caro bollette accise

Caro bollette: l’intervento della Corte Costituzionale E' incostituzionale l'inclusione delle accise nel contributo straordinario di solidarietà del 2022 a carico delle imprese energetiche

Caro bollette: illegittimo l’art. 37 del dl 21/2022

Anche «nella materia tributaria e persino quando, in momenti particolari, siano implicate straordinarie e preminenti esigenze della collettività», la Corte costituzionale «è chiamata comunque ad assicurare, nella valutazione del bilanciamento operato dal legislatore, quanto meno il rispetto di una soglia essenziale di non manifesta irragionevolezza, oltre la quale lo stesso dovere tributario finirebbe per smarrire la propria giustificazione in termini di solidarietà, risolvendosi invece nella prospettiva della mera soggezione al potere statale».

È quanto ha stabilito la Consulta nella sentenza n. 111-2024, con la quale ha esaminato le questioni sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di Milano e di Roma in riferimento al contributo straordinario di solidarietà istituito per l’anno 2022 dall’art. 37 del decreto-legge n. 21 del 2022, dichiarando l’illegittimità del medesimo articolo ma solo nella parte in cui non esclude dalla base imponibile le accise versate allo Stato e indicate nelle fatture attive. Secondo la pronuncia «non appare arbitrario che il fortissimo aumento dei prezzi dei prodotti energetici nell’eccezionale situazione congiunturale» che si è verificata in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina e lo specifico mercato in cui le imprese energetiche hanno operato siano stati identificati dal legislatore – al verificarsi di una serie di condizioni – come un indice rivelatore di ricchezza.

Intervento normativo sui generis

La sentenza ha precisato che sarebbe stato certamente fisiologico fare riferimento ai dati dichiarati ai fini dell’imposta sui redditi delle società (IRES), dal momento che la maggiore ricchezza è facilmente riscontrabile in termini di surplus di utili conseguiti; al contrario l’aver mutuato le regole applicative di un’imposta indiretta come l’IVA non garantisce con altrettanta sicurezza il risultato di intercettare la maggiore ricchezza. Tuttavia, erano in gioco circostanze straordinarie che hanno qualificato «in termini del tutto sui generis l’intervento normativo».

Da un lato, la situazione di crisi, che, se non fosse stata «affrontata rapidamente», avrebbe potuto «avere gravi effetti negativi sull’inflazione, sulla liquidità degli operatori di mercato e sull’economia nel suo complesso». Dall’altro, la circostanza che, in quel particolare contesto, i dati desumibili dai saldi IVA erano gli unici disponibili e, quindi, i soli che avrebbero potuto essere considerati dal legislatore per intervenire tempestivamente a finanziare, con una nuova e temporanea imposta, l’insieme di interventi urgenti, a sostegno di famiglie e imprese, previsti dal d.l. n. 21 del 2022. Non vi era, pertanto, la possibilità di riferirsi ai più adeguati dati rilevanti ai fini dell’IRES, perché sarebbe stato necessario, per intercettare la maggiore forza economica dell’anno 2022 (in cui si è verificata la prima impennata dei prezzi), attendere che le imprese provvedessero a chiudere i bilanci societari: l’ammontare degli utili, pertanto, avrebbe potuto essere contabilizzato solo dopo la conclusione dell’anno di imposta in quel momento in corso, e quindi nel 2023.

Straordinarietà del momento non giustifica qualsiasi imposizione

È solo tenendo conto del carattere del tutto particolare del contesto in cui è stato calato il temporaneo intervento impositivo che, quindi, può eccezionalmente ritenersi non irragionevole lo strumento utilizzato dal legislatore, ovvero il riferimento ai dati relativi alla determinazione dell’imponibile dell’IVA, nonostante il loro oggettivo grado di approssimazione nell’intercettare la maggiore forza economica delle imprese energetiche. Resta però fermo che la straordinarietà del momento e la temporaneità della imposizione non possono essere ritenute una giustificazione per l’introduzione di qualsiasi forma di imposizione fiscale. Pertanto l’inclusione nella base imponibile delle accise versate allo Stato e indicate in fattura – che per alcuni soggetti «vanno ad aumentare, anche in misura considerevole, la base imponibile del contributo straordinario di solidarietà, senza che tale aumento possa in alcun modo dirsi rappresentativo di una maggiore ricchezza» –, compromette «radicalmente», su questo aspetto, la ragionevolezza della disposizione censurata.

