abrogazione abuso ufficio

Abrogazione abuso d’ufficio: Mattarella firma il ddl Nordio Il presidente della Repubblica ha promulgato in extremis il ddl Nordio che contiene l'abrogazione dell'abuso d'ufficio. Il testo si avvia ora in Gazzetta Ufficiale per diventare legge dello Stato

Abuso d’ufficio, promulgato il ddl Nordio

Abrogazione abuso d’ufficio: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il ddl Nordio che, tra l’altro, contiene la discussa abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale.

Il via libera del Quirinale è arrivato in extremis: il testo infatti era stato approvato in via definitiva dalla Camera il 10 luglio scorso e il presidente aveva un mese di tempo a disposizione per valutare i testi.

Il provvedimento che ora si avvia alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per diventare a tutti gli effetti legge dello Stato, si ricorda, oltre all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, reca modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare.

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truffa contrattuale

Truffa contrattuale per chi riduce i chilometri dell’auto venduta Per la Cassazione, integra truffa contrattuale il ridurre i km reali presenti sul cruscotto dell'auto usata venduta, anche se non viene modificato il prezzo

Truffa contrattuale

Scatta la truffa contrattuale per chi riduce i chilometri dell’auto venduta, anche se la circostanza non modifica il prezzo dell’auto sul mercato dell’usato. Ciò perchè, se l’acquirente avesse conosciuto il reale chilometraggio, non avrebbe proceduto all’acquisto. E’ quanto statuito dalla seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 25283/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Bologna confermava la decisione emessa dal Tribunale di Ferrara che aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato per il reato di truffa contrattuale a lui ascritto, condannandolo alla sanzione penale ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso l’imputato, lamentando tra l’altro vizio esiziale di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), non avendo la Corte argomentato sul motivo di gravame con il quale si era dedotta l’inconsistenza del profitto del reato di truffa, atteso che il prezzo pagato dall’acquirente (euro 5.800) per un’auto non recente, cui l’imputato avrebbe ridotto il numero dei chilometri percorsi, era comunque di gran lunga inferiore a quello medio indicato dalle riviste di settore per autovetture di quell’anno con quelle particolari caratteristiche.

Truffa contrattuale: quando ricorre

Per la S.C., i motivi di ricorso sono inammissibili per loro manifesta infondatezza ed assoluta aspecificità.
Dalla lettura del testo della sentenza impugnata si evince che la Corte territoriale ha espressamente motivato circa la consistenza e l’univocità delle evidenze documentali che hanno condotto ad affermare la responsabilità dell’alienante in relazione all’indicazione contraffatta del numero di chilometri percorsi dalla vettura oggetto di alienazione. I motivi di ricorso relativi si risolvono, pertanto, nella mera riproposizione delle argomentazioni già prospettate al giudice della revisione nel merito e da questi motivatamente respinte, senza svolgere alcun ragionato confronto con le specifiche argomentazioni spese in motivazione.

Del resto, la Corte di merito aveva già precisato che, “al di là del diminuito valore commerciale del veicolo alienato, la natura contrattuale della truffa contestata era stata dimostrata dalla circostanza che l’acquirente, ove avesse conosciuto le reali condizioni di uso della vettura alienanda non avrebbe acquistato il bene registrato. Il che integra il tipo contestato, senza che possano rilevare altri argomenti.

“La cosiddetta truffa contrattuale ricorre – aggiungono infatti gli Ermellini – in tutti i casi nei quali l’agente ponga in essere artifici e raggiri, aventi ad oggetto anche aspetti negoziali collaterali, accessori o esecutivi del contratto risultati rilevanti al fine della conclusione del negozio giuridico, e per ciò tragga in inganno il soggetto passivo che è indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, a nulla rilevando lo squilibrio oggettivo delle controprestazioni) relativi alla effettività della deminutio patrimonii (cfr. Cass. n. 18778/2014).

La decisione

Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

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giustizia riparativa

Giustizia riparativa La giustizia riparativa dopo la Riforma Cartabia: lo scopo, le procedure di mediazione, i possibili esiti e i benefici per l’imputato

Giustizia riparativa, cosa si intende

La giustizia riparativa è un modello di giustizia penale incentrato sulla gestione degli effetti pregiudizievoli causati da un reato, anziché sulla punizione dell’autore del reato, come è invece il sistema penale tradizionale.

