Garante, sono sempre la consapevolezza e la prudenza. Spesso accade che i dati personali vengano immessi dagli stessi interessati nel circuito di messaggistica e social network, sfuggendo così ogni controllo e rendendone impossibile la cancellazione una volta diffusi.

Per proteggere i dati personali eventualmente presenti nei tuoi dispositivi (smartphone, pc o tablet), occorre utilizzare sempre adeguate misure di sicurezza: ad esempio, password che proteggono i dispositivi e/o le cartelle in cui conservi i file, sistemi di crittografia per rendere illeggibili i file agli altri, sistemi anti-virus e anti-intrusione per i dispositivi.

Se si ricevono foto o immagini a contenuto sessualmente esplicito che riguardano altre persone, il Garante consiglia di evitare “di essere complice di comportamenti illeciti nei confronti delle stesse” di non diffonderle, cancellarle e se si ritiene di fare una segnalazione alla Polizia postale.

A maggior ragione quando tali fenomeni riguardano i minori, come vittime o destinatari di contenuti.

“Se sei un genitore – consiglia il Garante – evita di far utilizzare dispositivi digitali ai tuoi figli piccoli se sono da soli, monitora il loro comportamento online e spiega con chiarezza perché è bene evitare di interagire con sconosciuti e diffondere informazioni personali, soprattutto foto e filmati, tramite messaggi e social network (vedi anche la pagina informativa www.gpdp.it/minori).

Come prevenire il Revenge porn

Nel caso in cui si abbia un fondato timore che immagini a contenuto sessualmente esplicito possano essere diffuse senza il proprio consenso è possibile presentare una segnalazione al Garante ai sensi degli art. 144-bis del Codice in materia di protezione dei dati personali e 33-bis del regolamento n. 1/2019 del Garante.

Per farlo è possibile utilizzare l’apposito form reso disponibile nel sito istituzionale dell’Autorità, in cui dovranno essere indicate le piattaforme di condivisione di contenuti (social network, messaggistica, ecc.) attraverso le quali si teme la diffusione, nonché le ragioni che fondano il timore che la condotta pregiudizievole possa essere posta in essere.

Dovranno poi essere trasmesse all’Autorità – tramite un link che sarà comunicato dopo la presentazione della segnalazione – le immagini o i contenuti sessualmente espliciti dalla cui divulgazione ci si intenda tutelare.

Il Garante, in presenza dei presupposti indicati dalle norme di riferimento, adotterà un provvedimento, che sarà notificato alle piattaforme coinvolte nel tentativo di contrastare la temuta diffusione.

Questo strumento può essere utilizzato non solo dagli adulti, ma anche dai minori.

Si ricorda che alla tutela che accorda il Garante può sempre aggiungersi quella prestata dalla Polizia Postale, alla quale è possibile rivolgersi per denunciare situazioni in cui siano ravvisabili gli estremi di una condotta penalmente rilevante (come nel caso in cui si subiscano minacce o richieste estorsive).

Infine, rammenta l’autorità, il più importante accorgimento “è tenere alto il livello di prudenza nel condividere materiale a contenuto sessualmente esplicito, in quanto l’intervento del Garante non è in grado di assicurare, in termini assoluti, che l’evento temuto non si verificherà: la persona malintenzionata, ad esempio, potrebbe detenere immagini anche solo parzialmente diverse da quelle comunicate alla piattaforma vanificando così la misura adottata”.

omicidio commissione reati sessuali

Omicidio realizzato in occasione della commissione di reati sessuali Si fa riferimento all'ipotesi aggravata del delitto di omicidio disciplinata dall'art. 576 n. 5 c.p.

Omicidio realizzato in occasione di reati sessuali: evoluzione normativa

La norma a cui si fa riferimento costituisce ipotesi aggravata del delitto di omicidio, nello specifico disciplinata dall’art.576, n. 5. Nell’attuale formulazione, la norma sanziona penalmente, con la pena dell’ergastolo, l’omicidio realizzato in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 583quinquies, 600bis, 600ter, 609bis, 609quater e 609octies. L’aggravante in esame è stata oggetto di correttivi dapprima ad opera del D.L. 23-2- 2009, n. 11, conv. in L. 23-4-2009, n. 38, e successivamente della L. 1-10-2012, n. 172.

