reato di evasione

Reato di evasione: sì all’attenuante per chi si costituisce La Cassazione considera indifferenti modalità di tempo e luogo di costituzione, richiedendo la norma la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione

Reato di evasione

Con la sentenza n. 15265/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto delicato in tema di reato di evasione (art. 385 c.p.) e applicazione della circostanza attenuante dell’avvenuta costituzione.

Il caso: reato di evasione e costituzione

L’imputato, per il tramite del proprio difensore, impugnava la sentenza della Corte d’appello di Napoli che, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato, ritenuta la contestata recidiva, a un anno e 8 mesi di reclusione in ordine al delitto di evasione ex art. 385 cod. pen. Riteneva la corte territoriale che non vi fossero i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. né per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui al quarto comma di cui all’art. 335 cod. pen., atteso che la presentazione presso la Caserma dei Carabinieri fosse condotta strumentale del ricorrente.

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale l’imputato denuncia vizi di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche attraverso argomentazioni prive di un apparato logico; esclusione dei presupposti per riconoscere la citata circostanza attenuante, nonostante il ricorrente si fosse presentato presso la Caserma dei Carabinieri per costituirsi; violazione dell’art. 131-bis cod. pen. laddove la Corte non aveva apprezzato la sua buona condotta e la non abitualità a delinquere.

Attenuante art. 385, 4° comma, c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato limitatamente all’attenuante di cui all’art. 385. quarto comma, cod. pen. mentre sono infondati gli altri di fronte alla “significativa biografia criminale – del soggetto – all’assenza di resipiscenza e alla non episodicità del delitto di evasione”.

Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al quarto comma dell’art. 385 c.p., invece, affermano dal Palazzaccio, “costituisce ormai solido principio di diritto quello secondo cui, per poter ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento della circostanza in parola, è sufficiente che la costituzione in carcere ovvero presso gli organi preposti alla vigilanza del rispetto delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari, o che abbiano l’obbligo di tradurre l’evaso in carcere, sia volontaria e non conseguente alla coazione fisica delle forze dell’ordine, senza che assumano rilevanza la spontaneità del comportamento o l’assenza di influenze esterne, atteso che scopo della previsione è il tempestivo ripristino dello stato costrittivo, senza dispendio di energie da parte delle forze dell’ordine (Sez. 6, n. 29935 del 13/03/2022, Muggeri, Rv. 283721)”.

Costituzione presso ufficio polizia giudiziaria

“Una volta che sia stata esclusa l’incidenza sulla citata attenuante e della spontaneità della costituzione in carcere o presso chi ha l’obbligo di tradurlo o dei motivi – anche di natura egoistica – che spingono l’evaso ad interrompere la situazione antigiuridica autonomamente creata, come invece previsto dal codice penale, deve ritenersi che sono indifferenti le modalità di tempo e luogo di costituzione – aggiungono dalla S.C. – richiedendo la norma esclusivamente una condotta, anche dettata da esigenze contingenti ed utilitaristiche, che renda palese la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione; viene in tal senso esaltata la natura oggettiva dell’attenuante per la cui integrazione è sufficiente sia posta in essere una condotta coincidente con il dettato della norma”.

Ciò anche alla luce dei plurimi principi di diritto espressi dalla S.C., spiegano i giudici, “specie laddove hanno ritenuto di equiparare la costituzione in carcere alla costituzione presso un ufficio appartenente alla polizia giudiziaria che ha l’obbligo di condurre l’evaso in carcere, deve rilevarsi come la motivazione della sentenza che ha escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della citata attenuante confligga con il significato assegnato alla citata disposizione”.

La decisione

Nel caso di specie, la Corte di appello, pur dando atto della natura oggettiva della circostanza attenuante ex art. 385, quarto comma, c.p., erroneamente finisce per assegnare rilevanza a profili di natura soggettiva, allontanandosi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato che reputa irrilevante la motivazione che spinge l’evaso a costituirsi.