Oggetto di elaborazioni dottrinali anche molto risalenti nel tempo, il modello di giustizia riparativa ha trovato recente consacrazione sia a livello europeo, con la Direttiva UE n. 29/2012, sia nell’ordinamento italiano, con l’introduzione delle norme contenute negli artt. 42-67 del d.lgs. 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia).

Giustizia riparativa e obbligo dell’esercizio dell’azione penale

Il percorso di giustizia riparativa delineato dalla Riforma Cartabia si caratterizza, innanzitutto, per essere un percorso facoltativo, cioè lasciato alla libera scelta dei soggetti coinvolti, e soprattutto non alternativo all’azione penale “tradizionale”.

Il nostro sistema penale, infatti, non lascia scelta alle parti (e in particolare al pubblico ministero) in ordine alla possibilità di esercitare l’azione penale, che è obbligatoria (cfr. art. 112 Costituzione). ciò significa che il p.m., ogni qual volta abbia notizia di un reato, deve attivarsi, ferma restando la possibilità di richiedere l’archiviazione al giudice per le indagini preliminari, ove gli elementi raccolti durante l’indagine non siano ritenuti idonei a sostenere l’accusa.

I possibili benefici per l’imputato

Così intesa, dunque, la giustizia riparativa si pone come un momento di dialogo tra la vittima ed il reo (ed altri soggetti intermediari, come vedremo tra breve), che ha come finalità, da un lato, la ricerca di una riparazione, anche simbolica, degli effetti del reato, all’esito di un percorso in cui la vittima ha anche l’occasione di elaborare l’accaduto e di esprimere sensazioni ed esigenze che invece difficilmente trovano posto nell’azione penale (va precisato che per “vittima”, a questo riguardo, si intende anche il familiare della persona la cui morte è stata causata dal reato, cfr. art. 42 del decreto 150/22).

Dall’altro lato, l’esito positivo del percorso di giustizia riparativa consente al reo di ottenere dei benefici nell’ambito dell’azione penale esercitata dal p.m. (si ricordi che, ove intrapreso, il percorso di giustizia riparativa va di pari passo – senza in alcun modo sostituire – con l’azione penale “tradizionale”).

Riparazione del reato circostanza attenuante

Nello specifico, la riparazione del reato eventualmente conseguita nell’ambito della procedura di giustizia riparativa può essere considerata come circostanza attenuante e quindi comportare una diminuzione della pena; può valere quale rimessione tacita di querela; e può condurre alla sospensione condizionale della pena per un anno.

Giustizia riparativa accessibile senza preclusioni

Va evidenziato che, a norma dell’art. 44 del d.lgs. 150/22 Riforma Cartabia, i programmi di giustizia riparativa sono accessibili per qualsiasi reato, senza preclusioni in relazione alla sua gravità, e possono essere attivati in ogni stato e grado del procedimento penale (art. 129-bis c.p.p.), d’ufficio dal giudice o su richiesta dell’imputato o della vittima.

Come chiedere giustizia riparativa?

Dal punto di vista procedurale, le procedure di giustizia riparativa si svolgono con l’intervento di mediatori terzi abilitati che operano presso gli appositi Centri per la giustizia riparativa, nell’ambito di un sistema che opera sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia.

Partecipano ai programmi di giustizia riparativa la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa ed eventualmente altri soggetti appartenenti alla comunità, come i familiari, persone di supporto e rappresentanti di enti locali o di altri enti pubblici.

Tali programmi mirano a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione dell’imputato e la ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43 comma 2 del decreto citato).

Gli esiti della mediazione nella giustizia riparativa

All’esito della procedura di mediazione nella giustizia riparativa, l’esperto redige una relazione in cui, tra l’altro, dà conto degli esiti della stessa e la trasmette al giudice del procedimento penale, il quale, in base alle risultanze, può riconoscere in favore dell’imputato i vantaggi di cui si è detto sopra.

