furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

Allegati

reato di percosse

Il reato di percosse Reato di percosse art. 581 c.p: elemento oggettivo e soggettivo, procedibilità, pene, giurisprudenza e differenze con il reato di lesioni

Reato di percosse: art. 581 c.p.

Il reato di percosse è previsto dall’art. 581 del Codice Penale e punisce chiunque percuota un’altra persona, ossia agisca con violenza, senza provocare tuttavia lesioni personali nel corpo o nella mente. Questo reato si configura quando un soggetto colpisce un’altra persona, generando dolore o fastidio, senza determinare un danno fisico permanente.

Come precisa il comma 2 dell’articolo 581 c.p il reato di percosse non si configura quando per legge, la violenza rappresenta un elemento costituivo della fattispecie di reato o una circostanza aggravante.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato di percosse

Analizziamo separatamente l’elemento oggettivo e soggettivo del reato.

Elemento oggettivo

L’elemento oggettivo consiste in una violenza fisica esercitata su un’altra persona senza provocarle malattie o ferite. Rientrano in questa categoria atti come:

  • schiaffi, pugni o calci senza conseguenze fisiche durature;
  • spinte o strattonamenti;
  • contatti fisici aggressivi incapaci di generare una lesione documentabile.

Se dall’azione deriva una lesione, anche lieve, il reato di percosse si trasforma in reato di lesioni personali (art. 582 c.p.).

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di tenere una condotta violenta capace di provocare una sensazione di dolore alla persona offesa. Non è necessario che l’agente abbia l’intenzione di causare dolore o fastidio, basta che compia l’atto consapevolmente.

Competenza e procedibilità del reato di percosse

  • Competenza: Il reato di percosse è di competenza del Giudice di Pace Penale.
  • Procedibilità: è un reato perseguibile a querela di parte, il che significa che la vittima deve presentare querela entro tre mesi dallevento per avviare il procedimento penale.

Pena prevista per il reato di percosse

L’art. 581 c.p. prevede per il reato di percosse le seguenti pene base:

  • pena della reclusione fino a sei mesi oppure multa fino a 309 euro.

Se le percosse vengono commesse in presenza di aggravanti (ad esempio, contro un minore o un pubblico ufficiale), la pena può essere aumentata.

Giurisprudenza in materia

Cassazione n. 27737/2019: il termine “percuotere” non si limita al significato letterale di colpire fisicamente, ma include qualsiasi forma di violenta manomissione dell’altrui persona. Gli schiaffi, quindi, rientrano nella nozione di percosse a causa della loro natura intrinsecamente violenta. Se gli schiaffi causano una malattia, si configura il reato di lesioni; se invece sono simbolici e mirano solo a offendere moralmente, si tratta di ingiuria reale. Per il reato di percosse, è sufficiente che la condotta sia idonea a produrre una sensazione dolorifica, senza che il dolore effettivo si verifichi. La differenza con le lesioni personali sta nel fatto che queste ultime causano una malattia fisica o mentale.

Cassazione n. 33492/2019: affinché si possa parlare di lesioni personali, non basta una semplice alterazione fisica, ma è necessario che questa comporti una limitazione funzionale, un processo patologico significativo, un peggioramento di una condizione preesistente o una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche temporanea, ma rilevante. Se la violenza altrui provoca solo dolore, senza limitazioni funzionali, si configura il reato di percosse. In sostanza, la differenza tra lesioni personali e percosse risiede nella gravità delle conseguenze fisiche sulla vittima.

Cassazione n. 13145/2022: l’aggressione fisica di un insegnante verso un alunno, anche se motivata da intenti correttivi, non rientra nella fattispecie specifica dell’articolo 571 del codice penale (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina). Piuttosto, tale condotta può configurare reati quali percosse (articolo 581 c.p.) o lesioni personali (articolo 582 c.p.), oppure altre fattispecie di reato rilevanti a seconda delle circostanze specifiche. La legge non giustifica la violenza fisica come mezzo di correzione, per cui l’insegnante che la utilizza è passibile di sanzioni penali.