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fascicolo sanitario elettronico 2.0

Fascicolo sanitario elettronico  2.0 Come funziona il Fascicolo sanitario elettronico 2.0, nuovo traguardo della sanità digitale, quali vantaggi offre e come attivarlo 

Fascicolo sanitario elettronico 2.0: cos’è

Il Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0 è un registro elettronico che contiene al suo interno tutti i dati e i documenti digitali sanitari e socio-sanitari generati da fatti clinici del paziente. I dati riguardano referti di visite mediche, esami diagnostici, ricoveri ospedalieri, prescrizioni di farmaci e tanto altro ancora.

Riferimenti normativi

Il fascicolo sanitario elettronico è stato istituito dall’articolo 12 del decreto legge n. 179/2012.

Il decreto del ministero della Salute del 7 settembre 2023 ha dato attuazione alla norma suddetta.

Contenuto del fascicolo sanitario elettronico

Per comprendere al meglio i vantaggi di questo nuovo strumento è opportuno ricordare che il fascicolo sanitario elettronico contiene tantissime informazioni di natura sanitaria:

  • dati anagrafici e amministrativi del paziente (esenzioni, contatti, soggetti delegati);
  • vaccinazioni effettuate;
  • farmaci erogati e non erogati dal SSSN;
  • verbali del pronto soccorso;
  • lettere di dimissioni ospedaliere;
  • prescrizioni di visite mediche specialistiche;
  • prescrizioni farmaceutiche;
  • cartelle cliniche ospedaliere;
  • profilo sanitario sintetico: documento socio sanitario digitale redatto e aggiornato costantemente dal medico curante o dal pediatra che contiene il riassunto della storia clinica del paziente e il suo stato di salute attuale;
  • taccuino personale: sezione riservata del fascicolo a disposizione del paziente per integrare le informazioni presenti, modificarle, inserirle ed eliminarle. In relazione a queste informazioni il cittadino può scegliere se e a chi vuole renderle visibili.

Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0: vantaggi

Con il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) 2.0 la sanità compie un ulteriore passo in avanti verso la digitalizzazione. Il fascicolo rappresenta infatti uno strumento innovativo che permette ai cittadini di accedere alla la propria storia clinica con semplicità e sicurezza e di avere una comunicazione più efficiente con il proprio medico. Il Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0 presenta infatti molteplici vantaggi, sia per i cittadini che per gli operatori del settore sanitario. Vediamoli distintamente.

Vantaggi per i cittadini:

  • i cittadini hanno la possibilità di consultare in qualsiasi momento e da qualsiasi dispositivo la propria storia clinica;
  • i dati sanitari del singolo paziente sono conservati in modo sicuro e protetto, nel pieno rispetto della privacy;
  • i cittadini possono essere più coinvolti nelle decisioni che riguardano il proprio stato di salute.

Vantaggi per i professionisti sanitari:

  • i medici, accedendo al fascicolo sanitario del paziente, possono avere un quadro completo sullo stato di salute del paziente. In questo modo sono agevolati nella diagnosi, nella cura e nella presa in carico;
  • grazie al monitoraggio di visite ed esami i medici evitano di prescrivere controlli medici e diagnostici già effettuati in passato, ottimizzando in questo modo le risorse del Sistema Sanitario Nazionale ed evitando gli sprechi;
  • l’accesso rapido alle informazioni del paziente evita ai medici di dover fare richiesta alle varie strutture sanitarie che ne sono in possesso;
  • l’accesso alle informazioni complete del paziente riduce notevolmente il rischio di errore medico.

FSE 2.0: come si attiva

La procedura di attivazione del Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0 è molto semplice e completamente gratuita. Ci sono tre modalità distinte di attivazione:

E’ necessario però essere in possesso dello SPID o della CIE.

Come opporsi

In considerazione della natura dei dati contenuti nel fascicolo sanitario si ricorda infine che da lunedì 22 aprile 2024 fino al 30 giugno 2024 il cittadino può opporsi, come chiarito nel sito del Ministero della Salute “allinserimento automatico nel fascicolo dei dati e documenti sanitari generati da eventi clinici riferiti alle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale prima del 19 maggio 2020”. 