Per cui, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla sussistenza dell’attenuante de qua, con rinvio alla Corte di appello “che dovrà attenersi, nel fornire risposta circa la sussistenza o meno dei presupposti per il riconoscimento dell’invocata attenuante, al principio di diritto sopra richiamato”.

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Rinuncia alla prescrizione

Rinuncia alla prescrizione: quando è efficace? La Cassazione chiarisce che la rinuncia alla prescrizione del reato acquista efficacia al momento in cui la causa estintiva si verifica

Rinuncia alla prescrizione

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16496/2025 della quinta sezione penale, ha chiarito che la rinuncia alla prescrizione del reato, effettuata prima della maturazione della stessa, non è invalida ma semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti solo al momento in cui la prescrizione si verifica.  

Il caso

Nel caso esaminato, l’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico aggravato ai sensi dell’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p.. In appello, la Corte dichiarava il reato estinto per prescrizione. La questione approdava dunque innanzi al Palazzaccio. L’imputato lamentava che il termine di prescrizione non si era ancora compiuto ed evidenziava l’interesse a rinunciare alla prescrizione al fine di conseguire una sentenza assolutoria nel merito, atteso che la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa all’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. il ricorso è infondato e va rigettato. Nondimeno, evidenziano da piazza Cavour, “l’imputato ha avuto ampia possibilità di rinunziare alla prescrizione prima della pronunzia della Corte territoriale, dovendosi ribadire in tal senso che tale rinunzia, qualora effettuata prima che la prescrizione sia maturata, non è invalida, ma soltanto inefficace, in quanto produce i suoi effetti al verificarsi della causa estintiva del reato (ex multis Sez. 3, n. 3758 del 20/10/2021)”.

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abuso dei mezzi di correzione

Abuso dei mezzi di correzione Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina: cos'è, quando si configura, normativa, elementi, procedibilità, pena e giurisprudenza

Cos’è il reato di abuso dei mezzi di correzione

Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, disciplinato dall’articolo 571 del Codice penale, sanziona l’uso eccessivo o improprio di strumenti correttivi o disciplinari da parte di soggetti legittimati, quali genitori, insegnanti, tutori, educatori, o chiunque eserciti un potere analogo.

Tale reato si verifica quando il mezzo, pur legittimo in sé, viene applicato in modo contrario alla finalità educativa e con modalità tali da provocare un nocumento fisico o psichico alla vittima, solitamente un minore o una persona sottoposta a tutela o educazione.

Normativa: art. 571 del Codice penale

Il testo dell’art. 571 c.p. recita: “1. Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. 2. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni [572].”

Quando è integrato il reato

Il reato si perfeziona in presenza di tre presupposti:

  1. legittimazione del soggetto attivo: l’agente deve essere titolare di un potere correttivo o disciplinare (es. genitore, docente, educatore);
  2. utilizzo improprio del mezzo correttivo: il mezzo deve essere in sé lecito, ma impiegato in modo eccessivo o distorto;
  3. pericolo per la salute psico-fisica della vittima: è sufficiente il solo pericolo, senza che sia necessaria la lesione concreta.

Elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo consiste nell’uso distorto del mezzo di correzione, che deve risultare sproporzionato rispetto alla finalità educativa. Non si tratta, dunque, di qualunque forma di rimprovero o ammonizione, ma di condotte che travalicano il limite dell’educazione e degenerano in maltrattamento.

Sono esempi frequenti di abuso:

  • punizioni fisiche ripetute o violente;
  • isolamento sociale forzato e prolungato;
  • umiliazioni pubbliche;
  • privazioni eccessive.

Elemento soggettivo del reato

Il dolo richiesto è generico, cioè la coscienza e volontà di utilizzare un mezzo correttivo in modo improprio. Non è necessario che l’agente voglia ledere la salute della vittima, ma è sufficiente la consapevolezza di un uso improprio dello strumento disciplinare.

