amministrazione sostegno

Amministrazione di sostegno: il punto della Cassazione La Cassazione ripercorre disciplina e giurisprudenza sull'amministrazione di sostegno e indica i presupposti per la sua applicazione 

Amministrazione di sostegno: la vicenda

Un soggetto propone reclamo nei confronti del decreto del tribunale che, accogliendo le richieste dei fratelli, ha nominato in suo favore un amministratore di sostegno.

La Corte d’Appello accoglie il reclamo perché ritiene non convincente la consulenza psicologica espletata sul soggetto amministrato. Per l’autorità giudiziaria di secondo grado il reclamante ha la capacità di agire. I procedimenti giudiziari di natura civile e penale intrapresi dal reclamante per poter ottenere la liquidazione della sua quota ereditaria, non rappresentano un presupposto sufficiente per la nomina di un amministratore di sostegno. I fratelli, poco convinti della decisione, ricorrono in Cassazione.

Amministratore di sostegno per chi è incapace di gestire i propri interessi

Nel ricorso i fratelli espongono che da tempo sono in contrasto con l’amministrato perché le richieste sull’eredità paterna avanzate in sede civile e penale sono sproporzionate e controproducenti per lo stesso. Il fratello risulta avere infatti esposizioni debitorie con il fisco e con diversi professionisti tanto che lo stesso è esposto a diverse azioni esecutive che intaccano ancora di più le sue disponibilità economiche. Queste le ragioni per le quali hanno ritenuto necessario chiedere la nomina di un amministratore di sostegno. I fratelli contestano la decisione con la quale la Corte di Appello ha disposto la revoca della nomina dell’amministratore di sostegno perché è stata accertata un’infermità e una ridotta capacità di gestire i propri interessi. Denunciano l’inoltre l’omesso esame di fatti decisivi e controversi, che dimostrerebbero l’incapacità del fratello di tutelare la propria persona e i propri averi. I molteplici incarichi professionali conferiti, le successive revoche, le iniziative penali risultate infondate, le aspettative sproporzionate e irragionevoli sull’eredità e i debiti maturati nei confronti degli investigatori privati confermano la diagnosi del C.T.U relativa al deficit cognitivo del fratello.

Amministrazione di sostegno: analisi dell’istituto

Prima di giungere alla decisione finale la Cassazione (n. 14681-2024) ripercorre la legislazione e la giurisprudenza sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, esponendo quanto segue.

L’amministrazione di sostegno è un istituto che è stato introdotto dalla legge numero 6/2004 per tutelare i soggetti deboli e per offrire a chi si trova in una condizione di impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (a causa di una infermità o menomazione fisica non necessariamente di natura mentale), uno strumento di assistenza.

A differenza degli istituti della inabilitazione e della interdizione l’amministrazione di sostegno sacrifica in misura minima la capacità di agire del soggetto, conservandone la libertà decisionale e aiutandolo nel compimento delle attività quotidiane senza sostituire però la loro volontà.

L’amministrazione di sostegno infatti è un istituto che tutela e protegge il beneficiario, ma il suo contenuto è meno afflittivo rispetto all’interdizione. Il beneficiario, per quanto possibile, conserva la sua autonomia e la sua autodeterminazione.

L’istituto non è previsto per coloro che si trovano in una condizione di incapacità di intendere di volere, esso presuppone una condizione “attuale” di capacità menomata, che ponga il soggetto in una condizione di impossibilità di provvedere in modo autonomo, in tutto o in parte, ai propri interessi. L’amministrazione di sostegno non è applicabile ai soggetti che sono pienamente capaci di autodeterminarsi, anche se affetti da una menomazione fisica. L’applicazione dell’istituto comporterebbe infatti una limitazione ingiustificata della capacità di agire soprattutto per i soggetti   pienamente lucidi.

Il giudice di merito, nel valutare la nomina dell’amministratore di sostegno, deve tenere conto, in base ai criteri di proporzionalità e funzionalità, dei seguenti aspetti:

  • attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato;
  • gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno dell’interessato;
  • circostanze caratterizzanti la fattispecie per assicurare un supporto adeguato alle esigenze del beneficiario senza penalizzarlo.

I punti di forza dell’istituto sono rappresentati dal dinamismo e dalla flessibilità, tanto è vero che l’amministratore di sostegno ha il dovere di riferire periodicamente al giudice tutelare le attività di gestione del patrimonio svolte, ma anche il cambiamento eventuale delle condizioni di salute e di vita personale e sociale dell’amministrato. Il provvedimento che dispone la nomina dell’amministratore di sostegno pertanto è sempre suscettibile di modifiche e adeguamenti.