Tutti i dettagli della procedura da seguire sono presenti sul sito “Sistema Tessera sanitaria”.

proroga concessioni balneari bolkestein

Concessioni balneari: la proroga viola la Bolkestein La Consulta dichiara illegittima costituzionalmente la proroga delle concessioni balneari nella regione siciliana, in quanto in violazione della direttiva Bolkestein

Proroga concessioni balneari

La proroga delle concessioni balneari nella regione siciliana è illegittima per violazione della direttiva Bolkestein. La Consulta, con la sentenza n. 109-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme di cui all’art. 36 della legge della Regione Siciliana n. 2 del 2023 (Legge di stabilità regionale 2023-2025), che hanno previsto la proroga al 30 aprile 2023 del termine per la presentazione delle domande di rinnovo delle concessioni demaniali marittime a scopo turistico-ricreativo (cosiddette concessioni balneari), nonché la proroga alla stessa data del termine per la conferma, in forma telematica, dell’interesse alla utilizzazione del demanio marittimo.

La questione di legittimità costituzionale

La questione era stata promossa dal Governo, che rimproverava al legislatore siciliano di aver ecceduto dalle competenze ad esso riservate dagli artt. 14 e 17 dello statuto di autonomia e violato l’art. 117, primo comma, Cost., che vincola anche il legislatore regionale all’osservanza degli obblighi derivanti dall’Unione europea assunti dall’Italia.

Nel ricorso si lamentava, in particolare, la violazione delle previsioni dell’art. 12 della direttiva Bolkestein n. 2006/123/CE, nota anche come “direttiva servizi”, che impone agli Stati membri dell’UE, con efficacia diretta, di mettere a gara le concessioni demaniali in scadenza, vietando il ricorso alle proroghe automatiche ex lege. Il differimento al 30 aprile 2023 del termine, secondo il Governo, “corrobora la proroga delle concessioni demaniali marittime fino al 31 dicembre 2033”, pur avendo la legge statale n. 118/2022 abrogato, per incompatibilità con l’ordinamento unionale, i commi 682 e 683 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, che prolungavano la proroga fino a quella data, e nonostante le sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e n. 18 del 2021, nonché quella della Corte di giustizia dell’Unione europea 20 marzo 2023, in causa C-348/22, Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che ha ribadito la contrarietà al diritto UE dei rinnovi automatici delle concessioni aventi ad oggetto l’occupazione del demanio marittimo italiano.

La decisione della Corte Costituzionale

In motivazione, il giudice delle leggi ha sottolineato che le norme siciliane impugnate perpetuano, limitatamente al territorio della Regione Siciliana, il sistema delle proroghe automatiche delle concessioni, più volte giudicato illegittimo dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea e oggetto di disapplicazione da parte della giurisprudenza amministrativa.

In questo modo, ha precisato la Corte, “le norme in questione si pongono in contrasto con l’art. 12 della direttiva Bolkestein, e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost.”. Nel sottolineare che “il differimento dei termini previsto nelle norme impugnate dal Governo non si riferisce alla vera e propria proroga delle concessioni demaniali fino al 2033, che trova origine nella legge regionale n. 24 del 2019, ma solo alla presentazione delle domande di proroga – la Consulta ha altresì rilevato – in linea con le censure governative, che la rinnovazione anche della possibilità di presentazione delle domande ‘finisce con l’incidere sul regime di durata dei rapporti in corso, perpetuandone il mantenimento e quindi rafforza, in contrasto con i principi del diritto UE sulla concorrenza, la barriera in entrata per nuovi operatori economici potenzialmente interessati alla utilizzazione, a fini imprenditoriali, delle aree del demanio marittimo’”.

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accesso atti cliente avvocato

Il cliente può accedere agli atti che riguardano l’avvocato L’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva connotata dall’onere di dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto rispetto alla tutela della propria posizione

Rigetto istanza di accesso agli atti

Nel caso in esame, il Coniglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva dichiarato inammissibile l’istanza di accesso agli atti avanzata da una cliente, nell’ambito del procedimento disciplinare a carico del proprio avvocato. In particolare. l’accesso era stato chiesto poiché il cliente aveva dei dubbi sulla legittimità dei compensi professionali richiesti.

