tempus regit actum

Il principio “tempus regit actum” nel procedimento amministrativo In ambito amministrativo, si discute se debba rispettarsi sempre la regola tempus regit actum o se occorra considerare il procedimento nel suo complesso

Che significa la regola tempus regit actum

Con la locuzione latina tempus regit actum si suole indicare la circostanza per cui, in diritto, un atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui è compiuto.

Questo principio trova applicazione in vari ambiti, e principalmente in campo processuale. Ma è nel diritto amministrativo che la regola tempus regit actum si trova al centro di un vivace dibattito, poiché una parte della dottrina e molte recenti pronunce giurisprudenziali ritengono che, in tale settore, debba valere il diverso principio del tempus regit actionem, specialmente con riferimento alle regole che disciplinano il procedimento amministrativo.

Tempus regit actum e procedimento amministrativo

Per comprendere appieno le differenze tra le due regole sopra citate, è opportuno ricordare brevemente in cosa consiste il procedimento amministrativo.

Esso rappresenta il normale strumento attraverso cui la pubblica amministrazione addiviene ad una decisione in cui si sostanzia la sua azione. In concreto, il procedimento amministrativo si sostanzia in una serie concatenata di atti amministrativi che sfociano in un atto conclusivo, chiamato provvedimento amministrativo.

Ebbene, i fautori della tesi secondo cui anche in ambito amministrativo procedimentale vige la regola tempus regit actum, sostengono che ogni singolo atto del procedimento amministrativo rimane regolato dalla disciplina normativa vigente al momento in cui esso è stato adottato.

Ciò significa che, se sopravviene una nuova normativa astrattamente applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento amministrativo, quest’ultima dovrà essere osservata solo in relazione agli atti di quel procedimento ancora da compiere, mentre la regolarità degli atti endoprocedimentali già compiuti in quel medesimo procedimento continuerebbe a dover essere valutata in base alle norme della previgente disciplina.

In realtà, tale principio è stato per lungo tempo pacificamente osservato anche in tale ambito, ma di recente numerose pronunce degli organi giurisdizionali amministrativi hanno abbracciato la tesi di quella parte della dottrina che ritiene applicabile al procedimento amministrativo il principio tempus regit actionem.

Bandi di gara e principio tempus regit actionem

In buona sostanza, tale tesi sposta l’attenzione dall’atto singolarmente considerato all’azione amministrativa complessivamente identificata dal singolo procedimento.

Per fare un esempio, quando un ente pubblico bandisce una gara di appalto, fissa una serie di requisiti per la partecipazione e una serie di regole che garantiscono la parità tra i concorrenti e la trasparenza delle condizioni.

Se la normativa di riferimento mutasse in pendenza della scadenza dei termini per la partecipazione a quella gara, si rischierebbe di pregiudicare il rispetto di tali canoni di parità e trasparenza, finendo per inquinare la correttezza e la regolarità della gara.

Per questo motivo, in ambito di aggiudicazioni e, più in generale di procedure selettive in ambito amministrativo, si ritiene che debba rispettarsi la regola “tempus regit actionem”, e che, pertanto, l’intera gara debba rimanere disciplinata dalla normativa vigente al momento della pubblicazione del bando.

Al riguardo, cfr. tra tante, la sentenza del Consiglio di Stato n. 2521/2021, secondo cui “occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (…); pertanto, anche per ragioni di tutela dell’affidamento (…), deve escludersi che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara, altrimenti venendo sacrificati i principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse ed assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle amministrazioni di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente all’adozione del bando (tra le tante, Cons. Stato, V, 7 giugno 2016, n. 2433; V, 12 maggio 2017, n. 2222). Si può forse sostenere che nei procedimenti di gara il criterio informatore sia quello del tempus regit actionem”.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti del diritto amministrativo si fa largo l’idea che debba osservarsi la legge vigente al momento in cui l’amministrazione procedente avvia la fase istruttoria del procedimento amministrativo. In tal modo, da un lato viene valorizzata l’idea che il procedimento amministrativo sia un unicum in cui si sostanzia l’azione amministrativa e in cui confluiscono i vari atti che hanno rilevanza esclusivamente endoprocedimentale. Dall’altro, si valorizza l’esigenza di rispetto degli interessi legittimi esistenti in capo ai soggetti interessati dal procedimento, che possono ritenersi davvero tutelati solo se valutati in relazione alla legge vigente all’inizio del procedimento che li coinvolge.

In altri ambiti, come ad esempio quello delle concessioni edilizie, rimane invece ancora pacificamente osservata la regola del tempus regit actum: il provvedimento finale, cioè, deve rispondere alla normativa sopravvenuta nel corso del procedimento e non a quella vigente all’inizio dello stesso.

targa falsa

Targa contraffatta o falsa Il codice della strada punisce la circolazione con targa contraffatta con una sanzione pecuniaria e, nel caso di volontarietà dell’uso, con l’applicazione di sanzioni penali

Le sanzioni per chi circola con targa falsa

La targa automobilistica, giuridicamente, è una certificazione amministrativa che attesta l’avvenuta immatricolazione del veicolo, identificandolo in modo univoco e inequivocabile.

Non di rado, i tribunali si occupano di casi in cui un veicolo abbia circolato con targa contraffatta, nel tentativo di evitare multe e sanzioni stradali, come per esempio quelle relative al superamento dei limiti di velocità rilevato con l’autovelox.

