giurista risponde

Permesso di costruire e ricorso del terzo In tema di edilizia e urbanistica, da quando decorre il termine per la proposizione del ricorso, da parte del terzo a ciò legittimato, avverso il permesso di costruire?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il termine per la proposizione del ricorso, da parte del terzo a ciò legittimato, avverso il permesso di costruire decorre dall’ultimazione dei lavori oppure dal momento in cui l’opera realizzata appaia in modo inequivoco difforme dalla disciplina urbanistico-edilizia vigente. L’onere di provare la tardività dell’impugnazione grava su colui che la deduce. – Cons. Stato, sez. VI, 2 novembre 2022, n. 9500.

Muovendo dal consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del quale: “Ai fini della tempestività dell’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione medesima va riferita al momento dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell’opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce”, il Consiglio di Stato ha risolto una controversia concernente la tempestività dell’impugnazione proposta avverso l’autorizzazione edilizia rilasciata per la installazione di un ripetitore per telefoni cellulari.

I Giudici chiariscono che non è possibile far risalire la decorrenza del termine per la notifica del ricorso dalla data di presentazione dell’istanza di accesso posto che, a tale data, nonostante l’affissione del cartello di inizio lavori, la lesività dell’intervento non risultava immediatamente percepibile, in quanto, da un lato, le opere non erano state ancora ultimate, dall’altro, il cartello di inizio lavori risultava illeggibile.

L’interesse a ricorrere si può, dunque, ritenere attualizzato solo al momento della percezione della lesività degli effetti degli atti impugnati, verificatosi, nel caso di specie, solo quando gli interessati hanno potuto visionare, mediante estrazione di copie, i documenti richiesti con l’istanza di accesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2021, n. 4502;
Cons. Stato, sez. II, 5 ottobre 2020, n. 5864; Id., 21 agosto 2020, n. 5170;
TAR Campania, Napoli, sez. VI, 27 ottobre 2020, n. 4873;
TAR Campania, sez. VII, 15 settembre 2016, n. 4321;
Cons. Stato, sez. IV, 19 dicembre 2012, n. 6557; Id., 7 novembre 2012, n. 5657
giurista risponde

Giudizio di ottemperanza e mutamento normativo Il mutamento normativo consente di riproporre il giudizio di ottemperanza in origine dichiarato inammissibile?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, sez. IV, ord. 23 novembre 2022, n. 10342.

La vicenda esaminata attiene alla possibilità di riproporre l’azione di ottemperanza, in passato dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione per difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, stante la ritenuta natura meramente amministrativa del decreto decisorio del ricorso straordinario, insuscettibile, come tale, di essere eseguito con il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza.

Come è noto, infatti, nel 2009 è intervenuta la L. n. 69, che ha profondamente inciso sull’istituto del ricorso straordinario, elevato a rimedio sostanzialmente giurisdizionale, con evidenti riflessi sulla ammissibilità di un nuovo ricorso per l’ottemperanza.

Invero, in senso contrario si osserva che la rimodulazione legislativa del ricorso straordinario del 2009 non ha riguardato espressamente la sua efficacia retroattiva, successivamente esclusa dalla giurisprudenza.

Come affermato dai Giudici, si pone, pertanto, la necessità di valutare, in chiave processuale, se un giudicato in rito ostativo alla proposizione di un’azione possa sopravvivere al quadro normativo applicato (in altra prospettiva, se possa avere efficacia ultra-attiva insensibile alle successive modifiche legislative) ovvero se sia condizionato temporalmente alla vigenza di questo, specialmente allorché tale giudicato frustri ed inibisca definitivamente ed irrimediabilmente le istanze di giustizia avanzate dagli interessati.

In chiave sostanziale, inoltre, ci si chiede se la sopravvenuta modifica legislativa di uno strumento di tutela con effetti ampliativi delle facoltà defensionali dei privati (ossia, più in particolare, la rimodulazione della relativa disciplina in maniera così profonda da determinarne, secondo consolidata giurisprudenza, l’evoluzione della stessa natura giuridica, connotata ora da carattere sostanzialmente giurisdizionale) si rifletta e ridondi – in senso parimenti ampliativo – a beneficio delle istanze degli interessati già azionate in epoca antecedente alla novella legislativa e allora dichiarate inammissibili, consentendone hic et nunc la riproposizione, tenendo oltretutto presente che il maggioritario indirizzo pretorio ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex art. 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale, ossia quello antecedente alla novella del 2009.