Differenza tra percosse e lesioni personali

Il reato di percosse si distingue dal reato di lesioni personali (art. 582 c.p.) per l’assenza di conseguenze fisiche permanenti. Vediamo le principali differenze:

Caratteristica Percosse (art. 581 c.p.) Lesioni personali (art. 582 c.p.)
Conseguenze fisiche Nessuna lesione permanente Ferite, contusioni, malattie documentabili
Procedibilità Querela di parte D’ufficio per lesioni aggravate, quando la malattia superi i 20 giorni se la vittima è un incapace per età o per un’infermità. Si procede a querela in caso di lesioni lievi
Pena Reclusione fino a 6 mesi o multa fino a 309,00 euro Reclusione da 6 mesi a 3 anni. La pena aumenta in presenza di circostanza aggravanti di cui all’art. 583 c.p.

 

reato di concussione

Reato di concussione Reato di Concussione art. 317 codice penale: normativa, elementi, pena e procedibilità, differenza con peculato e corruzione, giurisprudenza

In cosa consiste il reato di concussione

Il reato di concussione, disciplinato dall’articolo 317 del Codice Penale, si configura quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, abusando della propria qualità o dei propri poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente, a sé o a un terzo, denaro o altra utilità.

Il reato di concussione è un reato proprio che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Il soggetto attivo abusa del proprio ruolo per costringere o indurre un soggetto privato a dare o promettere una somma di denaro o altra utilità.

Differenza tra costrizione e induzione

  • Costrizione: il pubblico ufficiale impone al privato un comportamento mediante minaccia o pressione diretta.
  • Induzione: il pubblico ufficiale convince il privato, sfruttando la propria posizione di autorità, a compiere un’azione che non avrebbe compiuto spontaneamente.

Un esempio classico di concussione è il caso di un funzionario pubblico che minaccia un imprenditore di ostacolare la sua attività se non riceve una somma di denaro.

Elemento oggettivo e soggettivo

L’elemento oggettivo della concussione è dato:

  • dalla qualità soggettiva dell’autore (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio);
  • dall’abuso di potere;
  • dal danno subito dal soggetto passivo, indotto a dare o promettere denaro o altra utilità.

Ai fini dell’elemento soggettivo, invece, il dolo richiesto è specifico, ossia la volontà del pubblico ufficiale di ottenere un vantaggio personale o per un terzo.

Pena e procedibilità reato di concussione

Secondo l’articolo 317 c.p., la concussione è punita con la reclusione da sei a dodici anni.

  • Il reato è procedibile dufficio, quindi non è necessaria una denuncia per avviare le indagini.
  • La competenza è del Tribunale collegiale.
  • Il tentativo di concussione è punibile (art. 56 c.p.).

Differenza con peculato e corruzione

Il reato di concussione si distingue da altri reati contro la pubblica amministrazione:

  • Peculato (art. 314 c.p.): consiste nell’appropriazione indebita di denaro o beni pubblici da parte del pubblico ufficiale.
  • Corruzione (art. 318 e 319 c.p.): implica un accordo tra pubblico ufficiale e privato per ottenere vantaggi reciproci (senza costrizione o induzione).

In sintesi, la concussione è caratterizzata dall’abuso di potere con costrizione o induzione, mentre la corruzione è basata su un accordo illecito e il peculato su un’appropriazione indebita.

Giurisprudenza sul reato di concussione

Ecco alcune sentenze fondamentali in materia di concussione.

Cassazione n. 17918/2023: Nel reato di concussione, anche un soggetto privo della qualifica di pubblico agente può concorrere nella condotta illecita, purché, in accordo con il pubblico ufficiale, agisca in modo da indurre nel soggetto passivo uno stato di costrizione o soggezione finalizzato a un atto di disposizione patrimoniale. È inoltre necessario che la vittima sia consapevole che l’utilità richiesta è destinata e voluta dal pubblico ufficiale.

Cassazione n. 10805/2021: il reato di concussione si configura quando un pubblico ufficiale, abusando della propria posizione, con violenza o minaccia induce un soggetto a compiere un’azione che altrimenti non avrebbe compiuto. Ciò avviene a causa dello stato di soggezione psicologica in cui la vittima si trova e dell’assenza di un’alternativa ragionevole, come prospettato dal pubblico agente.

Cassazione n. 21019/2021: nel reato di concussione, il concetto di “utilità” comprende qualsiasi vantaggio, anche non patrimoniale, purché sia oggettivamente apprezzabile. Questo include, ad esempio, l’aumento del prestigio professionale o della considerazione all’interno dell’ambiente lavorativo. Nel caso specifico, la Corte ha riconosciuto la concussione (e non la violenza privata) nella condotta di un carabiniere che, attraverso minacce, ha costretto un cittadino straniero ad acquistare eroina per effettuare un arresto in flagrante, con l’obiettivo di ottenere riconoscimenti utili per avanzamenti di carriera e incarichi di fiducia.