Come sancito dall’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite le caratteristiche dell’amministrazione di sostegno impongono che l’accertamento dei presupposti di legge venga compiuto in maniera specifica, circostanziata e focalizzata rispetto alle condizioni del beneficiario, accertabili anche mediante c.t.u, ma anche rispetto all’incidenza delle stesse sulla capacità del beneficiario di provvedere autonomamente ai propri interessi personali e patrimoniali. I poteri di gestione ordinaria dell’amministrazione di sostegno devono essere delineati e direttamente proporzionati ai suddetti elementi, di modo che risultino funzionali agli obiettivi specifici della tutela, comportando diversamente una limitazione ingiustificata della capacità di agire della persona. Ne consegue che, se il beneficiario affetto da disabilità fisica si opponga all’amministrazione, il giudice deve ne dovrà tenere conto e valutare altresì le soluzioni alternative proposte dallo stesso, se illustrate con specificità e concretezza.

Il decreto di nomina del giudice tutelare deve essere quindi specifico e individualizzato, deve indicare l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario e indicare quali sono gli atti che il beneficiario è in grado di compiere da solo.

Tra gli atti per i quali è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare, vi sono quelli di natura giudiziaria previsti dall’articolo 374 c.p.c (fatte salve alcune eccezioni) applicabile anche in caso di interdizione. Occorre chiarire però che l’amministrazione di sostegno si differenzia dall’interdizione perché non produce la perdita della capacità di agire del soggetto, che conserva la capacità di autodeterminarsi. Ai sensi dell’articolo 404 c.p.c infatti la persona sottoposta all’amministrazione di sostegno può essere assistita, ma l’amministratore di sostegno non ha un potere – dovere di sostituire il beneficiario.

Il giudice tutelare nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno deve dare delle indicazioni “sartoriali” che possono riguardare sia la salute del soggetto che l’amministrazione del patrimonio del beneficiario, nel rispetto della capacità di auto determinazione del destinatario.

Sul tema delle azioni giudiziarie intraprese da un soggetto ritenuto incapace di provvedere ai propri interessi e quindi bisognoso di un’amministrazione di sostegno, è stato precisato che l’istituto non impedisce al destinatario di promuovere personalmente un giudizio, a meno che tale potere non sia escluso espressamente dal decreto di nomina. Il decreto di nomina non può però contenere un’autorizzazione generale alla promozione di giudizi, l’amministratore di sostegno deve infatti richiedere l’autorizzazione specifica al giudice tutelare.

La decisione della Cassazione

Passando all’esame del caso di specie la Cassazione ritiene che la decisione della Corte d’Appello debba essere cassata. Le azioni intraprese dal beneficiario sono tali da porlo in effetti a rischio di indigenza. Le ravvisate carenze cliniche poste a fondamento della misura avrebbero dovuto condurre a un ulteriore o rinnovato approfondimento di natura tecnico scientifica. La Corte di appello inoltre non ha valutato adeguatamente le condotte del beneficiario. La affermata responsabilità dei professionisti a cui il soggetto si è rivolto spostano il focus del problema. Se la Corte d’Appello avesse considerato l’adeguatezza degli strumenti giudiziari utilizzati per perseguire l’obiettivo desiderato dal beneficiario il quadro di debolezza e di fragilità del beneficiario sarebbe stato ricostruito correttamente. La Corte d’Appello, in sede di rinvio, dovrà valutare l’opportunità di un’amministrazione di sostegno nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità e della situazione specifica del soggetto.

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giurista risponde

Prescrizione azione di ripetizione per somme illegittimamente addebitate In caso di somme illegittimamente addebitate al cliente dalla banca, da quando decorre il dies a quo del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

La ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Il dies a quo della prescrizione inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo. – Cass., sez. I, 26 febbraio 2024, n. 5064.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’iniziativa giudiziaria di una società nei confronti della banca presso la quale aveva acceso un rapporto di conto corrente fin dall’anno 1981. La correntista chiedeva la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dall’istituto di credito a titolo di interessi anatocistici. La banca eccepiva la prescrizione in relazione agli addebiti aventi natura di rimesse solutorie effettuati sul conto in data anteriore al decennio dalla notifica della citazione. Il Tribunale rigettava l’eccezione della banca ritenendo che la stessa non avesse indicato le rimesse solutorie e accoglieva la domanda dell’attrice provvedendo alla rideterminazione del saldo in seguito ad una c.t.u. contabile.

La decisione veniva riformata dal giudice del gravame sul presupposto che incombesse sulla correntista produrre in giudizio tutti gli estratti conto a partire dalla data di apertura del contratto.

Secondo la Corte di Appello solo attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti si sarebbe potuti pervenire alla determinazione dell’eventuale credito della correntista e alla quantificazione degli importi da espungere, non essendo sufficienti a tale fine gli estratti conto scalari in quanto rappresentativi dei soli conteggi degli interessi attivi e passivi, senza possibilità di individuare le operazioni alla base delle annotazioni degli interessi e dei movimenti effettuati nell’arco di tempo considerato.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione lamentando in prima battuta l’erronea statuizione riguardo la ripartizione degli oneri probatori con riferimento all’eccezione di prescrizione considerando che l’onere probatorio di un fatto estintivo incombe sul soggetto che lo eccepisce.