Circolare con targa falsa o contraffatta è ovviamente vietato e severamente punito dal codice della strada e dal codice penale. Vediamo le varie ipotesi che possono in concreto verificarsi e quali sono le sanzioni previste dalla legge.

Targa contraffatta, la sanzione pecuniaria prevista dal codice della strada

Innanzitutto, in tema di targhe contraffatte, occorre fare riferimento all’art. 100 del codice della strada, che al comma 12 prevede una pesante sanzione amministrativa pecuniaria, da € 2.046 a € 8.186, a carico di chiunque circoli con un veicolo munito di targa non propria o contraffatta.

Va notato che tale norma è stata oggetto di depenalizzazione e dunque rappresenta una sanzione di mero carattere amministrativo. La ragione di ciò risiede nel fatto che la norma in esame punisce chi circola con una targa contraffatta, senza però aver materialmente messo in atto la contraffazione della stessa e soprattutto circolando in maniera inconsapevole con una targa falsa (diversamente si ricade nell’ambito del penale, come vedremo tra breve).

Ad ogni modo, alla sanzione pecuniaria consegue anche la sanzione accessoria del fermo amministrativo del veicolo e, in caso di reiterazione della violazione, la sanzione accessoria della confisca amministrativa del veicolo (art. 100 C.d.S., comma 15).

Uso volontario della targa alterata: il rinvio al codice penale

Ben più serie le conseguenze per chi, materialmente, mette in atto la contraffazione della targa o usa volontariamente la targa falsa, perché in tal caso si ricade in ambito penale.

La norma di riferimento, in tal caso, è innanzitutto il comma 14 dello stesso art. 100 C.d.S., che dispone quanto segue: “chiunque falsifica, manomette o altera targhe automobilistiche ovvero usa targhe manomesse, falsificate o alterate è punito ai sensi del codice penale”.

Il richiamo al codice penale è da riferirsi agli artt. 477 e 482 c.p. Il combinato disposto di questi due articoli individua il reato di falsità materiale commessa dal privato in certificati o autorizzazioni amministrative (come detto, la targa è tecnicamente da considerarsi un certificato amministrativo).

In base a tale normativa, chi commette la contraffazione di una targa o fa uso consapevole di una targa falsa (circolando con il veicolo), è punibile con la reclusione da quattro mesi a due anni (cioè, la pena prevista dall’art. 477 c.p., ridotta di un terzo, in base a quanto disposto dall’art. 482).

Targa contraffatta, le sentenze della Cassazione

In definitiva, come evidenziato anche dalla Corte di Cassazione, “le due ipotesi, quella di cui al comma 12 e al comma 14 dell’art. 100 C.d.S. concorrono nel senso che, ove emerga la volontarietà dell’utilizzo della targa contraffatta (…) è integrata la fattispecie dell’uso della targa, penalmente rilevante” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 7614/2017).

Pertanto, se l’uso della targa alterata (e quindi la circolazione con il veicolo) è volontario, si applicano le norme penali cui fa riferimento il comma 14, oltre alla sanzione amministrativa di cui al comma 12. Se, invece, l’utilizzo della targa falsa è inconsapevole, la sanzione sarà solo quella amministrativa prevista dal comma 12 dell’art. 100 del Codice della Strada.

In merito, si veda anche Cassazione Penale, sez. V, sentenza n. 1386/2018, che ribadisce il principio “secondo cui integra il reato di falsità materiale commessa dal privato in certificati o autorizzazioni amministrative (artt. 477 e 482 cod. pen.), la condotta di colui che modifica la targa della propria autovettura, atteso che – come sopra già accennato – le ipotesi previste dall’art. 100 del C.d.S. ai commi 12 e 14 si distinguono tra loro in quanto la prima disposizione sanziona in via amministrativa l’atto di circolazione con veicolo munito di targa non propria o contraffatta, laddove non sia contestata all’agente la contraffazione, mentre la seconda sanziona la contraffazione da parte dell’agente della targa quale certificazione amministrativa dei dati di immatricolazione del veicolo”.

proprietà fiduciaria

Proprietà fiduciaria Nella proprietà fiduciaria un soggetto trasferisce la titolarità di un bene ad un altro soggetto, con il vincolo di usarlo per soddisfare l’interesse di un beneficiario

La proprietà fiduciaria nel nostro ordinamento

Con la locuzione “proprietà fiduciaria” si suole indicare una particolare configurazione del diritto di proprietà, che postula l’intestazione di un bene in capo a una persona con il vincolo di utilizzarlo per la soddisfazione di un particolare interesse a favore di un altro soggetto, detto beneficiario.

Solitamente, l’istituto che meglio rappresenta lo schema della proprietà fiduciaria è il trust, figura di origine anglosassone, che si sostanzia in un negozio giuridico unilaterale con cui il disponente trasferisce un bene a una persona di fiducia, il trustee, che ha l’obbligo di amministrarlo con lo scopo di favorire in un determinato modo il beneficiario.

Solo negli ultimi decenni la figura del trust, e più in generale il concetto di proprietà fiduciaria, si è fatto largo nell’ordinamento italiano, vincendo soprattutto le riserve di chi vi scorge – con fondati timori – soprattutto un modo per eludere i diritti dei creditori.