Si afferma quindi che il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza era stato ritenuto inammissibile a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione: il fatto che la precedente azione di ottemperanza non sia stata respinta nel merito, ma dichiarata inammissibile per ragioni processuali, potrebbe legittimare, in un’ottica esegetico-applicativa particolarmente attenta al valore ordinamentale dell’effettività della tutela giurisdizionale e della pienezza del diritto di difesa, l’attuale presentazione di una nuova istanza di ottemperanza, non ostandovi più la pronuncia di inammissibilità della Corte di cassazione, a suo tempo emessa sulla scorta di un paradigma normativo poi radicalmente travolto, sia pure con valenza ex nunc, dalle modifiche legislative medio tempore intervenute.

Quanto alla possibile violazione del ne bis in idem, si afferma, altresì, che la violazione di tale principio potrebbe tout court non venire in considerazione nella specie, qualora si valorizzasse fortemente la circostanza che l’attuale azione di esecuzione si muove entro una cornice normativa e giurisprudenziale del tutto diversa da quella vigente al momento del radicamento del precedente ricorso, sì che potrebbe assumersi – nell’intento di preservare le istanze di tutela sostanziale del privato – che non si tratti, a stretto rigore, della medesima azione.

Sulla base di tali premesse, la IV sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, chiedendo in particolare se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell’ammissibilità dell’ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l’ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009.

estinzione del reato

Estinzione del reato: riparazione entro il dibattimento La Consulta ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 274/2000

Estinzione del reato e riparazione del danno

Ai fini dell’estinzione del reato, l’imputato può procedere alla riparazione del danno entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento. Lo ha dichiarato la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 45-2024, dichiarando l’illegittimità dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie
debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento».

La qlc

Il giudice di pace di Forlì, nel sollevare la questione, aveva censurato lo sbarramento temporale che imponeva, prima dell’udienza di comparizione, l’adempimento delle condotte risarcitorie e riparatorie del danno conseguente al reato, da lui commesso, deducendo che il predetto limite temporale fosse in sé irragionevole e tale da determinare una disparità di trattamento rispetto agli imputati dei reati di competenza del Tribunale, per i quali la riparazione integrale del danno è ammessa fino alla dichiarazione
di apertura del dibattimento (art. 162-ter c.p.).

Incoerenza del termine innanzi al giudice di pace

La Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione del principio di ragionevolezza, osservando, in particolare, l’incoerenza del termine finale previsto dalla disposizione censurata rispetto al peculiare ruolo di “mediatore” del giudice di pace, il quale giudica reati di ridotta gravità, espressivi di conflitti interpersonali a carattere privato e alla finalità di semplificazione, snellezza e rapidità che connota il procedimento che innanzi a lui si svolge.
In particolare, ha sottolineato la Corte, “la funzione conciliatoria del giudice di pace (sancita come principio generale dall’art. 2 del d. lgs n. 274 del 2000), il cui luogo di fisiologica esplicazione è proprio l’udienza di comparizione, risultava impedita dal termine perentorio che, previsto prima di tale udienza, frustrava la stessa funzione del giudice non consentendogli di avviare l’imputato e la persona offesa ad un accordo sulla entità e sulle modalità degli adempimenti riparatori e risarcitori”.
La Corte ha evidenziato altresì che la rigida preclusione temporale determinava ricadute negative sul carico giudiziario, riducendo i casi di definizione anticipata del processo attraverso la dichiarazione di estinzione del reato, per l’esito positivo delle condotte riparatorie.
Invece, ha concluso il giudice delle leggi, “la fissazione del termine ad quem nella dichiarazione di apertura del dibattimento è coerente con la finalità deflattiva del carico giudiziario e, al tempo stesso, consente un evidente risparmio di attività istruttorie e di spese processuali, non dandosi corso – nel caso in cui risulti integrata la fattispecie estintiva del reato conseguente a condotte riparatorie – alla fase dibattimentale”.

Allegati

omicidio colposo prossimo congiunto

Omicidio colposo prossimo congiunto: no alla “pena naturale” La Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 529 c.p.p. nella parte in cui non prevede una causa di non procedibilità per l'omicidio colposo del prossimo congiunto

Art. 529 c.p.p.

Con la sentenza n. 48-2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze nei confronti dell’art. 529 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un’ipotesi di non procedibilità riguardo all’omicidio colposo del prossimo congiunto.

