Interventi di messa in sicurezza
Il caso in esame prende avvio dalla richiesta avanzata al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con cui il ricorrente aveva domandato l’annullamento di un decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con cui venivano prescritti alcuni interventi di messa in sicurezza di un sito di interesse nazionale. In particolare, il Ministero aveva intimato la realizzazione di alcuni interventi di messa in sicurezza delle acque di falda contaminata, oltre che la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione.
Il TAR aveva concluso il proprio esame dichiarando il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Il privato interessato aveva impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio di Stato.
Il principio “chi inquina paga”
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4298/2024, ha accolto l’appello proposto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., ha accertato l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.
Il Giudice amministrativo si è anzitutto soffermato sull’asserita insussistenza, affermata dal privato, dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata.
Rispetto a tale contestazione, il Consiglio di Stato ha ricordato il principio generale, di derivazione europea, in tema di responsabilità per danno ambientale, secondo cui “chi inquina paga”.
Nella specie, il Consiglio ha descritto gli elementi sulla base dei quali è possibile, a livello europeo, attribuire una responsabilità per danno ambientale al proprietario dell’area inquinata.
La giurisprudenza a tutela dell’ambiente
A tal proposito il Consiglio di Stato ha ricordato la giurisprudenza amministrativa che, in applicazione del diritto europeo, si è formata sul punto e ha incentrato la tutela dell’ambiente “intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (..) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto”.
Ad ogni modo, ha spiegato il Giudice amministrativo, la responsabilità è ascrivibile al proprietario secondo i canoni, di derivazione nazionale, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole.
L’ignoranza non esclude la responsabilità
Nella medesima ottica di ricostruzione della responsabilità per danno ambientale, il Consiglio di Stato ha altresì rilevato che “l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario”.
In particolare, per quanto qui rileva, il Giudice amministrativo ha spiegato che la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore non dei rifiuti inquinanti ma del bene immobile inquinato.
Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. Per la disciplina comunitaria, infatti, i costi “della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti”.