aspettativa retribuita

Aspettativa retribuita: cos’è e come si ottiene Aspettativa retribuita: cos'è, normativa, quando spetta, come ottenerla, differenze con l'aspettativa non retribuita e settore pubblico

Aspettativa retribuita: cos’è?

L’aspettativa retribuita è un istituto previsto dall’ordinamento italiano che consente al lavoratore di sospendere temporaneamente la prestazione lavorativa continuando a percepire la retribuzione. Si distingue dall’aspettativa non retribuita proprio perché comporta il mantenimento del diritto al salario durante il periodo di assenza dal lavoro.

Questo strumento si applica in specifiche situazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, e rappresenta un importante mezzo di conciliazione tra esigenze personali o familiari e la continuità del rapporto di lavoro.

Normativa di riferimento

Non esiste una disciplina unitaria dell’aspettativa retribuita nel settore privato: le ipotesi sono tipizzate da singole norme di legge o da contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), che possono prevedere condizioni più favorevoli. Nel settore pubblico, invece, l’istituto è regolato più organicamente dal Testo unico del pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001).

Altri riferimenti normativi generali includono:

  • Legge n. 104/1992 (assistenza a familiari disabili);
  • D.lgs. n. 151/2001 (congedi parentali e maternità/paternità);
  • Legge n. 53/2000 (congedi per formazione o gravi motivi familiari).

Quando spetta: i principali casi

L’aspettativa retribuita non è un diritto generalizzato ma si applica solo in presenza di specifiche condizioni previste dalla legge o dal contratto di lavoro. Ecco i principali casi in cui può essere concessa:

1. Assistenza a familiari con disabilità grave (Legge 104/1992)

Il lavoratore ha diritto a permessi retribuiti pari a 3 giorni al mese, anche frazionabili, per assistere familiari con handicap riconosciuto ai sensi dell’art. 3, comma 3 della legge 104.

2. Congedo parentale o per maternità/paternità

Previsto dal d.lgs. 151/2001, consente ai genitori di assentarsi per assistere i figli nei primi anni di vita, mantenendo il diritto a una indennità INPS in sostituzione del salario.

3. Aspettativa per cariche pubbliche o sindacali

I lavoratori che ricoprono cariche elettive in enti pubblici o sindacati possono ottenere aspettativa retribuita, o in alcuni casi indennizzata dallo Stato o dall’ente di riferimento.

4. Aspettativa per formazione o studio (se prevista dal CCNL)

Alcuni contratti collettivi, in particolare nel settore pubblico o scolastico, prevedono la possibilità di chiedere aspettativa retribuita per partecipare a corsi di aggiornamento o attività formative riconosciute.

Come richiederla

La procedura per la richiesta varia in base alla tipologia di aspettativa e alla disciplina applicabile nel singolo caso. Tuttavia, alcuni passaggi sono comuni:

  1. Presentare domanda scritta al datore di lavoro, specificando la motivazione e il periodo richiesto;
  2. Allegare la documentazione necessaria (es. certificati medici, autorizzazioni INPS, attestati formativi);
  3. Attendere l’approvazione del datore di lavoro, nei casi in cui non si tratti di un diritto automatico (come per i permessi 104 o il congedo parentale).

In genere, per le aspettative regolate da legge, il datore di lavoro non può opporsi se sono rispettate tutte le condizioni previste.

Differenza con l’aspettativa non retribuita

L’aspettativa non retribuita è più ampia e può essere concessa anche per motivi personali, viaggi, studio o esigenze familiari, ma non prevede la corresponsione dello stipendio. In molti casi può essere accordata discrezionalmente dal datore di lavoro o regolata dal contratto collettivo.

L’aspettativa retribuita, invece, è riconosciuta solo in ipotesi tassative, con precise condizioni e finalità che giustificano il mantenimento del trattamento economico.

Aspettativa retribuita nel settore pubblico

Nel pubblico impiego, l’aspettativa retribuita è disciplinata in modo più organico e si applica, tra gli altri casi:

  • per gravi motivi familiari;
  • per attività formative riconosciute;
  • per ricoprire cariche pubbliche elettive.

Il lavoratore mantiene il posto e il trattamento economico, salvo quanto diversamente previsto nei singoli contratti o leggi di settore.

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licenziamento giustificato motivo soggettivo

Licenziato l’infermiere che indossa gioielli vistosi Per la Cassazione, è legittimo il licenziamento dell'infermiere della RSA che non rispetta il divieto di indossare monili in presenza di pazienti fragili

Licenziamento giustificato motivo soggettivo

E’ legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo dell’infermiere che non rispetta il divieto imposto dalla casa di cura di indossare gioielli vistosi in presenza di pazienti fragili. Lo ha statuito la sezione lavoro della Cassazione con ordinanza n. 17267-2024 escludendo il carattere discriminatorio del licenziamento, in quanto trattandosi di condotta che integra una grave negligenza in grado di pregiudicare la stessa immagine della struttura.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento del reclamo di una casa di cura, riteneva legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato all’infermiere, riformando la sentenza di primo grado che, in esito a rito Fornero, ne aveva accolto l’opposizione ravvisando la natura ritorsiva del licenziamento.

