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Assicurazione responsabilità civile e clausola claims made In tema di assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario è valida la clausola claims made che preveda l’ultrattività della polizza per un periodo inferiore a dieci anni?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made che non preveda un periodo di ultrattività decennale della polizza conforme alla previsione di cui all’ art. 11 L. 24/2017 non può essere dichiarata per ciò solo nulla, dovendosi piuttosto procedere a verificare se nel caso concreto, anche alla luce del rapporto tra rischio e premio, risulti effettivamente svuotare di ogni ragion pratica il contratto. – Cass., sez. III, 12 marzo 2024, n. 6490.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della compagnia di assicurazioni avverso la sentenza della Corte d’Appello che, dichiarata la nullità della clausola che limitava la validità della polizza al caso di richieste formulate entro dodici mesi dalla scadenza della stessa, l’ aveva sostituita con la clausola di ultrattività decennale di cui all’art. 11 L. 24/2017 in tema di responsabilità sanitaria.

I Giudici di legittimità ricordano a proposito che il potere di sostituzione della clausola claims made tratteggiato con la sentenza Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437 presuppone anzitutto un corretto accertamento della nullità contrattuale e poi una corretta individuazione del sostrato sostitutivo che realizzi un equo contemperamento delle posizioni dei contraenti.

Nel caso di specie, invece, il giudice a quo era intervenuto ravvisando un “buco di copertura” dovuto alla mancata previsione di una clausola di ultrattività decennale, senza ulteriormente motivare se la specifica conformazione della clausola di ultrattività annuale, riguardata alla luce del rapporto tra rischio e premio, svuotasse effettivamente di ogni ragion pratica il contratto.

In altri termini la Corte d’Appello aveva considerato la previsione contenuta nel secondo periodo dell’art. 11, della legge Gelli Bianco quale regola generale in tema di copertura assicurativa in ambito sanitario, sanzionando con la nullità la convenzione non aderente a detto paradigma.

La Suprema Corte censura il difetto di motivazione e l’omessa indagine in concreto in ordine all’idoneità della clausola a realizzare gli interessi delle parti.

Si tratta di un’omissione ancor più significativa se si considera che in altre sedi la clausola claims made con previsione di ultrattività annuale è stata ritenuta valida dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine, rileva che l’ultrattività decennale è prevista per la sola ipotesi della cessazione definitiva dell’attività professionale e che pertanto non costituisce un modello inderogabile in materia di assicurazioni sulla responsabilità civile del medico.

Contributo in tema di “Assicurazione della responsabilità civile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

multa zlt cassazione

Ztl: basta una multa Addio alle multe seriali per chi gira nella Ztl con permesso scaduto, per la Cassazione basta una sola multa

Cassazione: multe Ztl

Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono essere considerate come un’unica infrazione. Così la seconda sezione civile della Cassazione seconda nell’ordinanza n. 19680-2024.

La vicenda

La vicenda in esame origina dall’opposizione di un’automobilista avverso una cinquantina di verbali di violazione del Codice della Strada notificati in più tranches per aver circolato nella zona a traffico limitato sprovvista della prescritta autorizzazione, nell’arco di un paio di mesi.

La donna deduceva di essere incorsa in errore incolpevole, avendo – al momento della commissione delle diverse infrazioni – la convinzione di essere ancora titolare del permesso di circolare nella zona a traffico limitato, non avendo l’amministrazione comunale inviato alcuna comunicazione a distanza di circa due anni dal cambio di residenza dell’opponente, né avrebbe mai irrogato e notificato alcuna sanzione amministrativa prima di quelle oggetto di impugnazione.

Il Giudice di Pace, in parziale accoglimento dei ricorsi, annullava tutti i verbali tranne uno, determinando in euro 94,08 la somma da irrogare quale sanzione amministrativa pecuniaria. Il Comune proponeva appello e la donna si difendeva con appello incidentale.

Il giudice del gravame rigettava sia l’appello principale sia quello incidentale, confermando la sentenza del giudice di prime cure e l’amministrazione, a questo punto, adisce il Palazzaccio.

Il ricorso

Con l’unico motivo di ricorso il comune deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, comma 2, legge 24 novembre 1981; dell’art. 198 D.Lgs. n. 285/1992, in riferimento all’art 360 comma 1, n. 3) cod. proc. civ. ritenendo la sentenza in palese contrasto, innanzitutto, con i principi espressi dalla Corte di legittimità in tema di scusabilità dell’errore di fatto sulla condotta illecita: “la mera tolleranza, ovvero la mancanza di controlli, non è in alcun modo idonea a configurare la buona fede del trasgressore e ad escludere l’elemento soggettivo dell’illecito” (Cass. n. 657/1999).

In secondo luogo, pur avendo il giudice accertato che si tratta di una pluralità di condotte, a dire del comune, “ne ha erroneamente ed illogicamente dedotto la riconducibilità dell’aspetto colposo delle violazioni alla sola prima infrazione commessa in forza di un’improbabile unificazione delle singole condotte. Invece, la configurazione di tali illeciti come un tutt’uno presupporrebbe il loro inquadramento nella categoria giuridica del concorso formale, tuttavia espressamente escluso per le violazioni alla disciplina in tema di zona traffico limitato ed aree pedonali dall’art. 198, comma 2, CdS”.

La decisione della Cassazione

Per gli Ermellini, il Comune ha torto.

“Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma (art. 7, comma 9, CdS) relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge (nel caso che ci occupa: mancanza del permesso di accesso a ZTL) devono, semmai, essere considerate come un’unica infrazione in quanto reiterazioni del medesimo illecito amministrativo (reiterazione specifica), ai sensi della legge vigente ratione temporis (v. art. 8-bis legge n. 689/1981; l’art. 198-bis CdS avente analogo contenuto è entrato i vigore il 06.08.2022, dunque successivamente alla commissione delle infrazioni), stante la sostanziale omogeneità degli illeciti perpetrati, e avuto riguardo alla natura dei fatti che le costituiscono e alle modalità della condotta” affermano innanzitutto i giudici.

Inoltre, proseguono, “a mente del comma 5 dell’art. 8-bis menzionato: ‘Le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate, ai fini della reiterazione, quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria'”.

Per cui, la Cassazione rigetta il ricorso e conferma la soluzione adottata dal giudice di seconde cure laddove ritiene valido ed efficace un unico verbale di contestazione: “non si tratta, infatti, di escludere l’elemento soggettivo del trasgressore con riferimento alle violazioni successive (il che vale a rispondere alla prima delle censure elevate dal ricorrente), quanto piuttosto – in applicazione della disposizione citata – di elidere la valutazione delle violazioni amministrative successive alla prima (Cass. n. 2965 del 16.02.2016)”.

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Crisi rapporto coniugale e caratteri dei crediti I crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto coniugale possiedono tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Cass. S.U. 8 novembre 2022, n. 32914.

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si pronuncia sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, nel caso in cui una successiva decisione giudiziale modifichi le condizioni economiche già stabilite da una pregressa pronuncia.

Il ricorso è stato promosso avverso la decisione con cui la Corte d’Appello di Roma, nell’accogliere il ricorso incidentale promosso dall’ex marito, aveva condannato la moglie alla restituzione delle somme ricevute a titolo di assegno di mantenimento in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.

In particolare, con il quinto motivo di ricorso viene evidenziata la natura alimentare dell’assegno in questione, da cui deriverebbe l’irripetibilità delle somme previamente versate.

La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ricostruito il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento, hanno respinto il suddetto motivo di ricorso, confermando la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di mantenimento in virtù di provvedimenti provvisori del presidente del tribunale.

Dopo aver ricostruito i caratteri e le diverse funzioni dell’assegno di mantenimento in sede di separazione e di quello divorzile, i giudici di legittimità si soffermano sulla disciplina degli alimenti, chiarendo che tale obbligazione serve a soddisfare i bisogni essenziali alla persona per condurre una vita dignitosa.

In particolare, ne sono presupposti lo stato di bisogno del richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato.

La Suprema Corte rileva poi come si registri un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o divorziato o in favore dei figli, per effetto di provvedimenti provvisori poi modificati o per effetto di una sentenza di primo grado poi riformata.

Un primo orientamento, infatti, sostiene che la pronuncia, che riveda in diminuzione o escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello del giudice istruttore, non possa disporre per il passato, ma solo per il futuro.

Corollario di tale interpretazione è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace “ratione temporis”.

Nell’ambito di tale tesi, vi sono state alcune pronunce che hanno specificato che la retroattività della decisione relativa all’assegno di mantenimento può operare solo a favore del beneficiario.

Uno degli argomenti principali a sostegno di tale tesi è il riconoscimento del carattere alimentare delle somme corrisposte dall’ex coniuge a titolo di mantenimento.

Altra parte della giurisprudenza ammette invece la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, ma la esclude nel caso in cui l’ammontare dell’assegno, successivamente ridotto, sia tale da evidenziarne una funzione sostanzialmente alimentare.