Secondariamente si è censurata l’erronea valutazione dei fatti costituivi posti a fondamento della domanda, posto che la ragione della produzione degli estratti conto scalari con riferimento ad un limitato periodo di tempo del conto corrente dipendeva dalla domanda, limitata a quell’intervallo temporale, con esplicita rinuncia a qualsiasi contestazione quanto ai periodi per i quali non vi era documentazione contabile. Si aggiungeva, altresì, l’assenza di una motivazione per il mancato accoglimento delle risultanze espresse nella consulenza tecnica.

In ultimo, veniva contestata la natura migliorativa della capitalizzazione degli interessi introdotta dalla delibera del Cicr del 9 febbraio del 2000 rispetto alla clausola anatocistica precedentemente applicata.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ricorda preliminarmente come in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte anteriore (così anche Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895 – termine di prescrizione estintiva).

Tuttavia, ricorda la Corte che il principio opera solo sul versante dell’onere di allegazione ammettendo una simmetria, in quanto così come il correntista può limitarsi a indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione previa verifica del saldo del conto, anche la banca può a sua volta limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore per il tempo necessario alla prescrizione.

Ciò posto, il problema delle rimesse solutorie si sposta sul piano dell’onere probatorio per cui all’allegazione consegue la prova della parte su cui, per legge, incombe il relativo onere, anche facendo luogo a una c.t.u., cosicché le relative risultanze probatorie vengano valutate dal giudice.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva disatteso le risultanze della consulenza tecnica sul presupposto di una non idonea documentazione in grado di evidenziare l’esistenza di rimesse con funzione solutoria, sostenendo come il conto corrente era contraddistinto dalla mancanza di affidamenti e ricavandone la funzione solutoria per tutte le rimesse, salvo prova contraria della correntista.

Tale motivazione viene ritenuta affetta da un’incongruenza logica in quanto, nel caso in cui un cliente citi in giudizio l’istituto di credito domandando la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi anatocistici, relativamente ad un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, “la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Questo si rende necessario ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, termine che inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo” (termine di prescrizione per l’azione di ripetizione).

Spostandosi sul versante dell’onere probatorio a carico della correntista censurato dalla Corte di Appello, la Cassazione afferma che una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi anatocistici a carico della stessa, occorre distinguere il caso in cui essa è convenuta da quella in cui sia attrice. In quest’ultimo caso, invero, l’accertamento del dare e dell’avere può aversi tramite l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete tese a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, in quanto l’estratto è un documento formato e proveniente dalla banca.

Da ciò deriva che è possibile ricostruire l’effettività del saldo finale partendo dai documenti esibiti dal correntista e provenienti dalla banca, anche tramite elaborazioni tecniche dei dati risultanti dai riassunti scalari così come anche statuito da Cass., sez. I, 18 aprile 2023, n. 10293.

Nel caso in esame, essendo il correntista ad agire in giudizio per la rideterminazione del saldo e la correlata ripetizione delle somme indebitamente considerate, ed avendo egli prodotto il primo degli estratti conto scalari con un saldo iniziale a suo debito, è legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni o diano giustificazione di un saldo diverso nel periodo di riferimento per effetto della eliminazione delle voci o delle competenze illegittimamente applicate fino a quel momento. In tal modo, la base di calcolo può essere determinata proprio sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, dato che questo costituisce un documento redatto dalla controparte in funzione riassuntiva delle movimentazioni del conto corrente, e rimane, nel quadro delle risultanze di causa, il dato più sfavorevole alla stessa parte attrice.

Su tali assunti, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà uniformarsi ai principi esposti.

*Contributo in tema di “ termine di prescrizione per l’azione di ripetizione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

mutuo ammortamento francese

Mutui: salvo l’ammortamento alla francese Per le sezioni unite della Cassazione, il mutuo con ammortamento “alla francese” soddisfa la trasparenza e la determinatezza dell’oggetto se la Banca allega il piano al contratto

Mutui con ammortamento “alla francese”

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza numero Cass-15340-2024 salvano i mutui “alla francese” ossia quei mutui tradizionali che prevedono rate costanti e una quota di interessi progressivamente decrescente a fronte di un capitale progressivamente crescente. La mancata indicazione sulle modalità di ammortamento e del calcolo degli interessi passivi non determina la nullità di questi contratti di mutuo.

Contratto nullo se non indica modalità di ammortamento e calcolo degli interessi

La vicenda che si conclude con la sentenza a Sezioni Unite ha inizio quando una signora si rivolge al Tribunale per far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario che la stessa aveva stipulato, ma in relazione al quale non era stata pattuita e indicata la modalità di ammortamento “alla francese” e la modalità di calcolo degli interessi passivi. Chiedeva quindi che la banca venisse condannata a rimborsare i maggiori interessi riscossi indebitamente dalla banca.