La qlc

Chiamato a giudicare dell’imputazione per omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nei confronti di uno zio per la morte del nipote suo dipendente, il Tribunale aveva denunciato la violazione dei principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, non prevedendo la norma censurata che il giudice possa emettere sentenza di non doversi procedere quando l’autore del reato abbia patito, per la morte del familiare da lui stesso provocata, una sofferenza, tale da rendere inutile ogni ulteriore sanzione.

La pena naturale

Dopo aver sottolineato che l’istituto della pena naturale, pur noto in alcuni ordinamenti europei, non appartiene alla tradizione normativa italiana, la Corte ha escluso la sussistenza di un vincolo costituzionale che ne esiga l’introduzione, in quanto “questa si rivela eccessivamente ampia sotto tre distinti aspetti, ognuno dei quali sufficiente ad inficiarne la fondatezza”.
In primis, nel riferimento generico alla colpa, senza alcuna distinzione tra le sue varie declinazioni, che “possono viceversa corrispondere a ipotesi molto diverse tra loro sotto il profilo criminologico e della protezione dei beni”.

In secondo luogo, per il rimando alla troppo larga nozione di prossimo congiunto, che, secondo la definizione dell’art. 307 del codice penale, «si estende ben oltre la famiglia nucleare».
Infine, poiché «non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva».

Allegati

appropriazione indebita

Appropriazione indebita: incostituzionali 2 anni di carcere La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo l'innalzamento della pena minima per il reato di appropriazione indebita

Pena minima appropriazione indebita

Il brusco innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge n. 3 del 2019 è sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione ed è, già per questa ragione, costituzionalmente illegittimo. Così ha deciso la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46-2024, accogliendo la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, di fronte al quale pendeva un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobilitare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non conclusosi.

Discrezionalità del legislatore

La Corte ha ricordato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”. Tuttavia, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona
deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”.
Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.

Aumento pena minima appropriazione indebita

Alla luce di questi principi, la Consulta ha osservato che l’aumento della pena minima per l’appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. “Resta però del tutto oscura – ha osservato il giudice del leggi – la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò “a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti”.

E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena minima, “nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di ‘fondi neri’ dai quali poter attingere per tale scopo”.
Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro.

Cancellazione pena minima

Il rimedio appropriato alla violazione della Costituzione riscontrata – ha sottolineato infine la Corte – è  semplicemente, la cancellazione della pena minima, che resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per la reclusione, pari appunto a quindici giorni.
Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.

Allegati

pensioni all'estero

Pensioni all’estero: addio assegni L'INPS rende nota la progressiva eliminazione della modalità di pagamento tramite assegno delle pensioni all'estero

Assegni pensioni all’estero

Addio assegni per le pensioni all’estero. Lo comunica l’INPS, con il messaggio n. 1194 del 21 marzo 2024, fornendo chiarimenti in merito al pagamento delle pensioni all’estero, proseguendo nell’iter di eliminazione delle modalità di pagamento tramite assegni e nella campagna informativa con la raccolta dei dati per i pensionati residenti nei paesi europei.

Come avviene oggi il pagamento delle pensioni all’estero

Ad oggi, Citibank N.A., incaricata della gestione finanziaria delle prestazioni pensionistiche all’estero, prevede che i pagamenti siano effettuati:
  • in via ordinaria tramite accredito su conto corrente bancario intestato al pensionato;
  • in contanti allo sportello di un corrispondente diretto della stessa Citibank (nella maggior parte dei paesi, Western Union);
  • in via del tutto eccezionale, la banca può disporre l’erogazione della pensione mediante spedizione al pensionato di un assegno di deposito non trasferibile.

Modulo Citibank

Tuttavia, atteso che la regolarità dei pagamenti eseguiti a mezzo assegno spesso è compromessa da ritardi a causa dei disservizi postali, o da smarrimento o danneggiamento, l’istituto rende noto che i pensionati residenti nei Paesi europei, che ricevono la pensione italiana mediante assegno di deposito non trasferibile, riceveranno da Citibank un modulo diretto all’acquisizione dei dati bancari sui quali localizzare i futuri pagamenti.
I pensionati dovranno restituire tale modulo compilato entro il 15 giugno 2024, con allegato documento di identità e coordinate bancarie.
In assenza del modulo compilato, il pagamento della rata di luglio 2024, avvisa l’INPS, sarà disposto a sportello presso le agenzie locali di Western Union.
lavori pubblica utilità

Lavori pubblica utilità: al via il portale nazionale Partita in 12 tribunali e relativi UEPE la sperimentazione della piattaforma sui lavori di pubblica utilità

Portale nazionale LPU

Una piattaforma che indica dove si può fare domanda per svolgere lavori di pubblica utilità e in quali settori. E’ partita la sperimentazione del portale nazionale dedicato che, tramite un sistema di geolocalizzazione, renderà la ricerca più veloce ed efficiente per operatori del settore giustizia e cittadini. Ne dà notizia gNews, il quotidiano online del ministero della giustizia.