Quanto all’esito del programma di giustizia riparativa, esso, quando positivo, può consistere in un esito simbolico, come ad esempio scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o accordi tra vittima e imputato relativi alla frequentazione di persone o luoghi (art. 56 del decreto citato); oppure in un esito materiale, come il risarcimento del danno, una restituzione o l’adoperarsi dell’imputato per attenuare le conseguenze del reato.

In chiusura, va evidenziato che il principale scopo della giustizia riparativa non è quello di alleviare la pena dell’imputato, ma quello di proporre un percorso alternativo che metta al centro il dialogo e soprattutto il racconto della vittima, per individuare, in concreto, l’azione riparatoria più idonea a ricostruire il legame sociale danneggiato.

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medico di base

Medico di base: in caso di urgenza non è competente Il dovere di recarsi a casa del paziente non sussiste in caso di urgenza. In tal caso la competenza è del 118 e l'obbligo sussiste per la guardia medica

Doveri del medico di base

Il medico di base non è tenuto a recarsi a casa del paziente in caso di urgenza: in tale evenienza infatti la competenza passa al 118 o alla guardia medica. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24722-2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Palermo assolveva un medico dal reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, comma 1, del codice penale) per il quale era stato condannato ni primo grado perché, in qualità di medico di assistenza primaria, aveva omesso di effettuare, nonostante le continue richieste di intervento dei familiari, una visita domiciliare a scopo diagnostico e terapeutico ad un assistito che lamentava forti dolori a seguito caduta accidentale, anziano e affetto da patologie (Parkinson avanzato, cardiopatia ischemica cronica), condizioni che gli impedivano di recarsi presso l’ambulatorio.
Avverso la sentenza il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Palermo adiva il Palazzaccio, ritenendo che il medico di base avesse uno specifico obbligo per i medici di base di effettuare la visita domiciliare al paziente nel caso di non trasferibilità dell’ammalato.

Medico di base non preposto alle urgenze

Per la S.C., il ricorso è infondato.

All’esito assolutorio della sentenza in appello il Procuratore Generale ricorrente oppone “l’omessa considerazione di quanto disposto dall’art. 47, comma 1, del’Accordo Collettivo Nazionale vigente all’epoca dei fatti (del 23/03/2005), a mente del quale «l’attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell’ammalato»: disposizione invece menzionata nella sentenza di primo grado, dalla quale deriverebbe – deve inferirsi – la fonte dell’obbligo di agire, tale da giustificare l’integrazione del reato omissivo, oltre al dedotto vizio motivazionale”.
In realtà, sostengono i giudici, “la disposizione in oggetto non è affatto sfuggita alla Corte d’appello la quale, seppur senza citarla espressamente, in un punto della pronuncia, vi ha fatto un chiaro riferimento, precisando di non fare «questione di adempimento o meno del dovere giuridico del medico di base di procedere a visita a domicilio del paziente non trasportabile, quanto solo dell’esistenza o meno nel caso concreto di un dovere di procedere senza ritardo ad un tale incombente […], dovere di urgenza né ordinariamente pretensibile dal medico di medicina generale né specificamente dall’imputato in considerazione delle circostanze del caso concreto»”.
In un altro passaggio, in modo ancora più inequivoco, i Giudici di secondo grado hanno inoltre ritenuto che «il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118», aggiungendo che «da ciò deriva che per fondare uno specifico obbligo giuridico di prestazioni sanitarie urgente, anche nelle more del servizio di emergenza, da parte di un pubblico ufficiale sanitario a ciò non preposto, sarebbe stata necessaria una peculiare situazione di prossimità spaziale di necessità non indifferibile […], ben distante dall’ordinarietà degli accadimenti».

La decisione

Per cui, nessuna lacuna motivazionale è ravvisabile nella sentenza impugnata la quale distingue in modo netto il profilo della trasferibilità del paziente (toccato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell’urgenza della prestazione richiesta: urgenza in presenza della quale – come nel caso di specie -, trasferibile o meno che fosse li paziente, i Giudici hanno ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, e cioè, nella specie, dei medici del 118.
Si tratta di una “distinzione di ruoli – sottolineano da piazza Cavour che – trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare li miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un’organizzazione complessa qual è li sistema sanitario, consentendo a ciascun operatore del settore di concentrarsi sui propri compiti specifici. Distinzione che, inoltre, nei casi come quello di specie, risponde inoltre all’esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili (il medico di base non essendo attrezzato per far fronte alle urgenze), ma anche potenzialmente dannose, ove – come ben possibile – foriere di ritardi e confusioni”.
Per le ragioni esposte, la S.C. ha rigettato il ricorso.

