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ChatGpt: Garante Privacy multa Openai Il Garante Privacy ha chiuso l'istruttoria nei confronti di Openai che dovrà realizzare una campagna informativa di 6 mesi e pagare una sanzione di 15 milioni di euro

ChatGPT, istruttoria Garante Privacy

ChatGPT il Garante per la protezione dei dati personali ha adottato nei giorni scorsi un provvedimento correttivo e sanzionatorio nei confronti di OpenAI in relazione alla gestione del servizio ChatGPT.

Le violazioni

Il provvedimento, che accerta le violazioni a suo tempo contestate alla società californiana, arriva all’esito di un’istruttoria avviata nel marzo del 2023 e dopo che l’EDPB (Comitato europeo per la protezione dei dati) ha pubblicato il parere con il quale identifica un approccio comune ad alcune delle più rilevanti questioni relative al trattamento dei dati personali nel contesto della progettazione, sviluppo e distribuzione di servizi basati sull’intelligenza artificiale.

IA generativa

Secondo il Garante la società statunitense, che ha creato e gestisce il chatbot di intelligenza artificiale generativa, oltre a non aver notificato all’Autorità la violazione dei dati subita nel marzo 2023, ha trattato i dati personali degli utenti per addestrare ChatGPT senza aver prima individuato un’adeguata base giuridica e ha violato il principio di trasparenza e i relativi obblighi informativi nei confronti degli utenti. Per di più, OpenAI non ha previsto meccanismi per la verifica dell’età, con il conseguente rischio di esporre i minori di 13 anni a risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza.

Campagna informativa di 6 mesi

L’Autorità, con l’obiettivo di garantire, innanzitutto, un’effettiva trasparenza del trattamento dei dati personali, ha ordinato a OpenAI, utilizzando per la prima volta i nuovi poteri previsti dall’articolo 166, comma 7 del Codice Privacy, di realizzare una campagna di comunicazione istituzionale di 6 mesi su radio, televisione, giornali e Internet.

I contenuti, da concordare con l’Autorità, dovranno promuovere la comprensione e la consapevolezza del pubblico sul funzionamento di ChatGPT, in particolare sulla raccolta dei dati di utenti e non-utenti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa e i diritti esercitabili dagli interessati, inclusi quelli di opposizione, rettifica e cancellazione.

Grazie a tale campagna di comunicazione, gli utenti e i non-utenti di ChatGPT dovranno essere sensibilizzati su come opporsi all’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa con i propri dati personali e, quindi, essere effettivamente posti nelle condizioni di esercitare i propri diritti ai sensi del GDPR.

Sanzione di 15 milioni di euro

Il Garante ha comminato a OpenAI una sanzione di quindici milioni di euro calcolata anche tenendo conto dell’atteggiamento collaborativo della società.

Infine, tenuto conto che la società, nel corso dell’istruttoria, ha stabilito in Irlanda il proprio quartier generale europeo, il Garante, in ottemperanza alla regola del c.d. one stop shop, ha trasmesso gli atti del procedimento all’Autorità di protezione dati irlandese (DPC), divenuta autorità di controllo capofila ai sensi del GDPR, affinché prosegua l’istruttoria in relazione a eventuali violazioni di natura continuativa non esauritesi prima dell’apertura dello stabilimento europeo.

fermo amministrativo

Fermo amministrativo illegittimo: l’ansia non è risarcibile Fermo amministrativo illegittimo: la Cassazione esclude il risarcimento per il danno non patrimoniale

Fermo amministrativo illegittimo e risarcimento danno

Il fermo amministrativo è l’oggetto dell’ordinanza n. 27343/2024 della Corte di Cassazione. Gli Ermellini si sono dovuti occupare in particolare della legittimità del fermo e della possibilità di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dal proprietario del veicolo.

Violata l’ordinanza di sospensione

Si ricorda brevemente che il fermo amministrativo è un provvedimento che impedisce l’utilizzo di un veicolo per il mancato pagamento di tributi o altre somme. In questo caso specifico, un cittadino ha contestato la legittimità del fermo amministrativo sul suo veicolo. Il provvedimento era stato emesso infatti in violazione di un’ordinanza giurisdizionale che ne disponeva la sospensione. Il ricorrente ha chiesto quindi il risarcimento per il danno subito a causa dell’illegittimità del fermo disposto. Il Giudice però ha respinto la richiesta, ritenendo che non fosse stata fornita la prova necessaria.

Ansia e preoccupazioni non sono risarcibili

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione impugnata e ha sottolineato che il danno non patrimoniale, derivante da un fermo amministrativo illegittimo, non è automaticamente risarcibile. È necessario dimostrare che il fermo ha comportato una vera e propria impossibilità di utilizzare il veicolo. In altre parole, il danno deve essere provato in modo specifico. Non è sufficiente lamentarsi di disagi o fastidi. Elementi come ansie o preoccupazioni non costituiscono un danno risarcibile. La responsabilità civile, infatti, non deve essere utilizzata come strumento sanzionatorio. Questo principio è fondamentale per garantire che sia applicata in modo equo e giusto.