Per la fase iniziale sono 12 i tribunali e relativi uffici di esecuzione penale esterna coinvolti: Ancona, Bari, Lucca, Castrovillari, Marsala, Milano, Pescara, Roma, Sassari, Savona, Torre Annunziata e Udine.

LPU: i dati

Il portale, presentato il 21 marzo presso la sede del dicastero, è stato sollecitato dalla crescente diffusione del ricorso a questa forma di esecuzione penale esterna. I dati mostrano che al 15 marzo, impegnati in lavori di pubblica utilità sono 27.102 imputati beneficiari della messa alla prova; 9.787 condannati per violazioni del codice della strada e 844 per violazione della legge sugli stupefacenti; 2.157 condannati a una pena sostitutiva di pena detentiva breve, introdotta dalla riforma Cartabia. Migliaia le convenzioni locali sottoscritte dai tribunali ordinari e decine gli enti del terzo settore con cui via Arenula ha stipulato convenzioni nazionali al fine di ospitare nelle proprie sedi imputati e condannati.

giurista risponde

Natura fidefacente atto pubblico e aggravante falsità materiale In quali casi un atto pubblico può avere, agli effetti della legge penale, natura fidefacente per la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nei delitti di falso, l’elemento che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta cioè alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. – Cass., sez. V, 13 marzo 2023, n. 10675.

Con la decisione in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in relazione al ricorso proposto avverso una sentenza di appello da due imputati, condannati per una serie di delitti di falso fidefacente, ideologico e materiale, commessi nelle rispettive qualità di comandante dei vigili urbani e di agente dello stesso corpo di polizia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, i due pubblici ufficiali avevano falsificato il registro di protocollo interno del Comando dei vigili urbani, attestando falsamente la spedizione del provvedimento di archiviazione di una contravvenzione elevata nei confronti di un privato e l’avvenuta ricezione della richiesta di archiviazione della stessa presentata dall’interessato, apponendo sulla relativa istanza, registrata solo in seguito al protocollo generale del Comune, il timbro dell’ufficio e il numero del protocollo interno.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, deducendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui confermava il giudizio di penale responsabilità in relazione alle condotte contestate, riconoscendo natura di atto pubblico a un mero registro interno, rispetto al quale, a parere della difesa, sarebbe mancata l’attribuzione del potere attestativo in capo al pubblico ufficiale circostanza che avrebbe impedito la considerazione di tale documento alla stregua di atto pubblico fidefacente.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato limitatamente alla natura di atto pubblico fidefacente del protocollo interno, non riconoscendo l’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.

In via preliminare, ha precisato che le condotte contestate erano riferite a due diverse annotazioni apposte dagli imputati sul registro interno del corpo dei vigili urbani, attestanti una l’archiviazione del verbale di contravvenzione elevato nei confronti del privato, l’altra l’avvenuta ricezione dell’istanza di annullamento in autotutela presentata dallo stesso, con apposizione del timbro dell’ufficio e attribuzione del numero di protocollo. Quanto alla qualificazione giuridica, a parere della Corte le due condotte decettive integrano gli estremi del delitto di falso ideologico, estrinsecandosi in enunciati idonei ad assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti, ben potendo ritenersi sussistente la materialità della fattispecie di reato contestata. Quanto all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p., prima di valutare se il registro di protocollo interno abbia natura fidefacente, la Corte si è interrogata sulla possibilità di qualificare lo stesso come atto pubblico. Come noto, il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale è più ampio di quello civilistico e ricomprende ogni documento formato dal pubblico ufficiale nell’esercizio della sua funzioni avente l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione. Ne consegue che è atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, rientrando nella tutela prevista dalla norma non solo gli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi, ma anche gli atti meramente interni, formati dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni per documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta e alla regolarità delle operazioni amministrative cui è addetto. Nel caso di specie, dal momento che il registro di protocollo interno ha avuto la funzione di documentare fatti inerenti alla attività dei pubblici ufficiali e alla regolarità delle operazioni amministrative, a parere della Corte lo stesso è espressione di un potere di autonomia organizzativa dell’amministrazione e deve essere considerato atto pubblico.