Uno dei principali tratti distintivi della proprietà fiduciaria è infatti quello di costituire un patrimonio separato da quello del suo intestatario, quindi non aggredibile dai creditori.

Il trust e l’art. 2645-ter del codice civile

L’art. 2645-ter del codice civile, introdotto nel 2005, disciplina nel nostro ordinamento i c.d. patrimoni di destinazione, caratterizzati dall’amministrazione di fiducia di un bene operata dal soggetto a cui tale bene viene intestato.

In particolare, tale articolo, rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (…)”, riguarda gli atti pubblici con cui beni immobili o mobili registrati vengono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

Con riferimento a tali beni, è possibile operare una trascrizione nei pubblici registri al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione.

È inoltre previsto che, per la realizzazione di tali interessi può agire in giudizio, oltre al disponente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del disponente stesso.

Proprietà fiduciaria e contratto fiduciario: differenze

Le caratteristiche appena descritte, proprie dei patrimoni di destinazione, valgono a distinguere la proprietà fiduciaria dal contratto fiduciario.

Quest’ultimo, infatti, non integra una particolare configurazione di un diritto reale, ma individua un normale negozio giuridico; ed infatti, in tal caso, legittimato ad agire per la soddisfazione dell’interesse del beneficiario è solo il disponente/contraente, e non qualsiasi interessato.

Inoltre, la trascrizione del vincolo di destinazione prevista nelle ipotesi di proprietà fiduciaria fa sì che il vincolo di destinazione “segua” il bene in ogni caso di trasferimento della proprietà di quest’ultimo e sia, pertanto, opponibile agli aventi causa del fiduciario.

Nel caso di negozio fiduciario, invece, agli aventi causa del fiduciante che abbia venduto contravvenendo al contratto, quest’ultimo non può essere opposto, ferma restando la possibilità per il disponente di ottenere il risarcimento del danno dal fiduciario.

Trascrizione del vincolo e tutela dei creditori

Infine, rileva la norma posta dall’ultimo periodo dell’articolo 2645-ter c.c., in base alla quale i beni conferiti dal disponente e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo.

Ciò, comunque, a condizione che, se si tratta di beni immobili o mobili registrati, la trascrizione dell’atto che comporta il vincolo di indisponibilità sia stata trascritta prima del pignoramento, come stabilito dall’art. 2915 c.c., primo comma. È evidente la finalità che ha tale norma di evitare che il patrimonio destinato sia istituito con lo scopo di sottrarre dei beni del disponente all’aggredibilità da parte dei creditori (v. art. 2740 c.c.: “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”).

lottizzazione abusiva

Lottizzazione abusiva sanatoria Per la lottizzazione abusiva la sanatoria non è prevista, come ha chiarito il Consiglio di Stato, anche quando venga richiesta per le singole opere edilizie

Cos’è la lottizzazione abusiva

La lottizzazione abusiva è il reato che compie chi, a scopo edificatorio, inizia opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia di terreni, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o senza la prescritta autorizzazione (v. art. 30 del T.U. Edilizia, D.P.R. 380/2001).

Parimenti, si ha lottizzazione abusiva quando tale trasformazione urbanistica o edilizia viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.

Come vedremo, a differenza di quanto può accadere per le singole opere edilizie, la lottizzazione abusiva non è suscettibile di sanatoria.

Il reato di lottizzazione abusiva e le sanzioni

Il reato di lottizzazione abusiva è punito dall’art. 44 dello stesso Testo Unico, che prevede come pena l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro.

Inoltre, con la sentenza definitiva del giudice penale che accerta il reato, viene disposta anche la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite.

La principale ragione per cui la lottizzazione abusiva è considerata un illecito penale è stata individuata dalla giurisprudenza amministrativa nel fatto che tale attività “sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessarie al vivere civile, causa di degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano” (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 5403/2021).

Lottizzazione abusiva e sanatoria, la giurisprudenza

Come abbiamo anticipato, diversamente da quanto può accadere per singoli interventi realizzati in assenza di costruire, suscettibili di sanatoria, “la lottizzazione abusiva rappresenta un illecito urbanistico che non è suscettibile della sanatoria prevista per gli abusi edilizi, anche qualora sia stata rilasciata una concessione edilizia in sanatoria per le singole opere facenti parte della lottizzazione” (Consiglio di Stato, sez. II, n. 1271/2021, pronuncia richiamata anche da Cons. St., sez. VI, sent. n. 2567/2023).

Per inciso, la sanatoria per i singoli interventi (opere) realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, si può richiedere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda, pagando una somma pari al contributo di costruzione in misura doppia, sempre che la richiesta venga accolta (cfr. l’art. 36 del citato T.U. Edilizia, che disciplina il c.d. “Accertamento di conformità”).

Ipotesi ancora diversa è il condono delle singole opere abusive, che avviene solo in occasione di apposito provvedimento legislativo (adottato in passato in Italia negli anni ’80, ’90 e all’inizio degli anni Duemila).

Consiglio di Stato, le sentenze sulla sanatoria edilizia

Proprio perché si tratta di due ipotesi ben distinte, la giurisprudenza ha anche chiarito che non è possibile sanare la lottizzazione abusiva tramite la sanatoria delle singole unità immobiliari, terreni o costruzioni che siano, i quali non possono essere considerati in modo isolato (cfr. Cons. St., sent. n. 883/2022).