 

Leggi anche: Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica

getto pericoloso di cose

Il getto pericoloso di cose Il  getto pericoloso di cose: analisi del reato 674 c.p., elementi, pena, procedibilità e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il reato di getto pericoloso di cose?

Il getto pericoloso di cose previsto e punito dall’art. 674 c.p. è un reato che si verifica quando una persona getta oggetti, materiali o altre cose in un luogo pubblico o in una situazione in cui essi potrebbero provocare danni a cose o persone. In altre parole, il soggetto compie un atto in grado di creare un pericolo concreto per la sicurezza delle persone, senza la necessità di un danno effettivo. L’elemento fondamentale di questo reato è la pericolosità dell’atto compiuto.

L’art. 674 c.p.

Secondo l’art. 674 del Codice Penale, il reato si configura quando: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.” 

L’elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo del reato consiste nell’atto materiale di gettare o versare cose in luoghi pubblici, come strade, piazze o luoghi frequentati da pubblico. La pericolosità dell’atto si riferisce alla possibilità che l’oggetto gettato possa provocare un danno o un pericolo, anche senza che si verifichi un danno concreto o immediato.

Il codice penale non specifica esattamente che tipo di oggetto debba essere gettato, ma il concetto di “cose” è ampio e include qualsiasi tipo di materiale che possa rappresentare un pericolo. Gli oggetti potrebbero essere materiali contundenti, rottami, attrezzi, o anche rifiuti che possano scivolare o creare ostacoli per chi transita in quel luogo.

Inoltre, l’atto deve avvenire in un luogo di pubblico transito. Questo implica che l’atto sia posto in essere in un contesto che coinvolge il pubblico, come una strada, una piazza o un altro luogo frequentato da persone.

L’elemento soggettivo del reato

L’elemento soggettivo si riferisce all’intenzione del soggetto nel compiere il reato. In questo caso, non è necessario che l’autore dell’atto abbia l’intenzione di causare un danno diretto o che voglia fare del male a qualcuno. L’intento che interessa è quello di creare una situazione di pericolo, anche se non necessariamente il danno si concretizzerà.

La colpa (ossia la negligenza o imprudenza) è un elemento che può entrare in gioco nel reato di getto pericoloso di cose. Infatti, il soggetto potrebbe non avere l’intenzione di danneggiare direttamente qualcuno ma, a causa della sua condotta, mette comunque in pericolo la sicurezza altrui.

Le pena per il reato di getto pericoloso di cose

L’art. 674 del codice penale prevede una pena di reclusione da tre mesi a un anno per chi compie l’atto di getto pericoloso di cose. La pena prevista l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a 206,00 euro.

È importante notare che la pena può essere aumentata nei casi in cui il pericolo si concretizzi in un danno effettivo, ma la legge punisce comunque la condotta pericolosa, anche se non c’è danno. Questo aspetto tutela l’incolumità pubblica e scoraggia comportamenti che possano generare pericoli per i cittadini.

La procedibilità del reato

Il reato di getto pericoloso di cose è procedibile d’ufficio, il che significa che non è necessario che la vittima presenti una denuncia per avviare un’azione legale. Le autorità competenti (forze dell’ordine o la pubblica accusa) possono avviare il procedimento penale anche senza una denuncia da parte di chi ha subito il pericolo.

Questa caratteristica è rilevante perché l’ordinamento penale vuole tutelare la sicurezza pubblica senza dover aspettare che un danno si verifichi. Di fatto, la legge punisce già l’atto pericoloso, non l’eventuale danno che ne deriva.

Giurisprudenza sul getto pericoloso di cose

La giurisprudenza italiana ha trattato numerosi casi riguardanti il reato di getto pericoloso di cose.

Cassazione n. 19605/2024: la contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p. non si applica se l’azione causa esclusivamente danni o disturbo a oggetti, senza coinvolgere direttamente le persone.

Cassazione n. 44458/2015: va condannato all’ammenda il condomino del piano superiore per aver ripetutamente gettato dal proprio balcone bottiglie di plastica e altri rifiuti, sporcando il cortile condominiale al piano terra. Secondo la terza sezione penale, tale condotta, oltre a essere incivile, integra il reato di getto pericoloso di cose previsto dall’art. 674 c.p., poiché idonea a imbrattare e arrecare disturbo agli altri condomini.