Tanto chiarito in relazione alla nozione di atto pubblico rilevante ai fini penali, la Corte ha scrutinato l’ulteriore profilo attinente alla natura fidefacente degli atti incriminati.

Secondo il Consiglio ciò che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, cioè, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. Si tratta di atti espressivi di una speciale potestà documentatrice, attribuita sulla base di una legge, di un regolamento, anche interno, o desumibile dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale.

Ne consegue che, quanto alla delimitazione dell’ambito operativo della circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. in tema di falso ideologico la natura di atto pubblico di fede privilegiata necessita del concorso di un duplice requisito dovendo, da un lato provenire da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della p.a. ad attribuire all’atto pubblica fede, dall’altro contenere un’attestazione dell’autore di verità circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione. Per tali ragioni, sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli che, emessi dal pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A., attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza.

Ciò premesso, a parere della Corte, quanto al registro generale di protocollo, è ormai jus receptum che lo stesso sia atto di fede privilegiata, trattandosi di verificare piuttosto se lo sia anche il registro interno, quale risulta essere quello in rilievo nel caso di specie.

A tale proposito, la Corte ritiene che il protocollo interno istituito presso il settore dei Vigili Urbani non risponde all’esigenza di attestare la ricezione a una certa data di un dato atto proveniente dall’esterno e, dunque, di tutelare l’affidabilità dell’informazione pubblica, possedendo al contrario una capacità rappresentativa solo a livello interno e per meri fini di migliore organizzazione amministrativa. Pertanto, nel caso di specie, mancando l’attribuzione del potere attestativo e certificativo in capo al pubblico ufficiale, non può dirsi ricorrente la speciale fede privilegiata, con la conseguenza che la contestata aggravante deve essere esclusa.

Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio relativamente all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. esclusa, e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, rigettando i ricorsi nel resto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 3542; Cass., sez. V, 15 febbraio 2021, n. 15901; Cass., sez. V, 8 settembre 2021, n. 37880; Cass., sez. V, 10 maggio 2019, n. 38455; Cass., sez. V, 11 aprile 2019, n. 28047
giurista risponde

Infanticidio e condizione di abbandono morale e materiale Nel delitto di infanticidio è necessario che la gestante si trovi in una oggettiva condizione di abbandono morale e materiale o è sufficiente anche la soggettiva percezione di totale abbandono avvertita dalla stessa?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. – Cass., sez. V, 10 marzo 2023, n. 10284. 

Con la decisione in esame la quinta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a individuare uno degli elementi attinenti la tipicità del delitto di infanticidio.

Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata sul ricorso proposto dall’imputata avverso la sentenza con cui la Corte d’Assise d’Appello aveva parzialmente riformato la pronuncia di condanna, confermando la penale responsabilità della stessa in relazione al delitto di omicidio aggravato dall’essere stato compiuto dalla madre nei confronti della neonata appena partorita.

Avverso la richiamata decisione proponeva impugnazione la ricorrente, deducendo l’errata applicazione dell’art. 578 c.p. quanto alla mancata derubricazione del fatto nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

Nel merito, la difesa richiamava una serie di elementi della condotta materiale valorizzabili nel senso della qualificazione del fatto ai sensi di infanticidio e non di omicidio doloso aggravato, quali la circostanza che la gravidanza fosse indesiderata e temuta, poiché non generata in un rapporto affettivo legittimo e palese; la strana ignoranza – al limite della credibilità – da parte delle persone vicine alla donna circa lo stato di gravidanza; la contrarietà dell’ambiente familiare ad una gravidanza e a un figlio derivanti da una relazione adulterina; la grave difficoltà dell’imputata a parlare della sua condizione in famiglia, tanto da non riferire nulla neppure quando i genitori si recarono a prenderla nel luogo ove aveva partorito. A sostegno della tesi difensiva, si menzionava pure l’ambiente familiare povero e carente culturalmente, all’origine dell’angoscia vissuta dalla donna durante la gravidanza a causa del pensiero del giudizio negativo dei parenti e del contesto sociale che, di conseguenza, aveva caratterizzato anche il momento del travaglio, vissuto con senso di solitudine.