Onere della prova a carico dell’attore

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda l’onere della prova. La Cassazione ha ribadito che spetta sempre all’attore fornire la prova del danno subito. Se la persona non dimostra in modo adeguato il danno, la sua richiesta deve essere respinta. La semplice indisponibilità del veicolo non basta; è necessario dimostrare anche eventuali spese sostenute per un mezzo sostitutivo o la perdita di guadagni. La Corte ha anche evidenziato che non esistono danni in re ipsa. Il danno deve sempre essere correlato a conseguenze concrete e dimostrabili. Questo principio garantisce che il sistema giuridico non si basi su richieste infondate.

Danno non patrimoniale e lesione di diritti

La Cassazione ha esaminato anche la richiesta risarcitoria del lamentato danno non patrimoniale, legato alla lesione di diritti fondamentali. Secondo la Corte, il risarcimento per danno non patrimoniale è possibile solo in circostanze specifiche. È necessario che ci sia una lesione grave, che superi una soglia minima di tollerabilità. Inoltre, il danno non deve essere futile o limitarsi a meri disagi. Nel caso in esame, il ricorrente non ha presentato prove sufficienti per dimostrare la gravità del danno non patrimoniale. Ha descritto solo disagi generici e preoccupazioni, che non giustificano un risarcimento. La Corte ha quindi ritenuto che tali disagi non fossero meritevoli di tutela risarcitoria.

La decisione della Corte di Cassazione chiarisce in sostanza che il fermo amministrativo illegittimo non comporta automaticamente il diritto al risarcimento. È fondamentale fornire prove concrete e dettagliate in caso di richieste risarcitorie.

 

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Allegati

giurista risponde

Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria Quali effetti si producono sul testamento in caso di apposizione di onere o condizione sospensiva non avveratasi per esclusiva volontà del disponente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

In materia successoria, ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva alla disposizione testamentaria, dipendente anche dalla sua volontà, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace (Cass., sez. II, ord. 18 settembre 2024, n. 25116).

Il caso di specie origina da un testamento olografo con cui il testatore istituisce come eredi universali due nipoti chiedendo loro di occuparsi del suo accudimento, nel paese natio, fintantoché in vita.

A seguito di impugnazione dell’anzidetto atto mortis causa, l’adito Tribunale, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali, escluse che con il testamento fosse stato istituito un patto successorio vietato dalla legge e che lo stesso fosse viziato da errore, violenza o dolo.

Quanto all’impegno per l’accudimento, sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi di adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Anche la Corte di appello territoriale rigettò l’impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado: non può trattarsi di onere per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione. Invero, nel caso in esame, si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volesse esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica. Si trattava, invece, di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale; da qui la non applicabilità dell’art. 634, comma 2, c.c., con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 c.c., riferibile anche alla condotta di colui che abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, con la conseguenza che la stessa deve ritenersi adempiuta (così anche Cass., sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325; Cass. 20 luglio 2004, n. 13457).

Viene proposto ricorso per Cassazione in cui i ricorrenti assumono che la Corte aveva violato la regola ermeneutica sopra richiamata.

In materia testamentaria, secondo i ricorrenti, con i dovuti adattamenti era applicabile l’art. 1362 c.c., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete.

In altri termini, il contenuto letterale deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda: seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione, cioè il materiale accudimento.

Con il secondo motivo viene denunciata errata applicazione dell’art. 1359 c.c. in quanto non attinente alla fattispecie in esame, trattandosi di evento possibile, futuro e incerto alla data di redazione del testamento, norma posta a tutela di posizioni giuridiche attive, quali l’aspettativa dell’altro contraente, situazione che non ricorreva affatto nel caso di specie.

La censura è stata rigettata: la previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa; regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.

La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende impraticabile l’estensione della regola.

Il Codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria. L’art. 634 c.c., invero, prevede una disciplina diversa rispetto a quella contemplata per i contratti dall’art. 1354 c.c., diretta a salvaguardare la volontà del disponente; volontà che deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 c.c. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).

L’art. 634 c.c. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La condizione apposta al testamento in oggetto non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore. È stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina a eredi universali dei nipoti: proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In ragione delle motivazioni esposte, il ricorso è stato rigettato.

(*Contributo in tema di “Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

interessi legali 2025

Interessi legali 2025 Interessi legali 2025: il decreto del MEF del 10 dicembre pubblicato in GU stabilisce il nuovo tasso nella misura del 2%

Interessi legali 2025: cosa cambia

Dal 1° gennaio 2025 gli interessi legali scendono al tasso del  2%. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) ha stabilito questa modifica con il Decreto del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 294 del 16 dicembre 2024.

Variazione annua interessi legali articolo 1284 c.c.

L’aggiornamento annuale del saggio degli interessi legali è disciplinato dall’articolo 1284, primo comma, del Codice Civile. Questo prevede che il tasso sia rivisto in base al rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata fino a dodici mesi, considerando anche il tasso di inflazione registrato.

Interessi legali 2025 più bassi rispetto al 2024

Nel 2024 il tasso era fissato al 2,5%, ma la nuova valutazione del rendimento dei titoli e dell’inflazione ha portato a una riduzione per il 2025. Questa variazione avrà impatti significativi in ambito fiscale e giuridico.