La richiesta di accesso agli atti veniva nella specie respinta in quanto la stessa era stata ritenuta esplorativa, non essendo specificato il rapporto tra i documenti oggetto di accesso agli atti e le ragioni di difensive, ponendosi pertanto in contrasto con il diritto alla tutela della riservatezza di soggetti terzi.

La cliente aveva impugnato la decisione del CdO di Roma, chiedendo l’annullamento del rigetto.

L’interesse conoscitivo di carattere “difensivo”

Il Tar Lazio, con sentenza n. 9314/2024, ha ritenuto che, nel caso di specie, venisse in rilievo un’ipotesi di accesso difensivo, come tale ammissibile.

In particolare, il Tar, ripercorrendo la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, ha affermato che “l’accesso “difensivo” costituisce una fattispecie ostensiva idonea a superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi, ma al contempo è connotata dall’onere stringente di dovere dimostrare la ‘necessità’ della conoscenza dell’atto o la sua ‘stretta indispensabilità’, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari”.

Inoltre “la necessità (…) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio”.

Valutazione ammissibilità

In relazione a quanto sopra, il Tar ha altresì specificato che la Pubblica Amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto in sede d’impugnazione non devono svolgere ex ante alcuna valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto, poiché un simile apprezzamento compete solo all’autorità giudiziaria investita della questione, salvo il caso di un’evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990. Resta in ogni caso fermo l’obbligo di puntuale motivazione a carico del richiedente, anche al fine di dimostrare il suddetto nesso cauale.

Applicando i suddetti principi giurisprudenziali al caso di specie, il Tar ha ritenuto che la richiesta di accesso agli atti formulata dalla cliente e volta ad ottenere copia di tutti gli atti, le delibere e i verbali relativi ai procedimenti disciplinari a carico dell’avvocato doveva essere (parzialmente) accolta.

Interesse diretto e concreto

Rispetto a tali documenti, ha proseguito il Tar, “la ricorrente ha rappresentato di avere un interesse diretto, concreto e attuale alla loro ostensione, connesso alla controversia (…) in merito alla debenza di taluni compensi professionali, sfociata in due procedimenti contenziosi allo stato pendenti”; per tali documenti sussiste dunque un nesso di strumentalità con la situazione finale che l’istante intende tutelare.

Per quanto infine attiene alla tutela della riservatezza dell’avvocato, deve ritenersi che, nel bilanciamento di interessi contrapposti, prevalga nel caso di specie il diritto dell’istante all’ostensione dei documenti richiesti per la tutela della propria posizione giuridica.

danno ambientale inquinamento

Danno ambientale: l’ignoranza non salva L’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario

Interventi di messa in sicurezza

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta avanzata al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con cui il ricorrente aveva domandato l’annullamento di un decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con cui venivano prescritti alcuni interventi di messa in sicurezza di un sito di interesse nazionale. In particolare, il Ministero aveva intimato la realizzazione di alcuni interventi di messa in sicurezza delle acque di falda contaminata, oltre che la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione.

Il TAR aveva concluso il proprio esame dichiarando il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.

Il privato interessato aveva impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio di Stato.

Il principio “chi inquina paga”

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4298/2024, ha accolto l’appello proposto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., ha accertato l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.

Il Giudice amministrativo si è anzitutto soffermato sull’asserita insussistenza, affermata dal privato, dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata.

Rispetto a tale contestazione, il Consiglio di Stato ha ricordato il principio generale, di derivazione europea, in tema di responsabilità per danno ambientale, secondo cui “chi inquina paga”.

Nella specie, il Consiglio ha descritto gli elementi sulla base dei quali è possibile, a livello europeo, attribuire una responsabilità per danno ambientale al proprietario dell’area inquinata.

La giurisprudenza a tutela dell’ambiente

A tal proposito il Consiglio di Stato ha ricordato la giurisprudenza amministrativa che, in applicazione del diritto europeo, si è formata sul punto e ha incentrato la tutela dell’ambiente “intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (..) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto”.