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sottrarre rifiuti reato

Sottrarre rifiuti è reato Per la Cassazione, la sottrazione di rifiuti integra un reato vero e proprio in quanto non si tratta di res nullius

Sottrazione rifiuti

Sottrarre rifiuti integra un reato vero e proprio in quanto non si tratta di res nullius. Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 25645-2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Palermo riformava parzialmente la decisione di primo grado che, all’esito di rito abbreviato, aveva condannato per il reato di cui agli art. 56, 10, 624, 625, primo comma, n. 2 e 7 cod. pen., per avere tentato di sottrarre materiale ferroso stoccato all’interno di una stazione concedendo la circostanza attenuante di cui all’art. 62, .n 4, cod. pen, e rideterminando, di conseguenza, la pena.

Il ricorso

Avverso la sentenza, l’imputato proponeva ricorso per cassazione dolendosi della ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato. “Pur avendo qualificato il materiale sottratto nei termini di ‘rifiuti in attesa di smaltimento’ – la corte territoriale a suo dire avrebbe poi – illogicamente ravvisato, nella condotta dell’imputato, il delitto di furto, laddove è evidente che appropriarsi di un rifiuto esclude in radice la configurabilità del delitto in parola”.

Dal momento che “l’imputato si è impossessato di un oggetto qualificabile, a tutto voler concedere, come res nullius, egli avrebbe dovuto – perciò – essere assolto, quantomeno ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen.”.

Res nullius

Per gli Ermellini, tuttavia, il primo motivo è manifestamente infondato, “in quanto le res nullius sono le cose che non appartengono ad alcuno e non quelle per le quali sia, come nel caso di specie, certamente individuabile il titolare e anche il detentore, sul quale si concentra il fascio di poteri e (come, ad es., nel caso di rifiuti) di doveri che il legislatore delinea in relazione allo specifico regime giuridico di godimento e di disposizione degli stessi”.

La nozione di res derelicta – proseguono i giudici – “presuppone una situazione di abbandono del bene, quale sicuramente è da escludere nel caso di specie, proprio alla luce dell’evidenza che i lastroni avrebbero dovuto essere regolarmente smaltiti, secondo le procedure di legge”.

La giurisprudenza

In questi termini, peraltro, si è espressa la costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, “in tema di reati contro il patrimonio, affinché una cosa possa considerarsi abbandonata dal proprietario, è necessario che, per le condizioni o per il luogo in cui essa si trovi, risulti chiaramente la volontà dell’avente diritto di disfarsene definitivamente” (cfr. Cass. n. 3910/2020).

Del pari, si è ritenuto che “integra il delitto di furto tentato la condotta di colui che cerchi di impossessarsi di materiali raccolti su un terreno privato e destinati allo smaltimento (nella specie, residui ferrosi derivanti dalla demolizione di pilastri), non potendosi per ciò solo escludere il requisito dell’altruità” (cfr. Cass. n. 7301/2014).

La decisione

Per cui la Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. con rinvio per nuovo giudizio e dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

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reato somministrare farmaci

Reato somministrare farmaci non necessari agli animali Per la Cassazione, somministrare farmaci non necessari configura il reato di maltrattamenti perchè il diritto alla salute dell'animale include anche il benessere psichico

Reato di maltrattamento somministrare farmaci performanti

Reato somministrare farmaci non necessari agli animali. La Cassazione amplia (con la sentenza n. 24257-2024) gli importanti concetti della salute e del benessere dell’animale che non si limita solo alla salute fisica, ma include anche il benessere psichico. L’animale, in quanto essere senziente, deve godere di una qualità di vita che gli consenta di esprimere i suoi comportamenti naturali, compatibilmente con le sue caratteristiche. Ne consegue che somministrare farmaci agli animali in assenza di una necessità medica non rientra nel concetto di benessere e di salute dell’animale.  