Effetti della modifica

Uno degli ambiti in cui la variazione incide maggiormente è il ravvedimento operoso. Chi regolarizza posizioni fiscali tramite questa procedura deve calcolare gli interessi legali giorno per giorno, applicando il tasso in vigore nei diversi periodi. Questo significa che, in caso di operazioni che coprono più anni, potrebbe essere necessario considerare tassi differenti.

Il nuovo tasso del 2% si applicherà a tutti i conteggi dal 1° gennaio 2025. È quindi importante che professionisti, aziende e cittadini adeguino i calcoli ai nuovi parametri per evitare errori e sanzioni.

Il decreto rappresenta un punto di riferimento essenziale per chi opera nel campo legale, fiscale e amministrativo. Monitorare questi aggiornamenti consente infatti di mantenersi conformi alle normative e di pianificare con precisione le proprie attività.

 

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liquidazione giudiziale

Liquidazione giudiziale Liquidazione giudiziale: procedura concorsuale disciplinata dal Codice della crisi e dell’insolvenza, che ha sostituito il fallimento

Liquidazione giudiziale: cos’è

La liquidazione giudiziale è una procedura prevista e disciplinata dal Codice della Crisi e dell’insolvenza di cui al Decreto legislativo n. 14/2019, che ha sostituito il fallimento. A questo proposito occorre però precisare che la disciplina contenuta nella legge fallimentare continua tuttavia ad applicarsi ai ricorsi che sono stati depositati anteriormente al 15 luglio 2022.

Ambito soggettivo della liquidazione giudiziale

La liquidazione giudiziale, come dispone l’art. 121 del Codice della Crisi e dell’insolvenza, riguarda gli imprenditori commerciali che non dimostriamo di essere in possesso, congiuntamente, dei requisì indicati dall’articolo 2, comma 1, lettera d):

  • attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a euro000,00 nei tre esercizi anteriori alla data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se la durata è inferiore;
  • ricavi annui complessivi non superiori a euro000 nei tre esercizi anteriori alla data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se la durata è inferiore;
  • debiti anche non scaduti non superiori a euro 500.000.

Gli organi della procedura di liquidazione

La liquidazione giudiziale è una procedura complessa, che vede protagonisti i seguenti soggetti:

  • il tribunale concorsuale, organo investito dell’intera procedura;
  • il giudice delegato, che esercita funzioni di vigilanza e di controllo affinché la procedura si svolga regolarmente;
  • il curatore, che gestisce la procedura di liquidazione sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori;
  • il comitato dei creditori, che svolge funzioni di vigilanza sull’attività del curatore.

Beni del debitore soggetti a liquidazione

La sentenza di liquidazione toglie al debitore l’amministrazione dei suoi beni, compresi quelli acquisiti durante la procedura. Il curatore può rinunciare ai beni con valore di realizzo inferiore ai costi di gestione.

Beni del debitore esclusi dalla liquidazione

Non tutti i beni del debitore però vengono liquidati. Non si liquidano infatti i beni personali e alimenti essenziali, gli stipendi, le pensioni e i salari necessari al mantenimento familiare, i beni non pignorabili e i patrimoni protetti da norme specifiche. I limiti vengono determinati dal giudice delegato. In mancanza di mezzi di sostentamento, il giudice delegato può concedere sussidi per il debitore e la famiglia. La casa del debitore resta utilizzabile fino alla liquidazione, se necessaria per l’abitazione.

Concorso dei creditori

La liquidazione giudiziale si regge su regole chiare e processi definiti che coinvolgono il patrimonio del debitore e il soddisfacimento dei creditori. La procedura attiva infatti il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore. Ogni credito o diritto deve essere accertato secondo la normativa del capo III. Le stesse regole si applicano ai crediti esentati dal divieto di esecuzione.

Come si svolge la liquidazione giudiziale

Il curatore gestisce la liquidazione, affiancato da esperti per la stima dei beni. Le stime seguono regole specifiche e si depositano telematicamente. I beni di modesto valore possono evitare la stima.
La vendita si realizza tramite procedure competitive e adeguata pubblicità per garantire trasparenza e partecipazione. Il curatore può proporre rateizzazioni o ribassi del prezzo in caso di aste deserte. Deve inoltre liberare gli immobili occupati dal debitore o da terzi non opponibili. I beni mobili trovati nell’immobile sono considerati abbandonati se non rimossi entro i termini assegnati.
Il curatore informa il giudice delegato sull’andamento delle operazioni. Se vi sono procedure esecutive in corso, può subentrarvi o chiederne la chiusura.

Casi di chiusura della liquidazione giudiziale

Il sistema della liquidazione giudiziale mira a garantire il soddisfacimento dei creditori in modo equo, attraverso processi trasparenti e supervisionati. La chiusura della procedura avviene solo quando tutti i crediti sono risolti o le attività si dimostrano insufficienti.