Nella sua formulazione originaria, infatti, la norma faceva riferimento agli artt. 519, 520 e 521 c.p. Per comprendere il fondamento del primo dei segnalati correttivi, deve evidenziarsi che le figure delittuose richiamate nel testo previgente sono state integralmente abrogate dalla L. 66/1996, in occasione della «riscrittura» delle fattispecie di violenza sessuale.

Il legislatore del 2009 ha, dunque, inteso «attualizzare» i richiami della configurazione aggravata in commento, sostituendo i riferimenti alle fattispecie abrogate con quelli a previsioni neointrodotte, per tal via sanando una «dimenticanza» del legislatore del ’96.

Dottrina e giurisprudenza

Già, peraltro, prima di tale correttivo espresso, la citata abrogazione delle fattispecie in origine richiamate fece porre, in dottrina e giurisprudenza, il problema di stabilire se il rinvio potesse essere inteso alla fattispecie che aveva sostanzialmente recepito le citate previsioni abrogate, l’art. 609bis c.p.

La dottrina che si era occupata del problema ritenne che il rinvio contenuto nella norma in esame non dovesse intendersi agli articoli di legge, in quanto tali, ma alle condotte che essi descrivono, per cui se queste condotte non cessano di essere oggetto di previsione da parte della nuova norma penale che prende il luogo di quella abrogata, ma sono riproposte negli stessi termini in altre norme di legge, il rinvio implicito alle nuove norme deve essere ritenuto ammissibile, senza violazione del principio di stretta legalità dettato dall’art. 25, comma 2, della Costituzione.

Nel medesimo senso si era espressa concordemente la giurisprudenza della Cassazione, la quale, nel confermare che tale aggravante doveva trovare applicazione con riferimento a tutti i delitti di violenza sessuale di cui agli artt. 609bis e ss. c.p., aveva motivato tale asserto sostenendo che il richiamo agli articoli abrogati, contenuto nell’art. 576 rientrava nella figura del rinvio formale e non di quello recettizio, sicché quella abrogazione non aveva comportato una «abolitio criminis», ma solo un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, e il mancato adeguamento della formulazione di quest’ultima norma era ascrivibile a mero difetto di coordinamento legislativo.

Dopo tale opportuno correttivo di coordinamento, il legislatore, come segnalato, ha nuovamente inciso sulla portata precettiva di tale previsione, attraverso la L. 172/2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote per la tutela dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. In particolare, nel riscrivere la lettera del n. 5) dell’art. 576, si è provveduto ad estendere le ipotesi di omicidio aggravato a quello commesso in occasione della realizzazione delle fattispecie di cui agli artt. 572, 600bis e 600ter (trattasi dei delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi, prostituzione e pornografia minorile, a loro volta riformulati dal legislatore del 2012), riconoscendo a tale tipologia omicidiaria analogo surplus di disvalore penale rispetto a quello che la norma già attribuiva alla condotta realizzata nell’atto di aggredire sessualmente taluno.

Correttivo nel Codice Rosso

Da ultimo, l’evoluzione normativa concernente l’aggravante in esame trova il suo epilogo nella L. 19-7-2019, n. 69, nota come «Codice rosso» (espressione mutuata dalla terminologia sanitaria, per alludere ad un percorso preferenziale e d’urgenza per la trattazione dei procedimenti in materia, funzionale alla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, percorso procedurale introdotto proprio dal citato provvedimento), pur se deve osservarsi come il correttivo si limiti ad una estensione del margine di applicabilità della previsione al caso in cui il fatto omicidiario sia posto in essere in occasione della commissione del neointrodotto delitto di cui all’art. 583quinquies (al cui esame si rinvia).

In sostanza, si inserisce nel catalogo dei reati puniti con l’ergastolo anche il delitto di lesioni permanenti al viso (previsione che il legislatore, con modalità operativa analoga a quella già precedentemente seguita in tema di cd. omicidio stradale, trasforma in autonoma fattispecie di reato, rispetto al sistema previgente, dove era prevista come delitto aggravato, modificandone nel contempo il trattamento sanzionatorio in senso maggiormente afflittivo, mirando, per tal via, a frustrare il rischio di possibili attenuazioni sanzionatorie, conseguenti al meccanismo del bilanciamento delle circostanze, in una prospettiva di contenimento della discrezionalità del giudice), qualora da esso sia derivata la morte della vittima. Trattasi di valutazione che trova il suo condivisibile fondamento nel fatto che, da aggressioni poste in essere ai sensi del neointrodotto art. 583quinquies, possono derivare conseguenze irreversibili circoscritte non solo alla sfera dell’identità personale della vittima, ma anche alla stessa vita di quest’ultima.