Dannosi per la salute dell’animale i farmaci dopanti

Queste pratiche mirano infatti a perseguire obiettivi ben lontani dall’esigenza di tutelare la salute dell’animale. L’animale viene esposto a situazioni di stress e a rischi, che ne compromettono lo stato psicofisico. Somministrare sostanze dopanti ai cavalli in buona salute li sottopone a stress continui e pericoli. Questa condotta realizza infatti il reato di maltrattamento degli animali di cui all’articolo 544 del codice penale come aveva già precisato in una precedente pronuncia la Cassazione.

Nel caso specifico, l’imputato è stato accusato di aver somministrato farmaci antinfiammatori ai propri cavalli  solo per migliorarne le prestazioni sportive. Gli animali infatti non presentavano alcuna patologia che richiedesse la cura farmacologica che è stata somministrata a loro.

Salute dell’animale: dannoso anche lo stress

La giurisprudenza più recente dimostra di riconoscere sempre di più la sensibilità psico-fisica degli animali. Non si devono punire solo gli atti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali. Le condotte che assumono rilievo penale sono anche quelle che provocano dolore, stress e afflizione. Questo cambiamento ideologico nasce da una crescente consapevolezza e visione degli animali come esseri viventi meritevoli di tutela diretta, non solo di compassione umana.

Doping equino: maltrattamento dannoso

Gli Ermellini hanno stabilito che il doping equino, ossia l’uso di agenti esogeni o manipolazioni cliniche senza le necessarie indicazioni terapeutiche per migliorare le prestazioni, rappresenta un danno per la salute dell’animale e, quindi, una forma di maltrattamento penalmente rilevante. La legislazione penale, soprattutto dopo la disciplina del 2004 che ha posto divieto di usare violenza sugli animali, prevede sanzioni specifiche per queste pratiche.

Salute dell’animale: più garanzie

Per la Cassazione la Corte d’Appello ha correttamente rilevato come la somministrazione ingiustificata di antinfiammatori ai cavalli, incidendo sulle loro prestazioni, pregiudichi la loro salute psicofisica. Sottoporre i cavalli a faticosi allenamenti dopo queste somministrazioni di farmaci aggrava ancora di più la loro condizione. Queste pratiche rappresentano in conclusione un grave maltrattamento, soprattutto quando gli animali dipendono dall’uomo e vengono sottoposti a stress insopportabili per la loro specie.

La sentenza della Corte di Cassazione compie insomma un ulteriore passo avanti nella tutela del benessere animale. Essa riconosce l’importanza di garantire agli animali la salute fisica, ma anche quella mentale, condannando fermamente le pratiche di doping equino.

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bancarotta fraudolenta

Bancarotta fraudolenta Il reato di bancarotta fraudolenta: la dichiarazione di liquidazione giudiziale, l’elemento soggettivo e i contrasti giurisprudenziali

Reato di bancarotta fraudolenta e liquidazione giudiziale

Il reato di bancarotta fraudolenta punisce l’imprenditore, o chi ricopre cariche societarie, che compia con dolo atti in danno del patrimonio dell’impresa o della parità di condizioni dei creditori.

L’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I.) dispone, sulla falsariga di quanto prevedeva l’art. 216 della Legge Fallimentare, che può essere punito per tale reato solo l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale (in precedenza, si faceva riferimento all’imprenditore fallito; la liquidazione giudiziale ha sostanzialmente sostituito il fallimento nella nuova disciplina posta dal Codice, come strumento procedurale teso a soddisfare i creditori dell’imprenditore insolvente).

Le diverse ipotesi di bancarotta fraudolenta

Le ipotesi di bancarotta fraudolenta individuate dall’art. 322 C.C.I.I. sono le seguenti:

  • la c.d. bancarotta patrimoniale, che ricorre quando l’imprenditore distrae, occulta, dissimula o distrugge o dissipa i propri beni, oppure quando espone o riconosce passività inesistenti per arrecare pregiudizio ai creditori;
  • la c.d. bancarotta documentale, quando l’imprenditore sottrae, distrugge o falsifica i libri o le scritture contabili, per trarne un ingiusto profitto o per recar danno ai creditori;
  • e la c.d. bancarotta preferenziale, che ricorre quando l’imprenditore favorisce alcuni creditori in danno di altri, eseguendo pagamenti o simulando titoli di prelazione.