La liquidazione giudiziale si chiude infatti nei seguenti casi:

  • nessuno ha presentato domanda di ammissione al passivo entro il termine stabilito;
  • tutti i crediti ammessi e i debiti sono stati soddisfatti o risultano estinti;
  • l’attivo è stato ripartito completamente;
  • mancano i fondi necessari per soddisfare i creditori o sostenere le spese della precedura;
  • in caso di chiusura della procedura giudiziale delle società di capitali (nei casi di cui alle lettere a) e b) comma 1 art. 233) il curatore convoca l’assemblea dei soci per decidere sulla ripresa o sulla cessazione dell’attività. Se la procedura invece si chiude dopo la riparazione dell’attivo o perché la prosecuzione dell’attività non soddisferebbe comunque i creditori concorsuali, allora il curatore procede alla cancellazione dal registro delle imprese.

 

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azione di indebito arricchimento

Azione di indebito arricchimento Azione di indebito arricchimento: analisi dell'azione legale disciplinata dall'art. 2041 del codice civile

Azione di indebito arricchimento: cos’è

L’azione di indebito arricchimento è uno degli istituti giuridici più importanti nel diritto civile italiano, previsto dall’articolo 2041 del Codice Civile. Si tratta di un’azione legale che consente a una persona di richiedere la restituzione di somme o beni che hanno indebitamente arricchito  un’altra persona, senza alcuna giustificazione legale. La disciplina di questa azione è contenuta nell’articolo 2041 c.c.

Vediamo quindi cos’è l’azione di indebito arricchimento, come funziona e quali sono le implicazioni legali, facendo riferimento appunto all’articolo 2041 del Codice Civile italiano.

Scopo dell’azione di indebito arricchimento

L’azione di indebito arricchimento è un rimedio giuridico previsto dal diritto civile. Essa ha lo scopo di garantire l’uguaglianza tra le parti e prevenire che una persona tragga un vantaggio economico ingiustificato a scapito di un’altra. Il principio alla base di questa azione è il seguente: chi si arricchisce in danno di un’altra persona senza che vi sia un valido motivo giuridico, deve restituire quanto ricevuto perché non ingiustificato.

Articolo 2041 del Codice Civile

L’articolo 2041 stabilisce infatti nello specifico che: “Chi senza giusta causa si è arricchito a spese di un altro, è obbligato a restituire l’indebito arricchimento, nella misura in cui il beneficiato sia in grado di restituire quanto ricevuto.”

In altre parole, la legge prevede che se un individuo ha tratto un vantaggio economico (sia in denaro che in beni) da un’altra persona senza una ragione legittima, costui è tenuto a restituire l’ammontare dell’arricchimento che ha ricevuto.

Come funziona l’azione di indebito arricchimento?

Per esercitare l’azione di indebito arricchimento, devono essere presenti quindi alcune condizioni specifiche. Vediamole nel dettaglio.

  1. Arricchimento ingiustificato

La prima condizione affinché si possa parlare di indebito arricchimento è che una delle parti si sia effettivamente arricchita. L’arricchimento poi può avere natura materiale (ad esempio, un trasferimento di denaro o beni) o economica (ad esempio, la prestazione di un servizio che non è stato compensato).

  1. Danno per la parte arricchita

Il beneficiario dell’arricchimento deve essere stato danneggiato, ossia deve aver subito una perdita economica o patrimoniale a causa dell’arricchimento ingiustificato dell’altra persona. La persona che chiede la restituzione deve essere quella che ha subito quindi il danno.

  1. Mancanza di giusta causa

L’elemento chiave dell’articolo 2041 è che l’arricchimento sia senza giusta causa. Questo significa che non deve esserci una giustificazione giuridica per il trasferimento di beni o denaro. Ad esempio, se qualcuno paga per un servizio che non è stato reso, o se riceve un pagamento in eccesso per un servizio che non è stato completato, potrebbe configurarsi un caso di indebito arricchimento.

Esempi di azione di indebito arricchimento

Vediamo alcuni esempi concreti per comprendere meglio come funziona l’azione di indebito arricchimento:

  1. Pagamento Involontario o errato

Se una persona effettua un pagamento errato o involontario a una seconda persona, questa potrebbe essere tenuta a restituire la somma ricevuta. Ad esempio, se un cliente paga una fattura più alta rispetto a quanto dovuto, il venditore è obbligato a restituire la somma in eccesso, a meno che non vi siano altre giustificazioni per il pagamento maggiore.

  1. Prestazioni di servizi non richiesti

Si può anche verificare che una persona offra servizi a un’altra senza che questi siano stati richiesti. Ad esempio, un’impresa di pulizie esegue lavori non richiesti e l’altra parte non intende pagarli. In questo caso, se l’impresa riceve un pagamento, potrebbe essere tenuta a restituirlo, dato che il pagamento non ha alcuna giustificazione legale.

  1. Trasferimento di beni senza consenso

Un altro esempio di indebito arricchimento è il trasferimento di beni da una persona a un’altra senza il consenso o una causa giuridica valida. Se una persona, ad esempio, consegna per errore a un’altra una somma di denaro, l’altra persona deve restituirla, perché si è arricchita senza giusta causa.

Elementi fondamentali azione di indebito arricchimento

Riepilogando, affinché l’azione di indebito arricchimento possa essere accolta in tribunale, è necessaria la sussistenza di determinati elementi.