Ad ogni modo, ha spiegato il Giudice amministrativo, la responsabilità è ascrivibile al proprietario secondo i canoni, di derivazione nazionale, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole.

L’ignoranza non esclude la responsabilità

Nella medesima ottica di ricostruzione della responsabilità per danno ambientale, il Consiglio di Stato ha altresì rilevato che “l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario”.

In particolare, per quanto qui rileva, il Giudice amministrativo ha spiegato che la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore non dei rifiuti inquinanti ma del bene immobile inquinato.

Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. Per la disciplina comunitaria, infatti, i costi “della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti”.

danno ritardo pa prova

Danno da ritardo della PA: occorre la prova Il Consiglio di Stato ha ricordato che il danno da ritardo non può essere presunto juris et de jure, poiché, per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c., è necessaria la verifica dei presupposti di carattere soggettivo e oggettivo

Ritardo nella conclusione del procedimento

Nell’ambito di un procedimento amministrativo, il privato interessato al provvedimento finale aveva lamentato che l’atto amministrativo fosse stato adottato successivamente al tempo massimo entro il quale l’amministrazione competente avrebbe dovuto esprimere il parere attraverso apposita conferenza di servizi.

Posto quanto sopra, l’interessato aveva proposto ricorso dinanzi al TAR per la Puglia, chiedendo il risarcimento del danno conseguente al ritardo nella conclusione del procedimento teso al rilascio dell’autorizzazione richiesta.

Il Tar per la Puglia, sul rilievo che fosse mancata “la prova circa la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (esistenza del danno ingiusto, nesso causale, determinazione dell’ammontare del ristoro) e di carattere soggettivo (dolo o colpa dell’Amministrazione danneggiante) della domanda proposta in giudizio”, aveva respinto il ricorso proposto.

Avverso tale decisione la società interessata aveva appellato la sentenza per “illegittimità ed erroneità – violazione dell’art. 269, comma 3, del d.lgs n. 152/2006 – violazione dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 – eccesso di potere per motivazione lacunosa illogica e travisante inversione onere della prova”.

Il danno da ritardo della PA

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3375-2024, ha respinto l’appello proposto e ha condannato la società appellante al pagamento delle spese di giudizio.

Il Consiglio di Stato ha anzitutto precisato che “La domanda risarcitoria azionata dalla società (…) va qualificata quale “danno da ritardo” ex art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, conseguente alla mancata conclusione, nel termine previsto, del procedimento di rilascio della autorizzazione”.

Per quanto qui rileva il Consiglio di Stato ha ripercorso la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto, secondo cui “il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto juris et de jure, quale effetto automatico del semplice scorrere del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), richiesti dalla menzionata norma codicistica per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c.”.

Nella medesima direzione, ha ricordato il Consiglio di Stato, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo “deve essere collegato da un nesso da causalità ai pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati; dal punto di vista dell’onere probatorio, il mero superamento del termine per la conclusione del procedimento non integra, inoltre, piena prova del danno”.

La decisione

Posto tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Giudice amministrativo ha evidenziato che, nel caso di specie, il privato non aveva adeguatamente provato “il nesso di causalità tra la condotta della Provincia (id est, ritardo procedimentale) e l’evento asseritamente dannoso (mancata realizzazione dell’impianto), in termini di causalità efficiente”.

Inoltre, ha concluso il Consiglio di Stato, la società non aveva comunque comprovato l’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione.

Sulla scorta di quanto sopra, pertanto, il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.

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ragionevole durata procedimento amministrativo

Il principio di ragionevole durata del procedimento amministrativo Principio di ragionevole durata del procedimento amministrativo: se il procedimento è ablatorio o sanzionatorio  il termine non deve superare i 10 anni

Termini del procedimento amministrativo: legge 241/1990

Il principio di ragionevole durata del procedimento amministrativo è sancito dagli articoli 1 e 2 della legge n. 241/1990 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. L’azione della PA deve essere infatti improntata ai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza e ai sensi dell’articolo 2, in base alla tipologia di provvedimento da adottare,  il procedimento deve concludersi entro il termine di 30 giorni, 90 giorni, 180 giorni, che decorrono “dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte”.   