Infine, vi è un’ultima impostazione che, sottolineando le differenze sul piano ontologico tra l’assegno di mantenimento e quello alimentare, esclude che il primo abbia gli stessi caratteri dell’obbligazione alimentare.

Nel comporre il suddetto contrasto interpretativo, le Sezioni Unite svolgono alcune preliminari considerazioni sula supposta natura “para-alimentare” dell’assegno divorzile e di quello stabilito in sede di separazione e, dopo aver evidenziato le differenze strutturali e funzionali sussistenti tra i suddetti assegni e l’obbligazione alimentare, evidenziano che tali assegni hanno in comune con l’obbligo di alimenti la finalità “assistenziale”.

Premesse tali considerazioni, i giudici di legittimità affrontano la questione della ripetibilità delle prestazioni alimentari, rilevando a tal proposito come non vi sia nel nostro ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno alimentare.

Pertanto, non vi sarebbero ostacoli nel ritenere sussistente l’obbligo di restituzione di somme versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme versate in base a un supposto e parzialmente esistente diritto al mantenimento.

Tuttavia, secondo i giudici della Suprema Corte, ragioni equitative e il principio di solidarietà umana e familiare giustificano l’apposizione di un temperamento alla regola della piena ripetibilità.

Si suppone, infatti, che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state utilizzate per far fronte alle essenziali esigenze di vita.

La soluzione interpretativa, affermata con la sentenza in commento, è volta a operare un bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza solidaristica di tutela del soggetto debole.

Ne deriva che, ove la sentenza di merito escluda in radice e “ab origine” il diritto al mantenimento, ovvero si addebiti la separazione al coniuge, che nelle more abbia ricevuto l’assegno, opererà l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Non sussiste invece il diritto alla ripetizione delle maggiori somme versate, laddove si proceda alla rivalutazione ex tunc delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto ovvero nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale venga ridotto. Tali considerazioni valgono purché l’assegno corrisposto non superi la misura necessaria a una persona media per far fronte alle normali esigenze di vita. Solo in tali casi si può infatti ritenere che la somma ricevuta sia stata consumata dal coniuge più debole nel periodo in cui è stata corrisposta per fini di sostentamento.

La soluzione adottata viene giustificata dalla Corte di Cassazione richiamando la tutela della solidarietà post-familiare sottesa a tutta la disciplina sulla crisi della famiglia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 maggio 2004, n. 10291; Cass. I, 20 marzo 2009, n. 6864
Difformi:      Cass. I, 25 giugno 2004, n. 11863; Cass. I, 12 giugno 2006, n. 13593;
Cass. I, 10 dicembre 2008, n. 28987
rettificazione sesso terzo genere

Rettificazione di sesso: sul “terzo genere” serve legge La Consulta dichiara inammissibili le questioni sul "terzo genere" mentre è irragionevole l'autorizzazione all'intervento chirurgico se la transizione è già compiuta

Rettificazione di sesso e genere non binario

Sulla rettificazione di sesso e il “terzo genere” serve l’intervento del legislatore. Con la sentenza n. 143-2024, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso.

La Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

Serve intervento del legislatore

Infatti, «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».

La sentenza sottolinea al riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).

La Corte rileva tuttavia che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».

«Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».

Autorizzazione al trattamento chirurgico

La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.

Il giudice delle leggi ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologicocomportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».

In tali casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto «non corrisponde più alla ratio legis».

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esdebitazione in cosa consiste

Esdebitazione: in cosa consiste L’esdebitazione nelle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento: in particolare, l’esdebitazione del debitore incapiente

Cosa si intende per esdebitazione

L’esdebitazione consiste nella cancellazione definitiva dei debiti ed è prevista come conseguenza del positivo esito delle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento.

La composizione delle crisi di sovraindebitamento, cioè di quelle situazioni in cui il debitore non è in grado di far fronte ai propri obblighi nei confronti dei creditori, è stata al centro di alcuni importanti interventi normativi degli ultimi anni, a cominciare dalla legge n. 3 del 2012, le cui disposizioni sono sostanzialmente confluite nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII).

Esdebitazione e procedure per il sovraindebitamento

In linea generale, le procedure in parola sono destinate ai piccoli imprenditori o ai consumatori, cioè a chi non esercita attività d’impresa. In altre parole, sono dedicate a quei soggetti che non possono accedere alla liquidazione giudiziale (una volta si definivano soggetti non fallibili, prima che il fallimento venisse sostituito normativamente dalla liquidazione giudiziale).

Legge 3 del 2012

Con la legge 3 del 2012, in particolare, furono introdotte tre diverse procedure di risoluzione della crisi: il piano del consumatore (oggi “ristrutturazione dei debiti del consumatore”, artt. 67 e segg. del CCII), l’accordo con i creditori (anche detto concordato minore) e la liquidazione del patrimonio.

Il primo è destinato solo al consumatore e prevede alcuni aspetti molto vantaggiosi per il debitore, a cominciare dal fatto che non vi è bisogno del consenso dei creditori per ottenere l’accesso alla procedura, ma solo del parere positivo del giudice, adito tramite l’intervento di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC).

Si tratta, in sostanza, di sottoporre al giudice una serie di documentazioni, che dimostrino la difficoltà del debitore ad adempiere ai propri obblighi, per richiedere l’approvazione di un piano di rientro.

Per i piccoli imprenditori è invece possibile proporre l’accordo con i creditori, che viene siglato se ottiene il consenso della maggioranza dei creditori.

Ovviamente queste procedure presentano un vantaggio anche per i creditori, poiché consentono loro di recuperare almeno una parte del credito, con procedure più snelle rispetto a quelle tradizionali esecutive.

Le esdebitazioni nel Codice della crisi

La terza procedura prevista è la liquidazione del patrimonio del debitore, attivabile in via alternativa alla proposta per la composizione della crisi, e alla quale può seguire l’esdebitazione (si tratta della c.d. liquidazione controllata ex art. 278 ss. del CCII, la cui disciplina discende da quella precedentemente prevista dalla legge 3 del 2012 in tema di liquidazione del patrimonio del debitore).

L’esdebitazione comporta la completa liberazione dai debiti, con conseguente inesigibilità di quelli  rimasti insoddisfatti all’esito della liquidazione.

L’esdebitazione conseguente alla liquidazione controllata è pronunciata con decreto dal tribunale, contestualmente alla dichiarazione di chiusura della procedura.

L’esdebitazione del debitore incapiente

Una particolare disciplina è dedicata all’esdebitazione del debitore incapiente, prevista in origine dall’art. 14-quaterdecies della legge 3/12 ed oggi contenuta nell’art. 283 del Codice della Crisi.

Come intuibile, tale soluzione può essere scelta da chi si trovi nelle condizioni di non poter offrire ai creditori alcuna utilità e che non abbia particolari prospettive di guadagno futuro.

L’esdebitazione del sovraindebitato incapiente può essere chiesta solo una volta nella vita, a condizione che il giudice consideri il soggetto meritevole, cioè ritenga che egli abbia assunto, a suo tempo, le obbligazioni usando l’ordinaria diligenza.

Cosa succede dopo esdebitazione

Ove rispettate tutte le condizioni di legge, il giudice concede con decreto l’esdebitazione al debitore incapiente, con l’unico obbligo per quest’ultimo di presentare una dichiarazione annuale, per quattro anni, in cui siano indicate le eventuali sopravvenienze attive. Se queste raggiungono almeno il dieci per cento dei crediti dovuti, vengono destinate al soddisfacimento dei creditori.

I creditori possono opporsi al decreto di esdebitazione, sollecitando il giudice ad una nuova decisione, contro la quale le parti possono proporre reclamo. In mancanza di opposizione, pertanto, e salvo gli obblighi connessi alla dichiarazione annuale di cui si è detto sopra, il soggetto richiedente è liberato da tutti i debiti.

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notifica ritardo ufficiale giudiziario

Notifica in ritardo: risponde l’ufficiale giudiziario Per il ritardo nella spedizione o nel recapito della notifica a mezzo posta, risponde solo l'ufficiale giudiziario e non anche l'agente postale

Notifiche a mezzo posta

Per il ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ex art. 1228 c.c. risponde solo l’ufficiale giudiziario e non anche l’agente postale che è mero ausiliario. Questo quanto si ricava dall’ordinanza della terza sezione civile della Cassazione n. 17892-2024.

La vicenda

Nella vicenda, un uomo si recava all’ufficio postale per ritirare 7 avvisi di ricevimento di atti giudiziari, per i quali si vedere chiedere il costo delle raccomandate CAD che l’ufficiale giudiziario aveva emesso essendovi tenuto ex lege. L’uomo rifiutava il pagamento e non ritirava gli avvisi e chiedeva e otteneva dal Giudice di Pace di Acri decreto ingiuntivo di consegna. La questione approdava in appello, a seguito di opposizione della società, e infine in Cassazione.