Arricchimento: la parte contro cui viene promossa l’azione deve essersi effettivamente arricchita, sia in termini economici che patrimoniali.

Perdita per la parte danneggiata: l’indebito arricchimento deve aver causato una perdita al soggetto che promuove l’azione.

Ingiustizia del trasferimento:  non deve esistere una giustificazione legale per il trasferimento di ricchezza.

Restituzione: la parte arricchita è tenuta a restituire l’indebito arricchimento nella misura in cui è possibile farlo.

 

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amministrazione di sostegno

Amministrazione di sostegno Amministrazione di sostegno: guida all’istituto che protegge le persone fragili, che  conservano però parte della loro autonomia

Amministrazione di sostegno: cos’è

L’amministrazione di sostegno è un istituto previsto dal Codice Civile italiano per proteggere le persone fragili. Questo strumento consente di assistere chi, a causa di malattia o disabilità, non riesce a gestire in tutto o in parte i propri interessi. Si tratta di una misura flessibile e meno invasiva rispetto all’interdizione e all’inabilitazione, un istituto efficace per proteggere le persone fragili mantenendo, per quanto possibile, la loro autonomia. L’intervento del giudice tutelare garantisce infatti equilibrio tra tutela e rispetto della dignità del beneficiario. L’amministrazione di sostegno è senza dubbio un esempio di diritto moderno e inclusivo, che si adatta alle diverse esigenze delle persone vulnerabili.

Amministrazione di sostegno: definizione normativa

L’articolo 404 del Codice Civile definisce l’amministrazione di sostegno come uno strumento a favore di chi non può provvedere ai propri interessi. Questa impossibilità può essere totale o parziale, temporanea o permanente, e derivare da infermità o menomazione fisica o psichica. Il giudice tutelare nomina un amministratore di sostegno per aiutare la persona nel compimento degli atti quotidiani o straordinari.

Il procedimento può iniziare su richiesta del beneficiario stesso, anche se minore, interdetto o inabilitato, dei suoi familiari (coniuge, convivente, ascendenti, discendenti o parenti) e dei responsabili dei servizi sanitari o sociali, che segnalano i casi al giudice tutelare.

Nomina dell’amministratore: come avviene

L’articolo 405 stabilisce che il giudice tutelare provvede alla nomina dell’amministratore di sostegno entro 60 giorni dalla presentazione del ricorso. Il decreto è motivato e immediatamente esecutivo. In casi urgenti, il giudice può nominare un amministratore provvisorio. La decisione include dettagli precisi come la generalità del beneficiario e dell’amministratore, la durata dell’incarico, che può essere a tempo determinato o indeterminato, i poteri attribuiti allamministratore, ossia atti che può compiere per conto del beneficiario, i limiti delle spese e le modalità di gestione del patrimonio e l’obbligo di rendicontazione periodica al giudice.

Tutti i provvedimenti devono essere annotati nei registri ufficiali e comunicati all’ufficiale di stato civile.

Come si svolge il procedimento

L’articolo 407 disciplina il procedimento. Il ricorso deve contenere le generalità del beneficiario, la sua dimora abituale e ragioni a base della richiesta e i nomi del coniuge, dei familiari conviventi e degli altri parenti.

Il giudice deve ascoltare direttamente il beneficiario, preferibilmente recandosi dove questi si trova. Deve considerare i bisogni e le richieste della persona, bilanciando protezione e autonomia. Il pubblico ministero interviene nel procedimento e vigila sulla tutela.

Il giudice può acquisire documenti medici o altre prove per decidere in modo appropriato. Inoltre, può modificare le decisioni prese in qualsiasi momento.

Amministratore di sostegno: criteri di scelta

L’articolo 408 stabilisce i criteri per scegliere l’amministratore. Il giudice tiene conto prioritariamente degli interessi del beneficiario. La persona interessata può designare anticipatamente il proprio amministratore tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata. In mancanza di designazione, il giudice preferisce, ove possibile il coniuge non separato legalmente, il convivente stabile, i parenti stretti, come genitori, figli o fratelli.

Non possono ricoprire l’incarico coloro che hanno in cura il beneficiario come operatori di servizi pubblici o privati. Il giudice può comunque nominare una persona idonea in casi particolari.

Effetti dell’amministrazione di sostegno

Secondo l’articolo 409, il beneficiario mantiene la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono l’intervento dell’amministratore. Può compiere autonomamente gli atti di vita quotidiana. L’amministratore infatti si limita ad assistere il beneficiario nel compimento degli atti più complessi o straordinari.

Doveri dell’amministratore di sostegno

L’amministratore di sostegno ha l’obbligo di rispettare i bisogni e le aspirazioni del beneficiario. Deve informare tempestivamente il beneficiario sugli atti da compiere e consultare il giudice in caso di disaccordo. Se l’amministratore agisce in modo dannoso o negligente, il giudice può intervenire su segnalazione del beneficiario o del pubblico ministero. L’incarico dura al massimo 10 anni, salvo eccezioni per il coniuge, il  convivente o i parenti stretti.

Amministrazione di sostegno: atti annullabili

Gli articoli 412 e 413 prevedono la possibilità di annullare gli atti compiuti dall’amministratore oltre i poteri concessi quelli compiuti dal beneficiario in violazione del decreto.