Il Tribunale competente dispone il rinvio pregiudiziale alla Cassazione, chiedendo la soluzione della questione di diritto relativa alle conseguenze giuridiche derivanti dall’omessa indicazione, all’interno del contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori a fronte della previsione scritta del tasso annuo nominale e della modalità di ammortamento “alla francese”, ovvero se la mancata ed espressa previsione negoziale di tali condizioni determini la nullità del contratto. Il Tribunale ricorda infatti che, ai sensi dell’articolo 117 comma 4 del Testo Unico Bancario, i contratti bancari di credito devono indicare, a pena di nullità, il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni inclusi e gli eventuali e maggiori oneri in caso di mora, con conseguente rideterminazione, in caso di mancata previsione, del piano di ammortamento con applicazione del tasso sostitutivo.

Ammortamento alla francese: il piano soddisfa determinatezza e trasparenza

Nella motivazione della sentenza la Cassazione illustra prima di tutto le caratteristiche tipiche del piano di ammortamento alla francese. Trattasi, nello specifico, di un piano che prevede un rimborso del capitale e degli interessi con pagamento del debito a rate costanti, comprensive di una quota capitale crescente e di una quota interessi decrescente. Il dubbio che gli Ermellini sono chiamati a risolvere riguarda la trasparenza di questo ammortamento e la capitalizzazione composta degli interessi in quanto “l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta produce interessi”. Un sistema che, per il Tribunale de rinvio, comporta una maggiore onerosità del costo del denaro che il cliente prende a prestito proprio perché si producono interessi su interessi.

Per la Cassazione però “deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. “alla francese” e del regime di capitalizzazione composto degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determina dell’oggetto del contratto causandone la nullità parziale”.

In relazione poi al contestato difetto di trasparenza la Cassazione ricorda che, se il contratto trasparente è quello che consente di intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa e di avere la piena contezza delle condizioni del contratto sottoscritto e comprendere la portata del suo impegno, nel caso di di specie esso non sussiste. L’istituto di credito ha assolto ai propri obblighi informativi allegando il piano di ammortamento al contratto, offrendo così al cliente la possibilità di verificare se l’offerta rispondeva alle sue necessità e alla sua situazione finanziaria e di valutarne la convenienza, previo confronto con altre offerte presenti sul mercato.

Alla luce delle motivazioni suddette la Cassazione enuncia quindi il seguente principio di diritto: “in “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento alla francese di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminata delloggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza e delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra istituti di credito e i clienti”. 

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danno biologico

Danno biologico Cos’è il danno biologico e in quale modo si provvede al suo risarcimento. Le tabelle dei tribunali e la disciplina prevista dal Codice delle assicurazioni

Cos’è il danno biologico

Per danno biologico si intende il danno non patrimoniale che deriva dalla lesione dell’integrità fisica o psichica che comprometta, anche in modo lieve, il modo di svolgimento delle attività quotidiane del soggetto che l’ha subito ed incida sugli aspetti relazionali della sua vita.

L’importanza del tema del danno biologico deriva dalla frequente ricorrenza delle richieste di risarcimento da esso derivanti, che ricorrono specialmente quando le controversie riguardano danni da sinistri stradali o in cause giudiziali da responsabilità medica.

Lesioni micropermanenti o di lieve entità

La disciplina del risarcimento del danno biologico non è stata sempre univoca, e tuttora occorre fare una serie di distinzioni, a seconda dell’evento da cui origini il danno e dell’entità delle lesioni subite.

A questo riguardo, la principale distinzione da fare in tema di danno biologico è tra lesioni di lieve entità, o micropermanenti, e lesioni di non lieve entità, o macropermanenti.

Altrettanto rilevante è la distinzione tra lesioni durature (o – per l’appunto – permanenti), quindi destinate ad incidere, in qualche modo, per il resto della vita del danneggiato, e lesioni temporanee, i cui effetti invalidanti terminano dopo un determinato lasso di tempo.

Le tabelle di Milano per il calcolo del danno biologico

Gli uffici di diversi tribunali italiani hanno provveduto a stilare delle apposite tabelle sull’invalidità, con valori di entità del danno che vanno da 1 a 100 e in cui ad ogni diverso valore corrisponde un determinato importo da riconoscere quale risarcimento, rapportato anche all’età del danneggiato (e quindi alla sua aspettativa di vita).

Tradizionalmente, le tabelle più utilizzate dai giudici italiani, in questo senso, sono quelle del Tribunale di Milano.

Danno da circolazione stradale: art. 139 codice assicurazioni

Più specificamente, in materia di danni da circolazione stradale, l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni Private prevede che, per il risarcimento del danno biologico permanente, venga liquidato, per i postumi pari o inferiori al 9 per cento, un importo crescente, in ragione più che proporzionale, per ogni punto percentuale.