Tuttavia, in caso di dolo specifico o di volontà lesiva, il fatto può integrare reati più gravi, come i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) o le lesioni personali (art. 582 c.p.).

Procedibilità e pena dell’abuso dei mezzi di correzione 

Il reato è procedibile d’ufficio e prevede:

  • la reclusione fino a 6 mesi se dal fatto deriva un pericolo per la salute della vittima,
  • l’applicazione delle pene previste per le lesioni personali, se da esso deriva una lesione concreta,
  • la reclusione da tre a otto anni se dal fatto deriva la morte del soggetto.

Cassazione sul reato di abuso dei mezzi di correzione 

La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito i confini tra l’abuso dei mezzi di correzione.

  • Cassazione n. 46974/2024: L’articolo 571 del codice penale italiano proibisce qualsiasi azione, anche se fatta con l’intenzione di educare, che possa mettere a rischio la salute fisica o psicologica di un bambino. In questo caso specifico, lo schiaffo è stato giudicato non adatto al ruolo educativo di un genitore perché danneggia l’integrità fisica del minore. La Corte, basandosi sulla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che protegge i bambini da ogni tipo di violenza (anche in famiglia), ha sottolineato che l’interesse superiore del bambino deve essere la priorità in qualsiasi metodo educativo, escludendo le punizioni corporali.
  • Cassazione n. 13145/2022: L’uso di violenza da parte di un insegnante non rientra nell’abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) perché tale reato presuppone l’uso di metodi di per sé leciti, che diventano illeciti per l’eccesso. La violenza, invece, è sempre considerata illecita. Nel caso specifico, spingere la testa di un minore nel lavandino o nello scarico configura direttamente un atto di violenza, escludendo l’applicazione dell’articolo sull’abuso dei mezzi di correzione.
  • Cassazione n. 18706/2020: La differenza tra abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti non sta nella gravità della violenza, perché usare violenza per educare o correggere è sempre illegale.

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reato di appropriazione indebita

Reato di appropriazione indebita Appropriazione indebita: cos’è, quando si configura, normativa, elementi costitutivi, procedibilità e giurisprudenza

Cos’è l’appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un reato previsto e punito dall’art. 646 del Codice penale. Si configura quando un soggetto, avendo la disponibilità di una cosa mobile altrui, se ne appropria per trarne profitto, violando l’obbligo giuridico di restituzione o di diverso utilizzo. A differenza del furto, nel caso dell’appropriazione indebita, il bene non è sottratto clandestinamente, ma consegnato volontariamente al reo da parte dell’avente diritto.

Normativa di riferimento: art. 646 c.p.

L’articolo 646 del codice penale recita: “1. Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profittosi appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. 2. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario la pena è aumentata.”

Quando è integrato il reato

Il reato di appropriazione indebita si perfeziona quando:

  • il soggetto agente ha legittimamente il possesso del bene (es. consegna volontaria da parte del proprietario);
  • si appropria indebitamente del bene stesso;
  • con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto;
  • e con danno patrimoniale per la parte offesa.

Il reato può riguardare beni materiali o denaro, purché si tratti di cose mobili altrui.

Elemento oggettivo

L’elemento oggettivo del reato è costituito dalla condotta di appropriazione, ovvero l’atto di trattare come proprio un bene mobile altrui che il soggetto già possedeva lecitamente. Si tratta di un comportamento che implica l’inversione del possesso, ossia il mutamento dell’atteggiamento soggettivo verso la cosa, da detenzione in nome altrui a possesso uti dominus.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, cioè la volontà di appropriarsi della cosa altrui per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Deve dunque sussistere l’intenzione di trattenere il bene altrui contro la volontà del proprietario, con consapevolezza della mancanza di un diritto a farlo.

Procedibilità

Il reato è procedibile a querela di parte, come sancito dal comma 1 dell’art. 646 c.p.