Le pene previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Ciò che distingue il reato di bancarotta fraudolenta dalla semplice bancarotta è l’elemento psicologico, che consiste nel dolo, e cioè nell’intenzione, da parte del soggetto agente, di arrecare danno ai creditori.

La pena prevista per il reato di bancarotta fraudolenta è la reclusione da tre a dieci anni, nei casi di bancarotta patrimoniale o documentale, e da uno a cinque anni per la bancarotta preferenziale.

In ogni caso, il colpevole è punito anche con la condanna alla pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e all’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni (art. 322 C.C.I.I., ultimo comma).

Dichiarazione di liquidazione giudiziale nella giurisprudenza

Particolare interesse ha suscitato in giurisprudenza il valore della dichiarazione di liquidazione giudiziale, che a volte è stata considerata come un vero e proprio elemento del reato, mentre altre volte come una mera condizione di punibilità.

In particolare, la sentenza n. 13910/2017 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione aveva sancito che la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) fosse semplicemente una condizione di punibilità, cioè un evento al verificarsi del quale il colpevole può essere punito. Ciò perché, a giudizio degli Ermellini, la dichiarazione di fallimento è cosa ben diversa dallo stato di insolvenza che ne è alla base e che solo costituisce l’offesa al patrimonio dei creditori.

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Orientamento più risalente della Cassazione

L’orientamento più risalente della Corte di Cassazione, che considerava invece la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, è stato invece riportato in auge da una successiva pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., sent. n. 40477/18), che considera la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) come un elemento costitutivo della fattispecie di reato.

In proposito, la sentenza motiva tale scelta “in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti essenziali”, ricollegandosi espressamente al risalente, ma autorevole, arresto delle Sezioni Unite (sent. n. 2 del 1958), che giustificava tale orientamento sostenendo che, mentre la condizione di punibilità presuppone un reato già perfetto, la dichiarazione di fallimento inerisce intimamente alla struttura del reato.

 

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Messaggi WhatsApp: stesse garanzie della corrispondenza Messaggi WhatsApp: se conservati in memoria finché non diventano documenti storici hanno le stesse garanzie costituzionali della corrispondenza

Messaggi WhatsApp natura di corrispondenza

I messaggi WhatsApp hanno le stesse garanzie della corrispondenza. Messaggi ed SMS che vengono conservati nella memoria di un telefono cellulare conservano, infatti, la natura di “corrispondenza” anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti. Questo tipo di qualificazione perdura fino a quando i messaggi non perdono il carattere di attualità e di interesse alla riservatezza, trasformandosi in “documenti storici”.

L’acquisizione di tali messaggi deve avvenire quindi nel rispetto delle procedure  previste dalla Costituzione relative al sequestro della corrispondenza  tradizionale come le lettere e i biglietti chiusi. Lo ha sancito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25549-2024.

Sul valore probatorio dei messaggi WhatsApp leggi anche WhatsApp: è prova nel processo

Mancato rispetto delle regole di acquisizione

Un imputato, condannato per i reati di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti,  contesta l’acquisizione dei messaggi WhatsApp presenti sul suo cellulare. Chi ha provveduto all’acquisizione non avrebbe rispettato le regole procedurali.

L’accusa si basa sul contenuto di questi messaggi, che la polizia giudiziaria avrebbe acquisito senza rispettare la disciplina del sequestro della corrispondenza. La polizia avrebbe dovuto infatti consegnare gli oggetti di corrispondenza all’autorità giudiziaria senza aprirli o alterarne il contenuto, trasmettendoli intatti al P.M. per l’eventuale sequestro.

Messaggi WhatsApp non sono intercettazioni

La Corte di Cassazione, davanti alla quale è giunta la vicenda processuale, chiarisce che l’acquisizione dei messaggi WhatsApp che vengono conservati su un dispositivo elettronico non può essere considerata come un’”intercettazione”.