Tali considerazioni, secondo la difesa, avrebbero inequivocabilmente dimostrato la sussistenza della condizione di abbandono materiale e morale indicativa del delitto di infanticidio.

Invero, la ricorrente richiama un orientamento di legittimità appena successivo alla decisione di appello, per cui lo stato di abbandono morale e materiale costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, essendo sufficiente a integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna, collegata ad un ambiente familiare non comunicativo ed incapace di cogliere l’evidenza dello stato di gravidanza e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno, in relazione alle delicate esperienze della gravidanza e del parto.

La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, osservando che la questione della derubricazione del fatto nel diverso delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale non è stata oggetto dei motivi di appello risultando, pertanto, preclusa al Supremo Collegio una qualificazione giuridica corretta. Nondimeno, la Corte ha condiviso le argomentazioni difensive nella parte in cui hanno valorizzato la nuova e diversa giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di infanticidio che ha individuato nello stato di abbandono per come soggettivamente percepito dalla vittima la situazione tipica necessaria a integrare la fattispecie in esame.

Il nuovo orientamento ermeneutico va, a parere della Corte, condiviso, avendo oculatamente superato il precedente indirizzo, caratterizzato da un certo grado di rigidità esegetica, che valorizzava l’assoluta mancanza di assistenza in cui era necessario che venisse a trovarsi l’autrice del reato, che in sostanza avrebbe dovuto vivere una situazione di disperante abbandono ed isolamento, senza neppure poter pensare di contare su una qualche forma di aiuto da parte delle persone vicine.

Alla stregua di tali obsoleti precedenti, per la configurabilità dell’infanticidio era necessario che la madre fosse lasciata in balia di sé stessa, senza alcuna assistenza e nel completo disinteresse dei familiari, in modo da trovarsi in uno stato di isolamento totale che non lasciasse prevedere alcuna forma di soccorso o di aiuto finalizzati alla sopravvivenza del neonato.

Nel caso in esame, la Corte ha condiviso la tesi difensiva, ritenendo che tale esegesi fosse ormai superata da una diversa elaborazione ermeneutica che, probabilmente al fine di adeguare l’opera di nomofilachia svolta da questa Corte alle diverse condizioni di vita sociale ed individuale in cui tali episodi avvengono, ha posto l’accento maggiormente sulla condizione soggettiva della donna e sulla sua percezione della realtà circostante nel momento in cui è realizzata la condotta delittuosa.

Secondo il nuovo orientamento, cui aderisce la Corte chiamata a pronunciarsi nel caso di specie, l’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto.

La Corte ha evidenziato a tale proposito come già in risalenti pronunce è stata ritenuta irrilevante la disponibilità da parte dell’imputata di mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine esistenziale e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare indifferente alla vicenda umana e incapace di avvertire ogni esigenza di aiuto e sostegno necessari alla donna.

Corretta è parsa alla Corte la valorizzazione da parte della difesa delle condizioni di estremo disagio in cui è stata posta in essere la condotta materiale e dalle quali sarebbero potuti emergere elementi valorizzabili per qualificare il fatto ai sensi dell’art. 578 c.p., inteso non nel senso dell’accertamento di una oggettiva ed assoluta condizione di abbandono ma come la percezione di questa condizione sulla base di dati di fatto riscontrabili obbiettivamente e che caratterizzarono la vita familiare e sociale dell’imputata, tanto da indurre una convinzione di solitudine esistenziale e di derelizione.

Tuttavia, nonostante le ben sviluppate argomentazioni difensive, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, poiché la questione della qualificazione giuridica della condotta materiale è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Come noto, al giudice di legittimità è preclusa una nuova valutazione del fatto basata su elementi già presenti nel giudizio di merito, potendo la questione della qualificazione giuridica essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità unicamente nel caso in cui per la sua soluzione non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 23 maggio 2013, n. 26663; Cass., sez. I, 22 gennaio 2021, n. 28252; Cass., sez. I, 3 maggio 2022, n. 14713
Difformi:      Cass., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41889; Cass., sez. I, 17 aprile 2007, n. 24903;
Cass., sez. I, 10 febbraio 2000, n. 2906; Cass., sez. V, 26 maggio 1993, n. 7756
giurista risponde

Truffa online e aggravante minorata difesa È configurabile l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. in relazione alle ipotesi delittuose di truffa online?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nelle fattispecie di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on-line, sussiste l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. con riferimento alle circostanze di luogo note all’autore del reato e delle quali egli abbia approfittato poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. – Cass., sez. II, 13 marzo 2023, n. 10570.