Inoltre, il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 2567/2023, ha anche chiarito che nell’ambito della lottizzazione abusiva la sanatoria richiesta per una singola opera ha solo un effetto sospensivo dell’efficacia dei provvedimenti adottati in precedenza.

Infatti, la richiesta di un accertamento di conformità ex art. 36 T.U. Edilizia, in relazione ad un’opera realizzata in un terreno per cui è stata già accertata la lottizzazione abusiva, non toglie efficacia alla precedente ordinanza di demolizione, ma ne comporta la mera sospensione dell’efficacia fino alla definizione del procedimento conseguente alla richiesta stessa (sul punto, viene richiamata anche la precedente sentenza Cons. St., sez. II, n.3545/2021).

art. 39 TULPS

Art. 39 Tulps: divieto di detenzione armi In base all’art. 39 Tulps, il prefetto può vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi a soggetti che siano ritenuti capaci di abusarne

Divieto di detenere armi: i poteri del prefetto

L’art. 39 Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede la facoltà, per il prefetto, di vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi alle persone che in precedenza avevano ottenuto il relativo permesso, ma che, secondo una valutazione attuale, siano ritenute capaci di abusarne.

Per comprendere appieno la portata della norma, è opportuno comprendere quali siano le condizioni alle quali un cittadino possa essere autorizzato alla detenzione di armi. A questo scopo, nella presente guida analizzeremo brevemente la normativa di settore e i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza.

Detenzione armi e munizioni, cosa dice la legge

Si è detto che il prefetto può negare la detenzione di armi a soggetti che erano in precedenza stati autorizzati a tanto. Il riferimento principale è a quanto previsto dall’art. 38 Tulps, che espressamente dispone che chiunque detiene armi, munizioni od esplosivi, deve farne denuncia alle autorità di pubblica sicurezza entro 72 ore dall’acquisizione della loro materiale disponibilità.

Tale denuncia, inoltre, deve essere ripetuta ogni qual volta il possessore dell’arma ne cambi il luogo di custodia. Tutto questo trova giustificazione nel fatto che le autorità di pubblica sicurezza devono essere sempre messe in condizione di conoscere l’esistenza di un’arma e il luogo esatto in cui la stessa si trovi, con la dovuta tempestività.

Ebbene, in questo quadro si staglia il potere del prefetto di cui all’art. 39 Tulps. In base a tale valutazione, il prefetto esprime un giudizio prognostico, cioè una mera previsione, in base al quale egli ritiene che il soggetto che detiene l’arma possa essere capace di abusarne e pertanto gli vieta di detenere l’arma (o le munizioni, o il materiale esplodente).

Divieto generale di detenere un’arma

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ci consente di delineare meglio i presupposti e i contorni del divieto in parola (Cons. St., sent. n. 7404/2022).

Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare. (…) La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire”.

In altre parole, la sentenza in oggetto ci fa capire che l’art. 38 Tulps, in realtà, rappresenta le condizioni che permettono di fare un’eccezione alla regola (concedendo la detenzione dell’arma al cittadino), laddove l’art. 39 Tulps e il potere prefettizio da esso previsto non fanno altro che ripristinare l’operatività della regola generale del divieto di detenzione delle armi, in presenza di condizioni che facciano suppore il pericolo di abuso delle armi da parte del detentore.

Il porto d’armi, come anche chiarito dalla risalente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 440/1993) “non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse”.

In tutto questo, il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi ed è da considerarsi “di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi” (v. sent. cit.).

Art. 39 Tulps: confisca dell’arma

La disciplina del divieto prefettizio di detenzione dell’arma si completa con la previsione in base alla quale, con il provvedimento di divieto, il prefetto assegna all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi dei materiali di cui al medesimo comma. In altre parole, l’ordinamento concede al detentore destinatario del provvedimento di divieto da parte del prefetto di decidere in ordine alla destinazione dell’arma. In mancanza di cessione entro il termine indicato, si procede alla confisca dell’arma.

Va segnalato, infine, che, nei casi di urgenza, l’art. 39 Tulps dispone che gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza devono provvedere all’immediato ritiro cautelare dell’arma, dandone immediata comunicazione al prefetto.

mediatore immobiliare

Mediatore immobiliare non iscritto L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria e, in caso di reiterazione, può portare a sanzioni penali

Esercizio abusivo dell’attività di mediatore

L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito dalla legge con una consistente sanzione amministrativa pecuniaria, e in caso di reiterazione della violazione, può portare all’applicazione di sanzioni di carattere penale, come vedremo in questa breve guida.

Come noto, l’attività del mediatore consiste nel mettere in contatto due parti affinché queste concludano un affare. La figura del mediatore è disciplinata dalla legge, in particolare, per quanto riguarda i requisiti che il soggetto che voglia svolgere tale attività deve possedere e gli adempimenti che portano all’iscrizione nei registri tenuti dalle Camere di Commercio (CCIAA).

Il mediatore immobiliare non iscritto in tali registri è passibile delle sanzioni cui si accennava più sopra, e che adesso analizzeremo più nel dettaglio.

Mediatore immobiliare requisiti e iscrizione alle CCIAA

In base all’art. 2 della legge n. 39 del 1989, per svolgere l’attività di mediatore occorre possedere una serie di requisiti, attinenti in particolare al possesso del diploma, alla formazione professionale e all’assenza di cause ostative quali il fallimento o la condanna per alcuni determinati reati.