Le azioni per l’annullamento devono essere esercitate entro 5 anni dalla fine dell’amministrazione.

Revoca dell’amministratore di sostegno

La revoca può essere richiesta dal beneficiario, dall’amministratore, dal pubblico ministero o dai familiari indicati nell’articolo 406.

Il giudice decide con decreto motivato, dopo aver svolto le necessarie verifiche. L’amministrazione di sostegno cessa se non tutela più adeguatamente il beneficiario. In questo caso, il giudice può promuovere l’interdizione o l’inabilitazione.

Disciplina procedurale

La Riforma Cartabia ha spostato la disciplina dell’amministrazione di sostegno nella sezione III del Capo III del libro II del Codice di procedura civile dedicato ai “procedimenti di interdizione, inabilitazione e di nomina dell’amministratore di sostegno” disciplinati dall’art. 474.52 fino al 473.57. L’art. 473 bis.58 sancisce che ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano, purché compatibili, le disposizioni della sezione dedicata anche agli altri istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione. La norma stabilisce inoltre che mentre i decreti del giudice tutelare sono reclamabili al tribunale quelli del tribunale in composizione collegiale sono ricopribili in Cassazione.

 

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giurista risponde

Chiamata in causa del terzo costruttore Si può chiamare in causa il terzo costruttore per vizi del bene venduto?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Il venditore di un immobile può chiamare in causa il terzo costruttore solo per essere sollevato dalla responsabilità derivante da gravi difetti presenti nella costruzione e non anche per la mancata comunicazione all’acquirente dei vizi della cosa di cui era a conoscenza, poiché si tratta di responsabilità per violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, di cui all’art. 1175 c.c., che non coinvolge il terzo (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233).

La Corte di Cassazione, con la sentenza in disamina ha affrontato questioni relative alla responsabilità del costruttore e del venditore per vizi dell’immobile.

Il caso di specie riguarda l’acquisto di un immobile affetto da gravi problemi di umidità e allagamenti dovuti a difetti nel sistema fognario.

L’acquirente dell’immobile aveva citato in giudizio l’alienante per ottenere l’eliminazione dei vizi presenti nello stesso immobile, il rimborso parziale del prezzo ed inoltre il risarcimento dei danni. Il venditore si costituiva chiamando in causa la società costruttrice del fabbricato.

Il Tribunale condannava il solo venditore e non la società costruttrice poiché la domanda era formulata in modo generico e non con l’esperimento di un’azione ex art. 1669 c.c.

Invero, il venditore appellava la sentenza per ottenere la condanna del costruttore.

La Corte d’Appello accertava la responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. e quella del venditore ex art. 1175 c.c., per non aver comunicato all’acquirente l’esistenza dei vizi dell’immobile di cui era a conoscenza. Condannava, quindi, la società costruttrice a tenere indenne l’appellante da tutte le conseguenze economiche derivanti dal fatto.

La società costruttrice ricorreva per Cassazione ed il ricorso veniva accolto.

La Corte ha, innanzitutto, ribadito che, a norma dell’art. 1669 c.c., la responsabilità del costruttore per gravi difetti dell’immobile sussiste se la scoperta del vizio avviene entro 10 anni dal completamento dell’opera. Il termine decorre dal collaudo e non dalla vendita dell’immobile. La responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 c.c. è “speciale” rispetto a quella generica contemplata dall’art. 2043 c.c.: quest’ultima ricorre in via residuale, qualora non sussistano in concreto le condizioni giuridiche per l’applicabilità della prima (ad esempio, in caso di danno manifestatosi oltre il decennio dal compimento dell’opera).

La Cassazione chiarisce che il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza, può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (così anche Cass. 24 aprile 201, n. 10048; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Nel caso di specie il venditore aveva avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, pertanto, si era esperita una consulenza tecnica grazie alla quale era stata possibile l’imputazione delle cause; pertanto, dalla stessa consulenza occorreva far decorrere il termine di cui all’art. 1669 c.c.

Affinché possa essere fatta valere la responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. è necessaria la sussistenza di determinati elementi quali: un bene immobile destinato a lunga durata, la rovina dell’opera già avvenuta (sia nella forma totale che parziale), o anche l’attuale pericolo di rovina nell’immediato futuro; da ultimo l’esistenza di gravi difetti (nozione molto dibattuta in giurisprudenza e nella quale sembrerebbero rientrare tutti i vizi che incidono sugli elementi essenziali dell’immobile) della costruzione che pregiudicano la caratteristica della lunga durata.

Inoltre, la Cassazione ha chiarito che il momento della “scoperta” del vizio coincide con l’acquisizione della piena consapevolezza della sua gravità e delle sue cause, anche attraverso accertamenti tecnici.

Nel caso specifico, tale momento è stato individuato nel deposito della CTU.

La Suprema Corte non ritiene fondati i motivi per cui a fronte di una chiamata in causa del terzo formulata in modo generico in primo grado, la richiesta di risarcimento ex art. 1669 c.c., rivolta allo stesso terzo in secondo grado, deve essere considerata domanda nuova.