Cassazione n. 15956/2014: chi, innaffiando i propri fiori, fa cadere acqua (specialmente se mista a terriccio) sul balcone o il davanzale sottostante può essere multato ai sensi dell’art. 674 del Codice Penale per getto pericoloso di cose. Questa norma punisce chiunque getti o versi, in un luogo di pubblico transito o in un’area privata altrui, cose atte a imbrattare o molestare persone.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto penale 

permessi premio

Permessi premio: incostituzionale negarli a chi ha commesso reati in carcere La Corte Costituzionale si pronuncia su presunzione di innocenza e rieducazione della pena in materia di permessi premio

Permessi premio: l’intervento della Consulta

È incostituzionale la preclusione biennale alla concessione di permessi premio a un detenuto che sia stato imputato o condannato per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 24/2025, con la quale è stata ritenuta fondata una questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto.

La questione di legittimità costituzionale

Un detenuto, in carcere dal 2017, aveva chiesto di essere ammesso a un permesso premio. La sua richiesta era però inammissibile, perché l’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario vietava, per due anni, di concedere permessi premio a detenuti che siano stati condannati o siano imputati per un reato commesso durante l’esecuzione della pena.

Nel caso concreto, il richiedente era stato rinviato a giudizio per avere tentato, un anno prima, di introdurre droga nel carcere per un altro detenuto.

Il magistrato di sorveglianza ha tuttavia rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la preclusione stabilita dalla legge incompatibile, tra l’altro, con la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena.

Funzione rieducativa della pena

La Consulta ha anzitutto osservato che un’analoga questione era stata ritenuta non fondata in una sentenza del 1997, che peraltro aveva invitato il legislatore a modificare la norma per renderla più conforme alla funzione rieducativa della pena.

Rilevato che il tendenziale rispetto dei precedenti costituisce una condizione essenziale dell’autorevolezza delle proprie decisioni, la Corte ha tuttavia rammentato come ci possano essere “ragioni cogenti” che rendano non più sostenibili le decisioni precedentemente adottate, ad esempio quando esse non siano più coerenti con il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee.

In questo caso, una preclusione che si fondi sulla sola circostanza che il richiedente sia “imputato” per un reato appare, oggi, incompatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il diritto dell’Unione europea e con la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale in materia.

Presunzione di non colpevolezza

Gli effetti della presunzione di non colpevolezza non si esauriscono, come ancora si riteneva alcuni decenni fa, all’interno del procedimento penale relativo alla responsabilità per il reato addebitato all’imputato, ma implicano un generale divieto di considerare l’imputato colpevole del fatto anche in qualsiasi altro procedimento giudiziario, sino a che il reato non sia definitivamente accertato.

Conseguentemente, una norma che vieta in via assoluta al magistrato di sorveglianza di concedere un permesso premio, per il solo fatto che il richiedente sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero, “agli effetti pratici (…) vincola il giudice a ‘presumere colpevole’ l’imputato”. Una disposizione così concepita, ha concluso la Corte, “sottrae al magistrato di sorveglianza ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto (…), con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza”.

Automatismo preclusivo incompatibile

La Corte ha inoltre affermato che l’automatismo preclusivo stabilito dalla norma è ormai divenuto incompatibile con i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, in base ai quali il giudice della sorveglianza deve essere sempre libero di compiere una valutazione individualizzata sui progressi effettivamente compiuti dal condannato nel suo percorso penitenziario, nonché sulla sua residua pericolosità sociale. Anche nell’ipotesi, dunque, in cui il richiedente sia stato condannato in via definitiva per un reato commesso durante l’esecuzione della pena, il rispetto del principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della Costituzione esige che il magistrato di sorveglianza resti sempre “libero di valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa”.

affidamento in prova

Affidamento in prova all’estero: la Cassazione apre alla possibilità Per la giurisprudenza di legittimità, il condannato può essere affidato in prova ai servizi sociali in uno degli Stati membri

Affidamento in prova ai servizi sociali all’estero

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7352/2025 della Prima Sezione Penale, ha stabilito che l’affidamento in prova ai servizi sociali può essere eseguito in un altro Stato membro dell’Unione Europea.

Il caso specifico

Nel caso esaminato, un condannato aveva richiesto di scontare la propria pena attraverso l’affidamento in prova ai servizi sociali in Francia, dove risiedeva stabilmente con la famiglia.