Innanzi agli Ermellini, il ricorrente lamentava che “erroneamente il giudice di appello non ha considerato che in caso di notifica di atto giudiziario l’ufficiale postale è un mero ausiliario dell’ufficiale giudiziario, sicché il rapporto si instaura unicamente tra l’avvocato richiedente la notifica e l’Ufficio UNEP, che effettua il servizio di notifica e, ove non effettui la notifica a mani, può ricorrere alla notifica a mezzo posta”.

Agente postale ausiliario dell’ufficiale giudiziario

Per il Palazzaccio, il motivo è fondato e va accolto.

Come ha avuto già modo di affermare la giurisprudenza, infatti, scrivono i giudici, “l’agente postale è un ausiliario dell’ufficiale giudiziario (v. Cass., 18/2/2015, n. 3263), e pertanto, “in tema di notificazioni a mezzo posta, li relativo servizio si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l’ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell’agente postale, nell’ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue che, in caso di ritardo nella consegna dell’avviso di ricevimento relativo alla notifica di atti giudiziari effettuati a mezzo posta, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., esclusivamente l’ufficiale giudiziario, non anche l’agente postale del quale costui si avvalga” (così Cass., 12/02/2018, n. 3292; Cass., 24/11/2021, ท. 36505).

Tale principio è stato esplicitamente confermato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 477/2002; Corte Cost., n. 28/2004), proseguono dalla S.C. che, “nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma 3, legge n. 890 del 1982 (notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona – per il notificante – alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, ha appunto affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari – quale appunto l’agente postale – sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo”.

In altri termini, il rapporto obbligatorio si instaura tra “il richiedente la notifica e l’ufficiale giudiziario, mentre l’agente postale è un semplice ausiliario cui può far ricorso l’ufficiale giudiziario incaricato della notificazione”.

Risulta pertanto evidente che “tra l’ufficiale giudiziario e l’agente postale intercorre un rapporto obbligatorio, sulla cui base l’agente postale, in qualità di ausiliario, adempie al suo incarico, ed è all’ufficiale giudiziario che l’agente postale deve rispondere.  L’art. 6 L. n. 890 del 1982 conferma l’indicata ricostruzione, in quanto prevede che il pagamento della indennità per lo smarrimento dei pieghi ‘è effettuato all’ufficiale giudiziario’, il quale ne corrisponde l’importo ‘alla parte che ha richiesto la notificazione dell’atto, facendosene rilasciare ricevuta’.

La decisione

Per cui, “nei confronti dei terzi (tra i quali è compreso ovviamente il richiedente la notificazione), in caso di ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 1228 del codice civile risponde pertanto solo l’ufficiale giudiziario che dell’agente postale si è avvalso quale ausiliario”.

In sostanza, la chiara dizione contenuta nelle norme di cui alla legge n. 890/1982 consente di dare questa spiegazione: “il servizio di notificazione si basa su di un mandato ex lege tra l’avvocato che richiede la notificazione e l’ufficio notifiche che presta il servizio”.

In definitiva, il ricorso è accolto.

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misure protettive cautelari crisi impresa

Misure protettive e cautelari nella composizione negoziata della crisi d’impresa Quali sono le misure protettive e cautelari previste dal legislatore nel "percorso" della composizione negoziata della crisi d'impresa

La composizione negoziata della crisi d’impresa

Nell’ambito del “percorso” della composizione negoziata [1] il legislatore ha previsto, come accade per il procedimento (recte: i procedimenti) volto (i) all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza o all’apertura di una procedura d’insolvenza, le misure protettive e cautelari.

Esse non differiscono, rispetto a quelle previste nell’ambito di queste ultime, sotto il profilo definitorio, occorrendo pur sempre fare riferimento all’art. 2 CCI, ma notevoli sono le differenze sotto il profilo sostanziale e processuale.

Le misure protettive

Quanto alle misure protettive, nell’ambito della composizione negoziata esse assolvono al compito di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento.

Ciò avendo a mente, la prima attività che si impone consiste nell’individuarle e nel qualificarle.

Ai sensi dell’art. 18, comma 1, CCI, “l’imprenditore può chiedere, con l’istanza di nomina dell’esperto o con successiva istanza presentata con le modalità di cui all’art. 17, comma 1, l’applicazione di misure protettive del patrimonio”, fermo restando che queste ultime non possono incidere sui diritti di credito dei lavoratori. In tal caso, dal giorno in cui è pubblicata l’istanza nel registro delle imprese “[…] i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore né possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa”.

L’art. 19 CCI, invece, dispone che dette misure, le quali iniziano ad operare automaticamente, debbono essere poi confermate o modificate dal tribunale competente su richiesta dello stesso imprenditore, la quale va avanzata con ricorso da depositarsi “[…] entro il giorno successivo alla pubblicazione dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto […]”, pena la loro inefficacia.

Si tratta, dunque, in analogia con quanto disposto dall’art. 54 CCI, di misure cc.dd. “semi-automatiche” [2], in quanto “scattano” automaticamente ma per conservare i propri effetti richiedono un provvedimento del giudice [3]. Ciò sebbene il riferimento ad una “istanza” con cui si chiede la loro applicazione faccia pensare ad una preventiva valutazione giudiziale, la quale, invece, è, giova ribadire, richiesta solo per la conferma o la modifica [4].

A differenza di quanto statuito dall’art. 54 citato, invece, non è previsto che “[…] le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano”, mentre è contemplato il divieto di acquisire diritti di prelazione non concordati, misura c.d. “automatica” non presente nel suddetto articolo.

Le misure “selettive”

Il comma 3 dell’art. 18 CCI, poi, dispone che l’imprenditore può chiedere ab initio che l’applicazione delle misure protettive sia limitata a determinate iniziative intraprese dai creditori oppure a determinati creditori o categorie di creditori. Si tratta delle cc.dd. misure “selettive”, ossia limitate a determinati procedimenti esecutivi e cautelari, a determinati creditori oppure a determinati beni [5].

A differenza di quanto accade per le misure protettive collocate nella cornice del procedimento unitario, la “selezione” è operabile sia dall’imprenditore, con il ricorso, sia ex post dal tribunale, in quanto, ai sensi dell’art. 19, comma 4, CCI, il giudice, in sede di conferma, sentito l’esperto, “[…] può limitare le misure a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori”. Ai sensi dell’art. 54 CCI, invece, le misure iniziali sono sempre erga omnes e le misure cc.dd. “selettive” sono solo “ulteriori”, nel senso che non possono essere chieste con la domanda ex artt. 40 o 44 CCI ma soltanto successivamente; inoltre, in sede di conferma il tribunale non può calibrarle in relazione al caso concreto. Ancora, sempre ai sensi dell’art. 54 CCI, le misure “ulteriori” sono “atipiche”, mentre nell’ambito della composizione negoziata la “selezione” opera pur sempre con riferimento alla misura “tipica” del blocco delle azioni esecutive e cautelari.

Quest’ultimo non impedisce eventuali pagamenti spontanei compiuti dall’imprenditore a favore dei creditori e ciò, ancora una volta, a differenza di quanto disposto dall’art. 54 CCI, che tace al riguardo [6].

I creditori nei cui confronti operano le misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori e possono solo sospendere l’adempimento dei contratti pendenti dalla pubblicazione dell’istanza di concessione fino alla conferma delle misure richieste.

Misura protettiva “automatica”

Anche in tale ipotesi viene in rilievo una misura c.d. “automatica” e vi è una differenza rispetto al “sistema” di cui all’art. 54 CCI, atteso che analoga disposizione non è ivi contenuta, essendo posta nell’ambito delle norme dedicate agli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

In analogia rispetto a quanto previsto dal comma secondo dell’art. 54 CCI, fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata della crisi non può essere pronunciata la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza [7]: si tratta di una misura protettiva [8] cc.dd. “automatica”, in quanto produce effetti a prescindere dalla domanda dell’imprenditore.

Ciò non sembra escludere che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale possa essere avanzata, ma pare vietare solo che la procedura sia aperta, il che pone il problema della sorte di tale domanda. Sembra doversi ritenere che la stessa rimanga “temporaneamente improcedibile”, in quanto può essere esaminata dal tribunale qualora vengano meno le misure protettive, vale a dire in ipotesi di revoca (art. 18, comma 4, CCI), di cessazione dei loro effetti (art. 19, comma 8, CCI), di pronuncia del decreto di inammissibilità del ricorso (art. 19, comma 3, CCI), della scadenza del termine massimo di durata (art. 19, comma 5, CCI) e della conclusione negativa del procedimento di composizione negoziata senza che vi sia il transito verso altro strumento che consenta di ottenere una ulteriore protezione del patrimonio.