Pene previste

La pena prevista per il reato di appropriazione indebita è la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. La pena aumenta se il fatto viene commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.

Differenza tra furto e appropriazione indebita

Sebbene entrambi i reati ledano il diritto di proprietà, vi sono differenze rilevanti:

Elemento

Furto (art. 624 c.p.)

Appropriazione indebita (art. 646 c.p.)

Possesso iniziale

Illecitamente sottratto

Lecitamente detenuto

Condotta

Sottrazione

Appropriazione

Consenso

Assente

Presente al momento della consegna

Procedibilità

D’ufficio (salvo casi lievi)

A querela

Giurisprudenza sull’appropriazione indebita

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti fondamentali del reato:

Cassazione n. 289/2025: Affinché si configuri l’appropriazione indebita di beni fungibili come il denaro, non basta la semplice disponibilità del bene. È fondamentale che fin dal momento in cui il bene viene consegnato, esista uno specifico vincolo di destinazione stabilito dal proprietario. Un obbligo di natura civilistica derivante da un contratto successivo non può essere considerato un vincolo di destinazione originario ai fini di questo reato. Di conseguenza, l’appropriazione indebita di un bene fungibile si verifica solo quando chi lo riceve fin dall’inizio è tenuto a utilizzarlo per uno scopo preciso e viola tale vincolo.

Cassazione Penale, n. 11950/2023: il reato di appropriazione indebita si configura quando una persona, avendo già la disponibilità di un bene mobile o di denaro appartenente ad altri, decide intenzionalmente di comportarsi come se fosse il proprietario. Questa decisione deve essere presa con la consapevolezza di non avere il diritto di farlo e con lo scopo di ricavarne un beneficio illegittimo per sé o per altri. Un esempio concreto è chi riceve un bonifico bancario per errore e, invece di restituire la somma, la trattiene per sé. In questo caso, la consapevolezza dell’errore e la decisione di non restituire il denaro, con l’intenzione di utilizzarlo, integrano il reato di appropriazione indebita.

Cassazione n. 16831/2021: Il reato di appropriazione indebita (articolo 646 del codice penale) si differenzia dal furto perché chi commette appropriazione indebita ha già il possesso del bene altrui. Questo “possesso” include ogni situazione in cui una persona ha il potere di usare il bene autonomamente, senza che il proprietario lo sorvegli direttamente. Rientra in questa definizione anche la semplice detenzione del bene. Al contrario, se una persona non ha alcun potere autonomo sul bene, ma se ne impossessa sottraendolo al proprietario, commette furto.

 

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furto in abitazione

Furto in abitazione: sì all’attenuante sulla recidiva Ravvedimento post delictum e furto in abitazione: la Corte costituzionale dichiara illegittimo il divieto di prevalenza dell'attenuante sulla recidiva reiterata

Furto in abitazione e attenuante

La Corte costituzionale, con sentenza n. 56/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui vieta di riconoscere prevalente l’attenuante della collaborazione del reo (art. 625-bis cod. pen.) rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata.

La qlc

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Perugia nell’ambito di un procedimento per furto in abitazione, in cui l’imputato aveva contribuito in maniera determinante all’individuazione del correo. Il giudice rimettente contestava che il divieto previsto dalla norma censurata violasse i principi di ragionevolezza e di finalità rieducativa della pena, sanciti dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

La Consulta, richiamando precedenti pronunce in materia, ha accolto la questione, osservando che il divieto di prevalenza neutralizza la funzione incentivante dell’attenuante di cui all’art. 625-bis cod. pen., attribuendo alla recidiva reiterata un rilievo assoluto, senza considerare il comportamento collaborativo successivo del reo e i rischi personali e familiari da esso derivanti.