In origine, il possesso di tali requisiti era il presupposto per l’iscrizione nel ruolo dei mediatori (più precisamente, “degli agenti di affari in mediazione”) tenuto dalle CCIAA. Oggi tale ruolo è stato soppresso, per espressa disposizione del d.lgs. 59 del 2010.

Tale decreto dispone, attualmente, che l’attività di mediatore può esercitarsi a seguito di presentazione alla Camera di Commercio competente di una semplice segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), accompagnata da apposita certificazione (o autocertificazione) che dimostri il possesso dei requisiti sopra citati.

Questi ultimi danno diritto, oggi, all’iscrizione del mediatore nel registro delle imprese, se l’attività è svolta in forma di impresa, oppure nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA), se si tratta di persona fisica. In entrambi casi, l’iscrizione è subordinata al controllo sui requisiti da parte della CCIAA.

Le sanzioni per il mediatore immobiliare non iscritto

Alle Camere di Commercio è demandata la vigilanza sull’attività dei mediatori, con potere di erogare sanzioni disciplinari in caso di violazione degli obblighi e doveri connessi con l’esercizio di tale attività.

Inoltre, la Camera di Commercio ha il potere di punire l’esercizio abusivo dell’attività posta in essere dal mediatore immobiliare non iscritto nei registri, irrogando il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal primo comma dell’art. 8 della legge n. 39/1989 sopra citata, sanzione che consiste nel pagamento di una somma da € 7.500 a € 15.000.

Inoltre, il mediatore immobiliare abusivo non ha diritto ad alcuna provvigione: pertanto, egli è tenuto alla restituzione in favore delle parti della provvigione eventualmente già percepita.

Ma le conseguenze per l’esercizio abusivo della mediazione non finiscono qui, perché, come anticipato, vi possono essere anche delle sanzioni di carattere penale.

Infatti, in caso di reiterazione della condotta di mediazione abusiva, e quindi dopo la seconda sanzione amministrativa erogata dalla Camera di Commercio, quest’ultima è tenuta ad inoltrare apposita denuncia all’ Autorità Giudiziaria competente, per consentire l’applicazione della relativa sanzione penale.

Il secondo comma dell’art. 8 della l. 39/1989, infatti, prevede che, in tal caso, si applicano le sanzioni previste dall’articolo 348 del codice penale e dall’articolo 2231 del codice civile.

Tali norme prevedono, rispettivamente, quanto segue: l’art. 348 c.p. punisce l’esercizio abusivo di una professione con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

L’art. 2231 c.c., invece, sanziona sul piano civilistico l’esercizio di un’attività professionale in mancanza d’iscrizione, prevedendo che la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà il diritto di agire in giudizio per ottenere il pagamento del compenso.

circonvenzione di incapace

Circonvenzione di incapace e prova del reato Nel reato di circonvenzione di incapace la prova deve vertere sull’attività di induzione ai danni della persona offesa, approfittando della sua debolezza psicologica

Il reato di circonvenzione di incapace

Il reato di circonvenzione di incapace è disciplinato dall’art. 643 del codice penale, che punisce chiunque abusa dell’inesperienza di un minore o della debolezza psichica di un soggetto per indurlo a compiere un atto, per questi dannoso, al fine di procurarsi (o procurare a qualcun altro) un profitto.

In questa breve guida analizzeremo presupposti ed elementi del reato e, in particolare, quale sia in tema di circonvenzione di incapace la prova da raggiungere per considerare integrato il reato.

Art. 643 c.p. cosa si intende per deficienza psichica

È importante evidenziare, innanzitutto, che lo stato psichico della persona offesa non deve necessariamente integrare una malattia, né aver precedentemente comportato l’interdizione o inabilitazione della stessa. È sufficiente che la debolezza psichica ponga quest’ultima in condizioni tali da subire l’abuso o la pressione da parte del soggetto agente.

Al riguardo, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che, perché si abbia circonvenzione di incapace, non occorre che la vittima versi in stato di incapacità di intendere e di volere, ma è sufficiente un’alterazione dello stato psichico che ne affievolisca le capacità critiche (Cass. pen., sent. n. 480/2024).

La minorazione psichica, quindi, si sostanzia in una “compromissione del potere di critica ed indebolimento di quello volitivo, tale da rendere possibile l’altrui opera di suggestione” (Cass., sent. n. 24192/2010).

A titolo di esempio, quindi, si può pensare alle diminuite capacità di discernimento di una persona anziana nei confronti di un soggetto che intenda raggirarla per ottenere un vantaggio, solitamente patrimoniale.

L’induzione e l’abuso nella circonvenzione di incapace

Quanto agli elementi oggettivi del reato, la circonvenzione di incapace prevede un’attività di induzione, da parte del soggetto agente, a compiere un atto per sé (o per altri) dannoso. La Suprema Corte ha chiarito che integra induzione “un’apprezzabile attività di pressione morale e di persuasione”.

L’abuso, invece, trova origine nella consapevolezza dello stato di debolezza della persona offesa e si sostanzia in un’attività che sfrutti tale vulnerabilità per ottenere un profitto.

Circonvenzione di incapace e prova: Cassazione

Quanto alla prova della circonvenzione di incapace, il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il convincimento del giudice circa la prova dell’attività di induzione, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 643 c.p., “ben può essere fondato su elementi indiretti e indiziari, cioè risultare da elementi precisi e concordanti come la natura degli atti compiuti e il pregiudizio da essi derivante” (v., da ultimo, Cass. Pen., sent. n. 14863/2023).