L’art. 20 CCI completa il quadro delle misure protettive connesse alla composizione negoziata della crisi disponendo che l’imprenditore può anche dichiarare – sempre al fine di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento del suo squilibrio patrimoniale o economico-finanziario – che, dalla pubblicazione dell’istanza riguardante le misure protettive e fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata, non si applicano nei suoi confronti gli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, 2482bis, commi 4, 5 e 6, e 2482-ter del codice civile, né la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale, di cui agli artt. 2484, comma 1, n. 4, e 2545duodecies cod. civ. [9]. Si tratta di una ulteriore misura protettiva c.d. “automatica” che del pari non è prevista dall’art. 54 CCI, ma da singole norme dedicate ai diversi strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

Da quanto esposto si evince che le misure protettive nell’ambito della composizione negoziata sono tutte “tipiche” [10], ivi compreso quelle cc.dd. “selettive”, e sono concesse sempre al fine di favorire il raggiungimento degli obiettivi di risanamento.

Le misure cautelari

Quanto alle misure cautelari, l’art. 19 CCI statuisce che, con il medesimo ricorso con cui si domanda la conferma delle misure protettive, l’imprenditore può chiedere “l’adozione dei provvedimenti cautelari necessari per condurre a termine le trattative”.

Anche in tal caso è evidente la differenza con la cautela accordata dall’art. 54 CCI: mentre le misure cautelari previste da tale articolo sono funzionali ad assicurare il conseguimento degli effetti delle sentenze di omologazione o di apertura della liquidazione giudiziale, quelle collegate alla composizione negoziata sono funzionali a garantire il buon esito delle trattative per il risanamento dell’impresa.

Di qui due ulteriori differenze: per un verso, detti provvedimenti possono essere richiesti solo dal debitore, non dai creditori, e solo contestualmente [11] all’istanza di conferma o modifica delle misure protettive precedentemente “scattate”; per altro verso, si tratta di provvedimenti che, sebbene definiti cautelari, rispondono, nella sostanza, alla stessa finalità delle misure protettive, in quanto non si rinviene la tradizionale strumentalità al diritto da tutelare in sede di merito tipica dei provvedimenti cautelari poiché nella procedura di composizione negoziata manca del tutto il giudizio di merito nel quale il diritto inciso dal provvedimento verrà tutelato.

Siccome l’unica strumentalità è con il risanamento [12], mutano anche i canoni valutativi dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora connessi all’esercizio dell’azione cautelare: il primo va evidenziato in relazione all’obiettivo del risanamento ed il secondo in relazione ai possibili pregiudizi che tale obiettivo subirebbe qualora le misure cautelari richieste non venissero adottate [13].

Quanto al contenuto, occorre tenere conto del fatto che:

  • come si è detto, l’art. 18 CCI vieta ai creditori nei cui confronti operano le misure protettive di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o di modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei debiti anteriori, fermo restando che è possibile la sospensione del rapporto sino alla conferma della misura protettiva;
  • l’art. 16, comma 4, CCI esclude che l’accesso alla composizione negoziata sia causa di sospensione o revoca degli affidamenti bancari, salvo che tali decisioni dipendano da ragioni connesse con l’attuazione dei principi di vigilanza prudenziale cui le banche sono soggette.

Pertanto, non dovrebbe rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 18, comma 5, CCI, la possibilità di imporre di proseguire un rapporto contrattuale ormai cessato per il decorso del suo naturale termine, in quanto tale norma si riferisce ai rapporti pendenti sino alla loro naturale scadenza [14]. Diversamente opinando, infatti, si imporrebbe un facere avente ad oggetto l’instaurazione di una nuova relazione giuridica, per cui la misura cautelare consentirebbe un esito che non sarebbe raggiungibile nemmeno in via contenziosa e non rappresenterebbe neppure un’anticipazione dell’eventuale percorso di ristrutturazione.

Dovrebbe ritenersi, invece, ammissibile la sospensione di contratti bancari di affidamento e di finanziamento “su fatture” con divieto per gli istituti di credito di estinguere, in qualsiasi forma contrattuale prevista, la propria posizione creditoria [15]. Ai sensi dell’art. 97 CCI, infatti, nel contratto di finanziamento bancario costituisce prestazione principale anche la riscossione diretta da parte del finanziatore nei confronti dei terzi debitori della parte finanziata, per cui è possibile lo scioglimento e la sospensione del contratto, fermo restando che, in caso di scioglimento, il finanziatore ha diritto di riscuotere e trattenere le somme corrisposte dai terzi debitori fino al rimborso integrale delle anticipazioni effettuate nel periodo compreso tra i centoventi giorni antecedenti il deposito della domanda di accesso di cui all’art. 40 CCI e la notificazione al contraente in bonis del provvedimento del tribunale che autorizza lo scioglimento. Ne consegue che la misura cautelare anticipa un effetto previsto da una norma.

Potrebbe ritenersi ammissibile anche la sospensione dei pagamenti in favore di creditori strategici e delle banche non disposti a trattare o ad addivenire a soluzioni concordate della crisi in sede di composizione negoziata, al fine di garantire i flussi di liquidità necessari per il risanamento aziendale, a condizione, però, che il dissenso sia “compensato” dal fatto che gli altri soggetti che detengono la maggioranza dei crediti non abbiano esplicitamente negato la disponibilità a trattare e sussistano i presupposti per il risanamento. In tal caso pare applicabile il citato art. 18 CCI che vieta la risoluzione del rapporto per il solo fatto dell’inadempimento e dunque la cautela è strumentale al buon fine delle trattative con gli altri creditori ed alla prosecuzione dell’attività aziendale.

Un problema si pone allorché sia stata avanzata domanda di apertura della liquidazione giudiziale con richiesta di provvedimenti cautelari: non è chiaro, infatti, se il tribunale possa esaminare la domanda cautelare. Sembra, tuttavia, doversi escludere questa possibilità, in quanto, come si è visto, opera il divieto di aprire la liquidazione giudiziale: le misure cautelari chieste nel procedimento che porta all’apertura di detta procedura hanno la finalità di salvaguardare il patrimonio dell’imprenditore in attesa della pronuncia della sentenza, la quale, però, non può essere pronunciata [16]. Inoltre, è evidente che la domanda del debitore relativa alle misure protettive finisce per paralizzare quella del creditore: una volta operante il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, infatti, detta domanda non pare esaminabile, tanto è vero che l’art. 54, comma 2, CCI, dispone che “le misure cautelari possono essere concesse anche dopo la pubblicazione dell’istanza di cui all’art. 18, comma 1, tenuto conto dello stato delle trattative e delle misure eventualmente già concesse o confermate ai sensi dell’art. 19”.

Analogo problema si pone quando le misure cautelari siano già state concesse ed attuate in seno al procedimento unitario: in questo caso la sopravvenuta istanza di ammissione alla composizione negoziata non comporta di per sé l’inefficacia delle misure cautelari già attuate, per cui esse sopravvivono, in quanto l’art. 54, comma 2, CCI citato fa riferimento solo a misure di tale natura non ancora concesse. L’unica soluzione, allora, è quella di ritenere che gli effetti di quelle concesse ed attuate possano solo essere sospesi, al fine di consentire il conseguimento dell’obiettivo del risanamento.

Nulla dice il codice sulla cessazione degli effetti delle misure cautelari, ma la strumentalità correlata alla composizione negoziata della crisi induce a ritenere che essi vengano meno con la cessazione della stessa procedura o con la sua archiviazione, come accade per le misure protettive, così come espressamente stabilito per quanto attiene all’inibizione della pronuncia della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza. Fermo restando, ovviamente, la revoca o la riduzione di durata “[…] quando esse non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti”.

I procedimenti

Il procedimento per la conferma, la revoca o la modifica delle misure protettive e cautelari necessarie per condurre a termine le trattative è, a differenza di quanto stabilito dall’art. 55 CCI, che distingue fra le due misure, identico.

Il comma terzo dell’art. 19 CCI dispone che il tribunale provvede in composizione monocratica e con ordinanza, comunicata dalla cancelleria al registro delle imprese entro il giorno successivo.

Ai sensi del comma 7 dell’art. 19 CCI, i procedimenti relativi alla concessione, revoca e modifica delle misure protettive e cautelari si svolgono “[…] nella forma prevista dagli artt. 669bis e seguenti del codice di procedura civile […]”: è chiara, dunque, la scelta di adottare il modello generale dei procedimenti cautelari, sempre che, ovviamente, per aspetti peculiari del singolo procedimento, non trovino applicazione regole speciali dettate dal codice.

Il quadro che ne esce è un rinvio a dette norme con il limite della compatibilità, come dimostrato dal fatto che lo stesso comma settimo citato dispone che “non si applicano l’art. 669octies, primo, secondo e terzo comma, e l’art. 669novies, primo comma, del codice di procedura civile”.

