Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello
Nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Non va poi trascurato che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, in base al principio di specialità, resta escluso, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile un’ipotesi delittuosa più grave, quale quella della rapina. – Cass. II, 15 settembre 2023, n. 37861.
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di alcuni detenuti che, al fine di dar luogo ad una rivolta in carcere, sottraevano agli agenti di custodia, con violenza e minaccia, le chiavi delle celle, poi successivamente restituite. In particolare, l’impossessamento delle chiavi veniva determinato dal fine specifico di aprire un cancello che avrebbe consentito ai soggetti agenti di accedere alla sezione antistante e porre in essere atti di rappresaglia per vendicare l’aggressione subita qualche giorno prima da un detenuto loro concittadino.
In secondo grado, la Corte di Appello di Salerno, riformando parzialmente la sentenza resa dal Giudicante di prime cure, confermava l’affermazione di responsabilità e, dunque, il trattamento sanzionatorio nei confronti dei detenuti in ordine al reato di concorso nel delitto di rapina. Invero, il Giudice di secondo grado, aveva escluso l’ipotesi criminosa della violenza privata in luogo della configurazione del delitto di rapina, sulla scorta sia del valore patrimoniale delle chiavi sottratte agli agenti, della oggettiva utilità raggiunta, ovverosia aprire le celle, nonché dell’ingiustizia del profitto realizzato con tale spossessamento.
Avverso detta sentenza proponevano, quindi, ricorso per Cassazione i difensori degli imputati i quali, tra i motivi di ricorso, contestavano la violazione degli artt. 628 e 610 c.p. nonché il vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati in termini di concorso nel delitto di rapina, piuttosto che in quello della violenza privata. Secondo i ricorrenti, il giudice di merito aveva ingiustificatamente trascurato di considerare che la volontà degli imputati non era affatto finalizzata ad impossessarsi della chiave come bene in sé, dunque come bene avente valore patrimoniale, ma a costringere le persone offese, ossia gli agenti della Polizia Penitenziaria, ad aprire il cancello.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando l’infondatezza della censura relativa alla qualificazione giuridica del fatto, aderisce alla impostazione giurisprudenziale maggioritaria per la quale il requisito dell’ingiusto profitto, richiesto dalla norma di cui all’art. 628 c.p., non deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ma può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche non di natura economia. A tal riguardo, gli Ermellini precisano che già la giurisprudenza più risalente includeva nella definizione di profitto anche quelle cose che, se pur prive di reale valore di scambio, hanno comunque una importanza per il soggetto che le possiede, anche se non strettamente economica (così, tra le tante, Cass. 24 settembre 1976, n. 2004). Tale orientamento veniva poi ribadito anche dall’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale nel delitto di rapina il profitto può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (così, tra le tante, Cass. 14 febbraio 1990, n. 7778). Nel medesimo senso anche la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, in merito alla fattispecie incriminatrice del furto, con l’informazione provvisoria 7/2023, hanno stabilito che il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, può consistere anche in un fine di natura non patrimoniale. Ne consegue, dunque, che anche la rapina, che rispetto al delitto di furto presenta il quid pluris della violenza e della minaccia, può essere integrata da una condotta appropriativa tesa a perseguire un vantaggio non economico.
Oltre a quanto sin qui detto, nella decisione in commento, i Giudici di Piazza Cavour, richiamando una giurisprudenza risalente, rappresentano che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, dunque, in base al principio di specialità espresso ai sensi dell’art. 15 c.p. esso soccombe rispetto al delitto di rapina, fattispecie delittuosa più grave, quando sussiste il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto (così Cass. 24 ottobre 1985, n. 275).
Nel caso che occupa, infine, la Corte di cassazione specifica che a nulla rileva la circostanza, sollevata dai ricorrenti, per cui le chiavi sarebbero poi state riconsegnate agli agenti della Polizia Penitenziaria, in quanto il delitto di rapina si configura quando la persona offesa viene costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per l’uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l’utilizzo da parte dell’agente il quale, in tal modo, consegue l’autonoma disponibilità della cosa (così Cass. 26 febbraio 2019, n. 16819).
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI |
Conformi: Cass. pen., 14 febbraio 1990, n. 7778 |