Il tribunale di sorveglianza dichiarava inammissibile l’istanza diretta ad ottenere la fruizione di misure alternative all’estero, sul presupposto che tale misura alternativa deve svolgersi in via continuativa all’interno del territorio nazionale.

L’uomo, tramite il difensore adiva il Palazzaccio. Si lamentava in particolare che nel decreto impugnato non si era tenuto conto delle sopravvenienze normative (d.lgs. n. 38/2016) e della conseguente evoluzione giurisprudenziale scaturitane, che ha affermato principi diametralmente opposti a quelli richiamati nel provvedimento.

Il decreto legislativo 38/2016

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’indirizzo precedente, infatti, osservano “è stato superato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la quale è pervenuta alla opposta e condivisibile soluzione interpretativa sulla base della nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38, che ha dato attuazione alla decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza, delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive”.

Difatti, a seguito dell’entrata in vigore di tale decreto legislativo, “si è ritenuto che il condannato possa essere affidato in prova ai servizi sociali in uno degli Stati che ha dato attuazione a tale decisione quadro” (cfr. ex multis, Cass. n. 20977 del 15/06/2020).

Affidamento in prova sanzione sostitutiva

Ciò in quanto “l’affidamento in prova, quale misura alternativa alla detenzione, deve ritenersi assimilabile, al di là del dato letterale, a una ‘sanzione sostitutiva’ come descritta dall’art. 2, lett. e), d.lgs. n. 38 del 2016, ovvero a una sanzione (misura) che impone obblighi e impartisce prescrizioni compatibili con quelli elencati nel successivo art. 4 e che costituiscono di norma il contenuto del «trattamento alternativo al carcere». Obblighi e prescrizioni diretti, da un lato, a promuovere la risocializzazione del condannato attraverso la imposizione di regole di condotta e del mantenimento di rapporti con il Servizio sociale, nonché di prescrizioni di solidarietà e, dall’altro, a neutralizzare fattori di recidiva attraverso la sottoposizione a obblighi e divieti concernenti la fissazione di una stabile dimora, la libertà di movimento, lo svolgimento di attività, la frequentazione di determinati soggetti che possono favorire l’occasione di commissione di altri reati, la frequentazione di locali, la detenzione di armi ecc.”.

Detenzione domiciliare e semilibertà non all’estero

Ad ogni modo, ricorda opportunamente la S.C., “la misura alternativa della detenzione domiciliare, richiesta in via subordinata dal ricorrente, non potrebbe, al contrario dell’affidamento in prova, essere eseguita in altro Stato, membro dell’Unione europea, in cui li condannato ha la residenza, poiché, non facendo cessare lo stato detentivo di quest’ultimo, non rientra nell’ambito di applicazione della decisione quadro 2008/947/GAI del 23 ottobre 2019 sul reciproco riconoscimento delle decisioni sulle ‘misure alternative alla detenzione cautelare’ e non è compresa tra le ipotesi di cui all’art. 4, lett. c), d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, di attuazione della decisione quadro (Sez. 1, n. 20771 del 04/03/2022, Ursilo, Rv. 283366 – 01)”.

Cosa che a maggior regione, precisano ancora i giudici, “deve valere per la semilibertà, che implica la detenzione notturna”.

La decisione

Fatte queste premesse, concludono dal Palazzaccio, la richiesta del condannato di eseguire la misura alternativa dell’affidamento, richiesta in via principale, in Francia, ove egli risiede stabilmente, “non avrebbe trovato alcun impedimento sul piano normativo, diversamente da quanto erroneamente affermato nel provvedimento impugnato”.

Da qui l’annullamento dello stesso con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Torino.

Allegati

incidente probatorio

Incidente probatorio Cos’è l’incidente probatorio, procedimento, i requisiti e l’ammissibilità e la giurisprudenza recente della Cassazione

Cos’è l’incidente probatorio

L’incidente probatorio è un istituto del diritto processuale penale italiano che consente l’acquisizione anticipata di prove durante le indagini preliminari, garantendo che queste vengano raccolte con le stesse formalità previste per il dibattimento. Questo strumento è disciplinato dagli articoli 392 e seguenti del Codice di Procedura Penale (c.p.p.).

Definizione e finalità

L’incidente probatorio permette al pubblico ministero o alla persona sottoposta alle indagini di richiedere al giudice l’assunzione anticipata di una prova quando vi è il rischio che questa possa disperdersi o non essere più acquisibile in sede dibattimentale. L’obiettivo principale consiste quindi nel preservare l’integrità e la disponibilità delle prove fondamentali per il processo.