Quanto al procedimento “iniziale”, l’imprenditore deve depositare il ricorso diretto ad ottenere la conferma o la modifica delle misure protettive entro il giorno successivo rispetto a quello in cui ha formulato la richiesta di ammissione alla composizione negoziata e con lo stesso ricorso può anche richiedere la pronuncia di provvedimenti cautelari. La sanzione per il mancato deposito nel termine stabilito del ricorso è l’inefficacia delle misure protettive, che va dichiarata inaudita altera parte, ossia senza fissare alcuna udienza.

Entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’istanza l’imprenditore deve chiedere pure la pubblicazione nel registro delle imprese del numero di ruolo generale del procedimento instaurato e, siccome decorso tale termine “[…] l’iscrizione dell’istanza è cancellata dal registro delle imprese”, pare che la stessa sanzione sia prevista per la tardiva iscrizione a ruolo del ricorso, sebbene l’art. 19, comma 3, CCI la commini espressamente solo nell’ipotesi in cui il tribunale verifica che esso non è stato depositato nel termine previsto.

La documentazione

Insieme al ricorso, l’imprenditore deve depositare:

  • i bilanci degli ultimi tre esercizi oppure, quando non è tenuto al deposito dei bilanci, le dichiarazioni dei redditi e dell’IVA degli ultimi tre periodi di imposta;
  • una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima del deposito del ricorso;
  • l’elenco dei creditori, individuando i primi dieci per ammontare, con indicazione dei relativi indirizzi di posta elettronica certificata, se disponibili, oppure degli indirizzi di posta elettronica non certificata per i quali sia verificata o verificabile la titolarità della singola casella;
  • un progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo di cui all’art. 13, comma 2, CCI, un piano finanziario per i successivi sei mesi e un prospetto delle iniziative che intende adottare;
  • una dichiarazione avente valore di autocertificazione attestante, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, che l’impresa può essere risanata;
  • l’accettazione dell’esperto nominato ai sensi dell’art. 13, commi 6, 7 e 8, CCI con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata.

Si tratta di documentazione che assolve al compito di consentire al tribunale di verificare [17]:

  • la pendenza della procedura di composizione negoziata;
  • la ricorrenza della condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario dell’imprenditore, che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, ossia del presupposto per l’accesso alla procedura di composizione negoziata;
  • la serietà dell’iniziativa;
  • i creditori coinvolti nelle trattative e potenzialmente incisi dalle misure protettive.

Poiché si tratta di documentazione essenziale, il suo mancato deposito è da ritenersi sanzionato con l’inammissibilità della domanda, salvo che non si ritenga ammissibile la concessione di un termine per integrarla [18].

La procedura

A seguito del deposito del ricorso, il tribunale deve, entro dieci giorni ed a pena di cessazione degli effetti protettivi prodotti [19], fissare con decreto l’udienza, indicando le modalità con le quali detto decreto ed il ricorso vanno notificati, oltre che all’esperto, ai creditori ed ai terzi interessati.

Questi ultimi due pare non siano tutti i creditori e tutti i terzi potenzialmente interessati alla composizione negoziata, bensì solo quelli incisi dagli effetti delle misure protettive cautelari. Si tratta, in buona sostanza, di soggetti – da indicarsi ovviamente nel ricorso introduttivo – che vanno individuati [20]:

  • nei creditori che abbiano già esercitato l’azione esecutiva, ne abbiano annunciato l’esercizio con la notificazione del precetto o siano intervenuti nel processo esecutivo pendente;
  • nei creditori che abbiano esercitato l’azione cautelare per instaurare un processo cautelare ancora pendente o che abbiano già ottenuto un provvedimento cautelare ancora efficace;
  • nei terzi i cui diritti siano incisi dalle misure protettive.

All’udienza fissata, il tribunale, sentite le parti e chiamato l’esperto a esprimere il proprio parere sulla funzionalità delle misure richieste ad assicurare il buon esito delle trattative [21], omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nomina, se occorre, un ausiliario ai sensi dell’art. 68 cod. proc. civ e provvede agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai provvedimenti cautelari richiesti o ai provvedimenti di conferma o modifica delle misure protettive.

Sembra dedursene che in questa fase non vi sia spazio per l’emissione di provvedimenti cautelari inaudita altera parte, anche perché si prevede espressamente che il tribunale pronuncia ordinanza – con la quale viene stabilita anche la durata, non inferiore a trenta giorni e non superiore a centoventi giorni, delle misure protettive e, se occorre, dei provvedimenti cautelari disposti – reclamabile solo ai sensi dell’art. 669terdecies cod. proc. civ.

L’ausiliario in questione non è una figura analoga al commissario giudiziale del concordato preventivo; piuttosto, è assimilabile al consulente tecnico, ossia è un soggetto che il tribunale può nominare per farsi assistere nel compimento di atti istruttori che non è in condizione di compiere da solo. Come correttamente osservato in dottrina, “[…] si tratterà, nella maggior parte di casi, di un consulente contabile, al quale il giudice affiderà la valutazione della documentazione esibita dal ricorrente, e di quella che il consulente stesso riterrà utile acquisire nel corso delle operazioni peritali, siccome strettamente funzionale allo svolgimento dell’incarico a lui affidato[22].

L’art. 19 CCI, che pure impone al giudice di fissare l’udienza entro dieci giorni, tace circa il tempo entro il quale essa deve essere fissata. È evidente, tuttavia, che, tenuto conto della delicatezza degli interessi “in gioco” e del fatto che l’efficacia temporale minima delle misure protettive è di trenta giorni, l’udienza debba essere fissata in tempi assai brevi. Un riferimento potrebbe essere ai quindici giorni previsti dall’art. 669sexies, comma 2, cod. proc. civ. per l’udienza di convalida del decreto cautelare emesso inaudita altera parte [23].

Il procedimento di conferma delle misure protettive o di concessione di quelle cautelari si conclude, come si è anticipato, con ordinanza, la quale deve stabilire la durata, non inferiore a trenta e non superiore a centoventi giorni, delle misure protettive e, se occorre, dei provvedimenti cautelari disposti. Come del pari si è detto, con detta ordinanza, su richiesta dell’imprenditore e sentito l’esperto, le misure possono essere limitate a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori.

L’ordinanza che accoglie il ricorso è suscettibile di essere revocata o modificata. Più in particolare:

  • su istanza delle parti ed acquisito il parere dell’esperto, può essere prorogata la durata delle misure disposte per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative, fermo rimanendo che la durata complessiva delle misure non può superare i duecentoquaranta giorni;
  • su istanza dell’imprenditore, di uno o più creditori o su segnalazione dell’esperto, il tribunale può, in qualunque momento, sentite le parti interessate, revocare le misure protettive e cautelari, o abbreviarne la durata, quando esse non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti.

Quanto alla revoca delle misure, l’art. 19, comma 6, CCI dispone unicamente che il giudice decide “[…] sentite le parti […]”, per cui non è chiaro quale sia l’attività da porre in essere per pervenire a tale pronuncia. Non resta, allora, che applicare anche in questo caso, siccome compatibile, la disciplina processuale prevista per la conferma.

Quanto alla proroga, invece, pare che il giudice non debba instaurare alcun contraddittorio: l’art. 19, comma 5, CCI, infatti, dispone che “il giudice che ha emesso i provvedimenti di cui al comma 4, su istanza delle parti e acquisito il parere dell’esperto, può prorogare la durata delle misure disposte per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative”.

Purtuttavia potrebbe anche ritenersi che ciò sia necessario qualora l’istanza non provenga da tutte le parti interessate e che questa sia l’unica ipotesi in cui è, attesa l’assoluta urgenza nel provvedere, ipotizzabile l’emissione di un provvedimento inaudita altera parte: se nell’analoga ipotesi di cui all’art. 55, comma 4, CCI (ai sensi del quale il tribunale provvede su istanza “[…] del debitore o di un creditore […]”), il collegio decide senza fissare l’udienza perché è sufficiente ad “attivare” il suo potere decisorio anche l’istanza del solo debitore, o comunque di una sola parte, il riferimento generico alle “parti” operato dall’art. 19 citato potrebbe non consente altrettanto, in quanto esso potrebbe inteso a “tutte le parti interessate dalle misure”; di conseguenza, andrebbe fissata l’udienza secondo le modalità già viste. Purtuttavia, poiché il comma settimo dell’art. 19 CCI rinvia alle forme previste dagli artt. 669bis e ss. cod. proc. civ., potrebbe anche ritenersi applicabile l’art. 669sexies cod. proc. civ., il quale consente al giudice di provvedere inaudita altera parte qualora “[…] la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento […]”.

Tutti i provvedimenti di cui si è discusso sono reclamabili davanti al collegio nelle forme dell’art. 669terdecies cod. proc. civ., senza possibilità di ricorrere in Cassazione, atteso il loro carattere provvisorio, comunque non idoneo alla formazione del giudicato sostanziale [24].