Ravvedimento post delictum

Secondo la Corte, tale preclusione impedisce che il ravvedimento post delictum produca pienamente i suoi effetti, privando di efficacia lo strumento voluto dal legislatore per favorire la dissociazione dal contesto criminale. Inoltre, irrigidendo il giudizio sulla capacità a delinquere, la norma contestata si pone in contrasto con il principio di rieducazione della pena, facendo percepire la sanzione come ingiusta e, pertanto, inefficace ai fini previsti dalla Carta costituzionale.

La decisione

La decisione conferma l’orientamento volto a valorizzare la condotta successiva al reato, anche in presenza di precedenti penali, nel rispetto della funzione rieducativa che deve connotare l’esecuzione della pena.

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maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: no a sospensione automatica responsabilità genitoriale Maltrattamenti in famiglia, la Corte costituzionale limita l’automatismo: il giudice deve valutare l’interesse del minore nella sospensione della responsabilità genitoriale

Maltrattamenti in famiglia, no all’automatismo

Con la sentenza n. 55/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 34, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui impone automaticamente la sospensione della responsabilità genitoriale a seguito della condanna per maltrattamenti in famiglia (articolo 572, secondo comma, c.p.) commessi in presenza o a danno di minori.

L’intervento della Consulta

La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Siena, che, pur avendo riconosciuto la responsabilità penale di due genitori per maltrattamenti nei confronti dei figli conviventi, aveva evidenziato l’incompatibilità tra l’applicazione automatica della pena accessoria e la necessità di tutelare, in concreto, l’interesse del minore.

Secondo l’articolo 34, secondo comma, c.p., la condanna per reati commessi abusando della responsabilità genitoriale comporta automaticamente la sospensione dall’esercizio della stessa, per una durata pari al doppio della pena principale. Tuttavia, questo meccanismo, secondo la Corte, si pone in contrasto con i principi espressi dagli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, che pongono al centro la tutela effettiva dell’interesse del minore.

L’automatismo censurato

La Consulta ha rilevato che l’applicazione rigida della sospensione non consente una valutazione concreta della situazione familiare e del rapporto tra genitore e figlio, impedendo al giudice di considerare se, in casi specifici, mantenere la responsabilità genitoriale possa meglio garantire il benessere del minore.

La pronuncia richiama l’orientamento consolidato secondo cui l’interesse del minore è il parametro fondamentale nella regolazione dei rapporti familiari, e sottolinea che l’automatismo previsto dalla norma censurata crea una presunzione assoluta di incompatibilità tra la condanna e la prosecuzione del rapporto genitoriale, presunzione che risulta irragionevole e lesiva della dignità e dei diritti del minore stesso.

Il ruolo del giudice nella tutela concreta del minore

La Corte costituzionale ha quindi affermato che spetta al giudice, caso per caso, valutare se la sospensione della responsabilità genitoriale sia effettivamente conforme al preminente interesse del minore. Tale valutazione deve tener conto non solo della gravità del reato, ma anche dell’evoluzione del rapporto genitoriale successivamente ai fatti oggetto di condanna.

In particolare, la responsabilità genitoriale comporta obblighi e diritti che non devono essere compressi senza una attenta ponderazione degli effetti concreti sull’equilibrio e sulla crescita del minore.

intercettazioni telefoniche

Intercettazioni telefoniche: per legge fino a 45 giorni Intercettazioni telefoniche: in vigore dal 24 aprile la legge che ha fissato a 45 giorni il termine di durata massimo, salvo eccezioni

Intercettazioni telefoniche: durata

In vigore dal 24 aprile 2025, la legge n. 47/2025 che impone il limite massimo di 45 giorni per le intercettazioni telefoniche. Il testo era stato approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati nella giornata di mercoledì 19 marzo 2025 con 147 voti favorevoli, 67 contrari e un astenuto.

Durata limitata con eccezioni

La nuova norma stabilisce che le intercettazioni non possano superare il tetto di 45 giorni. Tuttavia, se emergono elementi concreti e specifici che ne rendano indispensabile la prosecuzione, il limite può essere esteso con un’esplicita motivazione. Questa regola si applica a tutte le operazioni di ascolto, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge.

