Affini del sindaco: col divorzio cadono le incompatibilità La Corte Costituzionale ha stabilito che con lo scioglimento del matrimonio, da cui deriva vincolo di affinità, viene meno l'incompatibilità a ricoprire incarichi in giunta e come vicesindaco
Divorzio e affinità
Con lo scioglimento del matrimonio da cui deriva un vincolo di affinità con il sindaco, viene meno l’incompatibilità a ricoprire la carica di componente della giunta municipale e quella di vicesindaco. Così ha deciso la Corte Costituzionale con la sentenza n. 107-2024, depositata oggi, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) nella parte in cui prevede l’incompatibilità per gli affini entro il terzo grado del sindaco, o del presidente della Giunta provinciale, a far parte della relativa Giunta, e a essere nominati rappresentanti del comune o della provincia, ove il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è stato determinato sia cessato.
La qlc
La questione era stata sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 51 Cost., dalla prima sezione civile della Cassazione, che aveva ravvisato la violazione, ad opera della suddetta norma, del diritto all’elettorato passivo e la irragionevolezza intrinseca di una previsione che, in modo incoerente con il sistema, sortisce l’effetto di consentire l’accesso ad un ufficio pubblico politico all’ex coniuge di un amministratore locale, ma non all’ex affine.
Il caso riguardava il coniuge divorziato della sorella del sindaco di un comune, il quale aveva proposto ricorso nei confronti della sentenza d’appello di Napoli che, in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato l’incompatibilità a partecipare alla giunta municipale e a ricoprire la carica di vicesindaco dell’ex coniuge della sorella del sindaco.
Le censure della Cassazione
Nella specie, risulta manifestamente irragionevole, secondo la Corte, che, “mentre l’ex coniuge del sindaco non è soggetto alle incompatibilità in esame, lo sia l’affine anche dopo che il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è derivato sia cessato, così sganciandosi del tutto la sussistenza della causa di incompatibilità dal rapporto di riferimento”.
In realtà, la Cassazione aveva censurato l’art. 78, terzo comma, c.c. – che stabilisce in via generale l’incidenza sul vincolo di affinità degli eventi della morte del coniuge e della dichiarazione di nullità del matrimonio senza occuparsi degli effetti del divorzio – «implicitamente richiamato dall’art. 64, comma 4, T.U.E.L.».
Il giudice delle leggi ha ritenuto, invece, per l’«elevato grado di specificità» della disciplina dettata in punto di incompatibilità, di circoscrivere il proprio sindacato all’art. 64 citato, quale specifica declinazione di una regola che non vive se non nei diversi contesti di riferimento. Poiché nelle varie situazioni previste dall’ordinamento lo status di affine può, di volta in volta, produrre effetti di attribuzione o di limitazione di un diritto, cui corrisponde di volta in volta un bilanciamento operato dal legislatore, la Corte costituzionale afferma che le censure sulla legittimità delle norme in contestazione devono essere portate direttamente alla disciplina specialistica di settore.
La decisione
Ciò posto, il giudice delle leggi ha ritenuto, si legge nella nota stampa ufficiale, “che l’art. 64, comma 4, citato, nella parte in cui prevede l’incompatibilità per gli affini entro il terzo grado del sindaco, o del presidente della Giunta provinciale, a far parte della relativa Giunta, e a essere nominati rappresentanti del comune o della provincia, anche se il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è stato determinato sia cessato, si ponga in contrasto con l’art. 51 Cost., che disciplina il diritto di elettorato passivo, da ricondurre alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 Cost., e in relazione al quale le cause di incompatibilità sono conformi a Costituzione solo nella misura in cui non introducano differenze di trattamento tra categorie omogenee di soggetti che non siano manifestamente irragionevoli e sproporzionate”.