Dovrebbe altresì essere riconosciuta all’imprenditore la facoltà di rivolgersi al collegio nelle medesime forme anche nell’ipotesi di implicito rigetto del ricorso per mancata fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dal deposito, fermo rimanendo che, in concreto, potrebbe essere più rapido (ed utile) ripresentare l’istanza ed il ricorso, sollecitando nuovamente il tribunale a dare ingresso al giudizio.

Quanto alle valutazioni del tribunale [25], potrebbe ritenersi che, essendo il procedimento di composizione negoziata puramente privatistico, il giudice debba verificare unicamente l’attitudine delle misure protettive di cui si chiede la conferma e/o dei provvedimenti cautelari che si chiede di disporre a perseguire astrattamente la funzione cui essi sono preordinati (proteggere le trattative e presidiarne il buon esito) e l’assenza di pregiudizi ingiustificati a carico dei creditori e dei terzi.

Potrebbe anche sostenersi, però, che il tribunale debba valutare pure, da un lato, la concreta possibilità che le misure protettive ed i provvedimenti cautelari servano allo scopo di preservare il patrimonio e favorire le trattative e, dall’altro lato, il concreto pregiudizio che, a seguito dell’applicazione delle misure, potrebbero subire i creditori ed i terzi [26].

Premesso che si tratta di valutazioni di carattere sommario che non possono essere nemmeno paragonabili alla valutazione di fattibilità da porsi in essere nell’ambito del concordato preventivo [27] – in quanto, in assenza di un piano definitivo e della connessa attestazione, difetterebbero molti dei dati da porre a sostegno di quel giudizio – proprio questo approccio sembra preferibile, “[…] a meno di non voler predicare un inopinato, progressivo distacco della giurisdizione concorsuale dalla realtà della crisi d’impresa[28].

Se così è, quanto alle misure protettive, il tribunale deve verificare la concreta prospettiva di risanamento sulla base del progetto di piano che l’imprenditore deve produrre: esso deve delineare quantomeno l’obiettivo di fondo che si intende perseguire, nonché le linee principali degli interventi che l’impresa intende assumere, ed il giudice deve accertare che detta prospettiva non appaia manifestamente irrealizzabile e che la stessa non sia fondata su dati inconsistenti [29]. Insomma, il progetto deve consentire al giudice di ritenerlo quantomeno verosimile e coerente con il risanamento: in mancanza di tale requisito, infatti, il debitore può e deve utilizzare altri strumenti (ad esempio: concordato preventivo o accordi di ristrutturazione) e beneficiare della protezione del patrimonio prevista da altre norme del codice [30].

Il giudice, inoltre, deve operare una comparazione dei diversi interessi “in gioco” – ossia quello del debitore ad ottenere la protezione del proprio patrimonio nel corso delle trattative e quello dei creditori ad agire per la soddisfazione del proprio credito – e verificare che la conferma non arrechi eccessivo pregiudizio ai secondi [31].

Ne consegue, allora, che, con riferimento alle misure protettive, la valutazione del giudice non coincide affatto con quella dell’esperto: mentre il parere di quest’ultimo attiene alla funzionalità delle misure rispetto allo svolgimento ed alla prosecuzione delle trattative, il controllo giudiziale attiene non solo a questo aspetto, ma pure alla probabilità di risanamento ed alla tutela degli interessi delle parti.

 

*Contributo estratto dal “Manuale del diritto e della crisi e del risanamento di impresa”, di Antonio Caiafa e Andrea Petteruti, Dike Giuridica, 2023

[1] Pagni-Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), in Dir. crisi, 11/21, 4.

[2] Così Tribunale Milano, 27 gennaio 2022, in www.dirittodellacrisi.it, il quale evidenzia pure che i processi esecutivi pendenti entrano in uno stato di quiescenza in funzione dello svolgimento delle trattative della composizione negoziata.

[3] Ambrosini, La “miniriforma del 2021: rinvio (parziale) del CCI, composizione negoziata e concordato semplificato, in Dir. fall., 2021, I, 919 segg.; Id., La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in www.ristrutturazioniaziendali.it; Costantino, Le “misure cautelari e protettive. Note a prima lettura degli artt. 6 e 7, D.L. 118/2021, in www.inexecutivis.it; Platania, Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c., in www.ilfallimentarista.it; Bottai, La composizione negoziata di cui al D.L. 118/2021: svolgimento e conclusione delle trattative, ivi; Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari a presidio della composizione negoziata della crisi: profili processuali, in www.dirittodellacrisi.it, 2022; Pagni-Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), cit.; Leuzzi, Allerta e composizione negoziata nel sistema concorsuale ridisegnato dal D.L. 118/2021, ivi; De Santis, Le misure protettive e cautelari nella soluzione negoziata della crisi d’impresa, in Fall., 2021, 1536 e segg.; Montanari, Il procedimento relativo alle misure protettive e cautelari nel sistema della composizione negoziata della crisi d’impresa: brevi notazioni, in www.ristrutturazioniaziendali.it; Didone, Appunti su misure protettive e cautelari nel D.L. 118/2021, ivi; D’Alonzo, La composizione negoziata della crisi e l’interferenza delle misure protettive nelle procedure esecutive individuali, in Riv. es. forz., 2021, 874 e segg.; Panzani, La composizione negoziata alla luce della Direttiva Insolvency, in www.ristrutturazioniaziendali.it.

[4] Tribunale Brescia, 2 dicembre 2021, in www.ilfallimentarista.it, con nota di Cesare, La prima decisione sulle misure protettive: per la convalida occorrono pubblicazione e accettazione; Tribunale Milano, 17 gennaio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Ferrara, 21 marzo 2022, ivi.

[5] Tribunale Torino, 23 febbraio 2022, in www.ilcaso.it, ad esempio, ha ritenuto ammissibile l’esclusione di una specifica procedura esecutiva nell’ambito della quale il trasferimento dell’immobile aggiudicato risultava conveniente e comunque non idoneo a pregiudicare le ragioni dei creditori nell’ambito di un eventuale riparto in sede concorsuale.

[6] Panzani, Il D.L. “Pagni ovvero la lezione (positiva) del covid, in www.dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2021, afferma che “il legislatore non ha vietato i pagamenti in considerazione del fatto che tale divieto, che caratterizza ordinariamente la sospensione delle azioni esecutive e che è diretta conseguenza dell’applicazione del regime della par condicio, non avrebbe senso in questo caso, dove il debitore conserva tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione ed è in bonis […]”.

[7] La disposizione recepisce quanto stabilito dalla Direttiva UE 2019/1023, il cui par. 2, art. 7, prevede espressamente che “la sospensione delle azioni esecutive individuali […] sospende, per la durata della sospensione, l’apertura, su richiesta di uno o più creditori, di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore”. Purtuttavia, mentre la normativa europea inibisce il procedimento che porta all’apertura, il codice limita l’inibizione alla pronuncia della sentenza, consentendo, invece, l’apertura del relativo procedimento.

[8] In tal senso Carratta, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, in www.ristrutturazioniaziendali.it, 18 maggio 2022. In giurisprudenza, Tribunale Palermo, 29 novembre 2021, in www.ilcaso.it; Tribunale Brescia, 2 dicembre 2021, ivi; Tribunale Roma, 3 febbraio 2022, ivi, per il quale il divieto di pronunciare sentenza di fallimento “[…] costituisce un effetto di legge […] che non presuppone, né richiede, la conferma o la modifica della misura da parte del giudice”.

[9] Si tratta di una misura protettiva per Didone, Appunti su misure protettive e cautelari, cit. Platania, Composizione negoziata, cit.; Bottai, La composizione negoziata, cit., 10. Contra, De Santis, Le misure protettive e cautelari, cit., 1539; Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 10; Montanari, Il procedimento, cit., 3.

[10] Montanari, Il procedimento relativo alle misure protettive e cautelari nel sistema della composizione negoziata della crisi d’impresa: brevi notazioni, cit.; Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari, cit.; Tedoldi, Le misure protettive e cautelari nella composizione negoziata della crisi, cit., 360; Lamanna, Composizione negoziata e nuove misure per la crisi di impresa, cit., 25. Prima dell’entrata in vigore del codice, non mancavano, tuttavia, opinioni contrarie (Platania, Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c., in www.ilfallimentarista.it, 7 ottobre 2021, 5; Leuzzi, Una rapida lettura dello schema del D.L. recante misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale, in www.dirittodellacrisi.it, 5 agosto 2021, 5).

[11] È da escludersi, perciò, la possibilità di una richiesta successiva per Tribunale Ivrea, 10 febbraio 2022, in www.ilcaso.it.

[12] In questo senso anche Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 12.

[13] Per Costantino, Le “misure cautelari e protettive”, cit., 6, gli esempi che si possono ipotizzare vanno dalla sospensione a favore dell’imprenditore dell’esecuzione di un contratto pendente al divieto di pubblicazione di segnalazioni alla centrale dei rischi, al rilascio del documento di regolarità contributiva nonostante le pregresse inadempienze contributive.