Procedimento

La richiesta di incidente probatorio deve essere presentata dal pubblico ministero o dalla persona sottoposta alle indagini entro i termini previsti per la conclusione delle indagini preliminari e comunque entro un termine sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza di detti termini. Una volta ricevuta la richiesta, il giudice valuta se sussistono i presupposti di legge per procedere. Se la richiesta viene accolta, l’assunzione della prova avviene in contraddittorio tra le parti, con le stesse garanzie previste per il dibattimento.

Requisiti e ammissibilità dell’incidente probatorio

Secondo l’articolo 392 c.p.p., l’incidente probatorio è ammissibile nei seguenti casi:

  • Testimonianza a rischio: quando vi è fondato motivo di ritenere che un testimone non potrà essere esaminato durante il dibattimento perchè vi sono elementi per ritenere che la stessa sia soggetta a violenza, minaccia o offerta di denaro per dichiarare il falso o non deporre;
  • Prove soggette a modifiche: quando si teme che una prova possa subire alterazioni o non essere più disponibile in futuro.
  • Reati specifici: nei procedimenti per determinati reati, come quelli contro la libertà sessuale o che coinvolgono minori, l’incidente probatorio può essere richiesto per assumere la testimonianza della persona offesa, anche al di fuori delle ipotesi sopra indicate.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza ha più volte affrontato temi legati all’incidente probatorio. Ad esempio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27104 del 23 maggio 2024, hanno stabilito che è abnorme, e quindi impugnabile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice rigetta la richiesta di incidente probatorio riguardante la testimonianza della persona offesa in reati come maltrattamenti, motivando il rigetto con la non vulnerabilità della persona offesa o la possibilità di rinviare la prova. La Corte ha ritenuto tali presupposti come presunti per legge, rendendo il rigetto del tutto ingiustificato.

La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 17521 del 2 maggio 2024, invece ha esaminato un ricorso contro l’ordinanza del GIP che aveva respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal Pubblico Ministero. La richiesta riguardava l’escussione di un minore, presunta vittima di maltrattamenti da parte del padre, ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p.

La Cassazione ha chiarito che il rigetto della richiesta non interrompe il procedimento, ma rientra nella discrezionalità del giudice. Il GIP valuta la necessità e l’opportunità dell’incidente probatorio in base alle specificità del caso e alla tutela del minore.

Cassazione n. 42942/2024: A seguito della modifica dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, il giudice deve rinnovare l’istruttoria quando una diversa valutazione di una prova dichiarativa, considerata decisiva, riguarda una testimonianza raccolta tramite incidente probatorio. L’assenza di un’esplicita menzione delle prove acquisite con questa modalità non implica che il legislatore abbia voluto escluderle dalla rinnovazione.

 

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto penale 

decreto caivano

Decreto Caivano: prova semplificata secondo il favor minoris La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della disposizione del Decreto Caivano nella parte in cui indica il Gip per la prova minorile semplificata

Decreto Caivano: l’intervento della Consulta

Decreto Caivano: la prova minorile “semplificata” va decisa dal giudice collegiale e interpretata secondo il “favor minoris”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 23/2025, decidendo le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 27-bis del d.P.R. numero 448 del 1988, inserito dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del decreto-legge numero 123 del 2023, convertito nella legge numero 159 del 2023 (“decreto Caivano”), sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento.

Prova minorile semplificata

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 della disposizione censurata, per violazione dell’articolo 31, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», anziché «giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)».

Infatti, quale istituto di protezione della gioventù, rammenta la Corte, anche la prova minorile “semplificata”, introdotta dalla norma censurata, richiede la composizione pedagogicamente qualificata dell’organo giudicante, quindi un collegio integrato dagli esperti educatori, così come è previsto per la messa alla prova minorile ordinaria.

