Molestie alla collega: licenziamento legittimo
Licenziamento per giusta causa legittimo per il lavoratore che, anche in presenza di un solo testimone oculare, rivolge molestie alla collega sul posto di lavoro baciandola sulla bocca, senza il suo consenso. Il tutto accompagnato da frasi a sfondo sessuale. Lo ha stabilito la Corte di Appello di Torino nella sentenza n. 150/2025.
Licenziamento per giusta causa illegittimo
Un addetto alla reception di una università viene licenziato. Il Tribunale però non ritiene provata la giusta causa disciplinare del licenziamento, ritenendo inattendibile la testimonianza del capo squadra del servizio di pulizie. L’uomo è stato accusato nello specifico di avere molestato fisicamente una collega e di aver abbandonato il posto di lavoro. I fatti sarebbero avvenuti in occasione di una festa di pensionamento di un collega. Alla festa il lavoratore avrebbe alzato il gomito e “in grave e visibile stato di ebbrezza” avrebbe rivolto alla collega attenzioni non gradite. La versione dei fatti però non viene condivisa dal Tribunale, tanto che la domanda di accertamento del licenziamento viene respinta. Il Tribunale accoglie invece la domanda riconvenzionale con il quale è stato chiesto l’annullamento del recesso del datore di lavoro, stante la natura ritorsiva della condotta. La decisione però viene impugnata. Per l’appellante infatti il giudice di primo grado ha errato nella valutare le testimonianze e non considerare rilevante dal punto di vista disciplinare l’abbandono della postazione di lavoro.
Testimonianza della collega attendibile
La Corte però ritiene meritevole di accoglimento la doglianza esposta nel primo motivo di appello tanto che accoglie l’impugnazione, dichiarando legittimo il licenziamento. Queste le ragioni della decisione.
Il Collegio concentra la sua attenzione sulle molestie alla collega del dipendente. L’uomo infatti ha abbracciato e baciato sulla bocca la donna contro la sua volontà. Ha anche fatto apprezzamenti sul suo aspetto e ha dichiarato di essere innamorato. La collega ha testimoniato l’accaduto. Ha raccontato che l’uomo l’ha presa per il viso e l’ha baciata, senza giustificare il gesto. Subito dopo, le ha fatto complimenti e le ha detto di essere innamorato di lei. La donna però ha precisato che non c’era mai stato un rapporto confidenziale tra loro. La testimonianza della donna per la Corte è credibile.
Lei ha notato che il collega parlava in modo strano e barcollava. Sentiva odore di alcol. L’uomo stesso ha ammesso di aver bevuto due bicchieri di vino poco prima. Anche se non era ubriaco, l’alcol poteva averlo alterato leggermente. La donna non poteva sapere del brindisi, quindi la sua affermazione sull’alito vinoso è veritiera. La sua deposizione inoltre è in linea con la mail che ha inviato pochi giorni dopo l’episodio. Il fatto che non ricordasse se l’uomo l’avesse anche abbracciata rafforza la sua attendibilità.
La testimonianza della collega insomma è sufficiente come prova. Non serve quella di un’altra persona. Le incongruenze minori evidenziate nella prima sentenza non sminuiscono la sua credibilità sul bacio e sugli apprezzamenti. Anzi, queste piccole differenze rendono la sua testimonianza più genuina. Se avesse voluto mentire, si sarebbe accordata con un’altra collega per una versione perfetta.
Errato colpevolizzare la vittima
Il primo giudice non ha ritenuto credibile la donna perché non ha subito chiesto aiuto. Ha anche criticato il suo comportamento dopo la molestia. Queste argomentazioni però non convincono il Collegio. Il comportamento di una vittima dopo una molestia non toglie veridicità all’evento. Non esiste un modo “giusto” di reagire. Colpevolizzare la vittima è sbagliato. La donna potrebbe non aver voluto denunciare subito per diverse ragioni. La molestia subita non era di estrema violenza. Inoltre, lei stessa non voleva che l’episodio avesse conseguenze.
La Corte si chiede inoltre perché la donna avrebbe dovuto calunniare il collega. Non c’era un motivo plausibile. Non avevano particolari rapporti o ragioni di risentimento. L’unica circostanza menzionata dall’uomo è che la sorella della donna ha preso il suo posto di lavoro dopo il licenziamento. Questa cosa è stata detta però solo in appello e non c’è prova che sia emersa dopo il primo giudizio. Inoltre, il mezzo (calunnia) è sproporzionato rispetto al fine (un posto di lavoro non particolarmente allettante).
La donna stessa ha detto di non voler portare avanti la cosa subito dopo l’accaduto. Questo dimostra che non voleva che la direzione aziendale sapesse della molestia. Se avesse voluto incastrare l’uomo, non avrebbe agito da sola. Avrebbe avuto bisogno della complicità dei vertici aziendali, cosa non plausibile. L’uomo non ha fornito un motivo convincente per cui la donna avrebbe dovuto calunniarlo.
Illecito disciplinare le molestie alla collega
La testimonianza della donna è quindi attendibile riguardo alla molestia sessuale. Questa rientra nella definizione di comportamenti indesiderati a sfondo sessuale che violano la dignità di una lavoratrice. Costituisce anche un illecito disciplinare punibile con il licenziamento senza preavviso. La condotta dell’uomo è oggettivamente offensiva e mina il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. La giusta causa disciplinare accertata giustifica il licenziamento, a prescindere da eventuali ragioni di ritorsione dell’azienda. Il Collegio non esamina l’abbandono del posto di lavoro.
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