Per la corte di merito, erano fondati gli addebiti disciplinari di reiterata inosservanza delle disposizioni regolamentari di divieto, “per il personale a diretto contatto con i pazienti della R.S.A. quale il lavoratore (passato dalle mansioni di portantino a quelle di operatore sanitario ausiliario), di indossare in servizio monili (vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio tutti di metallo) o acconciature (un lungo pizzetto al mento), in quanto veicoli di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti”. Tutti comportamenti adottati “in violazione dell’art. 40 del CCNL applicato, per essere atti di insubordinazione, integranti gravi negligenze in servizio potenzialmente nocive alla salute dei pazienti e idonee a pregiudicare l’immagine della struttura sanitaria”.

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio, ma la S.C. gli dà torto su tutta la linea, ritenendo le censure in parte infondate e in parte inammissibili.

I principi di diritto in tema di licenziamento ritorsivo

Preliminarmente, la Cassazione ribadisce “i principi di diritto in tema di licenziamento ritorsivo, secondo cui l’accertamento della sua nullità è subordinata alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo (Cass. 7 marzo 2023, n. 6838)”. Il motivo illecito addotto, “ai sensi dell’art. 1345 c.c., deve essere infatti determinante, ossia costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale: con la conseguenza che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dal testo novellato dell’art. 18, comma 1 legge n. 300/1970, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento”.

Nella specie, il ricorrente ha operato una sostanziale contestazione dell’accertamento in fatto della Corte d’appello, insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente argomentato.

Idem per la contestazione della valutazione di proporzionalità, basata sulla gravità complessiva di più infrazioni, “insindacabile in sede di legittimità, in quanto implicante un apprezzamento dei fatti spettante al giudice di merito, salve le ipotesi (qui non ricorrenti) di assoluta mancanza della motivazione o della sua affezione da vizi giuridici integranti ipotesi di nullità della sentenza ovvero di omesso esame di un fatto avente valore decisivo”.

La recidiva

La Corte d’appello, invero, secondo gli Ermellini, “ha accertato una ‘persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali’, non valutando peraltro il primo addebito alla stregua di recidiva, non contestata, in linea con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in esito ad un corretto procedimento di sussunzione nelle ipotesi di contrattazione collettiva (art. 40, lett. c, d, i, f, A): in esatta applicazione dei principi di diritto in tema di licenziamento disciplinare, secondo cui, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5 legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, non trasmodando detta operazione di interpretazione e sussunzione nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (Cass. 11 aprile 2022, n. 11665; Cass. 28 giugno 2022, n. 20780)”.

Reiterazione della condotta

Inoltre, la corte di merito, conclude la S.C. rigettando il ricorso, “ha correttamente apprezzato la rilevanza della reiterazione della condotta e l’ha valutata, nella complessiva gravità dei fatti del primo addebito, ancorché ‘non … come recidiva, perché non contestata’, in linea con i principi di diritto, secondo cui: a) ai fini disciplinari, la recidiva, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata (quanto meno) contestata formalmente al medesimo lavoratore; ove tale contestazione per la precedente infrazione sia mancata, e non sia pertanto configurabile la recidiva, la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22162); b) la mera reiterazione dell’illecito, pur rilevando ai fini della valutazione della gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, non può determinare la pretermissione della graduazione delle condotte di rilievo disciplinare contemplata dai contratti collettivi, di cui il giudice deve tenere conto per disposto normativo (Cass. 12 luglio 2023, n. 19868)”.

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Allegati

licenziamento rifiuto mansioni

Licenziato il dipendente che rifiuta di svolgere mansioni diverse E' idoneo a ledere definitivamente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso, il rifiuto del lavoratore di svolgere prestazioni che rientrano nella qualifica ricoperta

Licenziamento per rifiuto di svolgere mansioni diverse

Legittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta di svolgere mansioni diverse nell’ambito della propria qualifica. Lo ha statuito la Cassazione con l’ordinanza n. 17270/2024, respingendo il ricorso di un operatore ecologico che era stato licenziato a fronte del rifiuto, senza giustificazione, di adempiere alla raccolta di rifiuti con l’ausilio del mezzo aziendale.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Catanzaro aveva accolto il reclamo incidentale proposto dalla società datrice avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore.

Per la Corte territoriale, il licenziamento era stato intimato a fronte del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa per ben quattro giorni, durante i quali era stato assegnato ad eseguire la raccolta dei rifiuti con l’ausilio dell’automezzo aziendale, dichiarando di essere un operatore ecologico e di non essere tenuto a svolgere mansioni di autista e che pertanto sarebbe rimasto a disposizione in cantiere. Era integrato, pertanto, il grave inadempimento degli obblighi contrattuali di cui all’articolo 2104, comma 2 c.c. e all’articolo 70, comma 4, lett. e) del c.c.n.l.

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio.

Giusta causa e giustificato motivo soggettivo

Per gli Ermellini, le tesi del ricorrente non sono fondate. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, anticipano i giudici, “dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito (Cass. n. 2830 del 2016), al quale spetta, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (tra le recenti v. Cass. n. 33811 del 2021)”.

La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce quindi “solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. n. 17321 del 2020) e in tal senso depone l’art. 30 della legge 183 del 2010”.

La decisione

Nella specie, la Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e di proporzionalità della misura espulsiva ed ha motivatamente valutato la gravità dell’infrazione, in particolare sottolineando come, proseguono dalla S.C., “il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione lavorativa secondo le direttive aziendali, e specificamente di procedere alla conduzione dei veicoli quale attività rientrante nel suo profilo professionale, opposto reiteratamente ed ingiustificatamente per più giorni e in modo tale da impedire il regolare espletamento del servizio pubblico appaltato alla società, costituisse condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso”.

Da qui il respingimento del ricorso.