Come si vede, quindi, il limite dei 9 punti percentuali rappresenta il discrimine tra lesioni di lieve entità (micropermanenti) e lesioni di non lieve entità (macropermanenti).

Per le prime, la quantificazione viene periodicamente effettuata con apposito decreto ministeriale, rivalutato ai valori Istat sul costo della vita; per la quantificazione del risarcimento dovuto per le lesioni di non lieve entità, invece, si applicano solitamente le tabelle predisposte dai Tribunali, non essendo mai stato emanato il regolamento prescritto dall’art. 138 del Codice (d.lgs. 209 del 2005).

Il risarcimento del danno da invalidità temporanea

Si è fatto cenno, poc’anzi, al decreto ministeriale con cui vengono individuati gli importi per il risarcimento del danno biologico permanente.

Tale decreto provvede anche alla quantificazione, periodicamente rimodulata, del danno biologico per ogni giorno di invalidità temporanea. Quest’ultima, espressamente contemplata dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (comma 1, lett. b) può essere totale o parziale, a seconda che impedisca del tutto, o solo in parte, l’esplicazione delle normali attività quotidiane e della vita di relazione del soggetto danneggiato (in gergo giuridico, si utilizzano, al riguardo, gli acronimi ITT – invalidità temporanea totale, e ITP – invalidità temporanea parziale).

Danno biologico e responsabilità medica

Infine, va rilevato che le tabelle danno biologico predisposte dai tribunali (in primis, quelli di Milano e Roma) vengono comunemente applicate anche in tema di responsabilità sanitaria, cioè quando si tratta di risarcire lesioni derivanti da colpa medica.

Per il danno biologico derivante da infortuni sul lavoro e da malattie professionali è previsto, invece, un indennizzo sulla base delle tabelle Inail, che dispongono il risarcimento in forma di rendita per invalidità permanenti a partire dai 16 punti percentuali.

mail prova

L’e-mail è prova scritta La Cassazione ha precisato che il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma “semplice” è un documento informatico che forma prova piena dei fatti e delle cose rappresentate

La prova per iscritto del contratto di assicurazione

Il caso che ci occupa, per quanto qui rileva, prende le mosse dalla decisione adottata dalla Corte territoriale in ordine all’inidoneità di un’e-mail di dimostrare, sul piano probatorio, l’esistenza e il contenuto di un contratto di assicurazione.

Nella specie, il Giudice di merito aveva ritenuto che il contratto di assicurazione, ai sensi dell’art. 1888 c.c., dovesse essere provato per iscritto e che tale prova non poteva ritenersi raggiunta nel caso sottoposto al suo esame, ove si era assistito ad uno scambio “di semplici, ordinarie e-mail e non già di scambio a mezzo di posta elettronica certificata”. Invero, aveva riferito la Corte territoriale “in caso di contratto da provarsi per iscritto lo scambio di mail non potrebbe (..) ricoprire lo stesso valore di una scrittura privata”.

Avverso tale decisione l’assicurato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La mail soddisfa il requisito della prova scritta

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14046/2024, ha accolto il motivo di ricorso con cui il ricorrente ha contestato il provvedimento impugnato in ordine al mancato riconoscimento dell’efficacia della prova scritta costituita dalla mail di cui si è dato sopra conto.

In particolare, il Giudice di legittimità, facendo riferimento al quadro normativo esistente all’epoca dei fatti di causa, ha ricordato che “Le condizioni richieste dalla legge affinché un documento informatico potesse ritenersi uno “scritto”, idoneo a soddisfare il requisito della forma ad probationem del contratto assicurativo, erano stabilite (…) dagli artt. 20 e 21 del d.lgs. 82/2005”; tali norme, ha proseguito la Corte “distinguevano i documenti informatici sottoscritti con firma elettronica “semplice”, da quelli sottoscritti con firma elettronica “qualificata” o “digitale”. Posta tale distinzione, non vi è dubbio, afferma la Corte, che il caso in esame attiene ad un documento cui era stata apposta una firma elettronica semplice, rispetto alla quale le suddette norme attribuivano al giudice la valutazione in ordine all’idoneità del documento di rispettare il requisito di forma prescritto di volta in volta dalla legge.

In relazione a tale contesto normativo, ha precisato il Giudice di legittimità, la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare le caratteristiche oggettive del documento, quali, in particolare, la sua qualità, sicurezza, integrità, immodificabilità, desumibili da elementi come: il formato file in cui il massaggio di posta elettronica è stato salvato, le proprietà dello stesso e altri elementi analoghi.

La suddetta valutazione doveva in questo senso essere compiuta alla luce del consolidato principio secondo cui “la prova scritta del contratto di assicurazione può essere desunta anche da documenti diversi dalla polizza (…), purché provenienti dalle parti e da questi sottoscritti, dai quali sia possibile desumere l’esistenza ed il contenuto del patto”.