In tema di circonvenzione di incapace e prova della debolezza psichica, inoltre, la citata sentenza della Suprema Corte n. 480/2024, ha evidenziato che tale condizione può essere desunta, ad esempio, dalle conclusioni di una consulenza tecnica sulla persona offesa che evidenzi che la stessa versa in una condizione di fragilità psichica tale da rendere possibile l’intervento suggestivo di un terzo (si pensi ad un anziano che, rimasto solo, riponga eccessiva fiducia in una persona che in realtà lo accudisce per trarne un profitto, inducendolo a compiere atti di diminuzione del proprio patrimonio).

La prova della circonvenzione di incapace, pertanto, ben può tendere alla dimostrazione, da un lato,  della minorazione psichica (che, si ribadisce, non deve necessariamente integrare uno stato patologico, ma anche soltanto consistere nella compromissione delle capacità di valutazione critica da parte della persona offesa); dall’altro lato, dell’attività di induzione e di abuso, come sopra meglio specificate, da parte del soggetto agente, oltre alla prova del danno cagionato alla persona offesa e del profitto ottenuto dall’agente.

In conclusione, va ricordato che l’art. 643 c.p. prevede, una volta che sia raggiunta per la circonvenzione di incapace la prova del reato, la pena della reclusione da due a sei anni e del pagamento di una multa da euro 206 a euro 2.065.

usucapione buona fede

Usucapione e buona fede Per aversi usucapione la buona fede è richiesta solo nelle c.d. forme speciali, mentre l’usucapione ordinaria esige solo il possesso e il decorso di un certo periodo di tempo

L’usucapione come modo di acquisto della proprietà

L’usucapione è un particolare modo di acquisto della proprietà a titolo originario (cioè, indipendente dal diritto del precedente titolare), che, nella sua configurazione ordinaria, ha come elementi costitutivi il possesso e il decorso di un determinato periodo di tempo.

Il codice civile individua anche altre ipotesi di usucapione, cosiddette abbreviate o speciali, che esigono la sussistenza di due ulteriori elementi: la buona fede del possessore e l’esistenza di un titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà.

Perché si verifichi l’usucapione la buona fede non è pertanto sempre indispensabile. In questa breve guida proponiamo un esame delle varie ipotesi in cui il possesso di un bene, unitamente ad altri elementi, determina l’acquisto della proprietà.

Usucapione di buona fede e ordinaria

La principale ipotesi ordinaria di usucapione è quella prevista dall’art. 1158 c.c., secondo cui la proprietà su beni immobili si acquista con il possesso ventennale del bene. Come si vede, in questo caso la buona fede non è un elemento richiesto perché si verifichi l’acquisto della proprietà.

Sempre riguardo ai beni immobili, l’art. 1159 c.c. descrive le condizioni per l’usucapione abbreviata. Rimane indispensabile il possesso del bene, ma i termini sono abbreviati a dieci anni, se sussistono anche i seguenti ulteriori elementi: l’acquisto in buona fede da un soggetto diverso dal proprietario, in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà che sia stato trascritto nei registri immobiliari.

La trascrizione, diversamente da quanto accade di solito, ha in questo caso valenza costitutiva ai fini dell’esistenza del diritto: i dieci anni necessari all’usucapione di buona fede iniziano a decorrere, infatti, proprio dalla trascrizione del titolo.

L’usucapione di beni mobili

Sotto diversi aspetti, l’usucapione di buona fede ha molti punti in comune con la disciplina prevista dall’art. 1153 con riferimento ai beni mobili, con la differenza che in quest’ultimo caso per l’acquisto a non domino non è richiesto il decorso di un certo periodo di tempo (in ciò si integra la c.d. regola “possesso vale titolo”, che non vale per i beni immobili, universalità di mobili e mobili registrati, per i quali è prevista solo l’usucapione).

Ancora diversa è l’usucapione di beni mobili, disciplinata dall’art. 1161 c.c., secondo cui, anche quando manchi un titolo idoneo a trasferire la proprietà, il possesso del bene può comportare l’acquisto della proprietà se fu acquistato in buona fede e sia continuato per dieci anni.

In mancanza di buona fede al momento dell’acquisto del possesso, l’usucapione del bene mobile si acquista con il possesso continuato per venti anni.

Giova ricordare che, per aversi buona fede, è necessario che l’accipiente ignori che il bene non appartiene al soggetto da cui ha (rectius: suppone di aver) acquistato il bene.

Altri casi di usucapione con buona fede

Analoga distinzione tra usucapione ordinaria e usucapione di buona fede è individuata dall’art. 1159-bis con riferimento ai fondi rustici con annessi fabbricati (in tal caso il periodo di tempo richiesto è, rispettivamente, di quindici e di cinque anni).

L’usucapione di universalità di mobili si compie parimenti in venti anni, mentre in via abbreviata sono sufficienti dieci anni se c’è buona fede (art. 1160; in tali casi, come noto, non è prevista la trascrizione del titolo).

L’art. 1162, infine, disciplina l’acquisto per usucapione dei beni mobili registrati (navi, automobili, etc.), che si compie in soli tre anni dalla trascrizione del titolo, se vi è buona fede, altrimenti in dieci anni se sussiste il solo possesso ma manca il titolo o la buona fede.