Favor minoris

Le ulteriori questioni sono state dichiarate non fondate «nei sensi di cui in motivazione», essendo possibile attribuire alla norma un significato adeguato al “favor minoris”, nel senso che:

– il programma rieducativo non può essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili, che seguono poi il minore durante lo svolgimento della prova e rimettono al giudice la relazione conclusiva;

– la proposta del pm di accesso alla prova “semplificata” è atto di esercizio dell’azione penale, quindi può intervenire solo quando sia sufficientemente definito, oltre al fatto-reato, anche il quadro esistenziale del minore;

– nell’applicazione dell’istituto, giudice e PM possono avvalersi dei mezzi conoscitivi di cui agli articoli 6 e 9 del d.P.R. 448/1988, non ostando la clausola di invarianza finanziaria, inserita dal “decreto Caivano” per forme atipiche di impegno dei servizi;

– il termine di sessanta giorni fissato dalla norma censurata per il deposito del programma rieducativo non è perentorio, sicché, qualora per giustificate ragioni non riesca a rispettarlo, la difesa del minore può ottenerne una proroga;

– come per il progetto di intervento nella prova minorile ordinaria, neppure nella prova “semplificata” è precluso al giudice integrare o modificare il programma rieducativo, purché consulti le parti e i servizi minorili;

– oltre ad attività di lavoro, la prova “semplificata” può avere ad oggetto anche attività di carattere socio-relazionale, e gli stessi eventuali impegni lavorativi non devono compromettere i percorsi scolastico-educativi in atto.

La decisione

«In virtù della pronuncia sostitutiva sulla composizione del giudice e dei descritti adeguamenti interpretativi» – si legge, infine, in sentenza – «la norma censurata si sottrae alla richiesta di ablazione radicale, anche in ragione del fatto che il nuovo istituto, per come modificato in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, non preclude ulteriori percorsi procedimentali, incluso quello della messa alla prova ordinaria».

reato di rapina impropria

Reato di rapina impropria Reato di rapina impropria: definizione, differenze con la rapina propria, configurabilità del tentativo e giurisprudenza

Cos’è la rapina impropria

La rapina impropria è disciplinata dall’articolo 628, comma 2, del Codice Penale italiano. Si configura quando, dopo aver commesso un furto, l’autore utilizza violenza o minaccia per assicurarsi il possesso della refurtiva o garantirsi l’impunità. Questo reato si distingue dalla rapina propria, prevista dal comma 1 dello stesso articolo. Nella rapina propria infatti la violenza o la minaccia precedono o accompagnano l’atto di sottrazione del bene.

Differenza tra rapina impropria e rapina propria

La principale differenza tra rapina impropria e rapina propria risiede nel momento in cui si manifesta la violenza o la minaccia:

  • Rapina propria: la violenza o la minaccia sono utilizzate per vincere la resistenza della vittima e appropriarsi del bene.
  • Rapina impropria: la sottrazione del bene avviene senza l’uso di violenza o minaccia. Queste vengono impiegate successivamente, al fine di mantenere il possesso del bene sottratto o per assicurarsi l’impunità.

Configurabilità del tentativo di rapina impropria

La giurisprudenza ha affrontato la questione della configurabilità del tentativo per questo tipo di reato. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35425 del 27 giugno 2023, ha stabilito che il tentativo è configurabile quando l’agente, dopo aver compiuto atti idonei e inequivocabili diretti alla sottrazione della cosa altrui, utilizza violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità, anche se la sottrazione non si è concretamente realizzata. Questo orientamento conferma che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente l’uso di violenza o minaccia in seguito ad atti preparatori al furto, indipendentemente dal completamento della sottrazione.

Giurisprudenza rilevante

  • Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 34952 del 19 aprile 2012: ha chiarito che, per il perfezionamento della rapina impropria, è sufficiente l’apprensione del bene altrui, senza necessità di un effettivo impossessamento, inteso come acquisizione di una signoria autonoma sul bene sottratto.
  • Corte Costituzionale, sentenza n. 190 del 31 luglio 2020: nel confrontare questo tipo di rapina con figure similari la Consulta ha affermato: 1. Il ricorso alla violenza o alla minaccia nella rapina propria e impropria non segue sempre uno schema fisso. Spesso un furto inizialmente non violento degenera in rapina propria se la vittima oppone resistenza o se l’oggetto è difficile da sottrarre. Al contrario, una rapina impropria può essere pianificata, prevedendo l’uso della violenza per garantirsi la fuga. 2.La rapina impropria non richiede il pieno possesso del bene da parte dell’agente per consumarsi, ma ciò non giustifica un trattamento giuridico diverso dalla rapina propria. Ciò che rileva è la contestualità tra la violenza e l’aggressione patrimoniale, che rende il reato più grave del semplice furto. 3. L’immediatezza della violenza è essenziale per equiparare la rapina impropria a quella propria, giustificando misure come l’arresto in flagranza e il diritto alla legittima difesa, che cessano quando tale contestualità viene meno.
  • Corte Costituzionale n. 86/2024: illegittimo dal punto di vista costituzionale l’ 628, secondo comma, del codice penale, poiché non prevede una riduzione di pena fino a un terzo nei casi in cui il fatto di rapina risulti di lieve entità, considerando natura, mezzi, modalità o circostanze dell’azione, nonché la tenuità del danno o del pericolo. Per effetto di questa decisione, la corte ha esteso l’illegittimità anche al primo comma dello stesso articolo, con analoga previsione di riduzione della pena in presenza di fatti di minore gravità.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati al reato di rapina