Per la Corte costituzionale, questi tipi di messaggi rientrano nella nozione ampia di “corrispondenza”. Questa nozione comprende infatti qualsiasi forma comunicazione del pensiero umano e prescinde dal mezzo tecnico utilizzato. La Costituzione, come noto, garantisce a tutti i cittadini la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. La violazione della corrispondenza è consentita solo se disposta dall’Autorità giudiziaria con un atto  motivato.

Corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia letti e ricevuti

La Cassazione però si spinge oltre. Esclusa infatti la nozione di intercettazione, la Corte Suprema affronta la questione relativa alla natura dei messaggi elettronici. Gli stessi conservano la natura di corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti e letti?

Gli Ermellini su detta questione precisano che esistono due correnti interpretative differenti.

  • La prima sostiene che la corrispondenza, una volta letta, diventa un semplice documento, la cui acquisizione processuale non rientra né nella disciplina delle intercettazioni né in quella del sequestro della corrispondenza.
  • La seconda invece afferma che i messaggi conservano la natura di corrispondenza finché risultano attuali e di interesse per i corrispondenti, perdendo tale qualifica quando diventano “documenti storici”.

Messaggi WhatsApp: corrispondenza se attuali e di interesse

La Suprema Corte ritiene corretta questa seconda interpretazione, per cui la natura di corrispondenza non si perde con la ricezione del messaggio, ma permane finché lo stesso conserva rilevanza per i corrispondenti. Nel caso di specie la polizia giudiziaria non ha violato la disciplina sul sequestro della corrispondenza. Essa si è limitata infatti a sequestrare lo smartphone per poi consegnarlo all’autorità giudiziaria, ma non ha mai acceduto ai contenuti dei messaggi.

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cane chiuso casa reato

Cane chiuso in casa senz’acqua: è reato Lasciare soli per ore tre cani in una casa sporca e senza dar loro dell’acqua sono indizi del reato di abbandono che legittimano il sequestro degli animali

Lasciare il cane chiuso in casa senz’acqua è abbandono di animali

Lasciare tre cani soli e chiusi in casa per ore, nella sporcizia e senz’acqua è una condotta che giustifica il sequestro degli animali perché rappresentano indizi coerenti e logici del reato di abbandono di animali. Il reato contemplato dall’art. 727 comma 2 del codice penale precisa infatti che non serve lo stato di malattia dell’animale affinché si configuri lo stato di abbandono, è sufficiente che l’animale patisca una sofferenza ingiusta. Queste le ragioni per le quali la Cassazione con la sentenza n. 30369-2024 ha rigettato il ricorso della padrona dei cani contro l’ordinanza di sequestro degli animali.

Il sequestro preventivo

Un’ordinanza conferma il sequestro preventivo di tre cani disposto con decreto dal giudice per indagini preliminari. La padrona è indagata per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 comma 2 c.p. Gli animali sono stati rinvenuti in condizioni incompatibili con le esigenze minime, in stato di abbandono, scarsa igiene e incuria nella somministrazione dell’acqua e nella cura delle malattie.

Il ricorso

La padrona, nel ricorrere avverso l’ordinanza, fa presente che dalla relazione del medico veterinario intervenuto al momento del sequestro emerge che lo stato di salute degli animali non faceva desumere l’incuria e l’abbandono di cui la stessa è stata accusata.

Gli animali non avevano zecche, presentavano una buona massa muscolare e le unghie erano in buone condizioni. La contestazione è del tutto generica e non emergono elementi oggettivi di sofferenza patita dagli animali. Insussistente quindi il fumus commissi delicti perché i fatti a lei contestati non sono stati provati adeguatamente e sono il frutto di annotazioni relative più allo stato dei luoghi che al benessere degli animali. La ricorrente lamenta inoltre la mancata valutazione della relazione del veterinario, che ha rilevato solo la presenza di malattie pregresse, normali in cani anziani. La trasmissione tempestiva di questa relazione avrebbe permesso di smentire i reati ipotizzati e contrastare gli elementi indiziari del fumus.