Il provvedimento prevede deroghe infatti per i reati di criminalità organizzata  e minacce telefoniche.

Modifiche al codice di procedura penale

Il provvedimento modifica l’articolo 267 del codice di procedura penale, introducendo il limite temporale alle intercettazioni. Inoltre, l’articolo 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 viene aggiornato per escludere dall’applicazione del nuovo limite a reati gravi.

Cosa cambia nelle intercettazioni telefoniche

La nuova legge rappresenta un cambiamento significativo nella disciplina delle intercettazioni. Se da un lato introduce un controllo più stringente sulle operazioni investigative, dall’altro solleva dubbi sulla sua efficacia nel contrastare i reati più gravi. Il dibattito resta aperto tra chi la considera una misura di garanzia e chi, invece, teme un indebolimento delle indagini giudiziarie.

 

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misure interdittive

Le misure interdittive Le misure interdittive: definizione, normativa di riferimento, durata e giurisprudenza della Cassazione

Cosa sono le misure interdittive?

Le misure interdittive rappresentano una categoria di misure cautelari personali applicate in ambito penale per impedire a un soggetto di svolgere determinate attività quando sussistono gravi indizi di reato. Si tratta di restrizioni che limitano temporaneamente i diritti dell’indagato o dell’imputato, senza comportare la detenzione, ma incidendo sulla sua attività professionale o sulla sua capacità di esercitare funzioni pubbliche.

Le misure interdittive sono provvedimenti restrittivi adottati dal giudice su richiesta del pubblico ministero per impedire a una persona di continuare a esercitare determinati ruoli, incarichi o attività professionali che potrebbero facilitare la commissione di nuovi reati o l’inquinamento delle prove.

Queste misure vengono applicate quando si ritiene che la libertà d’azione dell’indagato possa compromettere l’esito delle indagini o rappresentare un pericolo per la collettività.

Le misure interdittive si distinguono dalle misure coercitive (come la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari) perché non incidono direttamente sulla libertà personale, ma limitano specifiche facoltà dell’indagato.

Quali sono le misure interdittive?

Le principali misure interdittive previste dall’art. 290 del Codice di Procedura Penale (CPP) sono:

  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio
    • Si applica a funzionari pubblici e impedisce loro di esercitare temporaneamente il proprio incarico.
    • È utilizzata in caso di reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, abuso d’ufficio).
  • Sospensione dall’esercizio di una professione o arte
    • Impedisce all’indagato di esercitare la propria attività professionale (es. medici, avvocati, ingegneri) per il periodo stabilito dal giudice.
    • Applicata quando vi è il rischio che l’indagato possa reiterare il reato nell’ambito della sua professione.
  • Divieto temporaneo di contrattare con la Pubblica Amministrazione
    • Esclude un’azienda o un professionista dalla possibilità di stipulare contratti con enti pubblici.
    • Spesso adottata in casi di turbativa d’asta o frode negli appalti.
  • Interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese
    • Impedisce a un soggetto di ricoprire ruoli dirigenziali in aziende o enti per un periodo determinato.
    • Applicata nei reati societari o finanziari (es. bancarotta fraudolenta).
  • Sospensione temporanea dell’esercizio di attività imprenditoriale
    • Vieta all’indagato di gestire o dirigere un’attività economica, soprattutto in caso di reati economici o fallimentari.
  • Divieto di esercitare determinate funzioni o attività professionali
    • Impone una restrizione parziale nell’ambito lavorativo, consentendo all’indagato di continuare a lavorare con limiti imposti dal giudice.

Normativa di riferimento

Le misure interdittive trovano fondamento in diversi articoli del Codice di Procedura Penale e del Codice Penale, tra cui:

  • Art. 287 CPP – Definisce le condizioni per l’applicazione delle misure interdittive.
  • Art. 289 CPP – Regola la sospensione dall’esercizio di una professione o arte.
  • Art. 290 CPP – regola il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali

Le misure interdittive possono essere adottate in fase cautelare (durante il processo) o come sanzioni accessorie in caso di condanna definitiva.