In tale sede va, altresì, rammentato che il novero dei potenziali autori del delitto di omicidio aggravato, di cui all’art.576 c.p., è stato implementato proprio ad opera del D.L. 23-2-2009, n. 11, conv. in L. 23-4-2009, n. 38, norma con cui si è introdotto il delitto di «atti persecutori».

Orbene, per effetto del medesimo provvedimento, si è operato un correttivo alla norma in esame, disponendo che vada punito con l’ergastolo anche l’omicidio  commesso dall’autore del delitto previsto dall’art. 612bis (dunque del delitto di «stalking»), nei confronti della stessa persona offesa.

La giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite

Su tale ipotesi aggravata, si segnala una significativa pronuncia, a Sezioni unite, della Cassazione (sent. 26-10-2021, n. 38402), per effetto della quale la fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, comma 1, n. 5.1) c.p. – punito con la pena edittale dell’ergastolo – integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p., in ragione della unitarietà del fatto, per tal via escludendo che le due fattispecie concorrano fra loro.

La norma si limita a richiedere che autore e vittima degli atti persecutori e dell’omicidio siano i medesimi, senza necessità di alcun legame cronologico o eziologico fra le due condotte criminose. Peraltro, in dottrina si tende a restringere la portata applicativa della previsione ai soli casi in cui l’omicidio rappresenti l’esito finale del delitto di «stalking», escludendola quando invece l’omicidio possa trovare motivazione in ragioni diverse dalla persecuzione.

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Violenza donne: la legge n. 168/2023 Le innovazioni della L. 168/2023, il clamore suscitato dal caso Cecchettin, l'iter legislativo e la ratio della legge

Il clamore suscitato dal «caso Cecchettin» e la L. 168/2023

L’aumento esponenziale degli omicidi di genere nel nostro Paese, spesso perpetrati con modalità agghiaccianti, come nel caso di Giulia Cecchettin, che ha destato sconcerto anche per la giovane età della vittima e per l’ambiente familiare in cui è maturato il delitto, ha indotto il Parlamento ad approvare celermente e all’unanimità la L. 168/2023.

In particolare, la L. 24-11-2023, n. 168, recante Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 24-11-2023, in vigore dal 9-12-2023, impone, per la rilevanza dei temi affrontati e per le numerose disposizioni introdotte, un primo approfondimento per consentirne l’immediata e puntuale applicazione. Il provvedimento si compone di 19 articoli.

Alla luce dell’aumento esponenziale degli omicidi di genere nel nostro Paese, l’obiettivo perseguito dal Governo è quello di rendere, da una parte, più efficace la protezione preventiva, rafforzando le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e inasprendo le pene nei confronti dei recidivi; dall’altra, di ampliare la tutela, in generale, delle vittime di violenza. Riveste, infatti, particolare importanza l’attenzione verso la prevenzione della violenza sulle donne, soprattutto rispetto alla commissione dei cosiddetti «reati spia», ovvero delitti che rappresentano indicatori di una violenza di genere per evitare che possano degenerare in comportamenti più gravi.

Tra gli interventi di maggior rilievo, troviamo il rafforzamento della misura di prevenzione dell’ammonimento del Questore e di informazione alle vittime di violenza; l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza o di dimora, anche agli indiziati di reati legati alla violenza contro le donne e alla violenza domestica; l’introduzione di norme finalizzate a velocizzare i processi in materia di violenza di genere e domestica, l’applicazione di misura cautelare personale e la possibilità di disporre l’applicabilità del controllo tramite il cd. braccialetto elettronico.

Rivestono, inoltre, particolare interesse anche le iniziative formative in materia di contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica nonché l’introduzione di una provvisionale, ovvero una somma di denaro liquidata preventivamente a titolo di ristoro anticipato in favore delle vittime di violenza.