Secondo la Suprema Corte il titolo della responsabilità del terzo era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamarlo in causa in primo grado, anche in assenza di esplicita domanda in tal senso, poiché la chiamata era rivolta a liberarsi dalla pretesa attorea (Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525).

Un importante principio affermato dalla Corte riguarda l’estensione automatica al terzo chiamato (il costruttore) della domanda principale dell’attore contro il convenuto (il venditore), quando la chiamata in causa sia finalizzata a individuare il terzo come unico responsabile.

Ciò in virtù della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità.

La sentenza ha anche ribadito che una domanda generica di risarcimento danni comprende tutte le possibili voci di danno, incluso quello non patrimoniale, purché siano stati allegati i fatti materiali lesivi. È ammissibile la produzione di documenti anche in fase successiva, se relativi a fatti collegati a quelli originariamente dedotti.

Un passaggio cruciale della decisione riguarda la responsabilità del venditore per violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

La Corte ha censurato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva addossato al costruttore anche le conseguenze economiche derivanti dal comportamento scorretto del venditore, che era a conoscenza dei problemi ma non li aveva comunicati all’acquirente. Su questo punto la causa è stata rinviata per un nuovo esame.

Infine, la Cassazione ha confermato che il termine annuale per la denuncia dei vizi ex art. 1669 c.c. decorre solo dall’acquisizione di una “sicura conoscenza” dei difetti e delle loro cause, potendo essere postergato all’esito di accertamenti tecnici necessari.

In conclusione, la sentenza offre importanti chiarimenti su temi quali i termini dell’azione di responsabilità contro il costruttore, l’estensione della domanda al terzo chiamato, l’onere di allegazione dei danni e i doveri di correttezza del venditore.

(*Contributo in tema di “Chiamata in causa del terzo costruttore”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

compravendite immobiliari

Compravendite immobiliari: compenso del mediatore fuori dal rogito Compravendite immobiliari: il collegato lavoro, diventato legge, elimina l'obbligo di indicare nel rogito l'importo sostenuto per la mediazione

Compravendite immobiliari: novità del collegato lavoro

Le compravendite immobiliari stanno per subire una piccola rivoluzione, in virtù di una modifica del ddl lavoro n. 1264, approvato definitivamente dal Senato l’11 dicembre 2024.

Il testo del “collegato lavoro”, diventato legge dello Stato, tra le tante novità, prevede infatti una modifica sul contenuto del rogito all’articolo 22.

L’unico comma della norma prevede infatti che: “1. All’articolo 35, comma 22, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, la lettera d) è sostituita dalla seguente: «d) lammontare della spesa sostenuta per tale attività o, in alternativa, il numero della fattura emessa dal mediatore e la corrispondenza tra limporto fatturato e la spesa effettivamente sostenuta nonché, in ogni caso, le analitiche modalità di pagamento della stessa.»

Contesto normativo della modifica

La norma, così isolata non appare molto chiara nel suo significato. Occorre infatti analizzare il contesto in cui è inserita. La nuova disposizione va infatti a modificare il comma 22 dell’art. 35 della legge n. 223/2006 contenente le Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.”

Ed è proprio nel capo dedicato al contrasto all’evasione fiscale che si inserisce l’articolo 35 della legge, che nella prima parte del comma 22 dispone All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Con le medesime modalità, ciascuna delle parti ha l’obbligo di dichiarare:

  1. se si è avvalsa di un mediatore e, nell’ipotesi affermativa, di fornire i dati identificativi del titolare, se persona fisica, o la denominazione, la ragione sociale ed i dati identificativi del legale rappresentante, se soggetto diverso da persona fisica, ovvero del mediatore non legale rappresentante che ha operato per la stessa società;
  2. il codice fiscale o la partita I.V.A.;
  3. il numero di iscrizione al ruolo degli agenti di affari in mediazione e della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di riferimento per il titolare ovvero per il legale rappresentante o mediatore che ha operato per la stessa società;
  4. l’ammontare della spesa sostenuta per tale attività e le analitiche modalità di pagamento della stessa.”

Ratio della modifica per le compravendite immobiliari

L’articolo 22 interviene sulla disciplina che riguarda la dichiarazione dei dati dell’attività di mediazione, che viene svolta quando si verifica la cessione di beni immobili. Nella sua formulazione originaria ciascuna delle parti deve dichiarare, come previsto dalla lettera d) la spesa sostenuta per l’attività di mediazione e le analitiche modalità di pagamento.

La nuova formulazione della lettera d) permette invece alle parti di dichiarare la somma sostenuta per l’attività di mediazione indicando solo il numero della fattura emessa dal mediatore e la corrispondenza tra l’importo fatturato e la spesa sostenuta effettivamente. Resta solo l’obbligo di indicare nel dettaglio le modalità di pagamento.

La modifica, apparentemente di poco conto, soddisfa le richieste dei mediatori di vedere tutelata la loro privacy e quella del cliente. Il venir meno dell’obbligo di indicare nel rogito l’importo della provvigione del mediatore tutela in effetti la libera contrattazione tra cliente e mediatore. La controparte in questo modo non può conoscere questo dato, che in effetti non lo riguarda. Il mediatore deve essere infatti libero di applicare importi diversificati ai clienti. La sola indicazione del numero della fattura relativa all’attività di mediazione inoltre azzera praticamente il rischio di evasione, soprattutto dopo l’introduzione della fattura elettronica.