I principi di diritto della Cassazione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha concluso il proprio esame elaborando i seguenti principi desumibili dalla normativa di riferimento:

  • il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma semplice è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.;
  • se non ne sono contestati la provenienza o il contenuto, la mail prova piena prova dei fatti e delle cose rappresentate;
  • se ne sono, invece, contestati la provenienza o il contenuto, il giudice deve valutare il documento con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità ed immodificabilità.

Ne consegue che, nel caso di specie, la Corte d’appello non avrebbe dovuto scartare l’e-mail in questione dal materiale probatorio sulla base dei soli rilievi della carenza di firma elettronica qualificata e della mancata adozione di modelli usualmente impiegati per quel tipo di contratti, ma avrebbe dovuto compiere le valutazioni prescritte dalla legge.

deposito telematico audio video

Processo telematico: non è pronto per audio e video Il CNF chiarisce che al momento il deposito di files audio e video è ammesso solo su supporto CD/DVD in Cancelleria

No al deposito telematico di audio e video

Con il parere n. 17 del 19 aprile 2024, pubblicato il 9 maggio sul sito del Codice deontologico, il CNF precisa che, in attesa delle nuove specifiche tecniche del processo telematico, non è possibile effettuare il deposito diretto dei files in formato audio e video.

Diversi Tribunali risolvono il problema ammettendo il deposito in cancelleria di questi file su supporti CD/DVD.

Deposito file audio e video nel processo telematico: il quesito

Il C.O.A di Biella si rivolge al C.N.F per chiedere un parere sul deposito di files audio e video nel processo telematico.

La domanda è volta ad accertare se esita un sistema per produrre files audio e video nel processo telematico, che possano essere fruiti dal Giudice e, in caso di risposta negativa, se sia corretta la richiesta da parte degli Uffici Giudiziari di produrre i file audio e video su unità esterne come le USB solo in “copia forense” o se sia altrettanto valida la produzione su supporto USB di questi files, riservando la produzione della copia forense alle sole ipotesi in cui possa sorgere una contestazione.

Poiché la modalità di produzione dei files su supporto esterno è una diretta conseguenza dell’impossibilità di provvedere al deposito telematico, il COA chiede se è condivisibile applicare a questa fattispecie l’esenzione dal pagamento dei diritti di copia, in base a quanto previsto dall’articolo 40 commi 1 quater e quinques del DPR 115/2002.

Consentito il deposito in cancelleria di file audio e video

Il CNF ricorda che la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia di recente ha posto in consultazione la nuova versione delle specifiche tecniche che si riferiscono ai documenti informatici e che sono richiamate nell’articolo 34 del decreto del Ministro della Giustizia n. 44/2011.

Il comma 3 di questa norma dispone infatti che “Fino all’emanazione delle nuove specifiche tecniche, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le specifiche tecniche vigenti, già adottate dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.” 

Al momento pertanto, nel rispetto delle regole vigenti, non è possibile depositare telematicamente files audio e video. 

Parte della giurisprudenza ammette il deposito in cancelleria di files audio e video solo se contenuti in un supporto informatico esterno come i CDROM, corredato da una nota di deposito in cui è necessario specificare la tipologia di files contenuti in detto supporto e il motivo per il quale si procede al deposito nelle forme “tradizionali”.

L’utilizzo delle chiavette USB è sconsigliato per i costi maggiori, per i problemi legati all’integrità dei files e perché la data di retention degli USB è di 10 anni mentre quella dei CDROM /DVD è di 30 anni.

In alcuni Tribunali, per prassi, è previsto il deposito telematico di files audio e video in formato ZIP o RAR, accompagnato dall’obbligo di dare atto del contestuale deposito dei file in formato CD/DVD in cancelleria.

In questo modo si evita che il giudice e le parti non abbiano il programma specifico per l’apertura di del file pdf, utilizzato come contenitore di contenuti audio e video.

La soluzione adottata scongiura in questo modo anche il problema legato al pagamento dei costi di copia.

riconvenzionale mediazione

Domanda riconvenzionale e mediazione La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha affermato che la domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione

Riconvenzionale e mediazione obbligatoria

La domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione. E quanto hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza numero 3452/2024, emanando il seguente principio di diritto: “La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 D.Lgs. n. 28/2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile”.

La motivazione principale su cui è fondato l’assunto riguarda la considerazione che la mediazione rientra tra le disposizioni:  “finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile” (Corte Cost. 18 aprile 2019, n. 97)”.  Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria. Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione” (Corte Cost. 20 gennaio 2022, n. 10).

Quindi la mediazione, con l’auspicata conciliazione delle controversie, mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale.