La legge contiene, infine, la clausola di invarianza finanziaria, per cui dall’attuazione del provvedimento non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Le principali modifiche contenute nella L. 168/2023

Si riportano di seguito, in maniera sintetica, le più rilevanti innovazioni disciplinari contenute nella legge, consistenti:

  • nell’ampliamento del novero dei reati per i quali il questore può disporre l’ammonimento del presunto responsabile di violenza domestica, ricomprendendovi anche i reati che possono assumere valenza sintomatica (cosiddetti «reati spia») quali le fattispecie di violenza privata, di minaccia aggravata, di atti persecutori, di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il cd. revenge porn), di violazione di domicilio e di danneggiamento;
  • nell’aumento, fino a 1/3, delle pene dei reati che configurano una violenza domestica, specificamente elencati, se il fatto è commesso da soggetto già ammonito;
  • nella procedibilità d’ufficio, anche per alcuni reati che oggi richiederebbero la querela, qualora il fatto che integra la fattispecie è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito;
  • nella facoltà riconosciuta al prefetto di adottare misure di vigilanza dinamica qualora, per fatti riconducibili a reati di violenza domestica, emerga il pericolo di reiterazione delle condotte.

Novità in materia di misure di prevenzione personali per indiziati di gravi reati

Ulteriori novità sono tese al potenziamento delle misure di prevenzione e si sostanziano in modifiche al Codice antimafia.

Tali modifiche, peraltro, estendono l’applicabilità delle misure di prevenzione personali anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati che ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e domestica (reati di omicidio, lesioni gravi, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, violenza sessuale).

Tra le novità, viene ampliato l’utilizzo della misura della sorveglianza speciale con le modalità del braccialetto elettronico, rispetto al quale l’obbligo di verificare preventivamente la disponibilità degli apparati da parte della polizia giudiziaria viene sostituito con quello di accertare previamente la fattibilità tecnica.

L’applicazione del braccialetto elettronico è comunque soggetta al consenso dell’interessato; in caso di diniego, è imposta l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi.

La priorità nei processi

Ulteriore elemento di novità è da individuarsi nel fatto che la L. 24-11-2023, n. 168 amplia le fattispecie per le quali è assicurata priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi.

Detta priorità (già assicurata per i casi di maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza sessuale e atti persecutori) è estesa alle ipotesi di:

  • violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento;
  • costrizione o induzione al matrimonio, lesioni personali aggravate;
  • deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso;
  • interruzione di gravidanza non consensuale;
  • diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti;
  • stato di incapacità procurato mediante violenza laddove ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale.

L’arresto in flagranza differita e la provvisionale anticipata

Per effetto del provvedimento in esame è stato, altresì, reso possibile l’arresto in flagranza differita nei casi di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi, nonché di atti persecutori.

Tra le novità della legge, infine, si segnala l’introduzione della possibilità di corrispondere in favore della vittima di violenza di genere, oppure degli aventi diritto in caso di morte della vittima, una provvisionale, vale a dire una somma di denaro liquidata dal giudice, come anticipo sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva.

L’iter legislativo e la ratio della legge

Il provvedimento, composto da 19 articoli, è diretto soprattutto alla prevenzione per evitare che i cosiddetti «reati spia» possano poi degenerare in fatti più gravi. E infatti l’inasprimento riguarda soprattutto chi è già stato destinatario dell’ammonimento e ricade nella stessa condotta, i cosiddetti recidivi.

L’intento del Governo è quello di:

  • rendere più veloci le valutazioni preventive sui rischi che corrono le potenziali vittime di femminicidio o di reati di violenza;
  • rendere più efficaci le azioni di protezione preventiva; rafforzare le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e la recidiva;
  • migliorare la tutela complessiva delle vittime di violenza.

Per ciò che concerne l’iter legislativo, come si vedrà, caratterizzato da una rapida approvazione, il relativo disegno di legge di iniziativa governativa n. 1294, recante Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica veniva presentato alla Camera dei Deputati il 12-7-2023.

L’esame in Commissione Giustizia iniziava il 6-9-2023 e si concludeva in poco più di un mese, il 19-10-2023. La Camera approvava all’unanimità il testo il 26-10-2023.

La Commissione giustizia del Senato della Repubblica esaminava il testo nella sola seduta del 21-11-2023 e il Senato lo approvava definitivamente il giorno successivo, il 22-11-2023, con votazione unanime. Negli interventi in Commissione e in aula si segnalava l’urgenza dell’intervento: «con riguardo ai provvedimenti in materia di violenza contro le donne dimostra quanto il tema, anche alla luce dei tristi e frequenti episodi di cronaca, sia per tutte le forze politiche di priorità assoluta. Anche nel dibattito svoltosi ieri in Commissione giustizia, tutti i Commissari hanno ribadito all’unanimità l’assoluta urgenza che il Parlamento approvi il prima possibile il disegno di legge, che rappresenta una prima risposta alla drammatica escalation di femminicidi alla quale stiamo assistendo».