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modello rli

Modello RLI: cos’è e a cosa serve Modello RLI, il modello per registrare i contratti di locazione e affitto e compiere altre operazioni, dal 26 novembre 2024 è aggiornato

Modello RLI: registrazione contratti di locazione

Il modello RLI (Registrazione Locazioni Immobili) è necessario per chiedere la registrazione dei contratti di locazione e di affitto di immobili all’Agenzia delle Entrate. Il modello è necessario anche per comunicare eventuali proroghe del contratto, così come cessioni, subentri o risoluzioni. Con questo documento è possibile anche comunicare la rinegoziazione del canone di locazione, esercitare l’opzione della cedolare secca e comunicare tutti i dati catastali dell’immobile oggetto del contratto. I contratti di locazione e affitto di beni immobili infatti devono essere registrati obbligatoriamente. La registrazione è richiesta per qualsiasi importo di canone, eccetto i contratti che durano meno di 30 giorni complessivi all’anno.

Registrazione del contratto obbligatoria

La registrazione deve avvenire entro il termine di 30 giorni dalla stipula o dall’inizio della validità, se anteriore. Vediamo in che modo è possibile procedere alla registrazione.

  • Servizi telematici dellAgenzia delle Entrate: obbligatoria per agenti immobiliari e proprietari di almeno 10 immobili, facoltativa per gli altri. Per registrare online, occorre disporre di credenziali SPID, CIE o CNS. L’applicazione RLI, disponibile in versione desktop o web, permette di effettuare registrazione e pagamento delle imposte;
  • Presso un ufficio dellAgenzia: compilando il modello RLI e presentando la documentazione necessaria.  Chi non è obbligato alla registrazione telematica può recarsi presso un ufficio dell’Agenzia e presentare i seguenti documenti:
    • due copie del contratto (originale e copia conforme).
    • modello RLI compilato.
    • eventuali contrassegni telematici per l’imposta di bollo (16 euro ogni 4 facciate o 100 righe).
    • ricevuta del pagamento dell’imposta di registro tramite Modello F24.

Per i contribuenti che optano per la cedolare secca, l’imposta di registro non è dovuta, ma vanno pagate imposte sostitutive.

  • Tramite intermediari o delegati: abilitati come professionisti, associazioni di categoria o CAF.

Un intermediario deve:

  • Fornire una dichiarazione firmata al momento dell’
  • Consegnare due copie della ricevuta di registrazione e delle imposte pagate.
  • Assicurarsi del corretto pagamento delle imposte relative agli anni successivi, proroghe, cessioni o risoluzioni.

Imposte sulla registrazione del contratto

La registrazione richiede il pagamento dell’imposta di registro e di bollo. Tuttavia, i contratti che dispongono esclusivamente una riduzione del canone sono esenti da queste imposte.

L’importo dell’imposta di registro varia in base al tipo di immobile:

  • Per i contratti a canone concordato è prevista una riduzione del 30% della base imponibile per immobili in comuni ad alta tensione abitativa;
  • Per i contratti pluriennali invece c’è la possibilità di pagare l’imposta in un’unica soluzione o annualmente. Chi paga per l’intera durata riceve uno sconto proporzionale agli interessi legali.

In caso di disdetta anticipata del contratto, è previsto il rimborso delle annualità non godute.

L’imposta di bollo è di 16 euro ogni 4 facciate o 100 righe. Può essere pagata tramite contrassegni telematici o addebito su conto corrente.

Come si pagano le imposte sui contratti di locazione

Quando la registrazione del contratto avviene in ufficio l’imposta di registro essere pagata nelle seguenti modalità:

  • con modello F24 Elementi Identificativi  (per titolari di partita Iva in modalità telematica o tramite intermediario), i privati possono presentare il modello presso banche e uffici postali;
  • con addebito su conto corrente.

Il bollo invece si paga utilizzando gli appositi contrassegni telematici che devono avere data successiva alla stipula del contratto.

Modello RLI: aggiornamento del 26 novembre 2024

L’Agenzia delle Entrate ha aggiornato le istruzioni per la compilazione del modello RLI, introducendo modifiche significative per semplificare e uniformare la compilazione e il calcolo delle imposte:

  • casella Eventi eccezionali”: il calcolo dell’imposta di registro può differire dalle regole ordinarie;
  • nuova casella Agevolazioni”: inserito il codice 1 per usufruire delle agevolazioni fiscali degli Enti del Terzo Settore, con imposta di registro fissa per contratti legati ad attività di interesse generale. I contratti di locazione stipulati da tali enti sono esenti dall’imposta di bollo;
  • casella Numero fogli del contratto”: modificata l’intestazione e il calcolo del numero di fogli, considerando 4 facciate o 100 righe per foglio;
  • altri dettagli: Specifiche sui campi relativi a “Scritture private”, “Ricevute” e “Mappe”, con criteri per determinare il numero di fogli o di esemplari allegati.

 

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