Orbene, nell’evenienza di una riconvenzionale tale scopo non è più raggiungibile in quanto il processo è già iniziato. E tale considerazione vale per ambedue le riconvenzionali cioè quella connessa ai diritti fatti valere con l’azione e quella cd. eccentrica che invece fonda su fatti completamente diversi si pensi ad un’eccezione di compensazione, ecc.

Ma il principio viene ulteriormente affermato con un ragionamento per assurdo riportato sempre nella motivazione della sentenza in esame: “la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata.

Da ciò che la domanda riconvenzionale non è sottoposta all’obbligo del preventivo esperimento del procedimento di mediazione. Ciò non significa che il Giudice non la possa disporre in ogni stato e grado del procedimento eventualmente anche su richiesta delle parti.

giurista risponde

Immissioni acustiche moleste La normativa in materia di immissioni acustiche nelle attività produttive definisce il carattere molesto delle immissioni anche nei rapporti tra privati?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

In materia di immissioni, il superamento dei limiti di rumore stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che disciplinano le attività produttive è, senz’altro, illecito, in quanto, se le immissioni acustiche superano la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela degli interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione esse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino – ancora più esposto degli altri, in ragione della contiguità dei fondi, ai loro effetti dannosi – devono, per ciò solo, considerarsi intollerabili, ex art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. – Cass., sez. II, 26 febbraio 2024, n. 5074.

La questione sottoposta alla Suprema Corte origina da una domanda risarcitoria formulata dai proprietari di un immobile, carente di idoneo isolamento acustico, nei confronti della ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione.

In particolare, gli istanti ritenevano che l’intollerabilità dei rumori nella propria abitazione fosse causata dai gravi vizi dell’immobile sotto il profilo dei requisiti tecnico-acustici.

Nel doppio grado di giudizio veniva accertata la violazione dei limiti soglia, di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 1997, in materia di requisiti acustici passivi degli edifici e veniva stabilito come tale violazione comportasse di per sé il superamento della normale tollerabilità delle immissioni acustiche ex art. 844 c.c. all’interno dell’abitazione.

Conseguentemente, tanto il Giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello aditi, sebbene in misura diversa sotto il profilo quantitativo, condannavano la parte inadempiente al risarcimento del danno, ritenendo sussistente il danno patrimoniale patito dai proprietari dell’abitazione, costretti alla locazione di altra unità immobiliare idonea all’uso abitativo a causa dei gravi vizi acustici del proprio immobile.

In sede di censura della pronuncia d’appello, la ditta soccombente ha denunciato la violazione e falsa applicazione normativa in ordine alla natura rigorosa dell’onere della prova, che dovrebbe dimostrare l’esistenza dei rumori intollerabili esclusivamente per il carente isolamento acustico dell’immobile. Ai fini del riconoscimento risarcitorio, la ricorrente ha lamentato il mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alla causazione dell’evento dannoso ed alla sussistenza del nesso causale con il danno ex adverso patito e consistente nella necessità di locare altra unità abitativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto ed ha introdotto un principio di presunzione assoluta circa la violazione delle condizioni di normale tollerabilità delle immissioni acustiche, avuto riguardo alla condizione dei luoghi ex art. 844 c.c., in ipotesi di superamento dei limiti soglia dei requisiti acustici passivi degli edifici.

Di contro, però, la Cassazione ha stabilito come l’osservanza di dette soglie non determini l’insita liceità delle immissioni, rimettendo al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione in ordine alla tollerabilità delle immissioni, alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c.

Sotto il profilo del riconoscimento del danno, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza d’appello anche nella parte in cui ha considerato l’inagibilità dell’appartamento nella sua unitarietà, non rilevando l’accertamento tecnico in ordine alla maggiore percezione delle immissioni sonore in alcuni vani dell’immobile, sì da escludere la necessità di locazione di altra unità abitabile.

Il complessivo accertamento del superamento dei limiti soglia integra un’ipotesi di responsabilità del danneggiante secondo un giudizio di merito, immune da vizi logico-giuridici, che rintraccia nei costi di locazione di altro appartamento agibile una conseguenza immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., del danno patito dai proprietari del bene gravato da vizi.

*Contributo in tema di “Immissioni acustiche moleste”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

deposito telematico sentenza impugnata

Deposito telematico sentenza: i chiarimenti della Cassazione La Suprema Corte chiarisce che per effetto del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull'originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema

Deposito della sentenza priva della stampigliatura

La questione posta all’attenzione del Giudice di legittimità, per quanto qui rileva, attiene al seguente quesito “se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (…), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza”.

Rispetto al suddetto dubbio interpretativo, la S.C., ripercorrendo i precedenti formatesi in seno alla giurisprudenza di legittimità rispetto a casi analoghi, ha ricordato come l’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata ad esempio dichiarata nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risultava priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione e questo anche perché “la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato”.