[14] Tribunale Modena, 26 dicembre 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[15] Tribunale Parma, 10 luglio 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[16] Contra, Pagni-Fabiani, La transizione, cit., 16, secondo cui il riferimento ai “creditori” indurrebbe alla conclusione che le azioni cautelari inibite siano quelle individuali e che, di conseguenza, le misure cautelari di cui si discute non dovrebbero venire colpite dal divieto “[…] dato che, sebbene siano anch’esse chieste dai creditori, vengono concesse, tuttavia, a protezione di un interesse collettivo”. In realtà, come correttamente osservato da Carratta, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, cit., la tesi non convince, in quanto l’art. 18 e l’art. 54 CCI non distinguono affatto fra azioni cautelari con finalità di protezione individuale e con finalità di protezione collettiva.

[17] Tribunale Milano, 24 febbraio 2022, in www.ilcaso.it.

[18] Tribunale Milano, 28 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it.

[19] Per Costantino, Le “misure cautelari e protettive”, cit., 9, la previsione dell’inefficacia delle misure protettive in caso di mancato rispetto da parte del giudice del termine di dieci giorni per fissare l’udienza appare di dubbia legittimità costituzionale, in quanto condiziona il permanere degli effetti protettivi, voluti dall’imprenditore, alla diligenza del giudice.

[20] Tribunale Roma, 24 dicembre 2021, cit.; Tribunale Firenze, 29 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it; Tribunale Bergamo, 19 gennaio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Roma, 3 febbraio 2022, cit., per il quale la legittimazione passiva del procedimento non può riconoscersi “[…] in capo alla massa indifferenziata dei creditori che possono astrattamente promuovere azioni esecutive nei confronti del debitore e che, tuttavia, non abbiano ancora avviato i relativi procedimenti o minacciato di avviarli, con la notifica di un precetto”; Tribunale Milano, 24 febbraio 2022, cit; Tribunale Bergamo, 24 febbraio 2022, in www.dirittodellacrisi.it. Contra, Tribunale Milano, 27 febbraio 2022, ivi; Tribunale Padova, 25 febbraio 2022, in www.ilcaso.it; Tribunale Milano, 26 gennaio 2022, ivi.

[21] È ovvio, infatti, che l’esperto debba essere sentito ai fini della conferma o modifica delle misure protettive o della pronuncia degli eventuali provvedimenti cautelari richiesti, in quanto è l’unico soggetto veramente in grado di riferire con imparzialità sull’andamento delle trattative e sulla situazione dell’impresa (così anche Tribunale Roma, 21 dicembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it).

[22] Baccaglini-De Santis, Misure protettive e cautelari e composizione negoziata della crisi, cit.

[23] Ibidem.

[24] A questa stessa conclusione è pervenuta la Cassazione sia con riferimento allo scioglimento o della sospensione dei contratti in pendenza del procedimento per l’accesso al concordato preventivo (Cass. 25 maggio 2021, n. 14361, in CED Cassazione; Cass. 2 marzo 2016, n. 4176, in www.ilcaso.it; Cass. 3 settembre 2015, n. 17520, in Foro it., 2016, I, 1377 e segg.), sia con riferimento alle misure di cui all’art. 182bis l.f. (Cass. 19 giugno 2018, n. 16161, in Fall., 2019, 180 segg.).

[25] Panzani, Il D.L. “Pagni ovvero la lezione (positiva) del Covid, cit., rileva che siffatti provvedimenti “[…] debbono essere idonei a vincere una resistenza ingiustificata di un creditore o di un altro soggetto che sia parte della composizione negoziata”.

[26] Tribunale Salerno, 10 maggio 2022, secondo cui “ai fini della conferma delle misure protettive il Giudice deve vagliare, attraverso la disamina della relazione dell’esperto: – la sussistenza di una ragionevole prospettiva di risanamento della crisi dell’impresa; – l’utilità delle misure protettive richieste per lo svolgimento delle trattative; – l’adeguatezza e la proporzionalità delle misure protettive richieste rispetto all’obbiettivo di risanamento dell’impresa”; Tribunale Viterbo, 14 gennaio 2022, secondo cui “per valutare la conferma delle misure protettive richieste occorre delibare, secondo un’analisi prognostica, le possibilità che attraverso la prosecuzione della procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa possa essere risanata l’impresa, operando un bilanciamento tra l’esigenza di non sottrarre l’impresa insolvente alle procedure di composizione della crisi con la necessità di evitare che siffatte procedure abbiano una funzione dilatoria invece che finalizzata ad un tempestivo risanamento dell’impresa. Deve pertanto essere negata la conferma in presenza di un marcato disequilibrio economico/finanziario evidenziato dall’indice di livello di difficoltà del risanamento relativo al rapporto tra debito che deve essere ristrutturato e ammontare annuo dei flussi a servizio del debito, attestato su valori ampiamente superiori al quello massimo”; Tribunale Ravenna, 17 marzo 2023; Tribunale Mantova, 9 marzo 2023; Tribunale Palermo, 2 marzo 2023; Tribunale Padova, 2 marzo 2023, tutte in www.dirittodellacrisi.it.

[27] Tribunale Bergamo, 24 febbraio 2022, in www.dirittodellacrisi.it.

[28] Baccaglini-De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari a presidio della composizione negoziata della crisi: profili processuali, cit.

[29] Tribunale Salerno, 13 febbraio 2023, in www.dirittodellacrisi.it. Per Tribunale Frosinone, 24 gennaio 2023, in www.ilcaso.it, ciò è in linea con quanto affermato in sede eurounitaria, avendo la Direttiva Insolvency chiarito che è legittima l’introduzione di una verifica di sostenibilità, purché essa abbia la finalità di escludere il debitore che “[…] non ha prospettive di sostenibilità economica”.

[30] Se i parametri di riferimento sono la sostenibilità economica ed il risanamento dell’impresa, è evidente che il risanamento di cui si discute deve condurre alla continuità aziendale; ne consegue che non pare giustificarsi la concessione di misure protettive in presenza di soluzioni che conducono alla liquidazione dell’impresa non funzionale alla prosecuzione della sua attività.

[31] Per Tribunale Frosinone, 24 gennaio 2023, cit., la Direttiva fornisce anche un altro parametro di valutazione – richiamato dal CCI solo nell’ambito della norma sulla composizione negoziata relativa alla revoca delle misure protettive ed alla riduzione della loro durata (art. 19, comma 6, CCI) – allorché statuisce che lo Stato, nel contesto di un quadro di ristrutturazione preventiva, deve certamente consentire al debitore di poter beneficiare della sospensione delle azioni esecutive individuali al fine di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione, ma pure che la sospensione non deve comportare un ingiusto pregiudizio per i creditori.

due diligence cos'è pratica

Due diligence: cos’è e quando si mette in pratica Cos’è la Due diligence e quando si mette in pratica. In particolare: l’oggetto dell’indagine, il suo obiettivo e le ipotesi di due diligence interna

Cosa si intende per due diligence

L’espressione Due diligence si riferisce all’operazione di ricerca, raccolta e analisi di dati e informazioni, finalizzata alla valutazione sulla convenienza ed opportunità di un’operazione finanziaria o commerciale.

Solitamente, l’attività di Due diligence viene demandata a società di consulenza specializzate, cui si rivolge chi è coinvolto in una trattativa di acquisizione di determinati tipi di asset (partecipazioni societarie, immobili, crediti, operazioni nell’ambito di fusioni e incorporazioni societarie etc.).

Il significato letterale della locuzione in oggetto corrisponde a “dovuta diligenza” e si riferisce alla necessaria attenzione che occorre riporre nell’analisi dei vari aspetti e, soprattutto, dei possibili rischi derivanti da un’operazione commerciale o imprenditoriale.

Due diligence significato

A seconda dell’oggetto dell’analisi, si possono distinguere vari tipi di Due diligence.

L’indagine di fatti, dati e informazioni, ad esempio, si può concentrare sugli aspetti fiscali, oppure su quelli giuridici (e in tal caso si parla di Due diligence legale) o ancora sulle aspettative di mercato e quindi sul valore strategico dell’acquisto che si intende effettuare.

Ancora, l’analisi diligente può riguardare il valore di un’azienda o di uno specifico ramo d’azienda, le difficoltà di recupero di una serie di crediti o la fattibilità di un’offerta pubblica di acquisto.

Anche riguardo all’acquisto di immobili, è prassi consolidata accertarsi sull’esistenza di eventuali garanzie o cause di prelazione che possono rendere meno appetibile l’acquisto o meno probabile il buon esito di un’offerta.

Tipologie di Due diligence

L’incarico di Due diligence può precedere l’operazione di acquisto o anche seguirla.

Nel primo caso, le risultanze dell’attività di indagine svolta dalla società di consulenza influenzeranno il corso delle trattative, rafforzando la convinzione dell’opportunità di un acquisto (o di una diversa operazione, come la quotazione in borsa o l’aumento di capitale sociale) o, al contrario, dissuadendo il potenziale acquirente che ha disposto l’indagine, a seconda delle risultanze di quest’ultima.