Ragionevole durata dei procedimenti ablatori e sanzionatori

Come ricordato però dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 408/2022 anche “lart. 97 Cost. contiene in sé limplicita valorizzazione (o addirittura formulazione) del principio della ragionevole durata del procedimento amministrativo; principio operante nellordinamento quale diritto vivente, soprattutto per i casi di procedimenti ablatori, sanzionatori e/o di procedimenti di controllo volti alladozione di atti di ritiro.” 

Questo perché il rispetto dei termini assicura  anche il rispetto del principio di certezza del diritto in quando il decorso eccessivo del tempo crea incertezza e incide  sulle scelte di vita delle persone e delle imprese.

Termine decennale

Sul principio di ragionevole durata del processo amministrativo in presenza di un atto di revoca della PA si è espresso di recente il TAR della Campania, nella sentenza n. 1876/2024. La decisione ha posto fine alla controversia avente ad oggetto la revoca del beneficio amministrativo, affermando che il procedimento è stato eccessivamente lungo. La concessione provvisoria del beneficio è avvenuta nel 2004, mentre la procedura di revoca è iniziata solo nel 2018, concludendosi definitivamente nel 2019. Questo lungo intervallo di tempo è stato ritenuto in violazione del principio di ragionevole durata del procedimento amministrativo.

Secondo la giurisprudenza, l’amministrazione deve rispettare la durata ragionevole del procedimento, soprattutto quando si tratta di procedimenti sanzionatori o ablatori che incidono sui diritti dei privati. La legge prevede che ogni procedimento amministrativo debba concludersi entro un termine prefissato, con conseguenze per la responsabilità dell’amministrazione in caso di ritardo.

La riforma Madia del 2014 e il Decreto Semplificazioni del 2020 hanno ulteriormente rafforzato questo principio, stabilendo termini perentori per l’adozione dei provvedimenti di secondo grado e prevedendo l’inefficacia di provvedimenti tardivi in determinate ipotesi.

In questo caso, la clausola di provvisorietà del provvedimento che aveva accordato la concessione del contributo va interpretata come una condizione risolutiva, che permette all’amministrazione di recuperare le somme erogate in caso di esito negativo del controllo. Tuttavia, tale clausola non può essere utilizzata per procrastinare sine die il potere di controllo dell’amministrazione, in quanto contraria ai principi di buona fede, correttezza e ragionevole durata del procedimento. Di conseguenza, la clausola in questione deve essere considerata illegittima nella parte in cui consente una durata indefinita del procedimento di verifica.

La giurisprudenza

Il TAR esamina varie possibili soluzioni per determinare un termine ragionevole per la conclusione del procedimento di controllo:

  1. applicare il termine generale di 30 giorni previsto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990;
  2. applicare l’art. 21 quinquies della stessa legge, che consente la revoca dei provvedimenti senza limiti di tempo, ma con obbligo di indennizzo;
  3. applicare l’art. 21 nonies, che prevede un termine massimo di 12 mesi per l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti;
  4. applicare il termine quinquennale previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981 per i procedimenti sanzionatori.

Il Collegio ritiene che né l’art. 21 quinquies né l’art. 21 nonies siano applicabili in questo caso, poiché il provvedimento revocato non era illegittimo. Neanche il termine generale di 30 giorni è ritenuto applicabile, poiché non è perentorio.

Pertanto, la durata ragionevole del procedimento deve essere determinata considerando altri parametri, come il termine di prescrizione decennale per l’azione di ripetizione di indebito o il termine quinquennale per i procedimenti sanzionatori.

La giurisprudenza europea sottolinea che il superamento del termine ragionevole può costituire un motivo di annullamento delle decisioni amministrative solo se pregiudica i diritti della difesa.

Inoltre, la Corte Costituzionale italiana ha affermato che la durata del procedimento deve essere contenuta entro limiti temporali ragionevoli per garantire la certezza giuridica e l’effettività del diritto di difesa.

Al termine delle suddette considerazioni il Collegio stabilisce che per i procedimenti afflittivi, come quello di revoca del caso di specie, il termine ragionevole può essere il termine decennale, che corrisponde al termine di prescrizione per l’azione di ripetizione di indebito.

giurista risponde

Accesso agli atti ente di diritto privato Sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse, limitatamente a tali attività. – Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2694.