violenza privata

Violenza privata: guida al reato ex art. 610 c.p. Il reato di violenza privata: in cosa consiste, normativa di riferimento, configurazione del reato e giurisprudenza

Cos’è il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è previsto e punito dall’art. 610 del codice penale italiano. Questo reato si configura quando un soggetto, mediante violenza o minaccia, costringe un altro soggetto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà. La violenza privata è considerata un delitto contro la libertà personale. La norma tutela infatti la libertà morale, ossia il diritto di ciascun individuo a decidere autonomamente delle proprie azioni.

Normativa di riferimento

L’articolo 610 del codice penale stabilisce che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualcosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”. La pena è aumentata se il fatto è commesso ad esempio con l’uso di armi o da più persone riunite.

Come si configura il reato di violenza privata?

Il reato si configura attraverso due elementi principali:

  1. Violenza o minaccia: l’uso della forza fisica o la prospettazione di un male ingiusto e imminente per costringere la vittima.
  2. Costrizione: la vittima è obbligata a compiere, tollerare o omettere un’azione contro la propria volontà.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato

Elemento oggettivo: consiste nella condotta violenta o minacciosa che porta alla costrizione della vittima. La violenza può essere fisica o morale, mentre la minaccia deve essere tale da incutere il timore nella vittima di un male ingiusto.

Elemento soggettivo: richiede il dolo generico, ossia la volontà cosciente di costringere un’altra persona a compiere un atto contro la propria volontà. Non è necessario che il soggetto agente persegua un fine specifico, ma basta la consapevolezza della natura costrittiva dell’atto.

Come viene punito il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena può essere aumentata in presenza di aggravanti, come:

  • l’uso di armi;
  • il compimento del fatto da più persone riunite;
  • la recidiva specifica o reiterata del reato.

Aspetti procedurali del reato di violenza privata

Azione penale: il reato è punibile previa querela della persona. Offesa. E’perseguibile d’ufficio invece quando il reato viene commesso in danno di un soggetto incapace a causa dell’età o dell’infermità o quando è commesso in presenza delle aggravanti indicate nel comma 2 della norma.

Competenza: la competenza per il giudizio è del tribunale monocratico.

Prescrizione: il reato si prescrive in sei anni, salvo interruzioni dovute a atti processuali.

Misure cautelari: In presenza di gravi indizi di colpevolezza, il giudice può disporre misure cautelari personali.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha fornito interpretazioni significative per chiarire i confini del reato di violenza privata:

Cassazione n. 10360/2019: l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 610 c.p. consiste nell’uso della violenza o della minaccia con lo scopo di costringere qualcuno a compiere, tollerare o omettere un’azione. Affinché si configuri il reato, la violenza o la minaccia devono essere finalizzate a determinare un effetto ulteriore, ossia la costrizione della vittima. Ne consegue che l’atto violento o minaccioso non deve coincidere con l’evento stesso di costrizione: se la violenza si esaurisce nella mera imposizione a tollerare, senza un ulteriore effetto coercitivo, il delitto di cui all’art. 610 c.p. non può ritenersi integrato.

Cassazione penale n. 32534/2020: il reato di violenza privata previsto e disciplinato dall’art. 610 c.p è integrato anche dalla condotta di chi parcheggia l’auto all’interno del cortile condominiale in modo da impedire agli altri condomini l’accesso ai propri garage.

Cassazione penale n. 1174/2020: Il reato di violenza privata ha natura istantanea e si perfeziona nel momento in cui la vittima subisce una costrizione che limita la sua libertà di scelta e di azione. Non ha rilevanza il fatto che gli effetti di tale costrizione possano perdurare nel tempo o che la persona offesa possa successivamente liberarsene.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli di diritto penale