Il Presidente della Repubblica promulgava la legge il 24-11-2023; lo stesso giorno il testo veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

La celerità dell’approvazione, le ragioni su indicate e l’unanimità della votazione costituiscono chiari elementi di cui l’interprete deve tenere conto sia nell’esame del significato delle nuove norme, sia nella concreta attuazione.

Quanto, invece, alla ratio della legge, fin dall’epigrafe, con la medesima, per la prima volta il legislatore indica espressamente il contrasto alla violenza sulle donne (e non solo alla violenza di genere o domestica), prendendo atto del contenuto e delle finalità della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica, ratificata ai sensi della L. 77/2013. La legge in esame, finalmente, menziona direttamente la citata Convenzione.

La relazione di accompagnamento al disegno di legge di iniziativa governativa n. 1294, poi divenuto legge con alcune modifiche, indica con chiarezza l’obiettivo: «contrastare il fenomeno della violenza sulle donne e della violenza domestica, spesso declassata a semplice conflittualità, e il reiterarsi di episodi di violenza che possono degenerare in condotte più gravi, finanche in femminicidi; il disegno di legge si muove […] nel solco delle considerazioni rappresentate nella Relazione finale (Doc. XXIIbis, n. 15, della XVIII legislatura) della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere».

Conclusioni

Il contrasto alla violenza domestica ed in particolare sulla donna è – e deve restare – una priorità del Legislatore.

La violenza di genere, soprattutto in ambito domestico, come abbiamo innanzi annotato, continua a far rilevare dei dati allarmanti, nonostante la fine dell’emergenza pandemica e le novità introdotte dalla L. 69/2019 (cd. Codice Rosso). Infatti, continuano a essere tantissime le donne costrette a subire violenze di ogni genere, sia fisiche che psicologiche. Ogni condotta che mira ad annientare la donna nella sua identità e libertà, non soltanto fisicamente, ma anche nella sua dimensione psicologica, sociale e professionale, è una violenza di genere ed è su questa che si misura il grado di civiltà di una comunità. È necessaria una reazione di condanna forte e chiara. Non esiste tolleranza né giustificazione alcuna per le condotte che ledono i diritti delle donne e la consapevolezza condivisa della gravità del problema, come spesso succede nel campo dei comportamenti sociali, costituisce il presupposto indispensabile perché, davvero, si realizzi un concreto cambiamento.

A fronte di tale ineludibile esigenza, l’intervento normativo qui esaminato pone una specifica attenzione all’inasprimento del trattamento sanzionatorio e soprattutto cautelare, in linea con le esigenze pubbliche di sicurezza.

Vengono inoltre previste norme che, seppur prive di rilievo processuale, introducono una tempistica serrata nella valutazione del rilievo cautelare di vicende spesso nebulose, tempistica la cui violazione, seppur priva di alcun rilievo processuale, potrà determinare altre forme di responsabilità.

A fronte di tale esigenza securitaria, marcata invece è l’esigenza di una crescita culturale e sociale che passi dalle formazioni intermedie secondo quanto riportato nel preambolo della Convenzione di Istanbul:

  • riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne;
  • riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione;
  • riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

La legge in questione costituisce certamente un passo in avanti per il contrasto dell’odioso fenomeno di cui trattasi. Tuttavia, come ormai riconosciuto da tutte le parti politiche, è indispensabile anche un’operazione socio-culturale, lunga e difficile, che richiede l’intervento coordinato di tutti gli attori istituzionali. In primo luogo, dovrà essere potenziata ulteriormente con adeguati finanziamenti l’attività dei Centri Antiviolenza che sono in prima linea nel contrasto a tale fenomeno.

In conclusione, il fenomeno della violenza di genere ha nel nostro Paese consolidate radici culturali e psicologiche che potranno essere estirpate o quantomeno ridotte, solo con una forte azione sinergica posta in essere da parte di tutti i settori della società civile e che deve trovare il suo fulcro nelle scuole e, quindi, nella formazione dei nostri giovani.

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci, è una violazione dei diritti umani e dunque, come tale, si tratta di una battaglia non solo delle donne ma un impegno di tutti coloro, donne e uomini, che credono nell’eguaglianza, nei diritti della persona e nella democrazia.