Lavoro

Lavoro part-time: la discriminazione penalizza le donne In tema di discriminazione del lavoro a tempo parziale, la Cassazione non condivide l’interpretazione secondo cui vi sia automatismo tra riduzione orario di lavoro e dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche

lavoro part-time

Impiego part-time e progressione di carriera

Nella causa promossa da una lavoratrice part- time è stato esaminato l’impatto del lavoro con orario ridotto rispetto a possibili progressioni di carriera. In particolare, l’impiegata aveva lamentato che, essendo ella all’epoca della selezione interna, impiegata con un contratto part-time, nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica le era stato attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità ma impiegati a tempo pieno.

La circostanza sopra rappresentata, a detta della ricorrente, l’aveva sfavorita rispetto al collega controinteressato che l’impiegata aveva intimano nel contenzioso in esame.

Avverso la decisione del Giudice di secondo grado, la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La discriminazione del lavoro a tempo parziale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. Cass-4313-2024, ha rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha affrontato il tema della discriminazione del lavoro a tempo parziale.

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha ritenuto di non condividere “l’affermazione della ricorrente secondo cui la ridotta valutazione di tale tipo di lavoro nel computo dell’anzianità di servizio rilevante ai fini della progressione economica sarebbe imposta dallo stesso art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000”. Invero, ha proseguito la Corte “quella disposizione riguarda soltanto la retribuzione del lavoratore a tempo parziale, che ovviamente non può essere uguale, ma deve essere proporzionata, a quella a tempo pieno” e non anche l’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Poste le suddette premesse, la Corte ha dunque espressamente affermato che nessun automatismo può esservi tra la riduzione dell’orario lavorativo e la riduzione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Pertanto ciò che occorre verificare è se “in base alle circostanze del caso concreto (…), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale”.

La discriminazione indiretta di genere

La Corte d’appello aveva altresì accolto la contestazione della lavoratrice che aveva messo in rilievo come la suddetta discriminazione connessa al lavoro part-time andava essenzialmente a ledere le donne, così determinando una discriminazione indiretta di genere.

Anche tale aspetto ha formato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto la censura non fondata. Posta l’infondatezza del motivo di ricorso, la Corte ha comunque dedicato una parte della propria decisione al fenomeno della discriminazione indiretta di genere nella vicenda in esame.

Nel caso sottoposto al vaglio di legittimità, il Giudice di merito, svolta una valutazione statistica in ordine all’elevato numero di donne impiegate presso la parte datoriale e alla maggiore frequenza tra le stesse della scelta del tempo parziale rispetto ai colleghi uomini, aveva concluso che “svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (..) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini”. Invero, la preponderante scelta da parte delle donne del lavoro a tempo parziale è da ritenersi connessa, secondo il giudice, al “notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impiego in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.

 

 

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