Il reato di abbandono di animali

Per la Cassazione le argomentazioni che hanno condotto alla decisione invece risultano puntuali, coerenti e logiche. Il giudice ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p. perché i  militari intervenuti sul posto hanno rilevato uno stato di abbandono dei tre cani di proprietà dell’indagata perché detenuti in condizioni igieniche incompatibili con i bisogni minimi che devono essere assicurati agli animali domestici. Dalle testimonianze è emerso che l’ambiente in cui i cani venivano detenuti era in pessime condizioni igieniche, le deiezioni erano diffuse, non era stato rimosso il cibo sparso per terra e non c’era acqua per gli animali, che venivano lasciati soli in casa per molte ore o in uno spazio esterno stretto e pieno di rifiuti.

Reato di abbandono: è sufficiente l’ingiusto patimento

La Cassazione ricorda che affinché si configuri il reato di abbandono di animali la detenzione degli stessi in condizioni capaci di recare loro gravi sofferenze non è solo quella che provoca una malattia, ma anche quella che produce un patire ingiusto. Non è necessaria la malnutrizione e il pessimo stato di salute, sono sufficienti quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale provocando sofferenza e afflizione. In queste condotte rientrano i comportamenti colposi di abbandono ed incuria. Il Gip ha disposto il sequestro nel timore di una reiterazione del reato poiché, nonostante ripetute segnalazioni e diversi accessi all’abitazione, l’indagata non ha messo in atto nessun comportamento finalizzato a migliorare le condizioni di detenzione degli animali. La stessa ha infatti mantenuto inalterate nel tempo le condizioni di incuria e di degrado della propria abitazione in cui deteneva i cani chiusi per diverse ore.

La decisione relativa al sequestro si è fondata sull’annotazione della polizia giudiziaria e sulla relazione dell’ENPA, successiva al sopralluogo. La relazione del medico veterinario incaricato dall’indagata non è stata acquisita perché non presente nel fascicolo al momento della pronuncia oggetto di impugnazione. La stessa è stata infatti acquisita in data successiva.

 

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jammer auto reato

Jammer in auto: è reato? Scatta il reato ex art. 617-bis c.p. se il jammer usato per impedire di essere intercettati, di fatto impedisce le comunicazioni tra terzi

Jammer in auto

Per la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 28084-2024)scatta il reato se lo strumento (jammer) per impedire di essere intercettato di fatto impedisce comunicazioni tra terzi.

La vicenda

Nella vicenda, gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi sul ricorso di un uomo condannato in appello a un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dal’art. 617-bis, commi primo e secondo, codice penale, per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di zona.

Il ricorso

L’uomo si doleva della inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché della contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione ala sussistenza del delitto previsto dall’art. 617-bis c.p., “che si configurerebbe solo se l’installazione sia finalizzata a impedire comunicazioni fra persone diverse dall’agente”. Nella fattispecie, invece, asseriva, il disturbo si sarebbe verificato esclusivamente nelle vicinanze della sua auto, quando l’auto della polizia giudiziaria vi si avvicinava, a dimostrazione che «l’istallazione» era finalizzata a impedire solo che qualcuno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno del suo veicolo.

D’altra parte, sosteneva il ricorrente, il possesso dell’apparecchio, risultando in libera vendita, non costituirebbe in sé reato, in assenza di una perizia che ne accerti l’effettiva potenzialità a disturbare e/o impedire le comunicazioni fra persone diverse dall’agente.

Il reato di cui all’art. 617 bis c.p.

Per la S.C., il ricorso è inammissibile.
“Il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen. – ricordano i giudici – sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto “se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che
telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio” (cfr. Cass. n. 39279/2018).

Inoltre, il delitto in parola “si configura come un reato di pericolo che si perfeziona al momento della mera installazione degli apparecchi disturbatori di frequenze e, dunque, anche nel caso in cui essi non abbiano funzionato o non siano stati attivati (cfr., ex multis, Cass. n. 1834/2021).

La decisione

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, è emerso che l’uomo aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.
La motivazione dei giudici di merito, pertanto, per piazza Cavour, è congrua e logica, e il ricorso rappresenta “la mera mera prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, ipotizzando, senza peraltro offrire alcun riscontro alla tesi difensiva, che il disturbatore fosse finalizzato a impedire che taluno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno dell’auto dell’imputato”.

Per cui, il ricorso è inammissibile.