A operazione avvenuta, invece, l’avvio di una Due diligence può rispondere ad esigenze di verifica riguardo all’operazione compiuta e, in base all’esito, può risultare utile a rimodulare le condizioni di vendita (a cominciare dal prezzo pattuito, ad esempio, se si è stipulato un semplice contratto preliminare) o a concordare ulteriori condizioni, come la previsione di una penale o la prestazione di una garanzia relativa a determinati rischi.

Due diligence interna

Va segnalato, infine, che la pratica di Due diligence può anche essere adottata da un’azienda per fini conoscitivi della propria stessa struttura e funzionamento.

L’oggetto dell’indagine, in tal caso, è quindi interno, e può rispondere a svariati obiettivi, come ad esempio la verifica della corretta compliance alle normative di interesse (ad esempio, quella fiscale).

In alcuni casi, peraltro, l’indagine interna di Due diligence può essere imposta direttamente dalla legge.

La Due diligence nelle direttive UE

A livello europeo, ad esempio, di recente è stato approvato il nuovo Regolamento Antiriciclaggio (AML Package), in vigore dal luglio 2024, che pone, a carico delle aziende che presentano determinati requisiti, alcuni obblighi in ordine all’identificazione della clientela, per prevenire l’ingresso nel mercato di risorse finanziarie di provenienza illecita.

Leggi anche Antiriciclaggio: al via il grande fratello europeo

Un altro esempio di indagine interna di Due diligence prevista dalla legge è quella oggetto della c.d. direttiva CSDDD, con cui l’Unione Europea intende sensibilizzare le aziende in ordine al monitoraggio e alla prevenzione dei danni ambientali e delle violazioni in tema di diritti umani nell’ambito della propria catena produttiva.

diritti spiaggia cosa sapere

Diritti in spiaggia: cosa c’è da sapere Il manuale pubblicato dall'Unione Nazionale Consumatori contiene circa 50 domande e risposte sui diritti in spiaggia

Diritti in spiaggia, cosa è lecito e cosa no

Portare il cane in spiaggia, accedere alla battigia del lido privato, o ancora portarsi il cibo da casa in uno stabilimento balneare. Sono alcune delle domande più frequenti e attuali con l’approssimarsi delle agognate ferie estive, alle quali ha cercato di dare risposta l’Unione Nazionale Consumatori con un e-book ad hoc Diritti in spiaggia: le risposte alle domande più frequenti contenente circa 50 domande e risposte (a cura di Massimiliano Dona) su cosa è lecito e cosa no sulle spiagge nostrane. 

Vediamo i punti più importanti:

Accesso al mare negli stabilimenti balneari

L’accesso al mare è libero e gratuito e gli stabilimenti balneari dovrebbero consentire l’accesso e il transito per il raggiungimento della battigia anche al fine della balneazione. A prevederlo è l’art. 11 della legge n. 217 del 2011 che prevede “il diritto libero e gratuito di accesso e di fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione“, mentre la legge n. 296 del 2006 stabilisce “l’obbligo per i titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Dunque, spiega l’UNC, se qualche gestore furbetto prova a far pagare l’accesso ai bagnanti che vogliono raggiungere la riva, si tratta di un vero e proprio abuso, visto che la spiaggia è un bene pubblico e impedirne l’accesso è una violazione di legge. In tal caso, si consiglia di chiamare i vigili e chiedergli di intervenire sul posto.

Le cose cambiano ovviamente se si usufruisce dei servizi messi a disposizione dallo stabilimento (ombrellone, sdraio, ecc.). In tal caso, è corretto che il gestore pretenda il pagamento.

Le ordinanze dei Comuni sui diritti in spiaggia

La materia dell’accesso alla battigia è regolata anche da Regioni e Comuni. La legge n. 296 del 27 dicembre 2006, all’art. 1 comma 254, spiega l’ebook dell’UNC, prevede che siano le Regioni a dover “individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili” e a “individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione“.

Molte ordinanze dei comuni, poi, prevedono il divieto di occupare con ombrelloni, sdraio o teli mare, la fascia di 5 metri dalla battigia ed il divieto di permanenza in tale spazio, poiché deve restare a disposizione per i mezzi di soccorso. In tal caso, il divieto vale per tutti, anche per i gestori dello stabilimento.

Ombrellone sulla spiaggia

La prassi di lasciare l’ombrellone in spiaggia (parliamo di spiaggia libera) assicurandosi il posto migliore per i giorni successivi è scorretta. Si tratta infatti di un’occupazione illegale del demanio pubblico, per cui non possono essere lasciati oggetti per un tempo prolungato.

Giochi sulla spiaggia

Altra nota dolente riguarda la possibilità di giocare sulla spiaggia, ad esempio a pallone. Non esiste una normativa nazionale che regoli questo aspetto, per cui, avverte l’Unione, è sempre bene informarsi su eventuali divieti imposti in questo senso dalla Capitaneria di Porto o dal Comune. Sempre bene comunque usare il “buon senso” evitando di arrecare danno o disturbo agli altri bagnanti.

Amici a quattro zampe al mare

Per quanto riguarda gli amici a quattro zampe non esiste una legge nazionale che ne regolamenta l’accesso in spiaggia, per cui, spiega ancora l’UNC, “in assenza di espliciti divieti regionali, comunali o delle autorità marittime valgono le regole generali per i luoghi pubblici che prevedono che possano girare se sono tenuti al guinzaglio o se hanno la museruola”. Resta fermo che il titolare della concessione su una spiaggia può vietarne l’accesso o al contrario, potrebbe chiedere al comune l’autorizzazione per consentirne la presenza o prevedere delle aree ad hoc.

Cibo in spiaggia

Anche mangiare sulla spiaggia è un’attività consentita nel rispetto dell’ambiente. Ovviamente, è severamente vietato lasciare oggetti di plastica o comunque inquinanti (come piatti) mentre lasciare gli avanzi di cibo, seppur poco educato, rincara l’Unione, è una pratica che “non nuoce all’ecosistema essendo il cibo un materiale completamente biodegradabile”.

Analogo il discorso che riguarda il portare cibo in uno stabilimento balneare. Non può essere vietato, purchè si rispetti il decoro della spiaggia, quindi al bando senz’altro i pic-nic con tavola imbandita o barbecue ma sicuramente nessuno può impedire di portare panini, bibite o biscotti (ecc.).

Fumare al mare

Quanto al fumo, infine, non esistendo una legge che vieta esplicitamente il fumare all’aperto deve ritenersi consentito. tuttavia, segnala l’UNC vi sono molte amministrazioni locali che stanno approvando divieti ad hoc sul fumo in spiaggia. Ovviamente, rimane sempre vietato abbandonare i mozziconi di sigaretta!

gratuito patrocinio spese stato

Gratuito patrocinio: le spese processuali spettano allo Stato La Cassazione ha precisato che le spese poste a favore della parte vittoriosa, devono essere liquidate allo Stato quando la parte risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato

Separazione e affidamento dei figli

Il caso in esame prende avvio da un giudizio avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la decisione sulle contrapposte pretese inerenti all’assegno, il diritto di abitazione e l’affidamento con le visite dei figli.

All’esito del giudizio di secondo grado, che aveva parzialmente riformato le risultanze del Giudice di prime cure, la Corte d’appello di Venezia aveva, per quanto qui rileva, compensato per 1/6 le spese del primo e del secondo grado di giudizio e per la restante parte, pari a 5/6, posto le spese processuali a carico dell’ex marito ed in favore dell’ex moglie.

Avverso la suddetta decisione di secondo grado l’ex marito avevo proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Spese di lite in favore dello Stato

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14691/2024, ha accolto il motivo d’impugnazione formulato dal ricorrente ai sensi dell’art. 360, commi 1 e 3, c.p.c. in relazione all’art. 133 e all’art. 75 del DPR n. 115/2002.

In particolare, il ricorrente aveva contestato il fatto che, con la sentenza emessa dalla Corte d’appello, egli fosse stato condannato al pagamento delle spese di lite in favore dell’ex moglie anziché in favore dello Stato e ciò nonostante fosse stata dichiarata e documentata l’ammissione dell’ex moglie al patrocinio a spese dello Stato.

Patrocinio a spese dello Stato: la decisione

La Corte, dopo essersi occupata degli altri motivi di ricorso, ha affermato che, quanto alla suddetta doglianza, dovessero essere accolte le ragioni dell’ex marito “in quanto le spese poste a favore della parte vittoriosa, debbono essere liquidate in favore dello Stato in quanto la parte personalmente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato”.

Posto quanto sopra, il Giudice di legittimità ha pertanto disposto che la condanna alle spese del ricorrente, formulata in sede di appello, dovesse essere posta direttamente a favore dello Stato e non dell’ex moglie.