Più nel dettaglio, ha spiegato la Corte, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità muovono dal rilievo che le disposizioni che si occupano di stabilire l’equivalenza delle copie informatiche all’originale dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale” attribuiscono “al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza”.

Tale orientamento ha dunque sostenuto che “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”.

Deposito copia informatica con stampigliatura equivale a deposito duplicato informatico

La Corte ha proseguito il proprio esame rilevando come, in applicazione dei suddetti principi, nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non sia possibile evincere la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso, è stata, in precedenti casi, pronunciata l’inammissibilità del ricorso. Resta comunque fermo che, non si può considerare come copia non autentica la copia analogica prodotta con modalità telematiche e ciò in quanto essa risulta conforme all’esemplare presente nel fascicolo informatico.

Per dare seguito ai quesiti posti alla sua attenzione, la Corte è poi passata ad esaminare le nozioni offerte dall’ordinamento giuridico in ordine alla “copia informatica”, al “duplicato informatico” e alla “attestazioni di conformità nel processo civile”.

All’esito del suddetto esame, e per quel che qui rileva,  la Corte ha affermato che è “conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (..) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine”.

Per quanto infine attiene alla nozione di “contrassegno elettronico”, il Giudice di legittimità ha precisato che, ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D. “Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale e possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico”.

Sulla base del quadro normativo di riferimento, la Corte ha rilevato pertanto che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico da parte del sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e diviene poi consultabile dai difensori nella versione originale, rappresentata dal duplicato, ovvero nella copia informatica che reca la stampigliatura.

Ne consegue dunque che, il concetto di “originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione”.

Principi di diritto

La Corte, con sentenza n. 12971-2024, ha concluso il proprio esame enunciando, per quanto qui rileva, i seguenti principi di diritto:

“a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di Legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione (…);

b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore”.

 

 

 

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accettazione tacita eredita

Accettazione tacita eredità: il punto della Cassazione La Corte, con due recenti ordinanze, ha precisato che si ha accettazione tacita dell’eredità quando sono posti in essere atti incompatibili con la volontà di rinunciare all'eredità

L’assunzione della qualità di erede

Con le ordinanze n. 10544-2024 e n. 7995-2024, la Suprema Corte ha avuto modo di definire alcuni tratti distintivi dell’accettazione tacita di eredità.

Nell’ambito delle sopracitate ordinanze la Corte di Cassazione si è occupata d’individuare gli elementi sulla base dei quali è possibile affermare che vi sia stata accettazione tacita da parte degli eredi.

A tal proposito, con l’ordinanza n. 10544/2024 la Corte ha ricordato che “è già stato posto il principio secondo il quale l’assunzione in giudizio della qualità di erede di un originario debitore costituisce accettazione tacita dell’eredità, qualora il chiamato si costituisca dichiarando tale qualità senza in alcun modo contestare il difetto di titolarità passiva della pretesa (…); è altresì stato posto il principio secondo il quale l’accettazione tacita di eredità può essere desunta anche dalla partecipazione in contumacia a giudizi di merito concernenti beni del de cuius (….)”.

Quando si ha accettazione tacita dell’eredità

Nella medesima direzione, con l’ordinanza n. 7995/2024, il Giudice di legittimità ha ripercorso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, con cui è stato affermato che l’accettazione tacita dell’eredità può venire in rilievo in svariate ipotesi in cui il chiamato eserciti l’azione in giudizio, quali, a titolo esemplificativo “l’agire in giudizio del figlio del defunto nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto al medesimo dovuto (…), la riassunzione del processo da parte del figlio del de cuius (…), la proposizione di azioni di rivendica o di azioni dirette alla difesa della proprietà o alla richiesta di danni per la mancata disponibilità dei beni ereditari, in quanto azioni che travalicano il mero mantenimento dello stato di fatto esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse ex art. 460 cod. civ.”.

Sulla base di tali principi, la Corte ha pertanto ritenuto che anche la proposizione di un ricorso per cassazione possa essere considerata quale tacita accettazione tacita dell’eredità.

Atti incompatibili con la volontà di rinuncia all’eredità

La Corte ha concluso l’esame dell’ordinanza n. 10544/2024, rigettando il ricorso proposto ed affermando che “integrano accettazione tacita di eredità gli atti incompatibili con la volontà di rinunciare all’eredità e non altrimenti giustificabili se non con la veste di erede, mentre sono privi di rilevanza gli atti che, ammettendo come possibili altre interpretazioni, non denotano in maniera univoca una effettiva assunzione della qualità di erede, spetta al giudice di merito il relativo accertamento”.

Per quanto invece attiene all’ordinanza n. 7995/2024, la Corte ha accolto il ricorso proposto e rilevato che “poiché l’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità, essa può legittimamente reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che  (…) non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 cod. civ., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non presupponendo di voler far propri i diritti successori”.

 

 

 

 

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