Preliminarmente con riguardo alla vicenda in esame, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ricorda che l’art. 22, comma 1, lett. e), della L. 241/1990, ammette l’accesso agli atti “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

L’interesse all’ostensione degli atti inerenti all’attività di pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.

Nel caso in esame la Sezione ha ritenuto che, pur muovendo dalla natura privatistica di ASMEL (Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali – è un’associazione senza scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici, tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa nell’ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e servizi”), l’attività dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa, richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati.

*Contributo in tema di “Accesso agli atti”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

decreto Priolo

Decreto Priolo: misure legittime solo se temporanee La Corte Costituzionale esamina la disciplina derogatoria alla luce della riforma degli artt. 9 e 41 Cost. ritenendola legittima solo se non superiore a 36 mesi

Decreto Priolo: l’intervento della Consulta

Una disciplina derogatoria rispetto alla normativa ordinaria di tutela della salute e dell’ambiente, in relazione ad attività produttive di interesse strategico nazionale, è costituzionalmente legittima solo se temporanea. E’ quanto ha affermato la Consulta, con la sentenza n. 105/2024, pronunciandosi sul decreto Priolo alla luce della riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione.

La questione di legittimità costituzionale

“Misure governative che impongono la prosecuzione di attività produttive di rilievo strategico per l’economia nazionale o la salvaguardia dei livelli occupazionali, nonostante il sequestro degli impianti ordinato dall’autorità giudiziaria, sono costituzionalmente legittime soltanto per il tempo strettamente necessario per portare a compimento gli indispensabili interventi di risanamento ambientale” ha specificato la Corte, esaminando la qlc sollevata dal Gip di Siracusa, nell’ambito di un procedimento relativo al sequestro degli impianti di depurazione di Priolo Gargallo, che a sua volta si iscrive in una più ampia indagine per disastro ambientale, ipotizzato a carico di varie aziende petrolchimiche operanti nella zona.

La questione concerneva una norma contenuta nel decreto-legge n. 2 del 2023, che autorizza il Governo, in caso di sequestro di impianti necessari ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, ad adottare “misure di bilanciamento” che consentano di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionale e la salvaguardia dell’occupazione.

Per il Gip che aveva disposto il sequestro degli impianti di depurazione, “questo schema normativo non garantirebbe adeguata tutela alla vita, alla salute umana e all’ambiente, vincolandolo ad autorizzare la prosecuzione dell’attività anche quando, a suo giudizio, le misure adottate risultino insufficienti rispetto alle esigenze di tutela di questi interessi”.

Misure temporanee non oltre i 36 mesi

La Corte ha anzitutto osservato che una lettura attenta della normativa sottoposta al suo esame conferma che, “una volta che siano state adottate le misure in questione, il giudice che ha disposto il sequestro è tenuto ad autorizzare la prosecuzione dell’attività degli impianti, senza poter rimettere in discussione le scelte del Governo”. Nel vagliare la legittimità costituzionale di tale meccanismo, il giudice delle leggi ha ricordato che “la recente riforma costituzionale del 2022 ha attribuito espresso e autonomo rilievo, nel nuovo testo dell’art. 9, alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Inoltre, la riforma ha esplicitamente chiarito che la tutela della salute e dell’ambiente costituisce un limite alla stessa libertà di iniziativa economica”.

Date queste indicazioni, la Corte da un lato ha ritenuto non incompatibile con la Costituzione la previsione della possibilità per il Governo di dettare direttamente, in una situazione di crisi e in via provvisoria, misure conformi alla legislazione vigente, che consentano di assicurare continuità produttiva a uno stabilimento di interesse strategico nazionale, contenendo il più possibile i rischi per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori. Dall’altro lato, tuttavia, tali misure dovranno comunque “tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinato dall’attività delle aziende sequestrate”, e non invece “a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”.

La decisione

In applicazione di tali principi, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la mancata previsione, nella norma esaminata, di un termine massimo di 36 mesi di operatività delle misure in questione. Entro questo termine, occorrerà in ogni caso assicurare il completo superamento delle criticità riscontrate in sede di sequestro e ripristinare gli ordinari meccanismi autorizzatori previsti dalla legislazione vigente.