 

 

istanza di riesame misura cautelare

Istanza di riesame di misura cautelare fac-simile Fac-simile di richiesta di riesame di misura cautelare ex art. 309 c.p.p., con breve rassegna dei possibili motivi a sostegno dell’istanza

Misure cautelari e richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p.

Le misure cautelari possono essere applicate a carico dell’indagato e comportano limitazioni di carattere personale o reale.

In caso di applicazione di misure cautelari, l’imputato o il suo difensore possono ricorrere in appello o presentare istanza di riesame di misura cautelare, per ottenere in tempi brevi (dieci giorni dalla ricezione della richiesta) una pronuncia in merito.

Di seguito vi proponiamo un fac-simile della richiesta di riesame di misura cautelare coercitiva, sulla scorta delle previsioni dell’art. 309 c.p.p., che disciplina compiutamente l’istituto del riesame.

Fac-simile istanza di riesame

Tribunale Penale di …………..

Sezione per il Riesame

Istanza di riesame ex art. 309 c.p.p.

Il sottoscritto Avv. ……………………. del Foro di ………….. con studio in ………………… alla via …………………… n. ………., difensore del sig. ……………….. c.f. ……………………………. nato il …………………. in ………………………. e residente in …………….alla via …………………….n. ………, indagato/imputato nel procedimento penale in epigrafe per i reati previsti dagli artt. ………………………..,  attualmente detenuto presso la casa circondariale di …………………. (o indicare il luogo di permanenza coatta agli arresti domiciliari),

formula istanza di

RIESAME

dell’ordinanza n. ……………, emessa in data …………………… dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di …………………… e notificata (od eseguita) in data ……………………… con la quale è stata applicata nei confronti di …………………….. la misura cautelare ………………………………. (ad es.: della custodia cautelare in carcere).

La presente istanza è formulata in base ai seguenti

MOTIVI

1) …………..

2) …………..

3) …………..

(Tra i motivi che possono giustificare la presentazione dell’istanza di riesame, è possibile indicare, a mero titolo di esempio:

  • l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p. primo comma, o la presenza di cause di giustificazione o di non punibilità oppure la sussistenza di una causa di estinzione del reato o di una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata (v. art 273 c.p.p., ultimo comma);
  • l’insussistenza delle esigenze cautelari attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, che a norma dell’art. 274 c.p.p. comma 1, lett. a) devono essere specifiche ed inderogabili, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova e fondate su circostanze di fatto (queste ultime da indicarsi espressamente nel provvedimento, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio);
  • quando non vi sia un concreto ed attuale pericolo di fuga dell’imputato/indagato (art. 274, comma 1, lett. b);
  • quando la misura adottata non sia ritenuta proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, come disposto dall’art. 275 c.p.p. comma secondo; al riguardo, va ricordato anche che, in base al primo comma di tale articolo, il giudice, nel disporre le misure, deve tenere conto della specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto e che, in base al comma terzo, la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto se le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate).

Tanto premesso e considerato, l’Avv. ……………………..

CHIEDE

che il Tribunale Penale adito voglia, in accoglimento dei motivi sopraindicati, annullare l’ordinanza n. …………………., emessa in data ……………….. dal G.I.P. presso il Tribunale di ………………….., o, in subordine, riformarla, sostituendo la misura della custodia cautelare in carcere con altra misura cautelare meno afflittiva per l’indagato.

Con espressa riserva di enunciare nuovi motivi ex art. 309 comma 6 c.p.p.

Con osservanza,

Luogo e data

Avv. ……………………………………..

omessa ripetizione di denuncia armi

Omessa ripetizione di denuncia armi All’omessa ripetizione di denuncia di armi in occasione della variazione del luogo di detenzione dell’arma non si applica il termine di 72 ore

Detenzione di un’arma e omessa ripetizione della denuncia

L’omessa ripetizione della denuncia di armi, quando si trasferisce l’arma in un luogo di detenzione diverso da quello originariamente comunicato alla polizia o ai carabinieri, comporta l’applicazione delle sanzioni previste dal Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, R.D. 773/1931).

Diversamente dalla prima denuncia, che va fatta quando si ha la materiale acquisizione di un’arma, la ripetizione della denuncia va fatta immediatamente, e non nel termine di 72 ore.

Denuncia della detenzione di armi e munizioni

Per comprendere meglio quanto appena esposto, occorre fare riferimento alla normativa che disciplina la detenzione di un’arma (o di munizioni ed esplosivi).

In base all’art. 38 Tulps, primo comma, chiunque viene in possesso di armi, munizioni o materie esplodenti deve farne denuncia all’ufficio locale di pubblica sicurezza o, quando questo manchi, al locale comando dell’Arma dei carabinieri, entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità (oggi anche per via telematica, con una PEC).

Tale norma è completata dalla disposizione di dettaglio prevista dall’art. 58 del Regolamento di esecuzione del Tulps, che prevede che la denuncia deve contenere indicazioni precise circa le caratteristiche delle armi, delle munizioni e delle materie esplodenti.

In particolare, alle Forze di Polizia deve essere comunicato l’indirizzo del luogo in cui si custodisce l’arma.