Con la sentenza in esame, la seconda sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla configurabilità dell’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. nelle ipotesi di truffa commesse on-line.

La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare un ricorso proposto dall’indagato avverso l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari, già applicata dal giudice per le indagini preliminari in relazione a svariate ipotesi di truffa commesse on-line e avvinte dal vincolo della continuazione.

Nel caso di specie, il ricorrente deduceva l’inosservanza e la falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 640, comma 2, n. 2bis), c.p.p. e dell’art. 61, n. 5), c.p., facendo valere l’insussistenza dell’aggravante della minorata difesa nelle ipotesi criminose contestate di truffa on-line. Più precisamente, lo stesso rilevava l’erronea configurazione della fattispecie concreta, dal momento che non si sarebbe trattato di un’ipotesi di vendita, bensì di noleggio di veicoli on-line o, al più, di acquisto di un’area di parcheggio. Inoltre, rilevava l’oggettiva inesistenza dei presupposti fondanti la minorata difesa sì come evincibili dalle modalità della condotta e dagli strumenti impiegati per la commissione dell’illecito. Nella fattispecie in esame, infatti, a parere del ricorrente avrebbe ostato alla configurazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. la diretta menzione dell’indagato nella contrattualistica come intestatario del “camper” proposto per il noleggio, come titolare dei conti correnti beneficiati, oltre che come diretto interlocutore, telefonico e via e-mail, con i potenziali interessati. Secondo le argomentazioni difensive, nel caso concreto non rappresentava e non avrebbe potuto rappresentare aggravante costitutiva della condotta criminosa l’omessa esibizione del bene, tipica della compravendita on-line, prassi ignota al noleggio di veicoli e impossibile per l’acquisto di un’area di parcheggio, non essendo in contestazione la sua presunta inesistenza o la non rispondenza qualitativa, bensì l’originario intendimento di disattendere l’obbligazione assunta, né, parimenti, una mera e generica difficoltà di rintraccio, evidentemente inconferente rispetto alla diversa ipotesi di anonimato, nel caso in esame, assolutamente non ravvisabile, per la diretta ed esplicita riconducibilità del presunto illecito e dei suoi strumenti funzionali all’indagato.

La Corte ha considerato il motivo di ricorso non fondato, osservando come, secondo la giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on line sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5), c.p., abbia approfittato, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. A tale proposito, la Corte rileva come il presupposto della minorata difesa sia identificato da tale condivisibile giurisprudenza nella costante distanza tra i contraenti, i quali conducono le trattative interamente su piattaforme web, e valorizza il fatto che tale modalità di contrattazione richiede un particolare affidamento dell’acquirente nella buona fede del venditore, atteso che il primo si trova in una condizione di debolezza per una pluralità di ragioni che possono sussistere, in tutto o in parte, nelle diverse fattispecie concrete – in particolare, le possibilità per il venditore di: vendere sotto falso nome, schermando la propria vera identità (così da rendere più difficile la sua identificazione); non sottoporre il prodotto a controllo preventivo; rendere più difficile il controllo della sua affidabilità (controllo che è più agevole nel caso di contrattazione de visu); sottrarsi più agevolmente alle conseguenze della propria azione.

Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte, ha ritenuto che l’ordinanza impugnata abbia dato adeguatamente conto, con una motivazione logica e non contraddittoria, di come l’indagato avesse consapevolmente approfittato delle particolari opportunità decettive offerte dalla distanza che caratterizza il commercio on-line, avendo evidenziato come, proprio per il fatto che i contratti avevano a oggetto il noleggio (e non la vendita) di un mezzo, le controparti contrattuali, ricevuta la documentazione relativa, avessero senz’altro confidato nella buona fede del medesimo, astenendosi dall’effettuare trasferte per visionare lo stesso mezzo, così da potere intrattenere anche un’interlocuzione de visu con lo stesso indagato, il quale, inoltre, avrebbe poi più facilmente potuto rendersi irreperibile e sottrarsi alle recriminazioni delle persone offese.

Per tali ragioni, i giudici di legittimità rigettano il ricorso, condannando di conseguenza il ricorrente al pagamento delle spese procedimentali ai sensi dell’art. 616, comma 1, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 22 marzo 2017, n. 17937; Cass., sez. II, 29 settembre 2016, n. 43706