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Veranda abusiva: si può sanare? Ecco quali sono le verande che possono essere condonate grazie alle nuove regole del decreto Salva casa

Sanatoria verande abusive

Con l’entrata in vigore del decreto “Salva Casa” n. 69/2024, pubblicato sulla GU del 29.05.2024, molti italiani si chiedono se sia possibile sanare una veranda abusiva, specialmente se chiusa e arredata. Tali verande sono comuni e spesso vengono realizzate per chiudere porticati o balconi, trasformandoli in cucine o bagni, completi di impianti idrici e sanitari.

Questi abusi edilizi, se non regolarizzati, possono complicare la vendita degli immobili. Per evitare queste complicazioni il decreto “Salva casa”consente ai proprietari di immobili di regolarizzare le piccoli difformità edilizie, al fine di tutelare l’interesse pubblico alla circolazione dei beni immobili.

Vetrate panoramiche amovibili: non occorrono permessi

Attenzione però, le verande non sono tutte uguali. Alcuni tipi non richiedono permessi particolari o autorizzazioni preventive per la loro installazione perché rientranti nella categoria delle opere di edilizia libera. Ne sono un esempio le VEPA, ossia le verande panoramiche amovibili, strutture trasparenti e scorrevoli che proteggono dal sole e dagli agenti atmosferici.

Il Decreto Aiuti del 2022 le aveva liberalizzate, permettono infatti l’installazione permessi, a condizione di non creare nuovi volumi stabili.

Verande chiuse: quali autorizzazioni

Occorre premettere che il Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001) richiede il permesso di costruire per nuove strutture e la Cila o Scia per interventi di manutenzione straordinaria. La creazione di una nuova veranda chiusa richiede, di regola, uno di questi permessi, se aumenta il volume abitabile dell’unità immobiliare e se modifica la forma dell’edificio.

Verande sanabili con il “Salva casa”

Il decreto “Salva Casa”, interviene proprio su questo tipo di opere, per cui le verande chiuse, arredate e attrezzate possono essere sanate, a condizione però che non abbiano alterato significativamente la volumetria dell’immobile.

Per consentire questa “sanatoria” però il decreto “Salva casa” ha ampliato i limiti di tolleranza delle difformità edilizia, rispetto a quelli previsti dal Decreto Semplificazioni, stabilendo le seguenti misure percentuali:

  • 5% per unità con superficie utile inferiore a 100 mq;
  • 4% per superfici tra 100 e 300 mq;
  • 3% per superfici tra 300 e 500 mq;
  • 2% per superfici superiori a 500 mq.

In relazione a un appartamento di 100 mq quindi il proprietario può sanare una veranda di 5 mq sfruttando la tolleranza del 5%.

Doppia conformità: non serve dopo il Salva casa

Qualora le opere realizzate superino i limiti di tolleranza stabiliti dal “Salva casa”  è comunque possibile procedere alla loro sanatoria, ma con il permesso di costruire, la Scia in sanatoria (articoli 36 e 37 del Tu dell’Edilizia) e sostenendo il costo della sanzione amministrativa prevista.

In questi casi però è richiesto il rispetto della doppia conforme. Le opere devono essere cioè conformi alla disciplina vigente nel momento in cui l’opera è stata realizzata e a quella vigente al tempo della presentazione della domanda in sanatoria, regola che il decreto “Salva Casa” non richiede. Grazie a questo provvedimento è infatti possibile sanare le opere solo in base alla normativa vigente al momento della realizzazione, sempre ovviamente, nel rispetto delle soglie di tolleranza previste dal “Salva casa”.

Procedura di sanatoria

Dopo tanta teoria, cosa si deve fare se si vuole sanare una veranda abusiva? Prima di tutto bisogna presentare una domanda al Comune con un progetto descrittivo e una relazione tecnica asseverata. Fatto questo si deve procedere al pagamento di una sanzione, il cui importo varia dai 1.032 ai 30.984 euro, in base all’aumento di valore dell’immobile.

Verande in condominio

Chi vuole realizzare una veranda in una proprietà compresa all’interno di un edificio condominiale   deve prestare un’attenzione particolare. In questo caso occorre infatti rispettare sia le norme edilizie che il regolamento condominiale per assicurarsi che la veranda non danneggi il decoro architettonico dell’edificio.