Trasferimento di un’arma e ripetizione della denuncia

In base al terzo comma dell’art. 58 Reg. Esec. Tulps, in caso di trasferimento di tale materiale  in una diversa località da quella indicata nella denuncia, il possessore doveva ripetere la denuncia di cui all’art. 38 presso gli uffici di P.S. o dei Carabinieri della località in cui il materiale stesso è stato trasportato.

Questa disposizione aveva fatto insorgere dei dubbi applicativi, in quanto si era diffusa la convinzione che, se la detenzione dell’arma veniva spostata in un luogo che si trovava all’interno della stessa circoscrizione di competenza dell’ufficio che aveva ricevuto la prima denuncia, non fosse necessario procedere alla ripetizione della denuncia.

A tali dubbi aveva risposto  D. Lgs. 204/2010, aggiungendo un ultimo comma all’art. 38 Tulps, secondo cui la denuncia di detenzione deve essere ripresentata ogni qual volta il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia.

Come si vede, la scelta linguistica di utilizzare la parola “luogo”, invece di “località”, ha sciolto ogni dubbio, chiarendo che la ripetizione della denuncia è necessaria in occasione di qualsiasi trasferimento del luogo di detenzione dell’arma.

Omessa ripetizione denuncia armi, le sanzioni previste dal Tulps

L’omessa ripetizione della denuncia di armi, in occasione del mutamento del luogo di detenzione delle stesse, espone, pertanto, il possessore alle sanzioni previste dall’art. 17 Tulps.

In base a tale norma, le violazioni delle disposizioni di qualsiasi norma del Tulps (e quindi anche dell’art. 38, ultimo comma) sono punite con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206 (salvo che per tali violazioni non provveda il codice penale o l’ordinamento non stabilisca una pena od una sanzione amministrativa).

Differenza tra art. 38 Tulps e art. 58 Reg. Esec. Tulps

Se è vero che la novella all’art. 38, sopra esaminata, ha aiutato a chiarire dei dubbi interpretativi, è altrettanto vero che ne ha creati altri.

Infatti, l’ultimo comma di tale articolo fa espresso riferimento solo alle armi: rimarrebbero esclusi dalla disciplina ivi prevista, quindi, le munizioni e gli esplosivi.

Per queste ultime, si può ritenere che la norma di riferimento, in occasione della variazione del luogo di detenzione, sia ancora l’art. 58 del Reg. Esec. Tulps. Di conseguenza, da un lato rimane il dubbio se la ripetizione della denuncia vada eseguita anche in occasione di trasferimento della custodia di munizioni ed esplosivi nell’ambito della circoscrizione di competenza dello stesso ufficio che ha ricevuto la precedente denuncia (ragioni di ordine sistematico, alla luce della novella del 2010, depongono comunque per la necessità della ripetizione della denuncia).

Dall’altro lato, l’eventuale omessa ripetizione della denuncia di munizioni ed esplosivi subirebbe una sanzione diversa da quella prevista per l’omessa ripetizione della denuncia di armi, in quanto la norma cui fare riferimento sarebbe l’art. 221 del Regolamento, che prevede l’arresto fino a due mesi e l’ammenda fino a euro 103.

Omessa ripetizione denuncia armi, non si applica il termine di 72 ore

Tornando alla detenzione di armi, un ultimo dubbio interpretativo relativo alla ripetizione della denuncia riguarda l’applicabilità o meno del termine di 72 ore, previsto espressamente dal primo comma dell’art. 38 per la prima denuncia dell’arma (quella derivante dall’acquisto della materiale disponibilità dell’arma).

Ebbene si ritiene che tale termine non sia applicabile anche alla fattispecie prevista dall’ultimo comma (ripetizione della denuncia per trasferimento dell’arma), poiché sono diversi i presupposti delle due ipotesi.

Nel primo caso (denuncia conseguente all’acquisizione dell’arma), infatti, la denuncia soddisfa l’esigenza che l’autorità di pubblica sicurezza abbia contezza dell’esistenza dell’arma e della sua disponibilità presso un determinato soggetto e un determinato luogo.

Nel caso di ripetizione della denuncia dopo il trasferimento dell’arma, invece, l’esigenza è quella che le pubbliche autorità  possiedano un’informazione aggiornata sul luogo dove si trova l’arma. Pertanto, la ripetizione della denuncia va fatta immediatamente, come sottolineato anche dalla Corte di Cassazione: “configura il reato di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. (in relazione all’art. 17 dello stesso Testo unico) il trasferimento di un’arma da un luogo ad un altro, quand’anche esso sia effettuato nell’ambito della circoscrizione territoriale del medesimo ufficio locale di pubblica sicurezza, senza provvedere a ripetere la denuncia, essendo sempre necessario che la competente autorità abbia in qualsiasi momento certezza del luogo in cui l’arma è detenuta, al fine di effettuare gli eventuali necessari controlli, finalità che sarebbe frustrata se il possessore fosse abilitato agli spostamenti non segnalati dell’arma perché effettuati entro il termine di settantadue ore dal primo movimento (…) Da quanto esposto discende che per la ripetizione della denuncia di detenzione di arma a seguito del trasferimento in un luogo diverso, non si applica il termine di 72 ore, stabilito dall’art. 38, comma 1, T.U.L.P.S.. Benché contemplate nello stesso articolo, le condotte doverose e le conseguenti sanzioni hanno un fondamento del tutto diverso” (Cass. Pen., sent. Sez. I, n. 10310/2020).