Quanto durano le misure interdittive?

La durata delle misure interdittive varia in base alla gravità del reato e al tipo di provvedimento adottato

La norma di riferimento è l’articolo 308 c.p.p. il comma 2 in particolare stabilisce un termine generale di 12 mesi. Scaduto il termine le stesse perdono efficacia, ma se sussistono esigenze probatorie le stesse possono essere rinnovate.

L’estinzione delle misure interdittive comunque, in base a quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 308 c.p.p, non pregiudica il potere del giudice di applicare le pene accessorie (art. 28-37 cp) o altre misure interdittive.

Il soggetto colpito da una misura interdittiva può impugnare il provvedimento davanti al Tribunale del Riesame per chiederne la revoca o la modifica.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito l’importanza delle misure interdittive nel prevenire la reiterazione del reato e proteggere l’interesse pubblico.

Cassazione n. 39752/2021: la legge, quando parla di “professioni” che possono essere sospese, non si riferisce unicamente a quelle che richiedono un’iscrizione a un albo, un permesso specifico o un’autorizzazione da parte delle autorità. In altre parole, anche se una persona non è iscritta a un albo professionale, la misura della sospensione dall’esercizio di una professione può comunque essere applicata. 

Cassazione n. 10940/2017:  È illegale applicare la misura cautelare della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio a chi ricopre una carica elettiva ottenuta direttamente dal voto popolare. Questo divieto è espressamente stabilito dall’articolo 289, comma terzo, del codice di procedura penale.

Cassazione n. 42588/2011: per decidere se applicare una misura interdittiva (come la sospensione temporanea dall’esercizio della professione a un medico accusato di omicidio colposo), il giudice deve analizzare attentamente come è stato commesso il reato e valutare la personalità dell’accusato basandosi sui criteri indicati nell’articolo 133 del codice penale. È fondamentale considerare anche il livello di colpa, valutando quanto la condotta del medico si sia discostata dalle regole di prudenza violate, quanto l’evento fosse evitabile e quanto fosse ragionevole aspettarsi che il medico seguisse la condotta corretta.

 

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reato di cattiva conservazione

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio anche senza danno La Cassazione ribadisce che è sufficiente la potenziale pericolosità di prodotto per integrare il reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio per la salute, anche senza danno concreto. In ambito alimentare, infatti, la semplice potenziale pericolosità di un prodotto è sufficiente a configurare il reato anche in assenza di danni effettivi ai consumatori. È quanto ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13826/2025, confermando la condanna nei confronti del titolare di una macelleria all’interno di un supermercato per la vendita di carni e salumi conservati in ambienti igienicamente inadeguati.

Quando si configura il reato ex art. 5 l. 283/1962

Secondo quanto previsto dall’articolo 5, lettere b) e d), della legge n. 283/1962, rammentano innanzitutto dal Palazzaccio, la violazione si concretizza quando gli alimenti risultano:

  • in cattivo stato di conservazione;

  • alterati o insudiciati;

  • non conformi alle norme igienico-sanitarie stabilite dalla legge.

Non è necessario che il prodotto abbia causato un danno alla salute del consumatore. È sufficiente che si accerti la propensione oggettiva dell’alimento a costituire un pericolo, in virtù del suo deterioramento o della sua contaminazione.

Il principio espresso dalla Cassazione

I giudici di legittimità hanno chiarito che ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è l’assenza delle condizioni igieniche minime richieste per la sicurezza del prodotto alimentare.

La tracciabilità carente, la mancata adozione di misure preventive, o anche il non rispetto delle norme di comune esperienza in materia di conservazione, sono elementi sufficienti a configurare il reato.

Allegati

domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.